Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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IL FESTIVAL DI SANREMO

 

NAZIONALPOPOLARE

 

COMUNISTA

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

INDICE

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

ECCO A VOI…IL FESTIVAL DI SANREMO.

I CONFLITTI DI INTERESSE…

CHI DECIDE IL VINCITORE. L’IDEOLOGIA DEI GIORNALISTI E DELLA GIURIA NOMINATA.

SANREMO E LO SPECCHIO DEL PAESE.

QUANDO SANREMO E’ SANREMO!

SANREMO. ROBA LORO.

NON SONO TUTTI ...SANREMO.

VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.

POVIA ED I MORALIZZATORI.

L’IPOCRISIA SU MIA MARTINI. 

LA RIVOLUZIONE CHIAMATA: TENCO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

GIORGIO GABER E’ CON NOI.

FABRIZIO DE ANDRE’ E’ CON NOI.

MINO REITANO E’ CON NOI.

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa non avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti. 

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

Se questi son giornalisti...

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

ECCO A VOI…IL FESTIVAL DI SANREMO.

Sanremo 2019: i cantanti che hanno vinto più volte il festival. Tra i 24 partecipanti in gara quest’anno, solo Renga, Cristicchi, Arisa e Il Volo hanno già vinto la kermesse canora, scrive Gabriele Antonucci il 4 febbraio 2019 su Panorama. Le ultime edizioni del Festival di Sanremo hanno lasciato poche tracce nella memoria collettiva, mentre alcune canzoni, soprattutto del passato meno recente, sono entrate di diritto nella storia del costume e dello spettacolo del nostro Paese. Una vittoria a Sanremo non è più, oggi, garanzia di successo e di vendite milionarie, ma è certamente un ottimo trampolino di lancio, soprattutto per i giovani artisti in gara in questa 69esima edizione del festival. Tra i 24 partecipanti di quest'anno, che non prevede distinzione tra big e giovani, hanno già vinto il festival Francesco Renga nel 2005 con Angelo, Simone Cristicchi nel 2007 con Ti regalerò una rosa, Arisa nel 2014 con Controvento e Il Volo nel 2015 con Grande Amore. Ma chi sono gli artisti che hanno vinto più volte il festival della canzone italiana?

Claudio Villa è il recordman di Sanremo, vinto in quattro edizioni: nel 1955 con Buongiorno tristezza insieme a Tullio Pane, nel 1957 con Corde della mia chitarra in coppia con Nunzio Gallo, nel 1963 con Addio…addio accompagnato da Domenico Modugno e nel 1967 con Iva Zanicchi cantando Non pensare a me.

Secondo posto per Domenico Modugno, che ha vinto tre volte la kermesse: nel 1958 con Johnny Dorelli con l’iconica Nel blu dipinto di blu, l’anno successivo sempre con Dorelli con Piove e nel 1966 insieme a Gigliola Cinquetti quando interpretò Dio come ti amo.

Iva Zanicchi è la donna con il maggior numero di vittorie a Sanremo, ben tre: nel 1967 con Non pensare a me, nel 1969 con Zingarainsieme a Bobby Solo e nel 1974 con Ciao cara come stai?.

Sono nove gli artisti ad aver vinto due edizioni del Festival: Nilla Pizzi (Grazie dei fiori nel 1951 e Vola colomba nel 1952), Johnny Dorelli (Nel blu dipinto di blu nel 1958 e Piove nel 1959); Bobby Solo (Se piangi se ridi nel 1965, Zingara nel 1969); Gigliola Cinquetti (Non ho l'etànel 1964, Dio come ti amo nel 1966); Peppino Di Capri (Un grande amore e niente più nel 1973, Non lo faccio più nel 1976); Nicola Di Bari (Il cuore è uno zingaro nel 1971, I giorni dell'arcobaleno nel 1972); Matia Bazar (…E dirsi ciao nel 1978,Messaggio d'amore nel 2002); Anna Oxa (Ti lascerò nel 1989, Senza pietà nel 1999); Enrico Ruggeri (Si può dare di più nel 1987, Mistero nel 1993). Chi vincerà, quest’anno, il Festival più amato d’Italia?

Festival di Sanremo: le 25 canzoni più belle di sempre. I brani dell'Ariston che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della musica italiana, scrive Gianni Poglio il 4 febbraio 2019 su Panorama. Sul palco dell'Ariston in oltre sessant'anni di Festival si è sentito proprio di tutto: canzoni straordinarie, brani improponibili, veri e propri orrori musicali, e decine di pezzi insignificanti. La stessa cosa si può dire per gli artisti, un mix eterogeneo, tra geni della musica, dilettanti allo sbaraglio, finti cantanti, vecchie glorie alla frutta, giovani talenti e giovani bidoni. Di tutto questo, quel che rimane, per fortuna, sono una manciata di canzoni che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della musica italiana. Questa è la nostra TOP 25:

1) Luce (tramonti a Est) - Elisa

2) Vita spericolata - Vasco Rossi

3) Nel blu dipinto di blu - Domenico Modugno

4) Lucio Battisti - Un'avventura

5) La terra dei cachi - Elio e le Storie Tese

6) Chi non lavora non fa l'amore - Adriano Celentano e Claudia Mori

7) Spalle al muro - Renato Zero

8) Per Elisa  - Alice

9) Ricomincio da qui - Malika Ayane 

10) Gli uomini non cambiano - Mia Martini

11) Il cuore è uno zingaro - Nada e Nicola Di Bari

12) 4.3.1943 - Lucio Dalla

13) Gianna - Rino Gaetano

14) Un'emozione da poco - Anna Oxa

15) Mina - Le mille bolle blu

16) Controvento - Arisa

17) Jesahel - Delirium

18) Lontano dagli occhi - Sergio Endrigo

19) Una lacrima sul viso - Bobby Solo

20) Salirò - Daniele Silvestri

21) Una storia importante - Eros Ramazzotti

21) Chiamami ancora amore - Roberto Vecchioni

22) Il solito sesso Max Gazzè

23) Come saprei - Giorgia

24) E dimmi che non vuoi morire - Patty Pravo

25) Ti regalerò una rosa - Simone Cristicchi

Presentatori Sanremo: tutti i “condottieri” del Festival della Canzone Italiana, scrive il 31 gennaio 2019 la Redazione di junglam.com. 38 presentatori per 69 anni: ecco i “numeri ” del Festival di Sanremo. Scoprite qui tutti i “condottieri” che si sono succeduti alla guida della kermesse canora più famosa di Italia! Si può amare o odiare, ma il Festival di Sanremo è una pietra miliare della televisione italiana. Non a caso, in 68 anni di vita ha visto alternarsi alla conduzione alcuni tra i più importanti presentatori del piccolo schermo, tra cui Enzo Tortora, Corrado, Mike Bongiorno e Pippo Baudo, oltre che celebrità e e nomi noti dello showbiz. In attesa di vedere all’opera nell’edizione 2019 Claudio Baglioni, alla sua seconda presenza come conduttore e direttore artistico, affiancato dai bravissimi Virginia Raffaele e Claudio Bisio, vi proponiamo un tuffo nel passato, con l’elenco completo di tutti i “condottieri” della kermesse musicale italiana più famosa nel mondo. E se volete conoscere le donne bellissime, affascinanti e ironiche che li hanno “spalleggiati” e aiutati nell’ardua impresa, non perdetevi l’articolo dedicato alle vallette della storia del Festival. Festival di Sanremo conduttori: tutti i nomi dal 1951 al 2016:

1951 – 1954: Nunzio Filogamo. Nato a Palermo nel 1902, Nunzio Filogamo è stato un conduttore radiofonico e televisivo e il “papà” dei presentatori del piccolo schermo. La frase con cui tiene a battesimo il primo Festival di Sanremo – “Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate!” – è entrata nella storia.

1955: Armando Pizzo. Alla guida del Festival di Sanremo per un solo anno, Armando Pizzo è stato un giornalista italiano e il “presentatore” di un giovanissimo Mike Bongiorno, con cui poi ha condotto alcuni programmi in stile talk show.

1956: Fausto Tommei. Originario di Venezia, Fausto Tommei è stato un attore di teatro, radio e cinema e ha lavorato come doppiatore.

1957: Nunzio Filogamo.

1958: Gianni Agus. Noto al grande pubblico per la parte del capufficio di Fracchia, nell’omonima serie di film interpretati da Paolo Villaggio, è stato un conduttore televisivo e un apprezzato attore cinematografico e teatrale.

1959: Enzo Tortora. Il papà di Portobello, trasmissione cult della televisione italiana, conduce il Festival di Sanremo per un solo anno. Presentatore, giornalista e politico, è stato il protagonista di un caso di malagiustizia che ha fatto scalpore in Italia e all’estero.

1960: Paolo Ferrari. Tifosissimo della squadra di calcio della Lazio, Paolo Ferrari è un attore, doppiatore e conduttore tv. Negli anni ’60 conosce una enorme popolarità come interprete delle pubblicità del detersivo Dash.

1961: Lilli Lembo, Giuliana Calandra, Alberto Lionello. La decima edizione del Festival di Sanremo è caratterizzata da una conduzione multipla con “staffetta”. Lilli Lembo e Giuliana Calandra, rispettivamente attrice, annunciatrice e presentatrice e attrice di teatro e cinema (con una parte anche nel film cult di Dario Argento Profondo Rosso), presentano le prime serate della kermesse per lasciare poi la gestione dell’ultima ad Alberto Lionello, attore, doppiatore, conduttore televisivo e cantante, mancato nel 1994.

1962: Renato Tagliani. Milanese di origine, Renato Tagliani conduce una sola edizione del Festival di Sanremo, dopo essere stato alla guida di Canzonissima nel 1958 insieme a “mostri sacri” del cinema e del teatro come Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Gianni Agus ed Enza Soldi.

1963 – 1967: Mike Bongiorno. Il Festival di Sanremo del 1963 segna il debutto sul palco dell’Ariston di uno dei più grandi presentatori del piccolo schermo: Mike Bongiorno. Padre fondatore della televisione italiana con Corrado, Enzo Tortora, Pippo Baudo e Raimondo Vianello, vanta la carriera tv più lunga al mondo.

1968: Pippo Baudo. In un simbolico quanto suggestivo passaggio di testimone, il presentatore della diciassettesima edizione del Festival di Sanremo è Pippo Baudo. Il conduttore televisivo catanese è il “recordman” della kermesse canora con 13 presenze.

1969-1970: Nuccio Costa. Nuccio Costa è stato un conduttore televisivo italiano molto noto negli anni ’60. Dopo il Festival di Sanremo presenta anche alcune edizione de Il Cantagiro.

1971: Carlo Giuffré. Attore di teatro insieme al fratello Aldo, con il quale ha recitato nella maggior parte delle commedie di Eduardo De Filippo, Carlo Giuffré conduce una sola edizione del Festival di Sanremo.

1972-1973: Mike Bongiorno.

1974: Corrado. Corrado Mantoni, in arte semplicemente Corrado, è stato uno dei più importanti conduttori e autori televisivi, oltre che conduttore radiofonico, attore, doppiatore, cantante e paroliere, ed è considerato uno dei padri della tv italiana. Ironico ed elegante, tra le sue trasmissioni cult si ricordano Il pranzo è servito e La corrida.

1975: Mike Bongiorno.

1976: Giancarlo Guardabassi. Di nobili origini, è figlio del conte Alberto Guardabassi e della baronessa Orietta Danzetta, Giancarlo Guardabassi è un cantante, disc-jockey, autore di spettacoli e tv, paroliere e conduttore radiofonico.

1977: Mike Bongiorno.

1978: Stefania Casini. Attrice, doppiatrice e regista, Stefania Casini è ufficialmente la prima donna a condurre il Festival di Sanremo, anche se l’ingerenza di Vittorio Salvetti durante tutte le serate spinge molti a considerare la prima vera conduttrice al femminile Loretta Goggi, al timone della manifestazione nel 1986.

1979: Mike Bongiorno.

1980-1982: Claudio Cecchetto. Claudio Cecchetto, celebre produttore discografico e talent-scout (tra le sue “scoperte” ci sono tra gli altri Gerry Scotti, Jovanotti, Fiorello, Amadeus e Leonardo Pieraccioni), conduce tre edizioni del Festival di Sanremo.

1983: Andrea Giordana. Andrea Giordana conduce la ventiduesima edizione del Festival di Sanremo, ma è principalmente un attore e cantante.

1984-1985: Pippo Baudo.

1986: Loretta Goggi.

Artista poliedrica, Loretta Goggi contende a Stefania Casini il primato di prima presentatrice donna del Festival di Sanremo. La sua edizione ha un grandissimo successo di critica e pubblico e la canzone che canta in apertura – Io nascerò, scritta per lei da Mango – ottiene il disco d’oro, surclassando (ironia della sorte) quelle dei partecipanti al Festival.

1987: Pippo Baudo.

1988: Miguel Bosé. Figlio dell’attrice italiana Lucia Bosè e del torero spagnolo Luis Miguel Dominguín, il cantante, attore, presentatore ed ex ballerino spagnolo naturalizzato italiano Miguel Bosé (al secolo Luis Miguel González Dominguín) è recentemente apparso in tv ad Amici.

1989: Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi. Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, ovvero i “figli d’arte”, conducono la ventottesima edizione del Festival di Sanremo in un tentativo di contaminazione tra generi che ottiene scarso successo.

1990: Johnny Dorelli. Attore di teatro, cinema e tv, cantante e conduttore televisivo, Johnny Dorelli partecipa a nove edizione del Festival di Sanremo arrivando otto volte in finale e nel 1990 – forte della sua “esperienza” – ne diventa il mattatore.

1991: Andrea Occhipinti. Con un passato da attore, Andrea Occhipinti è oggi l’amministratore unico di Lucky Red, società indipendente di produzione e distribuzione cinematografica.

1992 – 1996: Pippo Baudo.

1997: Mike Bongiorno.

1998: Raimondo Vianello. Considerato uno dei padri fondatori della televisione italiana con Mike Bongiorno e Corrado, Raimondo Vianello è stato un attore, conduttore e sceneggiatore. La grande intesa con la moglie Sandra Mondaini e la loro comicità di coppia brillante e garbata hanno fatto storia.

1999 – 2000: Fabio Fazio. Forte del grande successo di Quelli che il calcio e Anima mia, Fabio Fazio approda a Sanremo con la “missione” di rinnovarne la formula. Impresa riuscita il primo anno, ma non il secondo. Tuttavia, il suo modo di fare tv gli vale una seconda doppia chance nel 2013 e 2014.

2001: Raffaella Carrà. La signora della televisione italiana è la terza donna a condurre il Festival di Sanremo, ma non riesce a bissare il successo ottenuto da Loretta Goggi nel 1986. L’edizione che la vede al timone, inoltre, è aspramente criticata dall’allora first lady Franca Ciampi per l’eccessiva volgarità dei valletti: Enrico Papi e Massimo Ceccherini.

2002 – 2003: Pippo Baudo.

2004: Simona Ventura. La showgirl, conduttrice e attrice conduce la cinquantreesima edizione del Festival di Sanremo “spalleggiata” da un trio comico di tutto rispetto: Paola Cortellesi, Maurizio Crozza e Gene Gnocchi. Nonostante la forza sulla carta, tuttavia, la kermesse canora ottiene scarsi ascolti e viene battuta anche dal Grande Fratello.

2005: Paolo Bonolis. Iscritto dal 2010 nel libro del Guinness dei primati per il record di numero di parole pronunciate in un minuto (332), Paolo Bonolis con la sua parlantina conquista anche l’Ariston. Il ritorno quattro anni dopo – affiancato da Luca Laurentis – non è però altrettanto fortunato.

2006: Giorgio Panariello. Di origini campane ma fiorentino d’adozione, Giorgio Panariello è uno dei “ragazzacci toscani” insieme a Carlo Conti e Leonardi Pieraccioni, con i quali furoreggia nei teatri locali nella formazione comica Fratelli d’Italia. La sua conduzione del Festival, tuttavia, non ottiene il successo sperato.

2007 – 2008: Pippo Baudo.

2009: Paolo Bonolis.

2010: Antonella Clerici. Forte del successo de La prova del cuoco, Antonella Clerici approda a Sanremo nel 2010 ed è la quarta donna a condurre il Festival. La sua edizione vede trionfare Valerio Scanu e ottiene un ottimo successo di pubblico.

2011 – 2012: Gianni Morandi. L’eterno ragazzo Gianni Morandi è il conduttore di due edizioni del Festival di Sanremo, la prima delle quali è ricordata per il famoso “scandalo della farfallina”. Belen Rodriguez, valletta insieme a Elisabetta Canalis, si presenta infatti sul palco dell’Ariston con un vestito sgambatissimo che scatena la fantasia degli italiani…

2013 – 2014: Fabio Fazio.

2015 – 2016: Carlo Conti. Dopo una lunga gavetta, Carlo Conti raggiunge il successo con L’eredità, i Migliori anni e Tale e Quale Show, che fanno da trampolino di lancio per la definitiva consacrazione di Sanremo. Dopo i buoni riscontri ottenuti con l’edizione 2015, condotta con Arisa, Emma e Rocio Munoz Morales, Conti punta al bis affiancato da Madalina Ghenea, Virginia Raffaele e Gabriel Garko.

2017: Carlo Conti e Maria De Filippi. Alla guida della kermesse sanremese per la terza volta consecutiva, nel 2017 Carlo Conti è affiancato da “Nostra Signora della TV” Maria De Filippi.

2018-2019: Claudio Baglioni. Per tentare di ripetere il successo delle edizioni guidate da Carlo Conti, nel 2018 sale sul palco del Festival di Sanremo nelle vesti di conduttore e direttore artistico Claudio Baglioni. Il cantautore ha avuto al suo fianco Michelle Hunziker, continuando la combinazione Rai-Mediaset inaugurata durante la precedente edizione, e Pierfrancesco Favino, alla sua prima esperienza come presentatore. Claudio Baglioni torna al comando anche nel 2019 affiancato da Virginia Raffaele, che con le sue imitazioni e parodie ha già divertito il pubblico dell’Ariston nel 2016 accanto a Carlo Conti, e Claudio Bisio, per la prima volta al Festival come co-conduttore ma non novellino assoluto sul palco della kermesse: è stato infatti ospite di Fabio Fazio durante l’edizione del 2013.

Sanremo: tutte le vallette che hanno partecipato al Festival, scrive il 31 gennaio 2019 361magazine.com. La prima edizione si è tenuta nel 1951. Sanremo 2019 è ormai alla porte. Quest’anno Claudio Baglioni ha scelto al suo fianco Claudio Bisio e Virginia Raffaele. Ormai da anni la figura della valletta, concepita come donna di bella presenza e non parlante è stata superata e sradicata. La comica con le sue imitazioni farà sicuramente discutere (e arrabbiare qualcuno), ma di certo la Raffaele non starà in disparte così come l’anno scorso non ha fatto Michelle Hunziker. Tante le figure femminili che hanno calcato il palco dell’Ariston, ci sono state modelle, attrici, cantanti, show girl. La prima edizione nel 1951, non aveva delle vallette ma c’era solo il conduttore Nunzio Filogamo che avrebbe premiato Nilla Pizzi, così come nel 1987 quando ci fu solo Pippo Baudo.

Chi è stata la prima?

1955 (e nel 1956) c’è Maria Teresa Ruta, zia dell’omonima conduttrice Rai.

1957: Fiorella Mari, Marisa Allasio e Nicoletta Orsomando.

Le prime due sono due attrici e la Allasio ha recitato in film di Zeffirelli e Dino Risi mentre la Orsomando è stata un’annunciatrice della televisione italiana.

1958: Fulvia Colombo: considerata la prima annunciatrice della storia della televisione italiana.

1959: Adriana Serra: vincitrice di Miss Italia 1941.

1960: Enza Sampò: è giornalista e conduttrice.

1961: Lilli Lembo e Giuliana Calandra, attrici. La Calanda ha recitato in “Profondo Rosso” di Dario Argento.

1962: Vicky Ludovisi e Laura Efrikian: la prima è un attrice e annunciatrice trevisana; la Ludovisi ha recitato in “L’audace colpo dei soliti ignoti” di Nanni Loy.

1963: Edy Campagnoli, Rossana Armani, Maria Giovannini e Giuliana Copreni. La Campagnoli è stata una delle vallette più celebri della tv; Rossana Armani è la sorella dello stilista italiano Giorgio ed è stata anche presentatrice televisiva; la Giovannini è stata valletta in “Lascia o raddoppia”, modella e interprete di fotoromanzi; la Copreni era una delle vallette di Mike Bongiorno.

1964: Giuliana Lojodice: attrice teatrale e televisiva, è in alcuni film come “La dolce vita” (Fellini), “La vita è bella” (Benigni) e nell’ultimo film di Aldo, Giovanni e Giacomo “Il ricco, il povero e il maggiordomo”.

1965: Grazia Maria Spina: attrice di teatro e cinema.

1966: Carla Maria Puccini e Paola Penni. La prima è stata attrice e conduttrice, la Penni è stata anche cantante.

1967: Renata Mauro: soubrette, attrice e conduttrice degli anni ’50-’60.

1968: Luisa Rivelli: attrice e poi giornalista degli anni ’50-’70.

1969: Gabriella Farinon: attrice e conduttrice della televisione italiana.

1970: Ira Furstenberg: figlia di un principe, è stata attrice e designer italiana.

1971: Elsa Martinelli: modella e attrice toscana.

1972: Sylva Koscina: nata a Zagabria nel ’33, è stata un’attrice in Italia.

1973 – 1974: Gabruella Farinon.

1975: Sabina Ciuffini: showgirl italiana.

1976: Serena Albano, Tiziana Pini, Maddalena Galliani, Karla Strano Pavese, Lorena Rosetta Nardulli e Stella Luna: le soubrette di questa edizione del Festival sono state conduttrici sul piccolo schermo.

1977: Maria Giovanna Elmi: soubrette, conduttrice e cantante italiana.

1978: Maria Giovanna Elimi e Stefania Casini: Lla Casini è attrice e regista.

1979: Anna Maria Rizzoli: attrice e modella romana famosa negli anni ’70-’80.

1980: Olimpia Carlisi: attrice di teatro e cinema.

1981: Nilla Pizzi ed Eleonora Vallone: la Pizzi vinse la prima edizione del Festival, la Vallone è attrice e giornalista romana.

1982: Patrizia Rossetti: conduttrice e attrice.

1983: Anna Pettinelli, Emanuela Falcetti e Isabel Russinova: le prime due sono conduttrici mentre la Russinova è stata modella cantante e conduttrice.

1984: Iris Peynado, Edy Angelillo, Elisabetta Gardini e Tiziana Pini: la Gardini è stata attrice e conduttrice, oggi è in politica, la Angelillo è un’attrice veneta, Tiziana Pini è cantante e attrice, la Peynado è una modella e attrice dominicana.

1985: Patty Brard: showgirl e giornalista olandese.

1986: Loretta Goggi e Anna Pettinelli: la Goggi celebre show girl e anche conduttrice.

1988: Gabriella Carlucci: conduttrice.

1989: Rosita Celentano e Paola Bosè Dominguin: la figlia di Adriano Celentano, conduttrice e cantante; la Dominguin è nipote del cantante Miguel Bosè.

1990: Gabriella Carlucci.

1991: Edwige Fenech: Attrice francese naturalizzata italiana.

1992: Alba Parietti, Milly Carlucci e Brigitte Nielsen: Showgirl italiane le prime due, la Nielsen è nata in Danimarca.

1993: Lorella Cuccarini: showgirl cantante e ballerina.

1994: Cannelle e Anna Oxa: Cannelle è Helena Viranin nata a Guadalupe e conosciuta in Italia per lo spot delle caramelle Morositas, la Oxa è una cantante.

 1995: Claudia Koll e Anna Falchi: la prima è una attrice la seconda una conduttrice.

1996: Valeria Mazza e Sabrina Ferilli: la Mazza è stata una top model argentina mentre la seconda è una celebre attrice romana.

1997: Valeria Marini: nota showgirl.

1998: Eva Herzigova e Veronica Pivetti: la prima è una delle più famose top model mentre la Pivetti è attrice.

1999: Laetitia Casta: modella e attrice francese ex di Stefano Accorsi.

2000: Ines Sastre: modella e attrice nata in Spagna.

2001: Megan Gale e Raffaella Carrà: la Gale ottenne il successo per gli spot della Vodafone. La Carrà è una delle figure più celebri della tv italiana.

2002: Manuela Arcuri e Vittoria Belvedere: la prima è un’attrice la Belvedere si è dedicata anche al teatro.

2003: Claudia Gerini e Serena Autieri: due attrici italiane.

2004: Simona Ventura e Paola Cortellesi: la Ventura è una conduttrice e la Cortellesi è una comica.

2005: Federica Felini e Antonella Clerici: la conduttrice celebre per “La Prova del Cuoco” scelse la modella e cantante lodigiana.

2006: Victoria Cabello e Ilary Blasi: conduttrici della tv italiana.

2007: Michelle Hunziker: conduttrice svizzera ex moglie di Ramazzotti.

2008: Bianca Guaccero e Andrea Osvàrt: la prima è oggi alla conduzione di “Detto Fatto” due modelle, la seconda è una modella ungherese.

2009: Eleonora Abbagnato, Alessia Piovan e Gabriella Pession: la ballerina dell’Opera di Roma affiancata da due attrice.

2010: Antonella Clerici.

2011: Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez: l’ex velina di Striscia La notizia con l’argentina.

2012 Ivana vana Mrazova, Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez: la modella ceca, concorrente del Grande Fratello Vip affianca le due show girl.

2013: Bianca Balti, Luciana Littizzetto e Bar Rafaeli: due top model internazionali con la celebre comica torinese.

2015: Arisa ed Emma, affiancate da Rocio Munoz Morales: la compagna di Raoul Bova affiancata dalle due cantanti.

2016: Madalina Ghenea e Virginia Raffaele: l’attrice rumena con la comica.

2017: Maria De Filippi: volto dei programmi Mediaset.

2018: Michelle Hunziker.

I pugni di Modugno, il bacio di Benigni, la farfallina di Belen: amori e scandali a Sanremo. Il Festival in sette momenti: dai pugni di Domenico Modugno a Johnny Dorelli, al finto pancione di Loredana Bertè alla dichiarazione d’amore di Raoul Bova, scrive il 31 gennaio 2019 Annalisa Grandi su "Il Corriere della Sera".

Rino Gaetano sdogana la parola «sesso». Nel 1978 sul palco dell'Ariston Rino Gaetano canta «Gianna» e sdogana (fra le polemiche), la parola «sesso» a Sanremo.

Il bacio di Benigni. Nel 1980 sul palco di Sanremo va in scena il plateale bacio di Roberto Benigni, preceduto da una lunga dichiarazione d'amore, a Olimpia Carlisi, sua compagna dell'epoca. Un bacio durato ben 45 secondi.

La pancia di Loredana. Il 1986 passa alla storia come l'edizione del Festival in cui Loredana Bertè fa scandalo perché si esibisce sul palco con un pancione clamorosamente finto.

La caduta di Michelle. Sanremo 2007 è l'anno di una caduta eccellente. E d'altronde le scale di Sanremo sono un po' per tutti un grande spauracchio: a finire per terra tocca a Michelle Hunziker, che però la prende con ironia.

La farfallina di Belen. In tema di momenti sanremesi che hanno fatto discutere, non si può non citare la «farfallina» di Belen Rodriguez. Anno 2012, la showgirl insieme ad Elisabetta Canalis affianca Gianni Morandi al Festival, e sfodera uno spacco a mostrare il tatuaggio sull'inguine. Le immagini, naturalmente, rimbalzano in Rete e lo «scandalo sexy» è servito.

L’amore di Rocío e Raoul. Il palo dell’Ariston fa da cornice anche a una grande dichiarazione d’amore in diretta tv. Protagonisti Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova. L’attore italiano e la compagna (che nel 2015 aveva fatto da valletta al Festival), si presentano come ospiti nel 2017. E lui si rivolge a lei così: «Rocìo, hai una stella sul vestito. E io lo so perché. Perché tu sei il mio cielo».

Cantanti, conduttori, ospiti: ecco come si sono avvicendati aneddoti, curiosità e drammi nella storia del Festival più popolare del mondo, scrive lamialiguria.it. Sanremo non è solo un festival della canzone. È un fenomeno pop e culturale, di moda e di costume. Musica, scandali e gossip si sono sempre alternati nella storia del festival. Non sono solo canzonette: sul palco spesso finisce anche la vita privata degli artisti. Da sempre il Festival di Sanremo fa parlare di sé e suscita polemiche. In 67 edizioni, quella del 2018 è la 68°, molti sono stati gli scandali sul palco dell'Ariston, eventi che poco hanno a che fare con i brani in gara. Amori, liti, look audaci, provocazioni e contestazioni, il festival è sempre stato animato da aneddoti e scandali. Sanremo ha ispirato e anticipato tendenze grazie a eventi destinati a segnare, nel bene o nel male, la storia della tv, della musica, del costume.

1958. Pugni tra Dorelli e Modugno. Domenico Modugno prese a pugni il collega Johnny Dorelli per convincerlo a salire sul palco. E aveva proprio ragione: la coppia vinse quell’edizione di Sanremo con “Nel blu dipinto di blu”.

1964. Una lacrima sul… trucco. È il 1964 quando Bobby Solo, per cantare Una lacrima sul viso, si presenta sul palco con gli occhi truccati. Non fa in tempo a partire il gossip che viene superato da un'altra polemica: Bobby Solo canta in playback per una (finta) laringite. Ottimo effetto: un milione e 700mila copie vendute.

1966. Svenimento in diretta. Oggi forse è un espediente televisivo usato per catturare qualche minuto di fama, ma nel 1966 era una novità, una mossa di marketing e un colpo di scena eclatante. L’anno in cui Mike Bongiorno condusse il Festival con Paola Penni e Carla Maria Puccini si accorse che quest’ultima, insieme con Renzo Arbore, aveva pensato di attuare un finto svenimento sul palco per ottenere un po’ di popolarità. Quando la cosa venne messa in atto, Mike, contrariato, fece spostare l’inquadratura delle telecamere.

1967. Il dramma di Luigi Tenco. Si tratta del fatto più tragico accaduto a Sanremo. Era il 1967, Luigi Tenco cantava Ciao amore ciao in coppia con Dalida. Nella notte tra il 26 e il 27 gennaio il grande cantautore si tolse la vita puntandosi una pistola alla tempia nella sua camera d’albergo come protesta al verdetto della giuria che lo aveva escluso. Dal 1974 il festival lo celebra ogni anno con il Premio Tenco, autorevole riconoscimento musicale per la musica d’autore.

1973. Le spalle di Celentano. Provocatorio come sempre. Prima con il rock&roll e le spalle date al pubblico, poi per aver annunciato la sua mancata partecipazione al Festival. Adriano Celentano nel 1973 decise di lasciare il Festival per l’esclusione di artisti come Ivano Fossati, Lucio Dalla e Antonello Venditti.

1978. Rino Gaetano proibito. Nel 1978 Rino Gaetano pronuncia per la prima volta la parola "sesso" nella sua canzone Gianna. Fu clamore e scandalo. Quanto sono cambiati i tempi!

1986. Il pancione della Bertè. Loredana Bertè è incline a scandalizzare. Nel 1986 sale sul palco con un costume in latex nero che racchiude un vistoso pancione. “Voglio mostrare tutte le sfaccettature della donna: da femme fatal a mamma” dichiara lei. La provocazione riesce bene, ma la casa discografica la allontana. Trenta anni dopo, una grande star internazionale l’ha imitata: Lady Gaga.

1987: Patsy Kensit e la spallina galeotta. È il festival del 1987 e, mentre si esibisce come ospite, Patsy Kensit casualmente “perde” una spallina del vestito. Gli occhi dei telespettatori ne seguono, ipnotizzati, la traiettoria. E fu uno scandalo di bellezza.

1995: Pippo Baudo finto eroe. Nel corso delle varie edizioni sanremesi sono stati compiuti gesti estremi per farsi notare. Il più famoso è quello di Pino Pagano, disoccupato bolognese che nel 1995 minacciò di buttarsi dalla balconata dell’Ariston. Pippo Baudo convinse l'uomo a scendere. Il conduttore è stato osannato come un eroe ma, qualche anno dopo, Pagano stesso ha ammesso la finzione.

1999: Il perizoma di Anna Oxa. Nel 1999 Anna Oxa ha fatto scalpore non tanto per la canzone Senza pietà ma per il perizoma che fa capolino dai pantaloni. La Oxa non è certo famosa per i suoi look sobri ma quell’anno la cantante ha superato se stessa facendo clamore grazie al perizoma che le portò fortuna: vinse il Festival!

2007. La caduta di Michelle Hunzicher. Una caduta tra le più memorabili sul palco dell’Ariston. In diretta Michelle inciampa e cade rovinosamente a terra, subito assistita dal conduttore dell'edizione, Pippo Baudo. Nell’edizione 2018 starà più attenta?

2007. “Wojtilaccio” Benigni. È l'anno di Roberto Benigni e del suo "Wojtilaccio" rivolto a Papa Giovanni Paolo. È un modo troppo friendly di rivolgersi a un Pontefice. L'Italia si scandalizza e per ore il centralino dell'Ariston è bersagliato di telefonate con le critiche più feroci per il provocatorio comico toscano.

2010: Spartiti in volo. L'orchestra di Sanremo, per la prima volta nella storia del festival, protesta per il risultato finale della competizione. Quando Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici si sono aggiudicati il secondo posto con Italia amore mio, l’orchestra ha deciso di protestare lanciando in aria gli spartiti.

2012. La farfallina di Belen. Il festival 2012 è rimasto famoso per la farfallina di Belen Rodriguez. Il tatuaggio audace nell'interno coscia della soubrette continua ancora a far parlare la gente. E così è diventato fenomeno social.

2017. Leotta: cyber-attacchi sexy. La giornalista di Sky Sport Diletta Leotta appare a Sanremo con uno spacco sensuale, bersaglio di molte polemiche. Si presenta con un abito rosso molto sexy e invita a "denunciare le violazioni della privacy" e a "non aver paura". Non è mancato il disappunto di Caterina Balivo in un feroce tweet. Con un severo tubino nero il messaggio della Leotta sarebbe stato più autorevole?

I 12 big che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo, scrive Marco Rimmaudo il 7 febbraio 2016 su 2duerighe.com. Il Festival di Sanremo è sicuramente una delle tappe più importanti ed ambite per la carriera di un artista, sia emergente che già affermato. C’è però chi, nonostante la fama e il successo, non ha mai calcato il palco della kermesse. Tutti vogliono andare a Sanremo, la grande vetrina della musica italiana, sono tanti i motivi che possono spingere un artista a partecipare al Festival della Canzone Italiana ed ogni anno, per la case discografiche è una corsa all’ultimo posto. Ma c’è chi, tra i big, non ha mai voluto o non si è mai ritrovato in gara sul palco del Teatro Ariston, e sono pure tanti! Abbiamo fatto una ricerca e composto una lista degli artisti che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo come concorrenti. Non contano le ospitate e la collaborazione come autori ovviamente, noi li vogliamo a gareggiare insieme agli altri! Fin dai grandi cantautori ai volti noti degli ultimi anni, ecco chi non ha mai partecipato in gara al Festival di Sanremo.

EDOARDO BENNATO. Per il cantante del rock di Capitano Uncino, il Festival di Sanremo sta diventando sempre più un’incombenza, tanto da aver dichiarato l’anno scorso “Ho un disco pronto ma le major non me lo pubblicano se non vado a Sanremo”. Per il momento nessuna partecipazione. E neanche l’album.

CLAUDIO BAGLIONI. E’ il nome a cui nemmeno noi avremmo mai pensato, eppure non è mai stato in gara a Sanremo. E’ stato ospite nel 1985 con “Questo piccolo grande amore”, anno in cui venne nominata “Canzone del secolo”. Più tempo passa, più impatto mediatico farà un suo ritorno.

FRANCESCO DE GREGORI. Poco si sa sul perchè non abbia mai partecipato, l’unica sua apparizione la troviamo in veste di autore con il brano “Mariù” presentato nel 1980 da Gianni Morandi. Più volte è stato omaggiato con le sue canzoni nella serata delle cover ma non ha mai partecipato nella categoria.

FRANCESCO GUCCINI. Al cantautore de “L’avvelenata”, solo una volta gli fu proposto di partecipare al festival come autore per Caterina Caselli e Gigliola Cinquetti, il brano però non passò le selezioni preliminari. La casa discografia chiese così ad altri due autori di modificare il testo e questo non fece piacere a Guccini tanto da fargli rifiutare altre collaborazioni future.

ANTONELLO VENDITTI. Nemmeno lui hai mai partecipato in gara a Sanremo. L’unica sua apparizione sul palco è stata nel 2000 come superospite nell’edizione condotta da Fabio Fazio. Si esibì con due brani tratti dall’album Goodbye Novecento: “Che tesoro che sei” e “Su questa nave chiamata musica”.

LIGABUE. Unica volta a Sanremo come ospite nel 2014, si esibì con la cover di Crêuza de mä di Fabrizio de Andrè e con quattro brani del suo repertorio (Certe notti, Il giorno di dolore che uno ha, Il sale della terra e Per sempre). Di una partecipazione in gara ancora nessuna novità.

GIANNA NANNINI. Pure lei, tante ospitate, autrice, ma niente gara. La Nannini partecipa nel 2007 in qualità di superospite, autrice nel 2008 del brano vincitore “Colpo di fulmine” interpretato da Giò di Tonno e Lola Ponce, nel 2015 torna come superospite esibendosi con L’immensità di Don Backy e Sei nell’anima.

PIERO PELU’. Il leader dei Litfiba è stato solo una volta, da solista, ospite speciale del Festival di Sanremo nel 2001, affrontò il tema delle mine antiuomo. Oltre a quel momento, non si è più presentato a Sanremo nè come ospite, nè tanto meno in gara.

TIZIANO FERRO. Di lui ormai lo sappiamo, a Sanremo, almeno per il momento, non vuole andarci. La sua prima canzone in assoluto “Quando ritornerai” la presentò alle selezioni per accedere alla categoria giovani nel 1999 ma non fu preso. Ha partecipato più volte come ospite, nel 2006 ha cantato con Michele Zarrillo, nel 2007 ha presentato “Ti scatterò una foto” e nel 2015 ci ricordiamo la sua gloriosa esibizione con il medley delle sue canzoni più belle. Ma in gara, proprio non se ne parla.

J-Ax. il Rap è iniziato ad essere più diffuso dai grandi media solo da pochi anni, non si può non pensare a J-Ax, una grande carriera nel settore. Mai stato ospite del Festival e nemmeno in gara. Tempo fa dichiarò “A Sanremo? Ci andrò per prendere il sole”.

CESARE CREMONINI. Sì, anche lui non lo abbiamo visto sul palco del Festival di Sanremo, nemmeno in qualità di ospite, nel 2014 quando si vociferava di una sua partecipazione lo stesso Cremonini dichiarò di aver rifiutato: “Non penso che Sanremo abbia bisogno di me, ma lo guarderò per imparare”. Cremonini dopo il successo nel 2015 con il PiùCheLogico Tour tornerà sulle scene fra qualche anno, che sia la volta giusta?

FEDEZ. Ancora non è arrivato al Festival, ma la sua carriera potrebbe riservarci qualche sorpresa. Fino ad oggi è soltanto co-autore di “Siamo uguali”, brano sanremese di Lorenzo Fragola nel 2015.

Sanremo 2019. La biellese Gilda, vinse un Festival (minore) ma poi venne accusata di usura. Una biellese a San Remo, scrive il 31 Gennaio 2019 laprovinciadibiella.it. Rosangela Scalabrino, in arte Gilda, iniziò a 14 anni a esibirsi nelle feste di paese, grazie ad alcuni concittadini ebbe l’opportunità di farsi conoscere anche fuori dall’ambito locale. Scoperta da Mina debuttò nel 1969 con “Nu ferru de calzetta”. Nel 1975 inviò alla commissione del Festival di San Remo il brano “Ragazza del sud” con il quale vinse. Da lì seguì il primo album “Bolle di sapone”. Gilda incise in seguito altri dischi e partecipò ad alcuni eventi musicali. Alla fine preferì la famiglia alla carriera dedicandosi anche alla gestione di un albergo a Torino, città dove andò a vivere. Diverse le sue esibizioni negli anni ottanta. Nel 2013, con altri artisti, ha contribuito alla realizzazione di un album, Omaggio a Umberto Bindi, realizzato e distribuito da “La voce delle donne”, riproponendo il brano il brano “Arrivederci”. La vita di Gilda è stata sconvolta in anni recenti: accusata di usura, nel 2011 viene condannata dal Tribunale di Torino insieme a un complice per aver prestato delle somme di denaro con interessi fino al 120% annuo. La condanna, di un anno e quattro mesi, viene poi sospesa. Le notizie più recenti della cantante la danno di nuovo sul palco nel 2017, durante una manifestazione nella sua città, Masserano.

Incidente per la cantante “Gilda” Scalabrino. La mitica “Gilda”, al secolo Rosangela Scalabrino, è stata la sfortunata protagonista di uno spiacevole incidente avvenuto in via Cernaia a Torino, città nella quale ormai vive da parecchi anni, scrive l'1 Dicembre 2016 su laprovinciadibiella.it. La mitica “Gilda”, al secolo Rosangela Scalabrino, è stata la sfortunata protagonista di uno spiacevole incidente avvenuto in via Cernaia a Torino, città nella quale ormai vive da parecchi anni. La mitica “Gilda”, al secolo Rosangela Scalabrino, è stata la sfortunata protagonista di uno spiacevole incidente avvenuto in via Cernaia a Torino, città nella quale ormai vive da parecchi anni. La scorsa settimana la cantante originaria di Masserano, divenuta famosa negli anni ‘70 con la canzone “Ragazza del sud” che le valse la vittoria al Festival di Sanremo, ha riportato numerose ferite in una caduta tanto banale quanto pericolosa. «Ho fatto tutto da sola – racconta -. Non ho visto una buca sul marciapiede e ci ho infilato il piede dentro. Mi hanno subito soccorsa e accompagnata all’ospedale, ma purtroppo mi sono fatta parecchio male, in particolare a un ginocchio, alle labbra e al naso. Sembra quello di un pugile adesso. La cosa peggiore è che mi si è rotta la capsula articolare di una spalla, quindi dovrò tenerla ferma e a riposo per parecchi giorni». Gilda ormai da tempo ha in parte reciso i legami con la nostra terra, ma qualche volta torna comunque nel Biellese: «Non capita spesso – spiega – perché la casa dei miei genitori, a Masserano, l’abbiamo venduta. Tuttavia mio fratello ed io abbiamo ancora diversi amici, soprattutto nel Cossatese».

I CONFLITTI DI INTERESSE…

Guida minima ai conflitti d’interesse di Claudio Baglioni a Sanremo, scrive Francesco Prisco il 7 febbraio 2018 su Il Sole 24 ore. L’Italia non è Paese da conflitti d’interesse. Precisiamo: l’Italia non è Paese cui facciano più specie i conflitti d’interesse ché, gratta gratta, trovi sempre lo zio decisore pubblico che compra il pane per la cittadinanza dal nipote fornaio. Ma perché il pane è buono e costa il giusto, mica perché il fornaio è il nipote, sia chiaro. Se tuttavia volessimo metterci a ragionare alla brandeburghese - popolo curioso, quello del giudice a Berlino - non ci sarebbe in tutta probabilità ambito completamente al riparo da conflitti d’interesse. Sanremo compreso. Non ci credete? Facciamo un esercizio facile facile: prendiamo il «dittatore artistico» Claudio Baglioni e sottoponiamolo al giudice a Berlino con il metro brandeburghese. Ebbene, abbiamo ragione di credere che quest’ultimo ravviserà almeno quattro potenziali conflitti d’interesse nella di lui gestione del Festival della canzone italiana. Eccoli.

La sigla. L’avrete sentita: «Un giorno qualunque/ un suono soltanto/ che nasce dovunque/ e dura chissà quanto». E vai col rif: «Po, popopopo...». È Un giorno qualunque, la nuova, nuovissima sigla della kermesse musicale cantata da tutti e 20 i Big in gara a inizio di ogni puntata, come fossero i giovani concorrenti dell’ultimo talent show. E l’ha scritta Baglioni. Non intendiamo entrare nel merito della qualità della composizione: non sta certo a noi dare lezioni di songwriting all’autore di Poster. Ci limitiamo a segnalare che l’esecuzione della sigla consente al cantautore romano, già sotto contratto con la Rai per un cachet da 600mila euro, di arrotondare con le royalties.

Gli omaggi (a se stesso). Eggià, l’esecuzione di un brano in un contesto come quello del Festival di Sanremo porta a chi l’ha scritto ricavi in termini di diritto d’autore per ciascuna esecuzione: non è affatto un mistero. Ma è opportuno che il direttore artistico di una manifestazione del genere, che è anche autore di innumerevoli pezzi celebri del canzoniere italico degli ultimi cinquant’anni, assegni a ciascun ospite della manifestazione una propria composizione, aggiungendo gettone ai gettoni? È giusto che Fiorello debba cantare E tu? È etico che Biagio Antonacci gorgheggi sui Mille giorni di te e di me? È opportuno che i tre tenorini de Il Volo intonino La vita è adesso? Mettiamola così: se non è per forza inopportuno, di sicuro non è elegante.

Al via Sanremo. Sul palco dell’Ariston la sfida è tra case discografiche. Un festival «a maggioranza» Sony Music. Baglioni è il direttore artistico e, come tale, ha l’ultima parola su canzoni e artisti da ammettere al Festival. Qual è la casa discografica di Baglioni? Sony Music Italy. Qual è la casa discografica che ha più artisti in gara? Sony Music Italy: otto iscritti al concorso dei Big e uno a quello dei Giovani. Molto più diluita la partecipazione delle altre due major del mercato discografico Universal e Warner, ciascuna a tre concorrenti. Certo, non è la prima volta che Sony fa la parte del leone: ha nel proprio Dna pezzi imprescindibili della storia della musica popolare tricolore, quali furono Rca italiana e Ricordi, ha ricordato al Sole 24 Ore il presidente Andrea Rosi, quel segmento di mercato le interessa e lo presidia con convinzione. Ma vallo a spiegare al giudice che sta a Berlino...

Se Sanremo diventa «F&Pstival». Baglioni è direttore artistico, ha l’ultima parola su concorrenti e ospiti. Baglioni, per la parte live della propria attività musicale, è artista di punta della scuderia F&P Group, agenzia di promoting guidata dal suo manager Ferdinando Salzano in procinto di essere rilevata dalla multinazionale tedesca Cts Eventim. Ebbene, a guardare la lista di concorrenti e ospiti di Sanremo ti accorgi piuttosto facilmente che ci sono 21 nomi del roster di Salzano. Tra gli ospiti, Laura Pausini, Gianni Morandi, lo stesso Antonacci. Tra i Big, Roby Facchinetti e Riccardo Fogli, Red Canzian, Mario Biondi, The Kolors, Elio e le Storie Tese (per i quali F&P è diventata anche etichetta discografica). Si può fare? Certo che si può fare, pure il giudice a Berlino dovrà convenire su questo. Ma siccome ha il metro brandeburghese, siamo sicuri che chioserà: si può fare ma è meglio non fare, perché pare brutto. Non gliene vogliate, il crucco è un po’ così: da Kant in poi ha la fissa della bellezza, pure quando si parla di etica. Noi ci ispiriamo a ben altri filosofi: «Le canzoni sono coriandoli d’infinito, istanti di eternità, sono mare, sono cielo, sono neve di sogni, sembrano cadere da un altro pianeta e nessuno sa da dove possono provenire, in pochi secondi fanno piccoli miracoli». Also Sprach Herr Baglioni.

Sanremo, infornata di cantanti “vicini”: Baglioni accusato di conflitto d’interessi, scrive giovedì 10 gennaio 2019 Eleonora Guerra su Secolo d’Italia. Non c’è solo la questione migranti. A mettere Claudio Baglioni sulla graticola, all’indomani della presentazione del 69esimo Festival di Sanremo, è anche il conflitto d’interessi che il cantante avrebbe rispetto alla kermesse. A lui, in quanto direttore artistico, spetta l’ultima parola sulla scelta degli artisti in gara e degli ospiti, la maggior parte dei quali afferiscono alla sua stessa etichetta discografica e alla sua stessa agenzia di promoting: la Sony Music Italy e la F&P Group, controllata dalla multinazionale tedesca Cts eventim.

Baglioni in conflitto di interessi? Non si tratta di una questione del tutto nuova: già lo scorso anno vi furono polemiche in questo senso. Oggi a rilanciarla, mentre la maggior parte degli osservatori si concentrava sulle prese di posizione sui migranti, è stato Il Sole 24 ore, sottolineando che «la casa discografica meglio rappresentata», con 7 artisti in gara «è proprio Sony Music» (Achille Lauro, Simone Cristicchi, Einar, Il Volo, Enrico Nigiotti, Francesco Renga e Daniele Silvestri), mentre sono 8 «i concorrenti i cui concerti sono organizzati da agenzie del gruppo Cts Eventim» (Achille Lauro, Ex-Otago, Il Volo, Irama, Nek, Francesco Renga, Paola Turci e Ultimo) e quasi una mezza dozzina gli ospiti, tra confermati e potenziali, che hanno gli stessi promoter (Elisa, Giorgia, Ligabue, Biagio Antonacci e Laura Pausini).

Rossi: «Porterò il caso in CdA». «Il cittadino Baglioni ha diritto di manifestare tutte le opinioni che vuole, naturalmente. Parlare di immigrazione, però, mentre si presenta il Festival della canzone italiana è del tutto fuori contesto, anche quando lo si fa in risposta a domande specifiche poste dai giornalisti», ha commentato il consigliere Rai, Giampaolo Rossi, spiegando che «la questione più seria che, invece, io porrò sul Festival di Sanremo nel prossimo consiglio di amministrazione è un’altra: chiederò che la Rai verifichi se ci sono conflitti di interesse generati dal rapporto che il direttore artistico del Festival di Sanremo ha con la sua casa discografica, che è la stessa cui appartiene una buona parte degli artisti selezionati».

Di Nicola: «Se ne occuperà il nuovo management». Un tema affrontato anche dal vicepresidente grillino della commissione di Vigilanza, Primo Di Nicola. Ricordando che il Festival di Sanremo «è uno degli eventi più importanti dell’anno sotto il profilo dello spettacolo e del business per l’azienda pubblica» e «un appuntamento irrinunciabile per molti italiani», Di Nicola si è augurato che la kermesse «possa essere, quest’anno, uno spettacolo intelligente all’insegna della musica senza ridursi al solito inno al nazionalpopolare. Condito dalle usuali polemiche e dai soliti conflitti di interesse». «Quello descritto stamattina dal Sole 24 ore porta il nome di Claudio Baglioni. Se è vero, non mi piace. E sono sicuro che il nuovo management saprà porvi rimedio», ha concluso l’esponente del M5S.

REPETITA IUVANT, scrive Michele Monina l'11 gennaio 2019 su L’Inkiesta. Baglioni a Sanremo, sette domande alla Rai su un conflitto d’interessi che non ha precedenti. Riguardo la questione del conflitto di interessi di Baglioni a Sanremo si parla di deroga culturale consensuale. Siete sicuri che un artista legato a una casa discografica e a una agenzia di booking sia la migliore garanzia di trasparenza?

Gentili dott. dott.Salini, Amministratore Delegato della RAI e dott. Foa, Presidente della RAI. Ho letto ieri su un lancio di Adnkronos a firma Veronica Marino, che riguardo la questione del conflitto di interessi del Direttore Artistico Claudio Baglioni riguardo il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, si parla di deroga culturale consensuale, tirando in ballo la precedente esperienza di Gianni Morandi. Approfitto di questo mio tornavi a porre le medesime domande cui non avete ancora risposto, per farvi sommessamente notare che in quel caso non era Gianni Morandi a ricoprire il ruolo di Direttore Artistico, ma Gianmarco Mazzi. Quindi di deroga cultule consensuale, nel 2011 e 2012 non si è dovuto parlare. Precisato questo torno a porgervi le sette domande:

-Che fine ha fatto la salvaguardia di questo principio che dovrebbe essere un baluardo invalicabile per la tv pubblica?

-Nello stipulare il contratto con Claudio Baglioni è stata mantenuta detta clausola?

-Se sì, pensate sia stata rispettata?

-Siete sicuri che un artista legato da contratto a una casa discografica e a una agenzia di booking alle quali sono legati una buona porzione degli artisti da lui selezionati rappresenti la migliore garanzia di trasparenza?

-È vero che per conferire con il direttore artistico è stato necessario ed è tuttora necessario passare dal suo impresario, immancabile a qualsiasi riunione inerente il Festival?

-Potrebbero in futuro i dirigenti Rai essere chiamati a rispondere personalmente delle conseguenze di decisioni prese da incaricati in aperto conflitto d’interesse? Ultima domanda, piuttosto centrale in un momento storico come questo, scosso dal vento di cambiamento: -La RAI, televisione del servizio pubblico, sta dando al Paese un bell’esempio di trasparenza?

In attesa di vostre cortesi risposte porgo i miei saluti, Michele Monina.

Sanremo, ci risiamo: il problema non è il compenso di Baglioni, ma il suo conflitto d’interessi, scrive Michele Monina il 17 gennaio 2019 su L’Inkiesta. Una lettera aperta di Michele Monina a Renato Franco del Corriere della Sera sulle polemiche relative ai compensi dei conduttori di Sanremo. Peccato non sia lì il problema, ma in chi conduce le trattative. Che per la Rai è la madre del braccio destro di Baglioni.

Caro Renato Franco, ho letto con interesse il suo articolo di oggi sul Corriere riguardo le presunte polemiche sui compensi del Festival di Sanremo. Mi permetto però di farti notare che altro è il vero punto della questione. Che sono e rimangono le sette domande che continuiamo a porre alla Rai relativamente al potenziale conflitto d'interesse di Claudio Baglioni. Piccolo riassunto: ti sembra normale che l'impresario di Claudio Baglioni, direttore artistico del Festival debba trattare il proprio compenso con la madre del suo braccio destro, dirigente Rai responsabile dei contratti delle risorse artistiche? Potrà mai essere quella una trattativa a vantaggio del servizio pubblico? Idem per quel che riguarda i contratti dei vari ospiti che sempre a quella agenzia fanno capo. Ecco, forse sarebbe il caso di fare chiarezza su questo. Ne ho chiesto ai dirigenti Rai, ma per ora senza risposta. Con stima, Michele Monina.

Striscia la Notizia, bomba su Claudio Baglioni: "La mamma di...", clamoroso conflitto d'interessi a Sanremo, scrive il 28 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Il Festival di Sanremo di Claudio Baglioni sta per iniziare e Striscia la Notiziari prende a bombardare. Al direttore artistico della kermesse, infatti, riserva un velenosissimo servizio in cui si denuncia un presunto conflitto d'interessi che lo riguarderebbe. "Abbiamo scoperto una clausola di trasparenza nei contratti Rai – spiega l’inviato Pinuccio -. Non abbiamo capito se viene applicata o no a Claudio Baglioni". Il caso viene sollevato da Michele Monina de Linkiesta, che spiega: È una clausola che fa parte di tutti i contratti che riguardano il servizio pubblico e prevede che non ci siano relazioni (etichette, management, edizioni e booking) tra coloro che devono selezionare gli artisti che finiranno all’interno del concorso canoro. Baglioni si trova ad aver selezionato artisti che fanno parte della sua stessa agenzia". Claudio Baglioni però è legato alla Friends & Partners (F&P) di Ferdinando Salzano e questa, a sua volta, collabora con una serie di cantanti selezionati al Festival (Paola Turci, Nek, Achille Lauro, Renga, Il Volo e Nino D’Angelo). Da poco, inoltre, l’agenzia di Salzano è stata acquisita in parte dalla Cts, una multinazionale, che ha acquisito la Vivo Concerti e la Magellano Concerti. Di queste fanno parte altri concorrenti di Sanremo: Irama, Ultimo, Federica Carta, Shade ed Ex Otago. L’inviato di Striscia spiega: "L’anno scorso tra gli invitati al matrimonio di Salzano c’erano tanti cantanti. Sembrava quasi una preselezione per il Festival, perché chi ha cantato alla cerimonia, ora è a Sanremo". Alla festa, inoltre, era presente anche Baglioni. In chiusura di servizio, Pinuccio aggiunge: "La Rai ha un ufficio che fa i contratti per gli artisti. E chi ci lavora? La mamma di una collaboratrice di Salzano". L’inviato di Striscia allora domanda: "Chiediamo alla Rai se è opportuno scegliere un direttore artistico legato a un’agenzia che rappresenta e collabora con tanti cantanti che poi si ritrovano al Festival, ricordando pure che tra Baglioni e Salzano c’è evidentemente un’amicizia".

Sanremo, seconda bomba di Striscia la notizia: "Sapete che Fiorella Mannoia...", altro guaio per Baglioni, scrive il 29 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Questa sera, martedì 29 gennaio, a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Pinuccio torna sulle strane “coincidenze” del Festival di Sanremo e sull’edizione Giovani. L’inviato rivela che anche i cantanti confermati, che prenderanno parte al Festival come ospiti, ruotano intorno alla Friends & Partners (F&P), la società che gestisce anche Claudio Baglioni. Infatti Antonello Venditti, Elisa, Ligabue e Alessandra Amoroso sono legati alle F&P e Giorgia alla Vivo Concerti, società acquisita da una multinazionale che in parte ha acquisito anche la società di Ferdinando Salzano. "Alcuni di questi cantanti erano presenti al matrimonio di Salzano", sottolinea Pinuccio. Il caso è stato sollevato da Linkiesta e Dagospia. Le indiscrezioni su eventuali altri ospiti parlano di Umberto Tozzi, Raf, Fiorella Mannoia e Pio e Amedeo. Tutti quanti della F&P e molti di loro presenti alle nozze di Salzano, di cui Baglioni è stato testimone. Ma strane “coincidenze” sono presenti anche a Sanremo Giovani, che "aveva una giuria composta da 5 persone - spiega l’inviato – 3 con collaborazioni Rai e 2 esterni, Fiorella Mannoia e Annalisa. Queste due ruotano attorno alla Friends & Partners". Ma è non tutto: "I due vincitori che sono entrati di diritto nel Festival vero e proprio, da regolamento, sono stati votati per il 40% da una commissione musicale guidata da Baglioni, quindi riferibile al suo agente Salzano. Per il 30% dalla giuria di esperti - tra cui Fiorella Mannoia e Annalisa - artiste brave e competenti ma pur sempre in quota Salzano. E per il restante 30% dal televoto. Un semplice calcolo – sottolinea Pinuccio - mostra dunque che il primo 40% più il 12% della giuria di esperti fa 52%. Perciò più della maggioranza dei voti è astrattamente riconducibile a Salzano". Inoltre, l’inviato ricorda che "per la F&P lavora Veronica Corno: sua madre è Chiara Galvagni, capo struttura Rai responsabile delle risorse artistiche, che fa i contratti agli artisti di Sanremo". Pinuccio chiude il servizio con un appello alla Rai: "Ma per voi è tutto normale? Oppure c’è un conflitto?".

Striscia la Notizia, bomba atomica su Claudio Baglioni: "Come ha scelto i cantanti di Sanremo", scrive il 5 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. A poche ore dal via del Festival di Sanremo di Claudio Baglioni, da Striscia la Notizia arrivano nuove pesantissime accuse al direttore artistico della kermesse. Nel mirino di Pinuccio, in un servizio trasmesso lunedì 4 febbraio, ancora il conflitto di interessi. A parlare è il manager discografico Claudio Ferrante, che racconta come avvenivano le valutazioni degli artisti da parte di Baglioni: "Sono state fatte in un hotel davanti al Forum di Assago durante il tour di Baglioni. Nell'albergo era stato fatto allestire anche uno stereo perché si potesse sentire bene tutto. Non era un posto di fortuna, ma un posto organizzato per ricevere noi discografici, e questo ci poneva nella condizione di poter parlare direttamente con Baglioni. Ci sono i testimoni. Io penso che Ferdinando Salzano fosse lì in qualità di manager di Baglioni. Lui non esprimeva dei pareri, ma se poi quando una persona andava via, lui influenzasse le cose, questo non lo posso sapere. C'era anche Veronica Corno, c'erano tutti". Una testimonianza pesantissima, perché Salzano non è consulente né fornitore della Rai. Si collega a Viale Mazzini solo perché la sua per la sua Friends e partners Group Srl lavora la Corno (responsabile della comunicazione e del coordinamento artisti), figlia di Chiara Galvagni, la capostruttura Rai che firma i contratti, compresi quelli di Sanremo. Ma non è finita. Perché Pinuccio ha intervistato anche il giornalista Michele Monina, che ha aggiunto: "Le fonti dicono che Ferdinando Salzano fosse sempre presente durante la selezione dei cantanti. Io ho parlato con diversi di loro. Baglioni da settembre a novembre è stato in tour e ha fatto oltre 30 date in giro per l'Italia e le sale dove avvenivano le audizioni per Sanremo erano diventate i camerini dei palasport o le stanze di alberghi di fronte, tutto alla presenza costante di Ferdinando Salzano e Veronica Corno. (...) Alcuni tra i cantanti non selezionati mi hanno anche detto che i passaggi venivano fatti esclusivamente dalla Fep, non direttamente da Baglioni". Salzano, insomma, sembra sempre più essere l'eminenza grigia di questo Festival di Sanremo. E l'ombra del conflitto di interessi si fa sempre più pesante.

BAGLIONI E DINTORNI. Finché Sanremo va, lascialo andare: il Festival del Cambiamento è come gli altri (con un conflitto d’interessi in più), scrive il 5 febbraio 2019 Michele Monina su L’Inkiesta. Parte il sessantanovesimo festival della canzone italiana, all’insegna della querelle sulla direzione artistica di Claudio Baglioni, che di fronte alle domande fa spallucce. Da domani saranno in scena le canzoni. Chissà se arriveranno le risposte.

Finché la barca va lasciala andare. So che se qualcuno associa la canzone politica a una “Contessa” di Paolo Pietrangeli o, più recentemente, a “L'uomo col megafono” di Daniele Silvestri pensare a questa canzone di Orietta Berti come a un brano politico sembrerà una cosa incredibile. Ma tant'è. E la faccenda è così da praticamente quando esiste il Festival della Canzone Italiana, giunto alla sessantanovesima edizione. Conoscete il refrain, la canzonetta come termometro del paese. “Finché la barca va”, in passato, le canzoni di Motta, Negrita e Zen Circus, oggi. Questo a dare uno sguardo banalotto al tutto. Perché in realtà, forse non vi sarà sfuggito, quest'anno il vento di cambiamento, quello dell'era giallo-verde a Sanremo sembra esserci già arrivato, e non certo passando dalle canzoni. Provo a fare un breve riassunto delle puntate precedenti, sicuro che sarete già persone informate dei fatti, o che lo diventerete più approfonditamente andandovi a leggere il dossier che trovate qui. Claudio Baglioni si trova per il secondo anno di fila a ricoprire il ruolo di direttore artistico del Festival, e per il secondo anno, ahilui, e soprattutto ahinoi, contribuenti, si trova a incarnare un conflitto di interessi piuttosto palese.

Quale? Semplice, il suo manager e promoter, Ferdinando Salzano della Friends and Partners, si trova costantemente al suo fianco, a prendere decisioni importanti, comprese quelle di scegliere i cantanti in gara, e anche quelli che andranno ospiti. Buona parte dei quali, guarda un po', sono suoi artisti. Suoi nel senso che ne cura i live, che come sapete oggi è il vero e solo business della musica, e in alcuni casi anche il management.

Ieri alla conferenza di inaugurazione del Festival, il direttore di Rai 1, Teresa De Santis ci ha tenuto a fare una supercazzola degna di Amici miei, parlando proprio dI connessioni amicali, e finendo per dire sempre la stessa roba, Baglioni è Baglioni, mica vorremo dubitare della sua buonafede.

Non basta. Nel palese conflitto di interessi, ce n'è uno ancora più stridente, specie in epoca di conflitti di interessi, vento del cambiamento, etc etc. Al fianco di Ferdinando Salzano, l'uomo con le Hogan, c'è sempre il suo braccio destro Veronica Corno, la cui mamma è la dirigente Rai Chiara Galvagni, dirigente alle risorse artistiche. Cioè, per capirsi, quando Salzano è andato, si suppone con la Corno, a discutere il cachet di Baglioni, come quello di un Ligabue, superospite, aveva di fronte la mamma della Corno stessa. La cosa la abbiamo scritta. Lo avevamo già fatto l'anno scorso, ma il vieni del cambiamento era lì da venire. Stavolta se n'è accorto Dagospia, che ci ha a più riprese rilanciato, e poi se n'è accorto Pinuccio, inviato di Striscia La Notizia, che proprio a partire da una intervista a me ha cominciato a raccontare tutto questo. Così, di colpo, tutti, ma proprio tutti tutti hanno scoperto chi fosse Ferdinando Salzano, e anche le sue attività.

Io, sommessamente, avevo posto ormai un mese fa sette domande a Salini e Foa, direttore generale e presidente della Rai, ma risposte non ne sono mai arrivate. Voci, si, rumors, ma non risposte. Ieri, però, alla conferenza di inaugurazione del Festival, il direttore di Rai 1, Teresa De Santis ci ha tenuto a fare una supercazzola degna di Amici miei, parlando proprio dI connessioni amicali, e finendo per dire sempre la stessa roba, Baglioni è Baglioni, mica vorremo dubitare della sua buonafede. Baglioni ci ha pure scherzato, col sorriso di chi ha avuto una emiparesi facciale: l'unico conflitto di interessi che ha è che la mamma della sua spalla Virginia Raffaele è una sua grande fan. Nel mentre l'inchiesta di Striscia continua, e un Tapiro gigante aspetta Baglioni davanti all'Ariston, e io aspetto ancora le risposte alle sette domane. Da stasera partiranno le canzoni, ma nessuna saprà raccontare bene l'oggi come questo grande inghippo, come il silenzio stridente di Rai, Baglioni e di tutti i colleghi della Sala Stampa, e soprattutto dei commenti al sangue che si trovano sotto i miei articoli e i link dei servizi di Striscia. Commenti che parlano di cambiamento, signora mia. Perché se la barca non va, la faremo andare noi.

Paola Pellai per “Libero quotidiano” il 5 febbraio 2019. Non chiamatelo giornalista. Michele Monina è un narratore che non conosce neutri e che ama talmente la musica da volerla libera ed accessibile a chiunque se lo meriti. Per molti è un rompicoglioni, ora per tutti è l'uomo che ha scoperchiato il presunto conflitto d' interessi che sta facendo tremare il Festival di Sanremo.

Alla vigilia della manifestazione, la Rai non ha ancora risposto alle tue domande. È il Festival di Sanremo o di Salzano?

«Le mie domande sono diventate virali grazie a Striscia la notizia e ad un'interrogazione parlamentare. La Rai si è limitata ad un anonimo virgolettato senza rispondere a nulla. Ho chiesto se è normale che un direttore artistico possa essere legato a doppio filo con case discografiche ed impresari che scelgono gli artisti e gli ospiti del Festival. Già perché Fernando Salzano, promoter e manager di Claudio Baglioni, con la sua Friends&Partners è legato ad una parte consistente degli artisti ed ospiti, selezionati dallo stesso direttore artistico. Artisti che, in molti casi, condividono con Baglioni anche l'etichetta discografica, la Sony Music Italia. Inoltre Veronica Corno, la collaboratrice più stretta di F&P, è figlia di Chiara Galvagni, la dirigente Rai che ha fatto tutti i contratti agli artisti di Sanremo, Baglioni ed ospiti compresi. Incongruenze sbalorditive».

Oltretutto, come in ogni contratto pubblico, c' è una clausola di trasparenza che vieta qualsiasi tipo di legame professionale tra Baglioni e le aziende dei concorrenti.

«Ovvio. È lo stesso principio che vieta ad un rettore d' università di assegnare, tramite concorso, una cattedra ordinaria a un figlio o un parente. Sanremo è un concorso pubblico organizzato da un servizio pubblico, la Rai. Non è Amici, per intenderci...».

Gianni Morandi nel 2012 presentò il Festival rifiutandone la direzione artistica...

«Morandi ha semplicemente letto e rispettato il contratto. Nel virgolettato delle fantomatiche fonti Rai c' è scritto che per Baglioni vale una specie di deroga per la sua caratura professionale ed artistica. Come dire che Morandi non l'aveva».

Baglioni ha violato un contratto e la Rai sta muta.

«Un contratto violato può essere rescisso in qualsiasi momento, mi chiedo perché non sia stato fatto. Chi ci guadagna? Baglioni il suo ingaggio lo ha preso, ora il botto lo fa la F&P che ha molti cantanti in gara e quasi tutti gli ospiti. Faccio un esempio. Da martedì a sabato Nek in gara entra nella tv di tutti gli italiani, un megaspot a costo zero per le prevendite del suo tour. In genere le promozioni si pagano, qui no.

Idem per Ligabue, sempre della F&P, al via con un tour negli stadi: è stato scelto come ospite da Baglioni che, ripetiamolo, ha proprio Salzano come promoter e manager. Oltre allo spot gratuito, Ligabue verrà pure pagato e una percentuale finirà nelle tasche della sua agenzia. È vero che F&P ha moltissimi artisti pop in Italia, ma allora bastava evitare Baglioni».

Senza il rompicoglioni Monina nessuno si sarebbe accorto di nulla.

«Il mio è un ragionamento più ampio sul mondo della musica. Mi piacerebbe che ci fosse una possibilità anche per chi non fa parte del cosiddetto cerchio magico. Mi aspettavo che qualche big in gara s' incazzasse e spiegasse che era lì non per appartenenza al cerchio magico, ma per meriti. Tutti zitti. Io per scelta non sono un giornalista, mai preso il tesserino. Essere collaterale al circo mi ha aiutato. Non appartengo a nessun conclave e quindi racconto verità scomode perché non ho nulla da perdere né optional da rincorrere. Intorno a me, invece, vedo un gregge di pecore che ha una grande paura di perdere diritti acquisiti».

Se scrivi in modo petaloso hai un pacchetto di optional assicurati?

«Gente esperta di buffet abituata all' accredito, all' autista che li preleva e li porta al concerto, al biglietto aereo pagato... Tutto ciò non fa per me. Io sono un critico musicale libero, evito persino le conferenze stampa per non abboccare alla sagra della tartina. Li vedi i grandi nomi seduti in prima fila agli eventi, sempre compiacenti e coccolosi. Temono di perdere un ruolo e non si rendono conto che quel ruolo lo hanno già perso perché gliel' ho tolto io. Sono l'unico che sta trattando il tema del momento, il loro silenzio è una scelta strategica sbagliata. Io non devasto, non inquino e non affosso la musica. Io la musica la racconto, studiandola e curandone la scrittura. Sono un uomo di parole, campo con quelle».

Una scrittura non proprio vicina all' Accademia della Crusca.

«Ho uno stile veemente e virulento. So di disturbare scrivendo che una canzone fa cagare. Ma lo faccio consapevolmente, non giudicando mai le persone. Non a caso in oltre 20 anni non ho mai preso una querela, pur sdoganando termini scomodi nei titoli. Ho recensito un disco della Pausini titolando "A cazzo di cane". Non ne vado fiero, ma bisogna fare i conti con la rete che usa un linguaggio parlato e ha cambiato il modo di scrivere. Puoi attaccare la forma, ma non la sostanza del messaggio che vuoi veicolare».

Attacchi il Festival anche perché è misogino.

«Sì, 24 big in gara per un totale di 36 artisti, di cui solo 6 donne. Io rispondo portando in riviera il Festivalino di Anatomia Femminile, 25 cantautrici si esibiranno dal vivo in un mio spazio, cercando di pareggiare i conti con quello maschilista di Baglioni-Salzano. Già l'anno scorso mi ero ribellato allo strapotere degli uomini con un hashtag urticante, #LaFigaLaPortoIo, chiedevo alle donne dello spettacolo d' invadere i social con foto di tette e culi. Un flashmob virtuale che funzionò molto nei consensi, poco nella pratica».

Chi vince Sanremo?

«La canzone che mi piace di più è quella di Daniele Silvestri col rapper Rancore. Tutti dicono che vincerà Ultimo, ma occhio ad Irama e Achille Lauro»

La musica italiana fa cagare?

«Di musica buona ce n' è tanta, è il mercato italiano invaso da cagate. Fedez, per esempio, non è un artista, non ha prodotto nulla che esuli dal marketing spicciolo. Musica brutta ed immeritevole? Pausini, Antonacci, la maggior parte di chi esce dai talent.... Ma nel sottobosco ci sono i creativi, quelli interessanti che hanno capito che devono perdere di vista il mercato perché tanto il mercato non li guarderà mai».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 febbraio 2019. Il Festival di Sanremo parte all' insegna dei sospetti sul presunto conflitto d' interesse del suo direttore artistico e conduttore Claudio Baglioni. A creare imbarazzo è il ruolo di Ferdinando Salzano, agente di Baglioni e di molti dei cantanti che sfileranno sul palco della kermesse canora a partire da stasera. Ieri Striscia la notizia ha riportato alcune frasi di Claudio Ferrante, manager discografico del cantante Pierdavide Carone, che ha raccontato come siano avvenute le audizioni per Sanremo 2019: «Sono state fatte in un hotel davanti al Forum di Assago durante il tour di Baglioni. Nell' albergo era stato fatto allestire anche uno stereo perché si potesse sentire bene tutto. Non era un posto di fortuna, ma un posto organizzato per ricevere noi discografici, e questo ci poneva nella condizione di poter parlare direttamente con Baglioni. Ci sono i testimoni. Io penso che Salzano fosse lì in qualità di manager di Baglioni. Lui non esprimeva dei pareri, ma se poi quando una persona andava via, lui influenzasse le cose, questo non lo posso sapere. C'era anche Veronica Corno, c' erano tutti». Il punto è questo: Salzano non è consulente né fornitore della Rai. L' unico labile collegamento è che per la sua Friends e partners Group Srl lavora la Corno (responsabile della comunicazione e del coordinamento artisti), figlia di Chiara Galvagni, la capostruttura Rai che firma i contratti, pure quelli di Sanremo. L' inviato della trasmissione di Canale 5, Pinuccio, ha intervistato anche il giornalista Michele Monina, il quale ha aggiunto: «Le fonti dicono che Ferdinando Salzano fosse sempre presente durante la selezione dei cantanti. Io ho parlato con diversi di loro. Baglioni da settembre a novembre è stato in tour e ha fatto oltre 30 date in giro per l'Italia e le sale dove avvenivano le audizioni per Sanremo erano diventate i camerini dei palasport o le stanze di alberghi di fronte, tutto alla presenza costante di Ferdinando Salzano e Veronica Corno. () Alcuni tra i cantanti non selezionati mi hanno anche detto che i passaggi venivano fatti esclusivamente dalla Fep, non direttamente da Baglioni». Dunque Salzano è la presunta eminenza grigia di questo Festival con la sua Fep, anche se sarebbe meglio dire la sua Habita Srl. Infatti la Fep è stata da poco messa in liquidazione, dopo che lo stesso Salzano il 21 gennaio scorso ha rilevato le quote di proprietà della Warner Music Group Italy. Nello studio del notaio Luciano Quaggia, Salzano, in qualità di amministratore unico della Habita Srl, ha rilevato il 60% delle quote della Fep (valore nominale 600.000 euro) di proprietà della Warner, rappresentata per l'occasione dal presidente Marco Alboni. Insomma Salzano, alla vigilia del secondo Festival targato Baglioni, si è messo in proprio e, forse, punta ad allargare i suoi affari, magari diventando produttore anche di cd e altri supporti oltre che organizzatore di concerti. Se la sinergia con Sanremo sia fruttuosa per lui e la sua scuderia lo scopriremo a giugno quando la società presenterà il bilancio del 2018. Di certo la pagina Internet degli artisti della Fep sembra un po' il cartellone di Sanremo. Ci sono Baglioni, Nino D' Angelo, Achille Lauro, Nek, Francesco Renga, Paola Turci, Il Volo. A questo bisogna aggiungere la sinergia tra la Fep e la Cts, la multinazionale che ha acquisito la Vivo concerti e la Magellano concerti che rappresentano ulteriori concorrenti come Federica Carta, Irama, Ex Otago, Shade e Ultimo. Ci sono pure i super ospiti della manifestazione rivierasca: Biagio Antonacci, Alessandra Amoroso, Elisa, Ligabue, Fiorella Mannoia, Laura Pausini e Antonello Venditti. La maggior parte di loro era presente anche alle nozze di Salzano con la manager della Fep Barbara Zaggia, festeggiate a Formentera lo scorso ottobre. I video con i karaoke della serata sembrano un'anticipazione dei duetti del Sanremo che sta per iniziare. Teresa De Santis, direttrice di Rai 1, ieri ha cercato di smorzare le polemiche sul possibile conflitto di interessi di Baglioni in modo un po' fumoso: «La nostra produzione musicale e culturale vive anche di contiguità». Secondo la manager si deve «fare tesoro» di questo. Come? «Attraverso rapporti amicali si possono ottenere artisti che altrimenti non si sarebbero avuti () Nel caso di Baglioni quando si fa un contratto ad un artista vivente e operante è normale che abbia rapporti anche con l'industria della produzione musicale e dunque sta alla sua coscienza, che credo sia molto forte, portare avanti i risultati». Il vicedirettore di Rai 1, Claudio Fasulo, è stato meno criptico: «La clausola di trasparenza c' è ed è stata rispettata, il contratto di Claudio Baglioni è in linea con quello firmato dai direttori artistici precedenti. Le nostre scelte sono inattaccabili dal punto di vista della qualità. Questa situazione è figlia di un mercato molto concentrato, ma nella assoluta trasparenza» ha detto. Quindi ha aggiunto: «La commissione selezionatrice, di cui anche io faccio parte, ha lavorato nell' assoluta assenza di pressioni». L' inviato di Striscia ha provato a smentire questa versione: «C' è un'altra clausola, un obbrobrio giuridico, secondo cui il fatto che Baglioni abbia dichiarato di avere un rapporto con un'etichetta discografica (la Sony, ndr) e con la Friends e Partners di Salzano annulla la clausola di conflitto. Quindi non rappresenta conflitto solo perché l'ha dichiarato?». Pinuccio ha proseguito il suo attacco: «Come hanno detto le "fonti Rai", il contratto ha passato cinque step, tante persone, ma è stato firmato da un'unica persona: Mario Orfeo, l'ex direttore generale della Rai, che era al matrimonio di Salzano. E allora sono super "coincidenze"». Pinuccio ha concluso il servizio sottolineando: «La direttrice di Rai 1 Teresa De Santis ha detto che Baglioni è una brava persona, che la sua moralità garantisce tutto A questo punto è tutto a posto, solo che se è tutto a posto perché hanno inserito una seconda clausola in cui devono dire che i rapporti con la Fep e le etichette musicali non c' entrano niente?». Per evitare nuove polemiche c' è da scommettere che in Rai si augurino che a vincere la gara non sia un artista della premiata ditta Salzano&friends.

Striscia la notizia, il presunto conflitto di interessi di Baglioni e le strane coincidenze di Sanremo 2019. Striscia la notizia | il presunto conflitto di interessi di Baglioni e le strane coincidenze di Sanremo 2019. L'inviato Pinuccio si occupa di molte stranezze presenti nell'edizione in arrivo del Festival, scrive Mercoledì, 30 Gennaio 2019 maridacaterini.it. Striscia la notizia si sta occupando, attraverso l’inviato Pinuccio, di alcune strane “coincidenze” del Festival di Sanremo che interessano anche l’edizione Giovani e sul conflitto di interessi che Claudio Baglioni potrebbe avere come direttore artistico dello show. Gli argomenti sono stati affrontati in due puntate differenti del Tg satirico di Canale 5 in onda dal lunedì al venerdì alle 20.40. Nell’ultimo appuntamento del 29 gennaio, l’inviato rivela che anche i cantanti confermati, che prenderanno parte al Festival come ospiti, ruotano intorno alla Friends & Partners (F&P), la società che gestisce anche Claudio Baglioni. Infatti Antonello Venditti, Elisa, Ligabue e Alessandra Amoroso sono legati alle F&P e Giorgia alla Vivo Concerti, società acquisita da una multinazionale che in parte ha acquisito anche la società di Ferdinando Salzano. «Alcuni di questi cantanti erano presenti al matrimonio di Salzano», sottolinea Pinuccio. Le indiscrezioni su eventuali altri ospiti parlano di Umberto Tozzi, Raf, Fiorella Mannoia e Pio e Amedeo. Tutti quanti della F&P e molti di loro presenti alle nozze di Salzano, di cui Baglioni è stato testimone. Ma strane “coincidenze” sono presenti anche a Sanremo Giovani, che «aveva una giuria composta da 5 persone – spiegava l’inviato – 3 con collaborazioni Rai e 2 esterni, Fiorella Mannoia e Annalisa. Queste due ruotano attorno alla Friends & Partners». Ma è non tutto: «I due vincitori che sono entrati di diritto nel Festival vero e proprio, da regolamento, sono stati votati per il 40% da una commissione musicale guidata da Baglioni, quindi riferibile al suo agente Salzano. Per il 30% dalla giuria di esperti – tra cui Fiorella Mannoia e Annalisa – artiste brave e competenti ma pur sempre in quota Salzano. E per il restante 30% dal televoto. Un semplice calcolo – sottolineava Pinuccio – mostra dunque che il primo 40% più il 12% della giuria di esperti fa 52%. Perciò più della maggioranza dei voti è astrattamente riconducibile a Salzano». Inoltre, l’inviato ricorda che «per la F&P lavora Veronica Corno: sua madre è Chiara Galvagni, capo struttura Rai responsabile delle risorse artistiche, che fa i contratti agli artisti di Sanremo». Pinuccio chiude il servizio con un appello alla Rai: «Ma per voi è tutto normale? Oppure c’è un conflitto?». Nella puntata precedente, Pinuccio si occupava del conflitto di interessi che Claudio Baglioni potrebbe avere come direttore artistico dello   show: «Abbiamo scoperto una clausola di trasparenza nei contratti Rai – spiegava l’inviato – Non abbiamo capito se viene applicata o no a Claudio Baglioni». Si tratta di una clausola che fa parte di tutti i contratti che riguardano il servizio pubblico e prevede che non ci siano relazioni (etichette, management, edizioni e booking) tra coloro che devono selezionare gli artisti che finiranno all’interno del concorso canoro. Baglioni si trova ad aver selezionato artisti che fanno parte della sua stessa agenzia. Claudio Baglioni infatti è legato alla Friends & Partners (F&P) di Ferdinando Salzano e questa, a sua volta, collabora con una serie di cantanti selezionati al Festival (Paola Turci, Nek, Achille Lauro, Renga, Il Volo e Nino D’Angelo). Da poco, inoltre, l’agenzia di Salzano è stata acquisita in parte dalla Cts, una multinazionale, che ha acquisito la Vivo Concerti e la Magellano Concerti. Di queste fanno parte altri concorrenti di Sanremo: Irama, Ultimo, Federica Carta, Shade ed Ex Otago. L’inviato raccontava: «L’anno scorso tra gli invitati al matrimonio di Salzano c’erano tanti cantanti. Sembrava quasi una preselezione per il Festival, perché chi ha cantato alla cerimonia, ora è a Sanremo». Alla festa, inoltre, era presente anche Baglioni. In chiusura di servizio, Pinuccio rivelava: «La Rai ha un ufficio che fa i contratti per gli artisti. E chi ci lavora? La mamma di una collaboratrice di Salzano».  L’inviato di Striscia allora domanda: «Chiediamo alla Rai se è opportuno scegliere un direttore artistico legato a un’agenzia che rappresenta e collabora con tanti cantanti che poi si ritrovano al Festival, ricordando pure che tra Baglioni e Salzano c’è evidentemente un’amicizia».

Striscia ribatte alla Rai sul presunto conflitto di interessi di Baglioni per Sanremo 2019. Striscia la notizia ribatte alla risposta della Rai sul presunto conflitto di interessi di Baglioni per Sanremo 2019. L'azienda di viale Mazzini risponde al Tg satirico che, a sua volta, ribatte, scrive Joele Germani Mercoledì, 30 Gennaio 2019 su maridacaterini.it. Questa sera, mercoledì 30 gennaio, Striscia la notizia torna su Sanremo 2019. In particolare, l’inviato Pinuccio si occupa della risposta data dalla Rai, subito dopo la messa in onda dei servizi del Tg satirico di Antonio Ricci, a proposito del presunto conflitto di interessi Baglioni-Salzano-Sanremo. Pinuccio ha così esordito: «Attraverso alcune agenzie di stampa la Rai ha emanato un comunicato. Solo che non si capisce chi l’ha emanato, perché si parla di “fonti Rai”. E cosa sono? A me sembra fasullo. Se uno deve dire una cosa mette nome e cognome. Noi ci mettiamo la faccia». L’inviato ha poi precisato: «Abbiamo sentito Marcello Foa, presidente della Rai, che ha detto che al momento non vuole esprimersi sulla questione. Così abbiamo provato a sentire la direttrice di Rai Uno, Teresa De Santis». Ma la nuova responsabile di Rai 1 non ha risposto. Nel comunicato si dice che «Baglioni non può avere conflitto di interessi perché la caratura artistica e professionale» è al di sopra di qualsiasi dubbio e sospetto. «Ma è una caratteristica soggettiva» ha insistito Pinuccio. «Le fonti Rai – prosegue l’inviato – dicono anche che la F&P di Salzano non gestisce gli artisti, ma per molti di loro gestisce solo i concerti. Ma questi sono il nucleo di interesse degli artisti e quindi qui ci può essere il conflitto». L’azienda di viale Mazzini risponde anche all’ipotesi di conflitto per la figlia della dirigente Rai che lavora per Salzano. «La Rai dice che non ci sono conflitti perché i contratti passano diversi step. Ma questi contratti, anche quello di Baglioni, chi li va a fare? Anche perché Baglioni oltre al Festival fa altre cose in Rai. Noi vorremmo sapere chi gestisce i contratti di questi altri impegni». Pinuccio ha chiuso il servizio ricordando alla Rai che «in passato ha affidato la conduzione di Sanremo ad altri cantanti che, proprio per evitare conflitto di interessi, non erano anche direttori artistici. Il che vuol dire che questi cantanti non erano così integerrimi?».

Sanremo 2019 le rivelazioni di Striscia la notizia sul Festival. Sanremo 2019. Il Tg satirico di Canale 5 ha iniziato una serie di servizi finalizzati a far luce su alcuni aspetti contrattuali della manifestazione canora, scrive Camila Rossetti, Venerdì, 1 Febbraio 2019 su maridacaterini.it. Il Festival di Sanremo 2019 entra nel vivo. Mancano pochi giorni e le indiscrezioni su quanto sta accadendo occupano oramai tutti i programmi tv. Il Tg satirico di Antonio Ricci, in onda ogni giorno dal lunedì al sabato in access prime time, sta realizzando una serie di servizi sul Festival di Sanremo 2019. Non vi abbiamo già documentato i reportage di Pinuccio che, nel suo ruolo di inviato, si sta lentamente ma inesorabilmente avvicinando alla cittadina ligure dove si tiene la kermesse canora dal 5 al 9 febbraio. Non è la prima volta che il Tg satirico di Antonio Ricci si occupa della manifestazione che ha come palcoscenico il teatro Ariston. Nel corso degli anni i servizi dei vari inviati hanno rappresentato una sorta di cult per gli amanti della satira di costume. E fino alla data fatidica del 5 febbraio che segna l’esordio della 69esima edizione del festival, sono previste altre incursioni nella realizzazione del Festival e sui presunti “conflitti di interesse” di cui ha già parlato Pinuccio nel corso dei servizi precedenti. Insomma, il Tg satirico di Antonio Ricci si interroga sulla legalità di quanto sta accadendo sul palcoscenico del teatro Ariston. E non è ancora finita. Certamente ci saranno altri sviluppi.

Sanremo 2019. D’Agostino a Striscia: ecco il conflitto d’interessi di Baglioni. Sanremo 2019. D'Agostino a Striscia: ecco il conflitto d'interessi di Baglioni. Altre dichiarazioni sul direttore artistico della kermesse canora. Questa volta a intervenire è Roberto D'Agostino, scrive Venerdì, 1 Febbraio 2019, maridacaterini.it. Questa sera, venerdì 1 febbraio, Jimmy Ghione ha intervistato Roberto D’Agostino, fondatore del sito Dagospia.com, che ripercorre le tappe dell’affaire Baglioni-Salzano-Sanremo. Il Tg satirico di Antonio Ricci che va in onda dal lunedì al sabato alle 20.40 nella fascia dell’access prime time, torna a puntate i riflettori sul Festival di Sanremo. D’Agostino ha spiegato: «Il conflitto d’interessi c’è ed è lampante, tant’è vero che nel 2011 Gianni Morandi rifiutò di fare il direttore artistico dicendo che c’era una clausola sul contratto che diceva in maniera esplicita che chi sceglieva le canzoni, cioè il direttore artistico, non poteva appartenere a una casa discografica. Questa clausola improvvisamente scompare nell’anno 2017 quando si appalesa la silhouette di Claudio Baglioni. E quindi si ha il via libera e il conflitto di interessi non esiste più». Ed ha continuato: «Il peccato originale di tutta questa faccenda è che la più grande trasmissione Rai, cioè il Festival di Sanremo, sia stata appaltata dal 2000 in poi a estranei. Il Festival di Sanremo Rai non esiste più perché prima era il Festival di Ballandi, poi diventa il Festival di Gianmarco Mazzi con Lucio Presta e infine abbiamo l’epoca del Festival di Salzano. Salzano ha creato una holding legata al prodotto musicale con discografia, concerti, management, tv, radio, ecc. Tutto questo è sotto il grande cappello chiamato Friends & Partners. A quel punto c’è un monopolio totale».

D’Agostino sull’esclusione di Caramelle. A proposito dell’esclusione di Pierdavide Carone e dei Dear Jack da Sanremo il fondatore di Dagospia ha dichiarato: «Il vero motivo dell’esclusione di questo brano dicono sia il fatto che appartenga alla scuderia di Lorenzo Suraci, presidente di RTL 102.5. Suraci e Salzano erano soci, poi con la nascita del polo radiofonico di Mediaset c’è stata la rottura, pare abbastanza cruenta, tra i due. Salzano ha portato via a Suraci i Modà e i The Kolors. A quel punto anche i poveri Carone e Dear Jack finiscono fuori».

D’Agostino, infine, ha sottolineato anche l’importante ruolo politico di Salzano: «Quando Baglioni in conferenza stampa attacca Salvini sulla questione dei migranti, Salzano si precipita da lui e gli dice: chiamalo subito e rimettiamo le cose in pace perché se andiamo avanti con questa polemica cos’avremo in futuro? Addio Sanremo, torneremo ai concertini…».

Sanremo 2019, nuove rivelazioni di Striscia la notizia su Baglioni e Sanremo giovani. Sanremo 2019 | nuove rivelazioni di Striscia su Baglioni e Sanremo giovani. Il Tg satirico continua a indagare sulla manifestazione canora, scrive Lunedì, 4 Febbraio 2019, maridacaterini.it. Come aveva anticipato la scorsa settimana, Striscia la notizia è tornata ad occuparsi di Sanremo 2019 e dei presunti conflitti di interesse del direttore artistico Claudio Baglioni. E’ accaduto nella puntata del Tg satirico di Antonio Ricci andata in onda su Canale 5 alle ore 20.35. Pinuccio torna a occuparsi anche di Sanremo Giovani e rivela nuove “coincidenze” sulla vittoria di Einar. Rivelazioni su Sanremo Giovani: «Einar ha partecipato ad Amici e ha duettato con la Mannoia», ha spiegato l’inviato di Striscia, che ha aggiunto: «Durante Amici, Einar aveva un coach musicale che era il compagno della Mannoia, Carlo Di Francesco». Pinuccio sottolinea: «Possiamo dire che la Mannoia, giurato di Sanremo Giovani, evidentemente conosceva già Einar». Ma le “coincidenze” non finiscono. «Un altro elemento della giuria di Sanremo Giovani aveva già conosciuto Einar. E chi è? Annalisa – rivela Pinuccio – in quanto era coach esterno di Amici e proprio di Einar». L’inviato ha ricordato anche che al matrimonio di Ferdinando Salzano erano presenti Annalisa e Mannoia. Entrambe in orbita F&P ed entrambe giurati di Sanremo Giovani. La Mannoia è anche super ospite a Sanremo. Pinuccio chiude il servizio con una riflessione: «Gli altri ragazzi che hanno partecipato a Sanremo Giovani avevano pure loro delle “coincidenze” con qualche giurato?».

Rivelazioni sul contratto di Baglioni con la Rai. Nella stessa puntata Pinuccio torna a occuparsi del contratto che Claudio Baglioni ha firmato con la Rai per la conduzione e la direzione artistica del Festival di Sanremo. Durante la conferenza stampa di oggi al Teatro Ariston, Claudio Fasulo, Responsabile Intrattenimento di Raiuno, ha dichiarato: «La clausola di trasparenza c’è ed è stata rispettata, il contratto di Claudio Baglioni è in linea con quello firmato dai direttori artistici precedenti». L’inviato di Striscia precisa: «C’è un’altra clausola, un obbrobrio giuridico, secondo cui il fatto che Baglioni abbia dichiarato di avere un rapporto con un’etichetta discografica e con la Friends & Partners di Salzano annulla la clausola di conflitto. Quindi non rappresenta conflitto solo perché l’ha dichiarato?». E continua: «Come hanno detto le “fonti Rai”, il contratto ha passato cinque step, tante persone, ma è stato firmato da un’unica persona: Mario Orfeo, l’ex direttore generale della Rai, che era al matrimonio di Salzano. E allora sono super “coincidenze”». Pinuccio conclude il servizio sottolineando: «La direttrice di Raiuno Teresa De Santis ha detto che Baglioni è una brava persona, che la sua moralità garantisce tutto… A questo punto è tutto a posto, solo che se è tutto a posto perché hanno inserito una seconda clausola in cui devono dire che i rapporti con F&P e le etichette musicali non c’entrano niente?».

Rivelazioni sul conflitto di interessi di Baglioni. Infine: Striscia è tornata a occuparsi dell’affaire Salzano/Sanremo e riporta alcune frasi di Claudio Ferrante, manager discografico di Pierdavide Carone, che racconta come sono avvenute le audizioni per Sanremo 2019. «Le audizioni per il Festival sono state fatte in un hotel davanti al Forum di Assago durante il tour di Baglioni. Nell’albergo era stato fatto allestire anche uno stereo perché si potesse sentire bene tutto. Non era un posto di fortuna, ma un posto organizzato per ricevere noi discografici, e questo ci poneva nella condizione di poter parlare direttamente con Baglioni. Ci sono i testimoni. Io penso che Salzano fosse lì in qualità di manager di Baglioni. Lui non esprimeva dei pareri, ma se poi quando una persona andava via, lui influenzasse le cose, questo non lo posso sapere. C’era anche Veronica Corno, c’erano tutti».

Il giornalista Michele Monina aggiunge: «Le fonti dicono che Ferdinando Salzano fosse sempre presente durante la selezione dei cantanti. Io ho parlato con diversi di loro. Baglioni da settembre a novembre è stato in tour e ha fatto oltre 30 date in giro per l’Italia e le sale dove avvenivano le audizioni per Sanremo erano diventate i camerini dei palasport o le stanze di alberghi di fronte, tutto alla presenza costante di Ferdinando Salzano e Veronica Corno: l’entourage F&P. È vero che sono il suo entourage, ma in teoria nel ruolo di direttore artistico non doveva essere così. Alcuni tra i cantanti non selezionati mi hanno anche detto che i passaggi venivano fatti esclusivamente da F&P, non direttamente da Baglioni».

Pinuccio e l’inchiesta sul Sanremo di Baglioni: coincidenze, contratto, testimonianze, scrive Rossella Smiraglia il 5 Febbraio 2019. Puntata al vetriolo quella del 4 febbraio, a Striscia la Notizia. L’inviato di Striscia, Pinuccio, torna ad occuparsi della questione Sanremo e il presunto conflitto di interessi. Parlando delle coincidenze a Sanremo Giovani; della clausola del contratto e delle modalità di selezione. Le inchieste di Striscia sono davvero pungenti, peccato che da Sanremo Baglioni non gli dia peso (stando alle diciarazioni nel corso della prima conferenza stampa di Sanremo), sottolineando che l’armonia è il vero spirito della musica, una conquista che forse raggiungerà solo alla fine di questa 69ma, tormentata, edizione del Festival della Canzone Italiana. Sanremo Giovani, LE COINCIDENZE: Pinuccio torna a occuparsi di Sanremo Giovani e rivela nuove “coincidenze” sulla vittoria di Einar. «Einar ha partecipato ad Amici e ha duettato con la Mannoia», spiega l’inviato di Striscia, che aggiunge: «Durante Amici, Einar aveva un coach musicale che era il compagno della Mannoia, Carlo Di Francesco». Pinuccio sottolinea: «Possiamo dire che la Mannoia, giurato di Sanremo Giovani, evidentemente conosceva già Einar». Ma le “coincidenze” non finiscono. «Un altro elemento della giuria di Sanremo Giovani aveva già conosciuto Einar. E chi è? Annalisa – rivela Pinuccio – in quanto era coach esterno di Amici e proprio di Einar». L’inviato ricorda anche che al matrimonio di Ferdinando Salzano erano presenti Annalisa e Mannoia. Entrambe in orbita F&P ed entrambe giurati di Sanremo Giovani. La Mannoia è anche super ospite a Sanremo. Pinuccio chiude il servizio con una riflessione: «Gli altri ragazzi che hanno partecipato a Sanremo Giovani avevano pure loro delle “coincidenze” con qualche giurato?».

IL CONTRATTO DI CLAUDIO BAGLIONI Pinuccio torna a occuparsi del contratto che Claudio Baglioni ha firmato con la Rai per la conduzione e la direzione artistica del Festival di Sanremo. Durante la conferenza stampa di oggi al Teatro Ariston, Claudio Fasulo, Responsabile Intrattenimento 2 di Raiuno, ha dichiarato: «La clausola di trasparenza c’è ed è stata rispettata, il contratto di Claudio Baglioni è in linea con quello firmato dai direttori artistici precedenti». L’inviato di Striscia precisa: «C’è un’altra clausola, un obbrobrio giuridico, secondo cui il fatto che Baglioni abbia dichiarato di avere un rapporto con un’etichetta discografica e con la Friends & Partners di Salzano annulla la clausola di conflitto. Quindi non rappresenta conflitto solo perché l’ha dichiarato?». E continua: «Come hanno detto le “fonti Rai”, il contratto ha passato cinque step, tante persone, ma è stato firmato da un’unica persona: Mario Orfeo, l’ex direttore generale della Rai, che era al matrimonio di Salzano. E allora sono super “coincidenze”». Pinuccio conclude il servizio sottolineando: «La direttrice di Raiuno Teresa De Santis ha detto che Baglioni è una brava persona, che la sua moralità garantisce tutto… A questo punto è tutto a posto, solo che se è tutto a posto perché hanno inserito una seconda clausola in cui devono dire che i rapporti con F&P e le etichette musicali non c’entrano niente?».

CLAUDIO FERRANTE, MANAGER DI PIERDAVIDE CARONE, RIVELA: «LE AUDIZIONI PER IL FESTIVAL AVVENIVANO IN UN HOTEL DURANTE IL TOUR DI BAGLIONI. ERA PRESENTE SALZANO CON IL SUO ENTOURAGE» E IL GIORNALISTA MICHELE MONINA CONFERMA: «SALZANO ERA SEMPRE PRESENTE DURANTE LA SELEZIONE DEI CANTANTI»: L’affaire Salzano/Sanremo e riporta alcune frasi di Claudio Ferrante, manager discografico di Pierdavide Carone, che racconta come sono avvenute le audizioni per Sanremo 2019. «Le audizioni per il Festival sono state fatte in un hotel davanti al Forum di Assago durante il tour di Baglioni. Nell’albergo era stato fatto allestire anche uno stereo perché si potesse sentire bene tutto. Non era un posto di fortuna, ma un posto organizzato per ricevere noi discografici, e questo ci poneva nella condizione di poter parlare direttamente con Baglioni. Ci sono i testimoni. Io penso che Salzano fosse lì in qualità di manager di Baglioni. Lui non esprimeva dei pareri, ma se poi quando una persona andava via, lui influenzasse le cose, questo non lo posso sapere. C’era anche Veronica Corno, c’erano tutti». Il giornalista Michele Monina aggiunge: «Le fonti dicono che Ferdinando Salzano fosse sempre presente durante la selezione dei cantanti. Io ho parlato con diversi di loro. Baglioni da settembre a novembre è stato in tour e ha fatto oltre 30 date in giro per l’Italia e le sale dove avvenivano le audizioni per Sanremo erano diventate i camerini dei palasport o le stanze di alberghi di fronte, tutto alla presenza costante di Ferdinando Salzano e Veronica Corno: l’entourage F&P. È vero che sono il suo entourage, ma in teoria nel ruolo di direttore artistico non doveva essere così. Alcuni tra i cantanti non selezionati mi hanno anche detto che i passaggi venivano fatti esclusivamente da F&P, non direttamente da Baglioni».

Il re è nudo. Sanremo, adesso il re è davvero nudo: anche “Striscia la notizia” si occupa del conflitto d’interessi di Baglioni. Il tg satirico entra a piedi uniti sulla vicenda sollevata da Linkiesta: perché nessuno si è accorto che buona parte dei cantanti del festival sono legati alla medesima agenzia e alla medesima etichetta di Baglioni? I vertici Rai non hanno mai risposto alle nostre domande. Risponderanno a Pinuccio? Scrive il 29 gennaio 2019 L’Inkiesta. Il re è nudo. Uno prova a raccontarlo, mettendo una dietro l'altra le informazioni che, prestando un po' di attenzione e non lasciandosi sopraffare né dalle pressioni né dalle paure, riesce a raccogliere. Il re è nudo. Lo scrive così, senza neanche troppi fronzoli. Non servono. Perché il fatto che il re sia nudo, in effetti, è lì, sotto gli occhi di tutti. Almeno di quanti col re hanno a che fare. E infatti, la corte, non potendo negare l'evidenza si appiglia a quello, al fatto che in fondo che il re sia nudo non è una gran novità. È sempre stato così, e nessuno ha mai avuto niente da ridire, abbozzano. È l'Italia, dicono. È il sistema, aggiungono. Di che ti sorprendi?, chiosano. Del fatto che il re è nudo, mi sorprendo. E soprattutto del fatto che nessuno fino a oggi si sia preso la briga di raccontarlo. E allora eccoci a dire che il sistema musica, in Italia, ha un serio problema. E questo problema è legato al suo momento più imporante, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo. E al fatto che a organizzarlo sia un cantante legato a doppio filo a un'agenzia, la Friends and Partners di Ferdinando Salzano, che a sua volta è legata a una parte consistente degli artisti selezionati dallo stesso Baglioni. Artisti, in molti casi, che condividono con lui anche la medesima etichetta discografica, la Sony Music Italia. Non basta, al fianco di Ferdinando Salzano, in Friends and Partners e di conseguenza nell'organizzazione del Festival, c'è una giovane donna, Veronica Corno, figlia di Chiara Galvagni, la dirigente che in Rai si occupa di contrattualizzare le risorse artistiche, tipo il direttore artistico del Festival, gli ospiti del Festival, insomma, ci siamo capiti. E allora eccoci a dire che il sistema musica, in Italia, ha un serio problema. E questo problema è legato al suo momento più imporante, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo. E al fatto che a organizzarlo sia un cantante legato a doppio filo a un'agenzia, la Friends and Partners di Ferdinando Salzano, che a sua volta è legata a una parte consistente degli artisti selezionati dallo stesso Baglioni. Artisti, in molti casi, che condividono con lui anche la medesima etichetta discografica, la Sony Music Italia. Un filotto di confiltti di interessi che ci ha portato a porre sette domande, sette, ai massimi dirigenti della Rai, il direttore generale Fabrizio Salini, e il presidente, Marcello Foa. Domande che non hanno avuto risposta, succede. Del resto sempre ai medesimi dirigenti avevamo chiesto conto anche di una strana metodologia adottata per selezionare l'azienda incaricata di organizzare votazioni e giurie del Festival, anche qui senza risposte. Da ieri, però, a dire che il re è nudo si è aggiunta una nuova voce, e forse adesso sarà più difficile non rispondere. Perché da che mondo è mondo sono i giullari che si ritrovano a dire questa verità: il re è nudo. E il giullare stavolta è Pinuccio, inviato pugliese di Striscia la notizia, che proprio a partire dai nostri articoli e anche attraverso la mia viva voce ha deciso di raccontare a tutti, e trattandosi di Striscia la notizia quando si dice tutti vuol dire proprio tutti, come stanno le cose.

Con ironia, questo fanno i giullari, ma non per questo con meno precisione chirurgica. Quitrovate il link del servizio.

I critici musicali e gli inviati di Striscia la Notizia, nello specifico un tizio coi codini e gli occhiali rosa e un altro che parla con un lucertolone pupazzo, io e Pinuccio, al momento, sembrano i soli interessati a perseguire la verità, andando a fare il lavoro che in genere dovrebbero fare i giornalisti. Sarà che questi ultimi, almeno quelli che si occupano di musica, sono troppo distratti a farsi i selfie coi cantanti o a abbuffarsi ai brunch alla fine delle conferenze stampa. ​Facce ride, aò, si dice in questi casi. E mai come questa volta si ride per non piangere.

Striscia la Notizia, nuovo servizio su Sanremo: “A giugno su Rai Uno…”, scrive la Redazione di Blitz il 7 febbraio 2019. “Striscia la Notizia” da giorni sta cercando di fare chiarezza su quelle che definisce “coincidenze” del “Festival di Sanremo” e su quelli che qualcuno ha definito presunti conflitti di interesse di Claudio Baglioni: “Abbiamo notato – racconta l’inviato “Pinuccio” nel servizio andato in onda ieri, mercoledì 6 febbraio – che c’è stato un altro Festival di Sanremo, andato in onda su Rai Uno. Questa volta proprio di produzione Salzano. Si chiama Pino c’è, era una trasmissione, andata in onda a giugno, che ricordava il grande Pino Daniele”. E ancora: “Molti dei cantanti di questa trasmissione li troviamo a Sanremo tra i super-ospiti o tra i cantanti in gara”. Si tratta, spiega “Pinuccio”, di Claudio Baglioni, Fiorella Mannoia, Alessandra Amoroso, Antonello Venditti, Elisa, Il Volo, Francesco Renga e Paola Turci. Inoltre, continua, c’è Eros Ramazzotti, che non è F&P ma che era presente a “Pino c’è” e che sarà super-ospite al Festival, e infine Giorgia, super-ospite a Sanremo e presente a Pino c’è. “Siccome il direttore di Rai Uno – spiega “Pinuccio” – ha detto che grazie a Baglioni si hanno le amicizie per far arrivare i cantanti, in realtà bastava vedere a giugno quella trasmissione e portarli a Sanremo”. Su Giorgia, “Pinuccio” apre un altro capitolo: “Nella puntata, insieme a Baglioni ha fatto praticamente una pubblicità al suo nuovo tour”. E aggiunge: “I super-ospiti F&P che saranno a Sanremo hanno tour nel 2019 da pubblicizzare. Sul sito F&P ci sono già i biglietti in vendita. E noi ci facciamo due domande: i cantanti che devono pubblicizzare il proprio tour o disco, come Fiorella Mannoia, è normale che vengano pagati dalla Rai per andare sul palco di Sanremo, che in realtà è una pubblicità delle loro attività gestite da F&P? La Rai è sempre convinta che non ci sia un conflitto di interessi con un’azienda privata che rappresenta Baglioni e che fa affari con i concerti?”. “Pinuccio” prosegue: “Un’altra ‘coincidenza’ che ci hanno segnalato è che durante la prima serata molti artisti, che ruotano attorno a Salzano, hanno cantato nella prima parte del Festival, quella che fa più ascolti”. E sottolinea: “Renga, Nek, Il Volo, Ultimo, Achille Lauro e altri si sono esibiti davanti a oltre il doppio degli spettatori rispetto a quelli capitati nella seconda parte della gara”.

"Striscia" e le strane coincidenze sulla giuria demoscopica di Sanremo, scrive Tgcom24 il 6 febbraio 2019. Le date sul bando dʼappalto per la gestione del sistema elettronico di voto non quadrano: il lavoro doveva iniziare il 14 gennaio, ma la gara dʼappalto si è conclusa il 15. Alcuni giudici al Festival di Sanremo votano i cantanti in gara tramite un sistema elettronico la cui gestione sembra non essere del tutto trasparente. "Striscia la notizia" ha scoperto che la gara indetta dalla Rai per l'appalto di questo servizio è stata vinta dalla Noto Sondaggi. L'azienda, però, ha gli stessi soci della IPR Marketing, una impresa già nota per aver gestito il sistema elettronico di voto nel 2012 quando l'intero meccanismo si inceppò e i giudici dovettero aspettare il giorno successivo alle esibizioni per poter esprimere il proprio giudizio. L'inviato di "Striscia la notizia" Pinuccio dopo aver consultato il bando ha trovato una stranezza: "Se la gara aveva come data di scadenza il 15 gennaio, ma loro chiedono che il lavoro cominci il 14 gennaio. Chi ha lavorato il 14 gennaio se non si sapeva ancora chi doveva vincere?". Un dubbio che rimarrà senza risposta, almeno per ora.

Striscia la Notizia contro Sanremo 2019: "Ecco quali cantanti si esibiscono per primi, tutto truccato?" Scrive il 7 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Striscia la notizia fa notare un particolare, evidenziato durante la seconda serata anche dai social. L'inviato Pinuccio, che in questi giorni si sta occupando di Sanremo, spiega: molti artisti che ruotano attorno a Salzano, il manager di Claudio Baglioni, hanno cantato nella prima parte del Festival, quella che fa più ascolti. E sottolinea: "Renga, Nek, Il Volo, Ultimo, Achille Lauro e altri si sono esibiti davanti a oltre il doppio degli spettatori rispetto a quelli capitati nella seconda parte della gara". Come è noto, in prima serata il bacino dei telespettatori è maggiori, quindi la propria canzone risulta più ascoltata. La cosa favorisce ovviamente il televoto. Il particolare, non irrilevante, era stato evidenziato sui social da diversi utenti. Addirittura, c'è stato chi ha parlato di un complotto. 

Striscia la Notizia, il nuovo servizio su Sanremo: “Anche Cocciante…”, scrive la Redazione di Blitz l' 8 febbraio 2019. “Striscia la Notizia” con un nuovo servizio torna a parlare delle “coincidenze” e dei presunti conflitti di interesse al “Festival di Sanremo” targato Baglioni. “Ci sono altri cantanti che non appartengono direttamente al circuito di F&P, ma che hanno comunque interessi con le società di Salzano – spiega “Pinuccio” – Un nome su tutti è Riccardo Cocciante”. E prosegue: “Una persona del settore ci ha spiegato che il musical Giulietta e Romeo di Cocciante è stato co-prodotto da F&P. E un altro famosissimo spettacolo di Cocciante, Notre Dame de Paris, di cui hanno cantato proprio ieri il pezzo al Festival, è in giro con la Vivo Concerti, società vicina a Salzano e acquisita, insieme a F&P, da una multinazionale”. L’inviato ricorda anche che “Vivo Concerti e F&P, stanno nello stesso palazzo”. Inoltre, racconta Pinuccio: “La persona contattata da Striscia (un impresario del settore musicale, ndr) e che ha collaborato anche con Salzano, ci ha parlato dei due super-ospiti di ieri, Pio e Amedeo”. L’impresario spiega al telefono: “A Pio e Amedeo, gli ha firmato il contratto ad agosto (riferendosi a Salzano, ndr) e ci ha messo che sarebbero stati ospiti a Sanremo”. Nel servizio si evidenzia che anche gli ospiti di ieri sera sono in orbita F&P e addirittura due di questi, Raf e Tozzi, spiega Pinuccio: “Hanno dichiarato che andranno come ospiti al Festival per promuovere il loro tour, prodotto da F&P”. Pinuccio rivela inoltre che nel contratto di Baglioni si legge: “L’approvazione della linea autorale e editoriale, del Dopo Festival e dell’Anteprima Festival, nonché dei relativi autori e conduttori, li decide Claudio Baglioni”. Il Pre-Festival è presentato da Anna Ferzetti, moglie di Pierfrancesco Favino. Anche lei presente al matrimonio di Salzano. Pinuccio sottolinea: “Favino ha condotto pure l’anno scorso e ha fatto anche la partecipazione al programma di Salzano, Pino c’é”. Pinuccio sente nuovamente l’impresario, che questa volta riferisce: “Ho visto dietro le quinte la sicurezza di Salzano e Baglioni, una società che lavora prevalentemente con loro. Fanno i bodyguard per gli artisti”. E spiega anche dei pagamenti fatti a Salzano: “Su 100 mila euro ne davamo 20/30 in contanti”. Pinuccio domanda: “Ma era un pagamento in nero a tutti gli effetti?”. E l’uomo replica: “Diciamo. È una prassi che si fa in Italia, non è la prima volta”. L’inviato chiude il servizio: “Io su tutte queste cose vorrei chiedere delucidazioni alla Rai o a Salzano stesso, per capire come sta la situazione”. 

Cocciante, ospiti e tante coincidenze a Sanremo 2019, scrive Striscia la Notizia il 7 febbraio 2019. Questa sera, giovedì 7 febbraio, a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Pinuccio scopre e rivela ancora nuove “coincidenze” tra Salzano-Baglioni-Rai. «Ci sono altri cantanti che non appartengono direttamente al circuito di F&P, ma che hanno comunque interessi con le società di Salzano – spiega Pinuccio – Un nome su tutti è Riccardo Cocciante». E prosegue: «Una persona del settore ci ha spiegato che il musical Giulietta e Romeo di Cocciante è stato co-prodotto da F&P. E un altro famosissimo spettacolo di Cocciante, Notre Dame de Paris, di cui hanno cantato proprio ieri il pezzo al Festival, è in giro con la Vivo Concerti, società vicina a Salzano e acquisita, insieme a F&P, da una multinazionale». L’inviato ricorda anche che «Vivo Concerti e F&P, stanno nello stesso palazzo». Inoltre, racconta Pinuccio: «La persona contattata da Striscia (un impresario del settore musicale, ndr) e che ha collaborato anche con Salzano, ci ha parlato dei due super-ospiti di ieri, Pio e Amedeo». L’impresario spiega al telefono: «A Pio e Amedeo, gli ha firmato il contratto ad agosto (riferendosi a Salzano, ndr) e ci ha messo che sarebbero stati ospiti a Sanremo». Nel servizio si evidenzia che anche gli ospiti di questa sera sono in orbita F&P e addirittura due di questi, Raf e Tozzi, spiega Pinuccio: «Hanno dichiarato che andranno come ospiti al Festival per promuovere il loro tour, prodotto da F&P». Pinuccio rivela inoltre che nel contratto di Baglioni si legge: «L’approvazione della linea autorale e editoriale, del Dopo Festival e dell’Anteprima Festival, nonché dei relativi autori e conduttori, li decide Claudio Baglioni». Il Pre-Festival è presentato da Anna Ferzetti, moglie di Pierfrancesco Favino. Anche lei presente al matrimonio di Salzano. Pinuccio sottolinea: «Favino ha condotto pure l’anno scorso e ha fatto anche la partecipazione al programma di Salzano, Pino c’é». Pinuccio sente nuovamente l’impresario, che questa volta riferisce: «Ho visto dietro le quinte la sicurezza di Salzano e Baglioni, una società che lavora prevalentemente con loro. Fanno i bodyguard per gli artisti». E spiega anche dei pagamenti fatti a Salzano: «Su 100 mila euro ne davamo 20/30 in contanti». Pinuccio domanda: «Ma era un pagamento in nero a tutti gli effetti?». E l’uomo replica: «Diciamo. È una prassi che si fa in Italia, non è la prima volta». L’inviato chiude il servizio: «Io su tutte queste cose vorrei chiedere delucidazioni alla Rai o a Salzano stesso, per capire come sta la situazione».

Striscia la Notizia, altra bomba su Sanremo 2019: il bacio di Mario Orfeo che inguaia Claudio Baglioni, scrive il 9 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo le polemiche circa il presunto conflitto d'interessi di Claudio Baglioni al Festival di Sanremo a causa del ruolo di Ferdinando Salzano, da Striscia la Notizia arriva il video "del bacio" tra quest'ultimo e Mario Orfeo, ex direttore generale della Rai: i sospetti si infittiscono. Venerdì sera l'inviato del tg satirico Pinuccio, ha mostrato altre strane coincidenze. Infatti, tornando al contratto del direttore artistico Baglioni, la redazione di Striscia ha scoperto che l'unico firmatario era proprio Orfeo, ai tempi dg della rete pubblica. In particolare, nel servizio andata in onda su Canale 5, sono state mostrate delle foto esclusive, che ritraevano l'ex direttore Rai calorosamente accolto a Formentera tra i baci e gli abbracci di Salzano, in occasione del matrimonio tra questo e Barbara Zaggia. Come ha detto ironicamente l'inviato di Striscia Salvino, si trattava di "un bacio o di una clausola contrattuale"? Il dubbio è più che lecito. 

CHI DECIDE IL VINCITORE. L’IDEOLOGIA DEI GIORNALISTI E DELLA GIURIA NOMINATA. Il jazz, il rock, l'arte e tanti bestseller. Quando gli esperti non ci azzeccano, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 12/02/2019, su Il Giornale. La differenza di vedute tra la critica e il pubblico non è certo stata inventata da Sanremo 2019. Al pubblico tv piace Ultimo e lo televota in massa (48,8 per cento)? Alla giuria d'onore e alla giuria dei giornalisti, piace Mahmood, terzo al televoto (20,95 per cento). E vince Mahmood con grande scorno dei televotanti che giustamente si sono chiesti: a che scopo abbiamo partecipato, al prezzo minimo di 51 centesimi, se il risultato può essere capovolto in maniera radicale? Il successo porta successo: dopo una partenza lenta, ora Soldi, il brano di Mahmood si fa largo nei servizi in streaming come Spotify. Chissà, se non è un fuoco di paglia, forse il cerchio si chiuderà e grande pubblico ed esperti si troveranno a braccetto. Fatto che non toglie i dubbi sul senso del concorso sanremese. La lontananza tra i gusti del pubblico e quello degli esperti è una costante in tutti i rami dell'espressione artistica e tra l'altro non sempre è un male. Anzi. L'arte non è democratica e quindi il successo di vendite non può essere un criterio valido per stabilire la qualità di un'opera. Naturalmente ci sono casi piuttosto divertenti in cui i critici, rimasti indietro, non sono in grado di capire i nuovi fenomeni. E non sono mai mancati critici ideologizzati che si rifiutano di prendere in considerazione chi non è fedele alla linea. In campo musicale è sempre andata così. Il blues era diabolico. Il jazz era un inutile saltellare. Il rock'n'roll era rozzo e perverso. L'Heavy Metal incitava al suicidio e alla violenza. L'elettronica era roba da impasticcati e così via. Ci hanno rimesso le penne Elvis Presley, i Beatles, i Rolling Stones e gli epigoni italiani, i gruppi beat e gli urlatori. Mentre il critico si lamentava, il pubblico gradiva e dava vita al mercato dei 45 giri. All'inizio degli anni Sessanta, anche per merito di una Rai illuminata, il fenomeno aveva dimensioni che non si potevano ignorare. E anche i critici si adeguarono, scoprendo che il rock non era poi così malvagio, in tutti i sensi. Molti movimenti artistici hanno preso nome da una sonora stroncatura. «Impressionista» aveva un valore negativo e nasceva dalla perfida penna di Louis Leroy. Oggi sono forse i pittori più amati in assoluto. Furono stroncati anche Picasso, Dalí, Klee, i cubisiti, i dadaisti, i surrealisti. In sostanza si può dire che solo i mediocri arrivano a fine carriera senza una stroncatura che si rivela poi un errore di giudizio. Più simili al caso Sanremo sono gli esempi che si possono trarre dalla letteratura italiana. Dopo aver ricordato che Alessandro Manzoni fu variamente stroncato in varie epoche ma andarono a ruba le dispense a puntate dei Promessi sposi, ecco un aneddoto, però significativo, raccontato da Evaldo Violo, storico editore della Bur, durante un convegno su Giuseppe Berto. Nel 1975, Tuttolibri fece un'inchiesta nella quale si chiedeva ai lettori di indicare il libro più amato e il libro più importante del Novecento. Il referendum si svolse a partire da una lista bloccata e compilata dai critici letterari. Nessun libro di Giuseppe Berto era presente. I lettori però avevano la possibilità di indicare anche un titolo a piacimento. In questa graduatoria, compilata dunque dal pubblico, nella categoria libro più importante c'erano due romanzi di Berto: Il male oscuro (terzo posto dietro Un uomo di Oriana Fallaci e La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda) e Il cielo è rosso (decimo). Nella categoria libro più amato, Il male oscuro scavalcava La cognizione del dolore e si piazzava al secondo posto subito dopo Un uomo. E già che ci siamo, la Fallaci come narratrice non fu nemmeno presa in considerazione, soprattutto negli ultimi anni, dopo la feroce polemica seguita a La Rabbia e l'Orgoglio. Capita così che il più ambizioso romanzo storico del dopoguerra, Un cappello pieno di ciliege, passi del tutto inosservato alla critica mentre occupa i primi posti della classifica. Sulla scrivania di tutte le redazioni, in questi giorni, sono arrivate le ristampe delle opere di Susanna Tamaro, campionessa di vendite mai amata dalla critica. Di fronte al clamoroso successo commerciale di Va' dove ti porta il cuore, la critica militante, con le dovute ma numerate eccezioni, sul conto dell'autrice Susanna Tamaro si è posta domande capitali. Roba di questa portata: è una lesbica? Davvero convive more uxorio con una donna? Cosa mangia, è vegana o vegetariana? Sarà mica una fascista? Ha letto Evola? È un'artista o una plagiatrice seriale? È cattolica, buddista o cosa? Comunque sia non è un po' strana, con quei capelli da maschio? Strana è strana, bisogna ammetterlo. Infatti pochissimi autori sono in possesso di una sintassi articolata ma così limpida da non richiedere mai un inciso di troppo o una punteggiatura ridondante. Segno che la Tamaro ha le idee molto chiare su cosa vuole dire e quale effetto vuole ottenere. Niente da fare. Alla critica non piacciono il tono sentenzioso e le metafore precotte. I «benevoli» sono pronti ad ammettere, con paternalismo, che questi difetti siano dovuti a un fatto molto semplice. La Tamaro non si rivolge al lettore forte e colto ma alla massa di ignoranti che snobba la vera letteratura. Massa trascurabile secondo i critici. Massa calcolabile in quindici milioni di copie vendute.

Fuori di testi- Ma quant'è scritto male il Festival di Sanremo. Belle canzoni, brutti copioni alla kermesse, scrive il 9 Febbraio 2019 Francesco Specchia su Libero Quotidiano. Le canzoni sono la vera economia circolare del Festival di Sanremo. Prendono i testi, li armonizzano in una lunga filiera di musica e applausi e spremute di cuore (come direbbe Marco Ferradini, mai una volta a Sanremo, mi pare) e li restituiscono al mercato in forma di curve d’ascolto. Non è un caso che Abbi cura di me, la canzone di Cristicchi, poesia pura (“Sono solo quattro accordi ed un pugno di parole/Più che perle di saggezza sono sassi di miniera/ Che ho scavato a fondo a mani nude in una vita intera”), sia uno dei must, a voce tremante, della share di questo Festival.  Qui si parla di testi. Le parole sono importanti. Sicché, mi risulta un po’ bizzarro che, tolti quelli delle canzoni, i testi veri e propri del programma latitino. Di più.  I testi infilati nelle gag dei conduttori, di raccordo alle canzoni e alle inserzioni pubblicitarie, quelli che, insomma, dovrebbero essere il colorato fil rouge della kermesse; be’, quei testi brillano per cocciuto imbarazzo. L’apoteosi si è avuta con la battuta di Virginia Raffaelli, eccelsa in tutto il resto, che salutava i vocalist dell’orchestra Rai: “Grazie, grazie Graziella e grazie al Coro”, parafrasando un classico della commedia sexy all’Alvaro Vitali. Ecco, lì ho messo mano al revolver. Poi ci sono altre uscite della Raffaele sulle somiglianze dei musicisti con in vip “Si vedono solo le teste, come i Muppets”, “Abbiamo Enrica Bonaccorti, il protagonista di Cast Away e Rossano Rubicondi”, con la gag che si esaurisce nell’indicare “il chitarrista più inquadrato del festival Luca Colombo, da 13 anni in forza all'ensemble sanremese”, battuta proferita con un allegro accanimento che neanche Peppe Vessicchio ai vecchi tempi. Eppoi, ecco lo sfiancato “cavallo della Mannoia” descritto da Baglioni; l’evocare la polemica leghista scomodando la Lega dell’amore di Elio e le storie Tese; la gag con la pernacchia; la di solito efficace -ma qui fuori sincrono- volgarità di Pio e Amedeo; Pippo Baudo movimento semovente introdotto da un “omaggio” tiratissimo a Lelio Luttazzi. Infine gli infiniti, inutili, letali tre minuti che Claudio Bisio, evidentemente risentito, dedica alla lettura, a sfottò, dei tweet degli odiatori del Festival, roba che degli stessi odiatori ha soltanto, probabilmente, aumentato il numero. Anche lo stesso monologo di Bisio sul presunto terzomondismo politico di Baglioni era abbastanza telefonato e non è stato -diciamo- all’altezza dei dialoghi teatrali di Claudio tratti da Pennac. Ecco, vorrei capire: per scrivere ‘sta roba quanti autori ha Sanremo? …

Anna Foglietta spegne Sanremo: "Alcuni sketch imbarazzanti..." Le polemiche sul Festival di Sanremo non si fermano. Adesso sul ring sale anche Anna Foglietta che in questa edizione 2019 ha condotto il dopo-Festival, scrive Luca Romano, Martedì 12/02/2019, su Il Giornale. Le polemiche sul Festival di Sanremo non si fermano. Adesso sul ring sale anche Anna Foglietta che in questa edizione 2019 ha condotto il dopo-Festival con Rocco Papaleo. L'attrice intervenendo a Circo Massimo e commentando la kermesse condotta da Claudio Baglioni, Claudio Bisio e Virginia Raffaele non ha usato giri di parole. La Foglietta ha infatti puntato il dito contro alcuni sketch che hanno messo in scena soprattutto Biso e Raffaele sul palco dell'Ariston: "Baglioni mi piace sempre, mentre Bisio non è riuscito a esprimersi come voleva, è stato meno morbido di Virginia Raffaele. E non mi sono piaciuti gli sketch, alcuni erano imbarazzanti". Non poteva nemmeno mancare un commento sul risultato finale del Festival con la vittoria di Mahmood e il secondo posto di Ultimo: "A Ultimo, il secondo classificato che ha criticato il meccanismo di voto, dico: "Deve stare molto calmo: è un ragazzo e un artista splendido, ma ha fatto un autogol". Infine sulla sua esperienza afferma: "Sanremo è un concentrato di vita ed emozioni fortissime, ma non direi che è stata un'esperienza indimenticabile".

Sanremo 2019, Anna Foglietta e la vergogna contro Matteo Salvini: "Mahmood rappresenta il suo fallimento", scrive il 12 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Sanremo è stato un frullatore incredibile, ma non direi che è un'esperienza indimenticabile", "è tutta una tensione, un corri corri, è tutto rapido, molto compresso, non c'è il tempo di costruire un pensiero artisticamente più alto". Anna Foglietta, che ha condotto il dopofestival con Rocco Papaleo e Melissa Greta Marchetto, ne ha per tutti e a Circo Massimo, su Radio Capital, dice: "A me Claudio Baglioni piace sempre, non riesco a criticarlo. Claudio Bisio, invece, secondo me non è riuscito a esprimersi per quello che è e per come voleva: è un grandissimo mattatore ma è partito con il piede sbagliato e non è riuscito a sbloccarsi. Virginia Raffaele è riuscita a dimostrare, in parte, la sua verve da prima donna" ma "non mi sono piaciuti gli sketch, alcuni erano imbarazzanti".  Sulle polemiche scoppiate poco prima dell'inizio della kermesse per la frase di Baglioni sui migranti la Foglietta pensava "che sarebbe stato il festival più politicizzato, poi invece c'è stato un silenzio incredibile rispetto a tutto questo". "Però riesco anche a capirlo, mi rendo conto che, essendo lo spettacolo più nazionalpopolare che abbiamo, quelle polemiche potevano risultare sterili e pretestuose". E su Mahmood, il vincitore di Sanremo: "Fa politica suo malgrado, è l'emblema del fallimento del pensiero salviniano". Sia lui che Ultimo "appartengono a una generazione di ragazzi pensanti che non accettano il pensiero razzista ed esclusivista". Ultimo però secondo la Foglietta non doveva prendersela con la giuria (al televoto era arrivato primo, ndr): "Secondo me è giusto che giuria di qualità e giornalisti siano determinanti, altrimenti ci saremmo trovati sul podio sempre cantanti molto amati dai ragazzini, come quelli che escono da Amici, e non avremmo avuto un'evoluzione reale della musica". E affonda: "Non è che Meryl Streep viene giudicata dal contadino o dall'amministratore delegato" per gli Oscar. "Il voto popolare è determinante fino a un certo punto; poi c'è il voto, giustamente più incisivo, di chi conosce bene la musica. Ultimo deve stare molto calmo: è un ragazzo e un artista splendido, ma ha fatto un autogol".

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” l'11 febbraio 2019. Un secondo dopo la proclamazione del cantante Mahmood quale vincitore del Festivàl numero 69, l'Italia, curiosamente, si divide. Strano, non succede mai (qui sarcasmo). Ci sono quelli che «Ha vinto un "nuovo" italiano! Che bella l'integrazione». E quelli che «Le giurie hanno fatto vincere lo straniero! Complotto!». E, insomma, siamo riusciti a trasformare un concorso di canzonette in una grottesca diatriba musical-razziale (e ancora ci domandiamo perché il Paese non riesca a uscire dallo stallo, vabbé...). In ogni caso, il qui presente fesso era giurato accreditato in sala stampa e vi racconta come sono andate le cose dal suo punto di vista. Poi, ovviamente, i complottisti del genere «esistono le scie chimiche» continueranno a credere alla teoria della «truffa ordita dal Palazzo».

1) Mahmood fino a una settimana fa lo conoscevano solo i parenti stretti, qualche appassionato di talent (ha partecipato a X factor 2012, scelto da Simona Ventura, ma è stato eliminato quasi subito) e gli addetti ai lavori. I quotisti non lo davano tra i favoriti, poi da martedì la canzone è iniziata a piacere (molto in sala stampa) e tutti hanno cominciato a battere le mani a ritmo come dei minchioni, trasformando un brano senza grosse pretese in un tormentone (che poi è il segreto del successo della musica "per tutti").

2) I giornalisti - il cui voto pesava per il 30% del totale (20% la giuria di qualità, 50% il televoto) - sono stati inizialmente invitati a esprimere 4 preferenze tra i 24 cantanti, dal prediletto in giù. Ognuno ovviamente ha scelto i suoi "cavalli", pochi hanno puntato sui tre frugoletti de "Il Volo", invece molto apprezzati dal pubblico casalingo del Festivàl. Quando sono rimasti gli ultimi 3 "concorrenti", in sala stampa (ma anche sui social) c' è stato grande dissenso e molti si sono lasciati andare ad un sonoro: «Il Volo no! Per carità!».

3) A quel punto ogni giurato è stato invitato ad esprimere una sola preferenza e la maggior parte degli "aventi diritto" ha portato avanti le sue convinzioni, maturate nel corso della settimana (il giudizio generale sui tre era il seguente: «Piuttosto che Il Volo meglio il silenzio eterno; Ultimo bravo ma ha fatto di meglio; Mahmood bella scoperta»).

4) Ultimo - da un anno re indiscusso quanto a vendite e clic - stava trionfando da casa come nelle previsioni, ma non tra i giornalisti, che fin dal primo ascolto del suo brano hanno detto «Lui è bravissimo, ma in passato ha fatto di meglio». Per intenderci: se per sbaglio la "sciura Maria" con il televoto avesse portato Achille Lauro tra i primi 3, certamente la sala stampa lo avrebbe trasformato nel vincitore (per il super tatuato solo grandi apprezzamenti, fin da martedì).

5) I preferiti della sala stampa all' applausometro sono stati, per tutta la settimana: Achille Lauro, Silvestri (premio della critica), Cristicchi (premio Endrigo all' interpretazione), Arisa, Ghemon, Berté, Mahmood. Segno che il televoto ha "dominato" sulle giurie, se è vero come è vero che solo uno tra questi sette artisti è arrivato nei primi tre.

6) Ultimo che arriva in sala stampa, si sente vittima di un complotto e attacca i giornalisti («vi fate forti una settimana all' anno, ma non capite un cazzo») è lo stesso che un anno fa - quando ancora non lo conosceva nessuno - vinse proprio grazie alla sala stampa. Il ragazzo è bravissimo (chi scrive lo ascolta spesso e lo pensa davvero), ma quello presentato quest' anno a Sanremo non è certamente il suo brano più riuscito.

7) Si è fatta molta polemica sulla questione «che bello Mahmood, cantante integrato», l'ha fatta anche l'ex fidanzata del ministro Salvini, Elisa Isoardi, via Twitter («Mahmood ha appena vinto il festival di Sanremo. La dimostrazione che l'incontro di culture differenti genera bellezza»). Ecco, il tentativo di trasformare la vittoria del cantante milanese in un pretesto per fare propaganda "pro" o "contro" il governo (o semplicemente per tirare frecciate avvelenate all' ex fidanzato) è stato azzerato dallo stesso Mahmood: «Cosa ne penso io? Sono nato in Italia, ho la mamma italiana, sono italiano».

8) Proviamo infine a capire il significato del pezzo vincitore, che poi è "Soldi". Mahmood racconta immagini impresse, quelle che lascia il ricordo di un padre che se n' è andato e non è più tornato.

«È parecchio autobiografica - ha spiegato all' Unione Sarda -, è una storia che ho vissuto e che hanno vissuto tante persone. Ma ci sono delle parti che non hanno un significato letterale. Per esempio "Beve champagne sotto il Ramadan" è un verso che uso per dire "Predichi bene e razzoli male"». E ancora: "Che fine ha fatto mio padre? Non lo so, non ho rapporti con lui».

Totale: se fosse vero (e non lo è) che l'obiettivo della giuria era far vincere un cantante anti-governo, la stessa giuria avrebbe fatto una gran cazzata: il primo ad avercela con il padre egiziano è lo stesso Mahmood. Fine. «Sono solo canzonette» cantava Bennato. Le abbiamo trasformate in un ridicolo caso di Stato.

Sanremo 2019: il televoto, le élite e le polemiche. Il punto sulle discussioni dopo il secondo posto di Ultimo, che ha attaccato il giornalisti. Intanto Matteo Salvini ha chiamato Mahmood, il vincitore di Sanremo 2019, scrive Francesco Canino l'11 febbraio 2019 su Panorama. Popolo contro élite, giornalisti sguaiati in sala stampa, il televoto ribaltato da una giuria "radical chic" e un direttore artistico che disconosce il meccanismo di elezione del vincitore del Festival. Quarantotto ore dopo la finalissima e la vittoria di Mahmood, il "grande romanzo" di Sanremo 2019 continua a far discutere, generando sui social una "commedia degli equivoci" - innescata (anche) dalle dichiarazioni di Ultimo - sulla quale vale la pena di provare a fare chiarezza.

Sanremo 2019, perché Ultimo non ha vinto. Piccola indispensabile premessa, visto che si battaglia da ore sui social senza conoscere nel dettaglio la composizione del voto che ha portato alla vittoria di Mahmood e al secondo posto di Ultimo. In finale, nell'ultima sfida a tre, Mahmood ha ottenuto il 20,95% dal televoto, piazzandosi terzo dietro Ultimo (48,80% dei consensi) e Il Volo (30,25); la sala stampa ha incoronato vincitore Mahmood, seguito da Ultimo e da Il Volo; la giuria d'onore ha invece assegnato il primo posto a Mahmood, secondi ex-aequo Ultimo e Il Volo. La combinazione dei tre verdetti ha portato Mahmood alla vittoria con il 38,92% del totale, Ultimo al 35,56 e Il Volo al 25,53. C'è dunque un complotto dietro il secondo posto di Ultimo? No, ma il peso specifico assegnato dal regolamento alle diverse giurie ha prodotto un risultato che ha reso evidente lo scollamento tra il gusto del pubblico - che emerge dal televoto - e quello degli addetti ai lavori. Cosa che del resto si era già capita venerdì sera, quando la "giuria d'onore" aveva premiato come miglior duetto quello di Motta e Nada, facendo scattare i fischi dell'Ariston, e la rappresentazione plastica si è avuta poi sabato notte, con l'insurrezione dell'Ariston dopo il quarto posto di Loredana Bertè: il pubblico le aveva tributato tre standing ovation ma nonostante questo i giurati vip l'hanno piazzata solo sesta nella loro classifica, spingendola matematicamente fuori dal podio. Poche ore dopo si è arrivati all'attacco frontale di Ultimo ai giornalisti, accusandoli di avergliela "tirata" - "io mi sono sempre grattato, ma non è servito" - solo per aver pronosticato da settimane la sua vittoria. "Voi avete questa settimana per sentirvi importanti e dovete sempre rompere il cazzo", è sbottato. L'irritazione ci sta, la delusione per il secondo posto pure. Poi però, a bocce ferme, qualcuno dovrebbe ricordargli che il regolamento che ha sottoscritto è identico a quello che nel 2018 gli ha consentito di vincere la categoria Giovani. 

Salvini, "l'inutile giuria d'onore" e la telefonata a Mahmood. Sulla "questione Sanremo" è entrato a gamba tesa anche Matteo Salvini che, intervistato da La Stampa, ha attaccato la giuria d'onore definendolo "un salotto radical chic" e sottolineando la distanza tra élite e popolo. "Una giuria senza senso, mancava solo mio cugino e sarebbe stata completa. Come se mi chiamassero ad attribuire il Leone d'Oro", ha spiegato senza mezze parole il vice premier, che ha invece difeso i giornalisti ("sono lì per quello, valutare le canzoni"). A sorpresa, Salvini ha rivelato di essersi fatto dare il numero e di aver contattato Mahmood dopo la vittoria. "Comincia adesso, mi sono informato sul suo percorso artistico e gli ho voluto dire direttamente che si deve godere la vittoria e che sono felice per lui". Poi ha preso le distanze dalle polemiche relative alle origini del cantante (suo padre è egiziano, ndr): "È un ragazzo italiano che suo malgrado è stato eletto a simbolo dell'integrazione. Ma lui non si deve integrare, è nato a Milano. Lo hanno messo al centro di una storia che non gli appartiene".

Perché il meccanismo del voto è da rivedere. Anche l'altro vice premier, Luigi Di Maio, ha voluto dire la sua sul Festival criticando la scelta dei giornalisti e della giuria e avanzando una proposta: "Per l'anno prossimo, magari, il vincitore si potrebbe far scegliere solo col televoto, visto che agli italiani costa 51 centesimi facciamolo contare". Ma davvero affidare tutto al televoto è davvero il migliore dei metodi possibile? Guardando al passato, viene da rispondere un secco no. Così come erano falsate le classifiche dei Sanremo negli anni '80, nel pieno boom delle schedine Totip, poca chiarezza si è avuta anche in tempi più recenti, quando il vincitore veniva decretato via televoto (magari grazie ai call center che alteravano le votazioni). Impossibile, ad esempio, non ricordare quando Emanuele Filiberto di Savoia e Pupo sfiorarono la vittoria - secondo posto con Italia amore mio - buscandosi le denunce del Codacons e di Striscia la Notizia. L'intervento delle giurie nasce proprio dall'esigenza di equilibrare il peso eccessivo del televoto ma è indubbio che l'attuale regolamento vada rivisto (magari tornando alla soluzione scelta nei Sanremo di Carlo Conti), dando più peso al gusto del pubblico, bilanciandolo con quello dei consumatori di musica (la demoscopica) e di una giuria composta da addetti ai lavori competenti (e non da guest star chiamate all'ultimo minuto a svernare per qualche giorno a Sanremo). Lo ha detto anche Claudio Baglioni, a Festival finito però, e lo ha ripetuto il presidente della Rai, Marcello Foa.

Gli insulti a Il Volo e le accuse alla sala stampa. L'ultima considerazione, riguarda invece i giornalisti e la sala stampa. Francesco Facchinetti ha infatti postato un video in cui si vedono alcuni giornalisti che esultano per il terzo posto de Il Volo e si lasciano andare ad alcune reazioni scomposte. Questo è il video in cui alcuni giornalisti nella sala stampa di #Sanremo2019 esultano al terzo posto de @ilvolo gridando felici: “Merde”. Io vi prenderei a calci in culo fino alla fine del mondo: idioti, coglioni e buffoni. "Hanno usato parole come merde, vaffanculo, in galera. Le consideriamo una vera e propria forma di bullismo, di sfottò da stadio. Queste persone non hanno portato gloria all'ordine che rappresentano", hanno replicato i tre cantanti, che per altro si sono dimostrati educati e rispettosissimi nonostante la pressione e le critiche a tratti feroci. Sul "tifo scomposto" (lo stesso cui si assiste tutti gli anni, per altro, vedi la festa per la vittoria Francesco Gabbani), gli insulti (sempre da biasimare) e l'atteggiamento da tenere in sala stampa ("cos'è un villaggio vacanze?", cit.) si è scatenata una discussione sui social a tratti surreale, che ha coinvolto in prima persona anche molti dei presenti. Con tanto di accuse incrociate a tratti demenziali, come quelle di chi bolla tutti i giornalisti in trasferta a Sanremo come "un'élite in vacanza", ignorando che della presunta "casta" fanno parte anche giovani professionisti che guadagnano 5 euro al pezzo e che il 99% sta lì per lavorare e non per soddisfare il proprio ego.

Sanremo 2019, la vittoria di Mahmood può rovinare la Rai: truffa al televoto, risarcimento stratosferico? Scrive l'11 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. La polemica sul ribaltone del televoto al Festival di Sanremo rischia di costare carissimo alla Rai. La parola alle cifre: Viale Mazzini rischia una multa da 5 milioni di euro, che potrebbe arrivare dall'Antitrust. L'associazione dei consumatori Codacons guidata da Carlo Rienzi ha preso le difese di tutti quei telespettatori che hanno votato da casa, pagando, per poi vedere il proprio voto completamente stravolto dalla giuria di qualità. Il ricorso presentato dal Codacons si basa fondamentalmente sullo stravolgimento del risultato che ha portato alla vittoria del rapper Mahmood, a discapito di Ultimo, arrivato secondo, nonostante avesse ottenuto percentuali più alte dal televoto. "La pratica commerciale è scorretta - dice il Codacons nel testo del ricorso - considerato che il voto schiacciante del pubblico da casa, a pagamento, che aveva premiato Ultimo, è risultato annullato e ribaltato dalla giuria d'onore e dalla sala stampa, che hanno decretato la vittoria di Mahmood". Il sospetto avanzato dal Codacons al Garante della concorrenza è che lo scopo degli organizzatori del Festival fosse di spingere i telespettatori a votare solo per fare cassa: "È evidente che indurre i telespettatori a spendere soldi per il televoto lasciando loro intendere che possono determinare la classifica finale del Festival, e poi consentire ad altri soggetti di modificare totalmente il voto del pubblico, potrebbe realizzare la fattispecie in oggetto. Senza contare i canali ufficiali, subendo un possibile danno economico".

Sanremo 2019, Franco Bechis rivela: "Ecco chi ha deciso che doveva vincere Mahmood", scrive l'11 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. C'è un filo rosso che collega lo scandalo scoppiato al Festival di Sanremo sul ribaltone del televoto e la nomina del vicedirettore della Banca d'Italia sulla quale sta battagliando il governo Lega-M5s. Come spiega Franco Bechis sul Tempo, quel che accomuna le due cose, solo in apparenza distanti tra loro, è "l'uso strumentale delle regole, che sono bandiere sventolate con grandissima ipocrisia". Il ritornello che si è costretti a sentire recita sempre che le regole diventano superflue che a piegarle a proprio favore sono "le élite benpensanti depositarie del senso del bene e del male". A Sanremo è stato permesso al pubblico di votare, pagando. Poi però sono state messe in piedi "due giurie di ottimati - aggiunge Bechis - gente che dal primo giorno ha pensato che la vittoria di quel cantante nato in Italia da immigrati potesse essere uno schiaffo straordinario a Matteo Salvini e ai suoi slogan". I vari Beppe Severgnini, Ferzan Ozpetek e Serena Dandini non hanno fatto segreto del loro pensiero sulla vittoria del buon Mamhood, discettando di "Italia nuova" e altre belle frasette da salotto buono di sinistra. Le polemiche sul meccanismo di voto erano inevitabili, secondo Bechis, perché il ribaltone tra il voto del pubblico e quello delle giurie di esperti e giornalisti è stato di oltre il 30%. Far votare la gente da casa quindi è stato inutile, se non dannoso tanto per le tasche degli italiani, quanto per l'immagine devastata della Rai dopo questo Sanremo. Il giorno dopo le polemiche su Sanremo c'è chi invoca il rispetto delle regole, ben note prima dell'inizio del Festival, piegate a proprio piacimento. E la beffa arriva sul dibattito per il rinnovo del vicedirettore della Banca d'Italia, dove i "puzzoni" diventano Luigi Di Maio e Matteo Salvini, accusati dalle solite élite di voler andare contro le regole, appunto, perché si oppongono a lasciare al suo posto un pezzo dei vertici di Bankitalia che fino a ieri, accusano i due vicepremier, si sono fatti passare sotto il naso i più grandi crac bancari degli ultimi anni in Italia. La manfrina è sempre la stessa da anni, le regole si rispettano finché non danno fastidio a certi soliti noti, pronti a diventare dissidenti civili, mentre gli altri sono criminali.

Sanremo 2019, il precedente che inchioda Mahmood: "Perché è stato un complotto. Anche nel 2000...", scrive l'11 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Lo scandalo sul televoto per il Festival di Sanremo ribaltato dalle giurie di esperti e giornalisti ha un precedente pesantissimo nella storia della kermesse. Un caso in cui i pochi della Giuria d'onore sono riusciti a sovvertire l'indicazione della volontà popolare risale al 2000, quando il Festival di Sanremo era stato affidato a Fabio Fazio. Come ricorda Gino Castaldo su Repubblica, quell'edizione fu vinta dagli Avion Travel, cogliendo di sorpresa gli stessi artisti che già si stavano preparando per tornare a casa. La loro faccia stupita al momento della premiazione è la stessa di Mahmood, il rapper italo-egiziano che pur essendo arrivato terzo con il televoto, ha vinto l'edizione del 2019 grazie alla Giuria d'onore. Il caso del Sanremo di Fazio però è ancor più controverso rispetto a quello dell'edizione diretta da Claudio Baglioni, che ha ammesso tutti i difetti del sistema di voto. Quasi vent'anni fa "ci fu davvero il complotto della giuria di esperti, un colpo di mano peraltro regolare, autorizzato dal regolamento". A ogni membro della giuria di qualità bastò infatti mettere zero a tutti gli altri partecipanti e 10 agli Avion Travel, in questo modo il loro giudizio riuscì a ribaltare diverse posizioni. Solo l'anno successivo il meccanismo fu revisionato, portando alla vittoria Elisa. Eppure quest'anno certi brutti vizi sembrano essere tornati. La versione riportata da Repubblica però viene contestata da Roberto Cotroneo, che nel 2000 faceva parte della giuria di qualità. In una lettera pubblicata da Dagospia, Cotroneo respinge l'accusa di aver ordito un complotto per far vincere gli Avion Travel: "Era vero che votavamo per secondi, che conoscevamo il risultato del voto del pubblico - scrive il giornalista - e avevamo il 50% dei voti totali. Ma nessuno ha dato 0 o 10, per alterare la classifica. Abbiamo dato voti alti agli Avion Travel, a Carmen Consoli e a Samuele Bersani (ma pure a Gigi D’Alessio, per chiarire sul fatto che non c’erano atteggiamenti radical chic, Gigi peraltro piaceva molto a Roberta Torre, Goran Bregovic e Carlo Alberto Rossi che diceva che Non dirgli mai era una canzone musicalmente perfetta)". Cotroneo poi si difende dicendo che non conoscevano la lunghezza della classifica e che il giudizio all'interno della giuria non era omogeneo.

Sanremo 2019, Mahmood e lo schiaffo islamico agli anti-Salvini: al Festival vince un inno all'Occidente, scrive Pietro Senaldi l'11 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. Era partito come il festival degli immigrati, con quattro canzoni dedicate al tema e Claudio Baglioni che nella conferenza stampa di presentazione giudicava farsesca la politica del governo sui profughi, e così è finito. Ha vinto Mahmood, rapper milanese di madre sarda e padre egiziano, con una canzone autobiografica, «Soldi», nella quale manda il genitore islamico al diavolo come neppure Salvini sarebbe stato capace di fare, dandogli dell'avido, falso e musulmano allo champagne. Ma questo è irrilevante, perché del testo non importa niente a nessuno, contano solo le origini del giovane, da strumentalizzare alla bisogna. In mezzo, il nulla, il Festival non è mai decollato, è rimasto paralizzato dalle polemiche pre gara, una partenza falsa che ha pregiudicato tutta l'edizione, soffocata dalla paura dei protagonisti di essere processati sulla pubblica piazza per ogni dichiarazione non banale o qualsiasi minimo tentativo di satira. Se questo è il cambiamento, ci si divertiva di più prima. Perciò, per quanto oziosa, la rissa da pollaio sul vincitore dà almeno il senso che qualcosa è vivo. L' arte ha latitato e la politica si è presa il palcoscenico. Va subito detto che il vincitore è innocente. Mahmood ha chiarito che, a dispetto del nome, è italiano al cento per cento. Non ha lanciato slogan né appelli, spalancando gli occhi stupefatto di fronte a ogni tentativo di tirarlo in mezzo e scansando insistentemente ogni polemica. Bravo. Per il resto, ha cantato il suo brano, che più che uno spot per l'integrazione sembra il racconto delle difficoltà di un matrimonio misto, nel quale il giovane prende le parti della mamma e invita il padre a fare il ramadan e girare al largo, rinfacciandogli di essere riapparso nella vita del figlio solo quando questi ha messo insieme i primi quattrini. L' immagine dell'immigrato non ne viene fuori benissimo, specie nei rapporti con gli italiani. Niente slogan, niente appelli - Il brano può piacere o meno, ma non è questo il punto. Si sa che Sanremo premia spesso canzoni per nulla memorabili e poi magari, se sul palco sale un genio come il giovane Zucchero o il Vasco Rossi di «Vita Spericolata», lo relega all' ultimo posto. Quel che resterà è il tentativo della sinistra dell'accoglienza di appropriarsi della vittoria di Mahmood. Il giubilo con cui essa è stata accolta dai progressisti, che l'hanno celebrata con lo stesso entusiasmo e le medesime dichiarazioni che avrebbero riservato all' approvazione dello ius soli, ha svuotato l'affermazione del rapper di ogni connotato artistico, relegandola a mero fatto politico. Non gli hanno fatto un favore. I primi a insinuare che «Soldi» abbia vinto per chi la cantava e non perché meritava sono stati quelli che si sono spellati le mani parlando del trionfo della nuova Italia multietnica. Legittimi sospetti - A complicare le cose e rafforzare i sospetti ci si è messa la questione del televoto. Già, perché secondo il responso di chi da casa pagava per votare, il vincitore avrebbe dovuto essere un altro. Tale Ultimo, romanaccio, per tutta la settimana in testa alla classifica del pubblico da casa, il quale invece è arrivato secondo e, modesto di nome ma non di fatto, si è arrabbiato molto, insultando i giornalisti in sala stampa e la speciale giuria che l'hanno fatto perdere, ribaltando il verdetto popolare. Non è stato simpatico e la sua canzone non era un capolavoro ma ci si può sforzare di capirlo. Mahmood aveva il 14% dei consensi al televoto mentre l'ugola capitolina veleggiava ben oltre il 45%. Insomma, la vittoria del ragazzo che Allah ci ha regalato attraverso padre egiziano degenere e supermamma italiana, che il giovane cita alla prima frase della canzone come neanche avrebbero fatto Al Bano o Claudio Villa, è stata creata in laboratorio, alla stregua di un falso permesso di soggiorno umanitario regalato a chi non scappa da guerre. Si è trattato di un blitz, le cui vittime sono state anche, per onor di cronaca, i ragazzi del Volo, il nostro terzetto melodico che all' estero vende milioni di dischi con la canzone italiana vecchia maniera ma che i congiurati, per snobismo o per non rischiare di passare per sovranisti, hanno voluto punire a tutti i costi. Il popolo e gli esperti - Nessuno scandalo, queste sono le regole, ma forse Baglioni non sbaglia a sostenere che andrebbero cambiate. Se dev'essere festival popolare, voti solo il popolo. Se deve tornare festival della canzone, la parola sia solo agli esperti. In ogni caso, nulla ci salverebbe dalle polemiche, ma ne guadagnerebbe la chiarezza: tutti saprebbero chi è il padre certo del vincitore, egiziano, progressista o musicista che sia. Poiché la gente ha scelto Ultimo mentre i premi della critica, ovverosia dei giornalisti, sono andati tutti a Silvestri e Cristicchi, entrambi immeritatamente giù dal podio, dobbiamo dedurre che decisiva nell' affermazione di Mahmood è stata la scelta della commissione speciale di esperti. Gli ottimati, l'élite del pensiero, esperti di tutto tranne che di canzonette: il giornalista anti-Salvini Severgnini, il regista turco Ozpetek, la bella Pandolfi, il cuoco Bastianich, la conduttrice Raznovich, l'eterna ragazza rossa Dandini, e a salvar la baracca Pagani, musicista impegnato. Una compagnia di giro etnicamente mista e ideologicamente compatta, rispettabile ma dalla quale non ci si poteva aspettare nulla di diverso. Fin dal primo giorno non hanno nascosto di pensare che la vittoria di Mahmood sarebbe stata un pugno in faccia a Matteo Salvini e alla sua politica migratoria. Hanno fatto il loro in coscienza e fede, più in Allah che nella canzone italiana. Pietro Senaldi

Sanremo 2019, don Salvatore Picca il prete pro-Salvini massacra Salvini: "Vinci se sei musulmano e drogato", scrive il 12 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Contro la vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo si è scagliato anche don Salvatore Picca, parroco di San Martino Valle Caudina, in provincia di Avellino, oltre che convinto sostenitore di Matteo Salvini. Già in passato il parroco aveva preso le parti del leader della Lega criticando la copertina di Famiglia Cristiana, che aveva associato il ministro dell'Interno a Satana. Il prete stavolta non ha mandato giù l'esito del festival che ha incoronato il rapper italo-egiziano. Leggi anche: Sanremo 2019, la vittoria di Mahmood può rovinare la Rai: truffa al televoto, risarcimento stratosferico? Don Picca attacca la kermesse sanremese senza mezze misure: "Sarò un sovranista... un fascista... un nazionalista... uno squadrista e tutti gli ista del mondo, ma la canzone di Mahmood davvero non si può sentire... è semplicemente vergognosa... ma si è realmente fascisti e razzisti dicendo che non può vincere il festival della canzone italiana una schifezza del genere e che non si può dire a tutto il mondo che la canzone italiana è ridotta a quello schifo???". Nel terzetto di cantanti arrivati in finale, il prete faceva il tifo per il Volo, che non è andato oltre la terza posizione: "Purtroppo hanno avuto una sola pecca, non erano musulmani, non erano immigrati, non erano pieni di tatuaggi, non erano drogati, erano solo troppo italiani e con una canzone troppo italiana per vincere il festival della canzone italiana".

Sanremo e i nazisinistri, scrive il 10 febbraio 2019 Augusto Bassi. Il Nazionalsocialismo si serviva del Kampfbund für deutsche Kultur di Alfred Rosenberg per governare il condizionamento ideologico attraverso la musica, il cinema, le arti figurative. Esaltazione del mito germanico e annullamento degli artisti degenerati erano i paradigmi operativi, già prima che si imponesse il noto Ministero per l’Istruzione pubblica e la propaganda di Goebbels. Oggi la sinistra internazionalista e mercatista fa lo stesso. Il mito globalista, immigrazionista, meticcista – al servizio del totalitarismo consumista annunciato da Pasolini – sostituisce quello della razza pura con quello della mescolanza. Ma il fine è il medesimo: imporre un sistema di potere attraverso la manipolazione delle idee. Non seguo Sanremo dai tempi di Aleandro Baldi, perché piaceva tanto a mia nonna. Trovo sia secondo solo al circo bielorusso come spettacolo propagatore di mestizia. Ho ascoltato un paio di volte la canzone vincitrice, per zelo deontologico, prima di parlarne. Ma la qualità musicale, deprimente, non è rilevante. Ciò che rileva è l’uso rivoltante di Alessandro Mahmoud – giovane, figlio di padre immigrato, sessualmente ambiguo – come fosse un piede di porco per penetrare nelle case e nelle coscienze con l’immagine trionfante dell’integrazione e della mistione. I viscidi opportunisti giacalustra alla Beppe Sala subito se ne sono serviti: «Bravo Mahmood! Con te ha vinto Gratosoglio, Milano e l’Italia. Ti aspetto a Palazzo Marino per congratularmi di persona». Manca l’Europa, al genuino e disinteressato messaggio del sindaco, ma la consideriamo un’inosservanza sempre e comunque anti-sovranista. Enrico Mentana lo ha ansiosamente usato come attrezzo per insinuare un sarcasmo politico piccino piccino: «Che colpo la vittoria di Mahmood!». Alessandro, nella sua gloria prefabbricata, è una vittima. E’ un aggeggio. Utilizzato con cinismo che meriterebbe l’inferno, solo esistesse, da una “giuria di qualità” che incarna farsescamente la banalità del male. Se il nome del figlio di padre magrebino che massacra a bastonate dei bambini è Tony, come un napoletano, e quello del tunisino che accoltella a morte la fidanzata va celato, il nome dell’artista Mahmood è trascinato a forza in trionfo. Contro la recalcitrante volontà popolare di oggi, di molti vecchiardi leghisti e massaie 5stelle, per spalancare una finestra di Overton sulla volontà popolare di domani, quella dei giovani, già plasmati dal modello perché cresciuti in esso. L’uso commerciale della musica di Mahmood, che piace ai consumatori drogati di Ghali, nel massimo teatro nazional-popolare della “tradizione fané”… è l’ultima scorribanda della aculturazione, della propaganda colonizzatrice nazisinistra.

Sanremo, Matteo Salvini boccia il vincitore: "Io avrei scelto Ultimo". Il vice premier Matteo Salvini commenta il vincitore di Sanremo 2019 e così cala il sipario sul Baglioni bis, scrive Carlo Lanna, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. Politica e intrattenimento si fondono nell’ultima serata di Sanremo 2019. Nel Festival di Baglioni, Mahmood ha trionfato con “Soldi”, stupendo il pubblico e in barba ai pronostici che davano Ultimo e Loredana Bertè tra i papabili vincitori. Anche il vice-premier Matteo Salvini, che ha seguito l’ultima puntata della kermesse, ha commentato la vittoria del cantante italo-egiziano. In un tweet, quindi, esprime un po' disappunto: "La canzone italiana più bella? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite?". La critica da parte del ministro non è passata inosservata. Tanto è vero che lo stesso Mahmood, consapevole del suo status, in conferenza stampa ha risposto. “No, non voglio entrare in nessuna polemica. Io sono un ragazzo italiano al 100%. Sono figlio di madre sarda e papà egiziano”. Sulla questione è intervenuta anche Elisa Isoardi, ex di Salvini, la quale secondo un tweet che ha pubblicato poche ore fa, ha apprezzato la vittoria del giovane cantante a Sanremo 2019. Resta comunque un’Italia divisa in due su questo Baglioni bis.

Sanremo, ecco chi sono gli otto killer della giuria: nomi, cognomi e retroscena sul "golpe", scrive Fabrizio Biasin il 12 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. Eccoci qui a parlare di Sanremo, che è finito solo all'Ariston ma continua nelle menti di chi ama inzuppare il biscottino nella tazza delle polemiche (i politici, i pensatori, chiunque). Il quesito del giorno è: «Dopo quel che è successo è necessario cambiare il regolamento del Festival?». Così risponde Marcello Foa, presidente della Rai intervenuto a UnoMattina: «C' è stata una sproporzione, un chiaro squilibrio tra il voto popolare e una giuria composta da poche decine di persone che ha provocato le polemiche. Questo è il vero punto che deve farci riflettere. Questo sistema funziona o no? Va corretto chiaramente anche perché il pubblico si senta rappresentato». Chiarissimo: Foa accarezza gli italiani e spinge il Festivàl (con l'accento sulla "a") sotto il controllo del televoto, che oggi vale il 50% e domani chissà. Questa probabile decisione, figlia dell'indignazione popolare, può avere una sua ragione, ma rischia di essere assai pericolosa. Nel caso ci troveremmo perennemente di fronte alle vittorie dei cantanti più popolari e mai delle canzoni, così come è probabile che le masse finirebbero col scegliere sempre "Barabba" al posto di "Gesù" salvo poi pentirsene (il tutto con le debite proporzioni, per carità).

Come siamo arrivati a questa situazione perniciosa e un filo retorica? Il motivo è semplice: alla gente hanno dato fastidio le giurie. Quella dei giornalisti («peso» al 30%), quella «d' onore» («peso» al 20%). Quest' ultima era composta da tutta una serie di personalità di un certo livello: c' erano le attrici (Claudia Pandolfi, Elena Sofia Ricci), l'esperto di cucina (Bastianich), il pensatore (Severgnini), le conduttrici tv (Dandini e Raznovich), il regista chic (Ozpetek) e un compositore. Ecco, a parte quest' ultimo, che poi è Mauro Pagani, ci si è chiesti: «Ma che c' entrano Severgnini e tutti loro con la musica? Perché il loro voto vale più del mio e, anzi, il mio lo pago 51 centesimi?». La domanda è legittima, la risposta non ufficiale parecchio "paracula": «Proprio per quello non si chiama "giuria d' esperti", ma "giuria d' onore"», come se cambiasse di molto le cose. No, non le cambia, e il dato di fatto è che il pastrocchio non ha fatto altro che dare spago al buon Ultimo per portare avanti la sua personalissima polemica: «Questo non è un Festival scelto dal popolo, ma dai giornalisti!». Ora, detto che se Toto Cutugno avesse preso così male i suoi secondi posti a questo punto si troverebbe ricoverato in qualche struttura specializzata, il dato di fatto è che la sproporzione registrata tra televoto e giurie rischia di fare più danni della grandine: il televoto in passato ha portato al 2° posto nientepopodimeno che Emanuele Filiberto (cit. Luca Bizzarri) e, forse, bisognerebbe semplicemente «correggere» più che «stravolgere». Su tutta la faccenda il presidente della giuria Mauro Pagani è stato chiarissimo: «Sono sorpreso dalle critiche anche perché noi, quando votavamo, non è che sapessimo come andava il voto da casa o in Sala Stampa». E in questo caso non ha proprio tutti i torti. E poi: «Se siamo tutti di sinistra? Il mio pensiero è sempre stato a sinistra ma non sono iscritto a nessun partito». Sipario. Fabrizio Biasin

Otto e Mezzo, Beppe Severgnini: "Mahmood? Come sono andate le cose in giura a Sanremo 2019", scrive il 12 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Tra chi è finito nel mirino dopo il termine del Festival di Sanremo ci è finito Beppe Svergnini, membro della giuria di qualità che ha sovvertito il verdetto del televoto a favore di Mahmood. E Severgnini, ospite di Otto e Mezzo di Lilli Gruber su La7, dà la sua versione dei fatti: "L’Italia sembra un film di Mel Brooks. Si passa dalla Diciotti al voto di Sanremo", premette il giornalista del Corriere della Sera. Dunque, nega ogni ipotesi di ribaltamento volontario dell'esito del televoto, ricordando come i giurati in platea all'Ariston non conoscessero la classifica della sala stampa. Versione a cui però non è impresa così semplice credere. "Abbiamo votato individualmente la canzone che ci piaceva di più. Io ho sentito questa canzone, mi ha colpito il ritmo, a me di solito non piace il rap. Vedevo questo ragazzo non italiano, ma con una mamma sarda e nato a Milano, che con una voce molto particolare se la prendeva col padre e diceva tu mi hai mollato, sei andato via. Una canzone che mi ha colpito", ha affermato Severgnini. Dunque, infilza anche Luigi Di Maio: "Con tutto l'affetto e lui fa il Ministro del Lavoro, io a Sanremo potevo andare pure a cantare. Tutto questo è surreale, è evidente. Sono andato a Sanremo perché è bello, perché piace agli italiani e l’Italia e gli italiani piacciono a me. La novità è che sulla pagina Facebook di Di Maio ero pronto a ricevere migliaia di insulti, invece no. Per la prima volta ho visto che molti commenti erano “ma in che mondo viviamo, è il mondo parallelo?”. Con tutto quello che sta succedendo, il governo si occupa della scelta della giuria", ha concluso Severgnini.

Sanremo, Barbara Palombelli svela la verità su giuria e televoto: "Sapete che quando ero io al Festival...", scrive il 12 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Barbara Palombelli con la consueta sintesi ma anche con efficacia di dice la sua su Sanremo. E lo fa con cognizione di causa. "Come sanno tutti, il televoto assoluto finisce nelle mani di chi ha più potere... per questo furono istituite le giurie, per sventare le vittorie comprate...". La conduttrice di Stasera Italia ricorda un'esperienza vissuta personalmente alla kermesse canora: "Qualche Sanremo fa, con re Baudo, noi giurati siamo stati fischiati e aggrediti... ps se fai una giuria di musicisti, i conflitti di interesse ti travolgono". Dunque dà indirettamente ragione a Striscia la notizia sulla battaglia contro Claudio Baglioni direttore artistico di Sanremo: un cantante alla guida del Festival...

Sanremo 2019, il presidente della giura d'onore confessa: "Certo, ho votato Mahmood", scrive il 12 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Si torna ancora alla finalissima del Festival di Sanremo e alla contestata vittoria di Mahmood col brano Soldi. Un caso che, come è arci-noto, ha anche assunto delle sfumature politiche: nel mirino in particolare la Giuria d'onore, che avrebbe sovvertito il "voto popolare". Sulla vicenda torna Mauro Pagani, musicista e presidente proprio della Giuria d'onore della kermesse. Intervistato a Un giorno da pecora, sulla vittoria di Mahmood commenta con ironia: "Eravamo pilotati dai servizi segreti egiziani, c'era un ponte radio col Cairo...se non fosse triste questa cosa la troverei divertente". Il riferimento, ovviamente, è al padre egiziano di Mahmood. Dunque, Pagani aggiunge: "Mahmood è nato in Italia ed è cittadino italiano. Perché tutta questa bolgia? Se dobbiamo esibire il certificato di nascita dei genitori allora voglio anche la fedina penale". Quando gli chiedono se Pagani si aspettasse tutte queste critiche, risponde: "No, sono sorpreso. Anche perché noi, quando votavamo, non è che sapessimo come andava il voto da casa o quello della sala stampa". Infine gli viene chiesto per chi abbia votato: "Per Mahmood, ero un gran sostenitore del suo pezzo", rivela Pagani. Qualcuno aveva il minimo dubbio al riguardo?

Sanremo 2019, Mario Giordano e il brutto sospetto sul golpe rosso in giuria: "Così hanno fregato i puzzoni", scrive il 12 Febbraio 2019Libero Quotidiano. Anche Mario Giordano parla (e si indigna) del Festival di Sanremo. Il conduttore di Fuori dal coro su Rete4 critica pesantemente il meccanismo che penalizza il televoto a favore della giuria d'onore. "Il voto popolare non conta una cippa, e allora questa giuria lo ribalta e decide che deve vincere Mahmood". Il "salotto vip" che regala la vittoria al "Marocco pop" del cantante italo-egiziano (prontamente strumentalizzato da ambienti culturalmente e politicamente attigui ai giurati stessi per bastonare a dovere Matteo Salvini) è, per Giordano, lo specchio di un atteggiamento molto diffuso anche a livello politico e finanziario, e per questo assai più pericoloso: "Mi viene il sospetto che questo metodo lo vogliano applicare anche ad altri campi: i puzzoni votano ma poi il salottino dei sapientoni dice che il voto popolare non conta niente". In sottofondo non ci sono le canzonette dell'Ariston, ma il mantra del rigore e del politicamente corretto dei "tecnici".

Che tempo che fa, cosa sussurra la Littizzetto a Mahmood dietro le quinte: il video rubato, avevate dei dubbi? Scrive il 12 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Un giorno dopo la contestata vittoria al Festival di Sanremo con il brano Soldi, Alessandro Mahmood ha aperto la puntata di Che tempo che fa di Fabio Fazio, ma prima di entrare in studio è stato intrattenuto dietro le quinte da Luciana Littizzetto, la quale, gli ha inaspettatamente rivelato di essere una sua fan. Come mostra il video postato da Gossip e Tv, il cantante vincitore della kermesse dell'Ariston si è ritrovato faccia a faccia con la comica, la quale gli ha detto: "Farò sempre il tifo per te", e poi si è lasciata andare a un gesto di ovazione. Alessandro Mamood non si aspettava una simile manifestazione di affetto, infatti su due piedi non è riuscito a risponderle e ringraziarla. Ma ha rimediato subito dopo, condividendo il video di quel breve incontro sulle sue Instagram stories dove ha scritto "Lucianina TVB". 

Arnaldo Capezzuto per il 24 il 10 febbraio 2019. L'algoritmo della "Bestia", si è messo in moto e gira al massimo. E' bastato un post sui social di Matteo Salvini sul vincitore della 69esima edizione del Festival di Sanremo, l'italo-egiziano Mahmood per scatenare sul web il popolo del rancore dell'odio.  “Mahmood............... mah............ La canzone italiana più bella?!? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite??”. Questo il messaggio del post del "Capitano", sufficiente a scatenare i fans assatanati che in poche ore cliccano 51.617 mi piace, 4104 condivisioni e scrivono oltre 21.952 commenti dai contenuti sprezzanti verso il trionfatore del Festival della canzone italiana. Motivo? Nelle vene di Mahmood circola un po' di sangue egiziano.

La fiera comincia con Patrizia: “Che coincidenza, ha vinto un Egiziano che l'anno scorso era stato eliminato. Anche a non voler essere maligni si capisce che è un risultato pilotato”.

Tocca ad Andrea: “Da qualche parte, la sinistra doveva prendersi la sua rivalsa dopo tutti gli schiaffi subiti”.

Luciano ne è certo: “Caro Matteo, lo hanno fatto vincere per colpirti di proposito. Domani bisogna far cadere il governo e prenderci l'Italia”.

C'è la voce di Margherita, in controtendenza: “Sono proprio felice di questa vittoria Sanremese, vuol dire che non tutti gli italiani hanno pregiudizi. Quando le culture si mescolano il risultato è sempre molto interessante ed arricchente per tutti”.

Inutile dire che il suo commento viene sommerso da insulti. Angelo invece lancia l'allarme: “Si ha vinto un egiziano, vuol dire che i musulmani hanno votato in massa, dunque dobbiamo dedurre che sono più di noi”.

Poi c'è Alberto: “Diciamo la verità: ha vinto solo perché si chiama Mahmod perché se si fosse chiamato Rossi con una canzone così brutta non se lo sarebbe cacato nessuno!”.

Diego è duro e perentorio: “Le canzone “italiana” più brutta nella storia della musica di sanremo... vincitore Mahmood... oggi: fine della musica Italiana !!!”.

Sulla stessa lunghezza d'onda Elisabetta: “E dopo questo Sanremo ...si può dire che la vera musica italiana è finita”.

Domenico attacca: “È ovvio che si tratti di puerile manovra politica per alimentare ancor di più la polemica a favore dell’immigrazione”.

Nadia è furibonda: “Che schifo probabilmente è stato un festival contro gli Italiani”. Nunzio risponde a chi dissente (pochi) con Salvini: “Scusate ma quando si diventa ministro dell'interno è vietato avere ed esprimere proprie preferenze? Ma siamo in democrazia? E poi il fascista sarebbe lui.. Boh”.

Rita la butta sui massimi sistemi: “I media sono in mano a lobby con interessi contrapposti tra loro, ci sono islamisti, LBGT e immigrazionisti per cui stampa, cinema e TV devono avere sempre riferimenti a questi gruppi altrimenti niente finanziamenti. Notare i film e le fiction degli utlimi anni dove compare obbligatoriamente almeno: uno di colore, uno/a omosessuale, un immigrato. Qualcuno narra di italiani disoccupati? Pensionati mendicanti?”.

E poi Mimmo: “Canzone orrenda festival del dattero...Non della canzone Italiana....chi l'avrà votato????”. Tommaso taglia corto: "Prima ci rubano il lavoro e ora ci rubano pure il Festival di Sanremo. Dov'è il nostro orgoglio?".

Carlo attacca a testa bassa: Da parte di un emittente tristemente comunista cos’altro potevamo aspettarci?? vittoria manovrata ad arte, per far passare il solito messaggio buonista ed inutile! e noi dobbiamo ancora pagare il canone? È una vergogna!".

Alessandro lo scrive a chiare lettere: "Mahmood, vinca San Radaman".

E, infine, Giuseppe: "E' chiaro che è una manovra comunista per mettere alle corde il nostro Capitano, lui però con un twiit li ha scoperti e denunciati. Ora un'inchiesta e togliere il premio alla spia islamica".

Si può anche piangere, se uno alla fine si sente meglio. Certo l'anno scorso ha vinto un albanese e quindi c'è chi ora accusa di strumentalizzare per fini politici. Si, ma l'anno scorso non soffiava ancora questo vento infame.

Questo è lo spaccato inquietante, drammatico, tragico di dove è finito il Paese quasi senza speranza. Il peggio che poteva uscire dalle fogne del passato che poi non è mai davvero passato.

Massimo Falcioni per tv blog l'11 febbraio 2019. A Non è l'Arena va in scena il vero Dopofestival, con Sanremo commentato da Vittorio Sgarbi e Roberto D'Agostino. Sulla vittoria di Mahmood: "Il voto che conta è quello del popolo". Il giornalista: "Ultimo sembra Vendola". E alla fine il vero Dopofestival lo realizza La7. A Non è l’Arena va in scena il commento ‘a bocce ferme’ di Sanremo, con Massimo Giletti che cavalca le polemiche del giorno dopo incentrate sulla vittoria di Mahmood a scapito di Ultimo. In campo l’artiglieria pesante, da Roberto D’Agostino a Vittorio Sgarbi, passando per Luca Telese. Il taglio del dibattito è politico. Si punta il dito contro la giuria d’onore, ‘colpevole’ di non aver rispettato il giudizio popolare, che tramite televoto aveva deciso tutt’altro. “Il voto non può che essere popolare”, tuona Sgarbi. “La poesia popolare appartiene a tutti, non ad alcuni specialisti. Va invalidato il giudizio, il voto che conta è il voto del popolo". Per il critico d’arte è una sorta di déjà-vu. Nel 2003 proprio su La7 realizzò un Dopofestival alternativo dal titolo Pluto. Una provocazione nei confronti di Pippo Baudo che prima l’aveva ingaggiato e poi scaricato dalla trasmissione di Raiuno. Sgarbi litiga con Telese, mentre con D’Agostino l’intesa ormai è totale. I tempi de L’Istruttoria - dove volarono schiaffi e bicchieri d'acqua - sono lontani. “Se il festival perde la sua natura nazionalpopolare è finito”, afferma il fondatore di Dagospia. “Io pago quasi un euro per dare il mio voto, poi arrivano questi altri che mi rovesciano tutto. Il vero problema è questo conflitto continuo tra coloro che si sentono una élite e il voto popolare. Questa cosa qua fa infuriare”. Al talk non ci sono i cantanti, "recuperati" in formato video come nel caso di Ultimo. Giletti mostra il suo battibecco coi giornalisti in conferenza stampa. “Assomiglia a Vendola in maniera impressionante” scherza Dago, che poi rivela: “Nei giorni precedenti tra lui e i giornalisti è stato uno scazzo continuo. Si è inimicato la giuria che ha votato. Ha pagato il suo modo coatto di rispondere”.

 Michela Tamburrino per la Stampa l'11 febbraio 2019. Poteva piacere la canzone di Mahmood a Matteo Salvini? Ma sì che poteva. Invece no, la sua preferenza per Ultimo ha creato il corto circuito. Al Festival di Sanremo mai così circonfuso di retropensiero para-politico e mai così dipendente dai giudizi social, quello che era canzonetta si è trasformato in battaglia di principio. I l primo Festival sovranista si è quasi trasformato nel primo Festival rivoluzionario. In tutto questo pasticcio ci è andato di mezzo il giovane cantante Mahmood, italianissimo come ha detto sorridendo con il premio in mano, che ha portato in gara Soldi, ritornello orecchiabile, con tanto di clap.

Salvini ma perché quest' altro tweet contro. Guardi che Mahmood ci è rimasto male.

«Ha ragione, infatti mi sono fatto dare il suo numero di telefono e l'ho chiamato. È un ragazzo di vent' anni, comincia adesso, mi sono informato sul suo percorso artistico e gli ho voluto dire direttamente che si deve godere la vittoria e che sono felice per lui».

E che le ha detto Mahmood?

«È un ragazzo italiano che suo malgrado è stato eletto a simbolo dell'integrazione. Ma lui non si deve integrare, è nato a Milano. Lo hanno messo al centro di una storia che non gli appartiene».

Magari senza quei tweet di endorsement per Ultimo tutto questo non sarebbe accaduto...

«La polemica politica strisciante e pretestuosa non arriva da me. Guardi solo la composizione della giuria d' onore».

Ma ancora con la giuria d' onore? Era nata per bilanciare il televoto che poteva penalizzare le canzoni di qualità. Anche Baglioni ne parla come di un istituto da rivedere, anzi, si è capito che, in caso, lui la toglierebbe l'anno prossimo.

«Appunto. Una giuria senza senso, mancava solo mio cugino e sarebbe stata completa. Come se mi chiamassero ad attribuire il Leone d' Oro. Sanremo deciso da un salotto radical-chic».

Ma no erano tutti professionisti esperti di musica. Non bisogna essere cantanti per capire di canzoni...

«Ma non è così, non voglio fare nomi però non si sono distinti mai per essere gran conoscitori di cose musicali. Quando uscirà il prossimo film di Özpetek voglio vederlo e poi faccio la critica».

Alla giuria d' onore si è unito il voto dei giornalisti. Va male anche quello?

«Il voto dei giornalisti di musica è giusto, sono lì per quello, valutare le canzoni. Invece il volere della gente che ha pagato per esprimersi è stato stravolto dalla giuria d' onore. Prendiamo Loredana Berté, non so perchi voti ma a me piace. Lo Stato Sociale mi mette allegria».

Anche «Soldi» mette allegria. Lei ha detto che non rappresenta la canzone italiana. Perché la scimmia che balla la rappresentava?

«A me non dispiaceva, certo non era canzone d' autore. Oggi leggevo i commenti della gente, al 90% erano perplessi. Non vorrei ci fossero dietro altri interessi economici, qui si smuovono milioni. Da fan di Baglioni mi piacerebbe che l'anno prossimo ci fosse maggiore trasparenza. Fossi in Ultimo l'avrei presa malissimo...».

Infatti, a differenza dei ragazzi del Volo, l'ha presa malissimo ed è stato un brutto spettacolo. Livoroso, cupo, aggressivo non si è neanche congratulato con il vincitore.

«Ma io lo capisco, finisce con l'amaro in bocca, un rigore al novantesimo. E mi dispiace perché una marea di gente scrive che l'han fatto per fare un dispetto a me. E questo non va bene. Ma Ultimo andrà benissimo è molto scaricato, ripeto la vera vittima è Mahmood etichettato come il cantante degli sbarchi. Qui sta lo specchio del Paese, nella contrapposizione popolo-élite».

Mi sembra azzardato il rimando. Affrontiamo invece un altro scontro. Elisa Isoardi la sua ex fidanzata ha postato così: «Mahmood ha vinto. La dimostrazione che l'incontro tra culture differenti genera bellezza». Come la legge?

«Non commento. Ho 46 anni e non commento. Che questo ragazzo, per il quale mi sono sentito in torto tanto da chiamarlo sia stato usato dalla sinistra, ci sta. Chi mi conosce potrebbe osservare un rispettoso silenzio».

Sanremo, un problema tecnico durante esibizione di Mahmood. Bisio prova a stemperare la tensione. Ecco cosa è successo, scrive Luisa De Montis, Sabato 09/02/2019, su Il Giornale. Problema tecnico durante l'esibizione di Mahmood al Festival di Sanremo. Il microfono non funziona, quindi è costretto a interrompere e ripartire. "E' il bello della diretta...", ha detto Claudio Bisio intervenendo sul palco dell'Ariston per allentare la tensione e le proteste del pubblico perché un problema tenico aveva costretto Mahmood a interrompere subito l'esecuzione del proprio brano. Era infatti regolarmente partita l'orchestra ma il microfono a disposizione dell'artista non andava. Di qui l'interruzione e poi la ripartenza, questa volta senza intoppi fino alla fine.

Michele Monina per L'Inkiesta l'11 febbraio 2019. Negli anni sessanta, è noto, la Cia utilizzò la droga per anestetizzare i movimenti di controcultura. Non solo per anestetizzarla, a dire il vero, anche per distrarla. Del resto ce lo insegnano i maghi sin dagli albori dei tempi. Vuoi far sparire la carta nella manica della giacca? Semplice, gesticola molto animatamente con l'altra mano, così da far spostare lo sguardo lì, nel mentre fai quel che devi fare. Bene, ieri ha vinto Mahmood, Alessandro Mahmood. Nato a Milano, fanculo chi si è attaccato al suo essere figlio di un egiziano per dimostrare in rete tutta la propria grettezza e ignoranza. L'anno scorso ha vinto un albanese e neanche ve ne siete accorti, capre. Alessandro Mahmood di Milano è un bravo autore, con già delle hit nel carniere. Ha una bella voce. Con lui lavorano due hitmaker mica da ridere, gente che sa che suoni girano oggi, parlo di Dardust, al secolo Dario Faini da Ascoli, Dio lo perdoni, uno che ha cucito successi nella sua sartoria di canzoni per praticamente mezzo panorama pop italiano, e Charlie Charles, quello che invece le ha cucite per gente come Sfera Ebbasta e Ghali. Insomma, tutto bello dritto. In apparenza. Perché succede questo, per vincere il Festival tocca mettere d'accordo una giuria cosiddetta di qualità, diretta dal maestro Mauro Pagani, e poi composta da un circo di gente che con la musica c'entra poco più che un cazzo, anzi, poco meno. Joe Bastianich, quello di MasterChef, Camila Raznovich, quella del Kilimangiaro, Claudia Pandolfi, attrice, Beppe Severgnini, giornalista, Serena Dandini, conduttrice tv, Elena Sofia Ricci, attrice, Ferzan Ozpetek, regista. Poi tocca mettere d'accordo la Sala Stampa. Sì, quella Sala Stampa di schiene dritte, talmente dritte da non fare domande, anzi, da ritwittare manco fosse oro colato ogni battutina della direttrice De Santis o di Claudio Baglioni inerente al presunto conflitto di interessi. Una sorta di amplificatore del pensiero unico salzaniano. Quella stessa Sala Stampa, sempre per dire, nella quale ieri circolava il ciclostile del contratto firmato da Claudio Baglioni con la Rai per la direzione artistica di questo Festival, contratto invero firmato da Mario Orfeo e non dalla De Santis, all'epoca non alla guida della rete ammiraglia di casa Rai, ciclostile di cui ovviamente nessuna delle schiene dritte ha sentito necessità né di fare menzione nei propri articoli né di chiedere ragione ai diretti interessati durante la conferenza stampa. E dire che il contratto indicava esattamente le clausole riportate prima qui su Linkiesta e poi replicate da Striscia la Notizia. Striscia la Notizia che ha scoperto addirittura una ulteriore clausola di trasparenza che annullerebbe l'effetto della prima, sorta di obbrobrio giuridico da far rizzare i capelli in testa a un qualsiasi giurista. Poi, a dirla tutta, quel ciclostile lo si poteva trovare un po' per tutti i luoghi topici di Sanremo, ma evidentemente la distrazione era davvero alta, ieri. Terza parte in causa da convincere, ovviamente la più tosta da convincere, il pubblico da casa, che nel giorno della finale pesa per il cinquanta per cento (la giuria di qualità pesa il venti e la Sala Stampa il trenta). Insomma, qualcosa di difficile, molto difficile. Anche perché puoi usare tutti i trucchetti che ti pare, come piazzare chi vuoi portare in alto all'inizio del programma, ma se la canzone che ha portato fa cagare non c'è proprio nulla da fare. Un esempio? Nek si è piazzato al diciannovesimo posto, Enrico Nigiotti al decimo. Nonostante il primo, decisamente caro a Ferdinando Salzano, si sia sempre esibito presto, il secondo spesso dopo Marzullo. Tanto per non rimanere vaghi: Nek si è esibito per terzo martedì, Nigiotti per ventitreesimo. Nek si è esibito per quinto mercoledì, Nigiotti per secondo il giovedì (i BIG sono stati divisi in due tranche). Nek si è esibito per dodicesimo il venerdì, Nigiotti diciottesimo. Nek si è esibito per sesto durante la finale, Nigiotti ventunesimo. Lì a fregare Nek è stato solo Nek, non certo la posizione in scaletta. Succede. Il popolo è sovrano. Torniamo quindi alle classifiche finali. Grazie alla somma dei voti della Giuria di Qualità, della Sala Stampa e del Televoto ha vinto Mahmood con la canzone Soldi. Applausi. Bene. Occupiamoci del voto di ieri sera. Sappiamo che a vincere è stato Mahmood, su Ultimo, classificatosi secondo, e su Il Volo, classificatosi terzo. Vediamo nel dettaglio come è andato il voto, tanto per farci una idea di come ha funzionato. Mahmood ha vinto con il 38,9%, Ultimo ha preso il 35,6% e Il Volo il 25,5%. Il 38,9% di Mahmood è così composto: 63,7% sommando voto della Giuria di Qualità e Sala Stampa,14,1% dal televoto. Ultimo ha preso il 24,7% dalla Giuria di Qualità e Sala Stampa e il 46,5% dal televoto. Il Volo ha preso l'11,6% dalla Giuria di Qualità e Sala Stampa e il 39,4% dal televoto. Cioè, fosse stato per il televoto la classifica sarebbe stata assai diversa. Primo Ultimo, secondo Il Volo e ultimo, staccato di molto, Mahmood. Ora, lasciando perdere le migliaia di messaggi che si possono leggere in rete di quanti hanno provato a votare e si sono visti respingere il proprio messaggio, c'è un particolare che balza agli occhi. Questo. Nel giro di poco più di un mese e mezzo Mahmood si è trovato due volte a vincere Sanremo, prima nei Giovani e poi nei Big, e questa è una notizia, ma si è trovato a vincere prima nei Giovani e poi nei Big perdendo clamorosamente al televoto e andando avanti grazie al voto di chi, in effetti, un po' influenzabile è. A dicembre, infatti, a vincere al televoto erano stati i La Rua, con il 35.8%, mentre a lui era toccato un misero 5,03%. In quel caso il voto era dato dalla somma del televoto con il voto della giuria televisiva, quella con Fiorella Mannoia, Luca Barbarossa, Luca e Paolo e Annalisa, e la Commissione Musicale presieduta dallo stesso Baglioni. Come direbbe qualcuno, coincidenze. Ora, sia chiaro, anche i La Rua, come Dardust, sono di Ascoli. Figuriamoci se proprio io che sono di Ancona mi potrei mai permettere di difenderli. Ma qualcosa non torna. Del resto, che le giurie siano influenzabili ce lo avevano spiegato perfettamente ai tempi della vittoria di Arisa con Controvento nel 2014, quando proprio un lavoro scientifico della Giuria di Qualità presieduta da Paolo Virzì e composta dallo scrittore Aldo Nove, dall'attrice Lucia Ocone, dal musicista Paolo Jannacci, dalla scrittrice Silvia Avallone, da Piero Maranghi, amministratore delegato di Classica, dall'attore Silvio Orlando, dalla vj Giorgia Surina, dal violinista Anna Tifu e da Rocco Tanica degli Elio e le Storie Tese. In pratica, in un Sanremo che sembrava dovesse vincere a man basse Francesco Renga, la giuria voto in modo tale da farlo uscire dal podio, dandogli tutti zero e premiando invece la stessa Arisa, Raphael Gualazzi e Renzo Rubino. Insomma, Mahmood, ragazzo di indubbio talento sembra anche essere molto amato dalle giurie, talento nel talento. Dargli contro per le sue origini è una aberrazione ingiustificabile, senza se e senza ma. Prendere per buona la favoletta del cantante che dal nulla spodesta il vincitore designato, specie dopo tutte le polemiche di cui sopra, è invece gesto di ingenuità inaudita. Vuoi vedere che proprio il cambio dell'azienda indicata a gestire televoto e giuria, da quest'anno la neonata e snellissima Noto Sondaggi, come raccontato qui, non sia stato il frutto di una coincidenza? Chissà, magari anche di questo si potrebbe chiedere conto a Teresa De Santis durante l'audizione prevista oggi alla Commissione di Vigilanza Rai sul presunto conflitto di interessi. Chiedere è lecito. Ci sono tre suggestioni possibili. Quella che mi fa venire in mente la droga e la Cia: Mahmood vincitore per andare contro il governo, vedi la faccenda migranti. Guardi le mosse che qualcuno fa con la mano destra, mentre con la sinistra nasconde le carte nella manica: magia. Quella che mi fa venire i brividi: Mahmood vincitore al posto dello scomodo Ultimo, scomodo per la faccenda del conflitto di interessi, come dire: la nave affonda lasciamo a bordo il vincitore e saltiamo tutti sulle scialuppe di salvataggio, tanto abbiamo con noi i forzieri pieni d'oro. Quella che mi sembra la più plausibile: Mahmood vincitore al posto dello scomodo Ultimo, scomodo per la faccenda del conflitto di interessi, ma non per questo vincitore super partes, perché già entrato nella medesima orbita, come raccontato ieri qui , come dire: vogliamo tutto. Certo, poi c'è il Caso, il Fato, le Parche, il Destino, il Caos, il cazzo che vi pare. O più semplicemente le coincidenze. 

Da “Circo Massimo - Radio Capital” l'11 febbraio 2019. Finito il festival della canzone, è cominciato quello delle polemiche. Ultimo si scaglia contro la giuria, polemizza Loredana Bertè che non è arrivata tra i primi tre. E, ovviamente, si muove anche il governo, prima con Salvini, critico per la vittoria di Mahmood, e poi Di Maio, per cui Sanremo "ha evidenziato la distanza tra popolo ed élite". "È un periodo nel quale pare che qualunque parere che non sia il parere popolare tout court è visto con sospetto. E c'è la tendenza, secondo me non bellissima, secondo cui proprio il parere popolare deve vincere su tutto", commenta a Circo Massimo, su Radio Capital, il presidente della giuria d'onore del Festival Mauro Pagani, che alle spalle ha cinquant'anni di lavoro come polistrumentista, produttore e arrangiatore, "in qualunque forma d'arte, soprattutto per le novità, il parere degli esperti è fondamentale per lo sviluppo della storia di quell'arte stessa. Pensate a cosa sarebbe stato, nella storia della pittura, senza le segnalazioni dei critici. Il parere di uno che dice provate ad ascoltare questo o quello è fondamentale". "Le reazioni da parte dei cantanti", chiarisce l'ex polistrumentista della PFM, "sono comprensibili: perdere non piace a nessuno, e dietro a Sanremo ci sono tanto lavoro e tante aspettative, e le delusioni sono cocenti, bruciano". Pagani respinge le critiche alla giuria, rimarcando come ci fosse "un tasso di competenza più alto di quello sospettabile", e ne rivendica il giudizio: "I pezzi ci erano stati mandati, la scelta di ognuno di noi è stata consigliata da un ascolto ponderato e ripetitivo di ognuna delle canzoni. Da subito, non c'è stato dubbio né tentennamento nel dare la vittoria a Mahmood. Per noi, e per me personalmente, 'Soldi' è la canzone più moderna, meglio realizzata e più interessante del festival. È stata premiata la modernità ma anche la qualità. Io faccio l'arrangiatore, e quello di 'Soldi' è di gran lunga l'arrangiamento più moderno e interessante. In più, ed è un dato che ho scoperto dopo perché non sono un grande frequentatore delle radio commerciali da giovedì, quindi dopo le prime due serate", aggiunge, "il pezzo di Mahmood è il più ascoltato per distacco nell'airplay. Negli ultimi anni si è detto che bisogna uscire dalla gabbia dei pezzi sanremesi e che bisogna ringiovanire, e questo mi sembra un caso di felice combinazione delle due cose". Il brano del cantante di origini iniziate ha fatto storcere il naso anche per le citazioni in arabo nel testo: "Sanremo è una gara, con un regolamento. E il regolamento prevede che ci possono essere citazioni in lingue straniere", spiega Pagani, "Cos'è, in inglese va bene e in arabo no? Lo trovo un atteggiamento provinciale". Alle polemiche su Loredana Berte, il collaboratore storico di Fabrizio De Andrè precisa: "È il festival della canzone, non dei cantanti. Sono i brani ad essere in gara. L'interpretazione conta ai fini dell'esposizione del brano, però chi sosteneva la Bertè, ad esempio, parlava della canzone o della Bertè? Il confronto dovrebbe essere fra 'Soldi' e 'Cosa ti aspetti da me'. Pur avendo grande stima di Gaetano Curreri e di un certo tipo di rock, ho trovato molto più coinvolgente il pezzo di Mahmood che quello di Loredana". A Ultimo, che si è lamentato per la decisione della giuria nonostante il televoto, Pagani risponde che "il meccanismo di voto è spiegato nel regolamento. L'anno scorso Ultimo è arrivato primo (nella categoria Nuove Proposte, ndr) con lo stesso regolamento. Se va bene quando si vince, va bene anche quando si perde. Lui è giovane, e nella vita bisogna anche imparare a perdere. Altrimenti non si concorre, si fanno altre cose, ed è una scelta rispettabile". Nonostante tutto, il presidente della giuria del Festival vede il lato positivo anche nelle polemiche: "In un paese in cui si fa poca musica, il fatto che ci sia una settimana all'anno in cui il Paese si appassiona alla musica, ascolta, sceglie, si divide, con questa passione quasi da stadio, è un dato fondamentale che non dobbiamo perdere".

Luigi Mascheroni per “il Giornale” l'11 febbraio 2019. A Sanremo è successo quello che in campi diversi, ma allo stesso livello, accade in tutto il Paese. Sanremo è Sanremo, che è l'Italia. E succede che a Sanremo, Italia, una minoranza, non chiamatela neppure élite, è una pseudo élite, sovverte il (tele)voto del pubblico. Altri Paesi sono esperti di golpe, noi ci accontentiamo per fortuna di ribaltoni, in politica e non solo. E così il giovane Mahmood, trionfatore finale, per il televoto era solo terzo con il 14,1% delle preferenze, mentre il vincitore sarebbe stato Ultimo, con il 46,5%. Praticamente quattro volte di più. Poi sono arrivati i voti della sala stampa e della Giuria di qualità, e tutto è cambiato. E mai come in questo caso i social sono insorti, ritenendo ingiusta l'inversione della decisione del pubblico sovrano. Cioè: tu per 69 anni mi vendi il Festival della canzone italiana come l'evento «nazionalpopolare» per eccellenza, poi però del «popolare» te ne freghi e affidi la decisione più importante, quella del vincitore, a una ristrettissima cerchia di addetti ai lavori. Come se si trattasse di una Mostra dell'arte cinematografica di Venezia qualunque... Lì sì che devono votare e decidere registi, attori, produttori, sceneggiatori. Ma a Sanremo, se è «nazionalpopolare», sceglie il popolo. O no? No. Sceglie, alla fine, una numero ristretto di giornalisti della sala stampa (la casta più ideologizzata che esista oggi in Italia) e un numero ancora più ridotto di intellettuali (otto; in numeri arabi: 8), espressione di una Giuria d'onore presieduta da Mauro Pagani, e va benissimo, e composta da Ferzan Ozpetek, Camila Raznovich, Claudia Pandolfi, Elena Sofia Ricci, Beppe Severgnini e Serena Dandini, lasciando perdere Joe Bastianich, nomi che letti in fila uno dopo l'altro - mancavano solo Saviano, Gad Lerner e la Boldrini - pensi subito al congresso ombra, commissione Cultura, del Pd. Ecco, è esattamente questo ciò che infastidisce. Non che abbia vinto un (bravissimo) ragazzo italiano il cui padre solo per caso è egiziano. Ma che ciò lo abbia deciso non il pubblico pagante (0,50 centesimi per ogni chiamata da telefono fisso) ma una pseudo élite completamente scollegata dal Paese (come lo sono mediamente i giornalisti, di qualsiasi cosa si occupino: politica, economia, cinema, musica e libri non ne azzeccano una) e un salottino pariolino, o Solferino, cultural-chic. «Noi siamo noi, e voi non siete un...». Per farla breve. Circa duecento giornalisti e otto giurati hanno praticamente annullato i desiderata di due milioni di telespettatori (circa), negando la democrazia. Festivaliera, si intende. Un bel problema. Tanto che lo stesso direttore artistico del Festival, Claudio Baglioni, durante la conferenza stampa conclusiva ha ammesso che forse è meglio cambiare la formula della votazione: «Se il Festival volesse essere una manifestazione popolare potrebbe anche essere gestita solo dal televoto». Ma va? Da parte sua il Codacons, l'associazione dei consumatori, oggi presenterà un formale esposto all'«Autorità per la concorrenza»: «Il voto del pubblico da casa è stato di fatto umiliato, con conseguenze enormi sul fronte economico, considerato che gli spettatori hanno speso soldi attraverso il televoto, reso inutile dalle decisioni di altre giurie». La domanda è legittima. Ma è corretto far vincere un cantante che ha appena il 14% del voto delle persone da casa solo perché Severgnini non sopporta Salvini? Si chiamano capricci. Poi non dite: «Ma Mahmood meritava comunque...». Il voto da casa si paga. Se non serve a niente, meglio toglierlo. «Cosa c'entra Salvini?», dite. C'entra. Perché la politicizzazione della vittoria di Sanremo (in un'edizione che ha strumentalizzato da subito il tema dell'immigrazione) c'è stata, eccome, e da entrambe le parti. Lo ha fatto chi, da destra, si domanda ironicamente se sia una coincidenza che a vincere a Sanremo al tempo di Salvini e dei migranti sia un italo-egiziano che canta con tono arabo il marocco-pop... E lo ha fatto chi, da sinistra, ha twittato di godere per una vittoria che andrà di traverso al Capitano. Comunque ne riparliamo alle elezioni europee, quando non ci sarà una Giuria di qualità per ribaltare il voto popolare (e sovrano, più che sovranista) come accade in Riviera. Ve lo immaginate? Il risultato delle urne passato al vaglio di una giuria composta da Eugenio Scalfari, Gustavo Zagrebelsky e Michela Murgia... Non diciamolo a voce alta.

Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” l'11 febbraio 2019. Quando, con questi chiari di luna, un programma tiene incollati al teleschermo per cinque sere un telespettatore su due, è un grande successo. Se poi quel pubblico ringiovanisce, com' è accaduto quest' anno, coinvolgendo centinaia di migliaia di ragazzi ad ascoltare buona musica, e tutta italiana, è un doppio successo. E il merito è soprattutto di Claudio Baglioni, che di musica se ne intende da qualche anno. Tutto il resto fa parte del gioco: le polemiche sul regolamento, la giuria di qualità e la sala stampa che ribaltano il televoto, gli sconfitti che fanno gli offesi, i conflitti d' interessi (giusto denunciarli, ma chi vuole gli ospiti "big" deve per forza passare dalle grandi agenzie, sempre più oligopolistiche). Non, invece, le intromissioni di un vicepremier incontinente che si crede il padrone della Rai e mette becco su tutto, anche su chi deve vincere, come la deve pensare il direttore artistico e quali battute si possono fare. Un' interferenza continua, che ha avvelenato il clima. Baglioni ha gestito la faccenda con eleganza, da gran signore, tenendo al centro la musica - sono sempre e solo canzonette, no? - e lavorando in levare anziché in battere, con una conduzione "per sottrazione" che ha regalato il palco agli artisti, selezionati su un livello qualitativo che non si vedeva da anni. Fossimo nei vertici Rai (e per fortuna non lo siamo), lo confermeremmo per il terzo anno. Ma affiancandogli un vero presentatore: sprecare un genio come Virginia Raffaele a spiegare i regolamenti e ad annunciare i cantanti significa svalutarne il talento. Anche lei andrebbe riconfermata, ma sapendo che dà il meglio quando fa Virginia, con le parodie e le imitazioni, e dunque utilizzandola come un tempo si faceva con Grillo: per inventare incursioni a sorpresa, terremotare e spettinare la liturgia festivaliera. Giustamente Baglioni vanta l'età media di 25 anni dei 5 finalisti (Mahmood, il vincitore, Ultimo e il trio del Volo). Ma è ora di svecchiare anche il battaglione degli autori: pagare 1 milione e mezzo 11 cervelloni capaci quasi solo di copiare vecchi sketch da youtube, senza mai un'idea originale, come abbiamo documentato ieri, è il vero scandalo di troppi festival. Non è difficile trovare giovani e brillanti umoristi e satiristi, specie se si prova a uscire dal vecchio recinto del mainstream e del politicamente corretto. 

Da Leggo l'11 febbraio 2019.  Alcune esclusioni celebri dal podio del Festival di Sanremo hanno fatto discutere: in primis quella di Loredana Bertè, arrivata quarta in classifica. Un caso che non è certo passato inosservato, con brusii, fischi e proteste da parte del pubblico dell’Ariston, con cinque minuti buoni di diretta tv rovinati dall’imbarazzo nel quale Baglioni, Bisio e la Raffaele cercavano di far andare avanti lo show. Bisio se l’è cavata in calcio d’angolo, proponendo un premio speciale per la Bertè, una specie di premio della critica dal pubblico. Ma non si è salvato dagli strali di Rita Dalla Chiesa, che ieri su Twitter si è indignata per il presunto trattamento riservato a Loredana: «Brutte le risate di chi era sul palco mentre il pubblico protestava per il 4° posto di Loredana Bertè», ha twittato, in riferimento proprio ai tre conduttori. E poco fa è arrivato il tweet di risposta della stessa Bertè. «Cara @ritadallachiesa non sai quanto mi fa piacere questo tuo sentito coinvolgimento - ha scritto - Ancora è indelebile in me il ricordo di quella bellissima giornata a casa mia con te e Fabrizio per quell'intervista meravigliosa che mi hai fatto. Siete sempre nel mio cuore». Chiaro anche il riferimento a Fabrizio Frizzi, ex marito della Dalla Chiesa scomparso poco tempo fa.

Ultimo contro stampa e giuria: "Da casa erano il quadruplo". Sanremo si chiude tra fischi (in sala), sfoghi in conferenza e tweet al veleno. Il cantante: "Salvini? Non mi interessa". E spunta un video in cui manda a quel paese i giornalisti, scrive Chiara Sarra, Domenica 10/02/2019, su Il Giornale. Prima i fischi in sala all'annuncio della classifica finale e dei tre cantanti sul podio, poi gli sfoghi in conferenza stampa, infine tweet al veleno. Il Festival di Sanremo si chiude tra le polemiche. A infiammarle è soprattutto Ultimo, secondo classificato dietro Mahmood, che in sala stampa se l'è presa coi giornalisti: "Io non ho mai avuto la pretesa di venire qui e vincere, a differenza di quello che avete detto voi, tirandomela", ha sbottato, "Voi avete questa settimana per sentirvi importanti e rompete il cazzo. La mia vittoria sarà dopo il Festival di Sanremo, i live, la gente che si riconosce in quello che scrivo. Sono contento di aver partecipato al Festival". E non manca di rispondere a Matteo Salvini e al suo endorsement sui social: "Io nel momento in cui scrivo le mie canzoni e poi escono, non m'interessa se piacciono a Salvini o al fornaio o al muratore..", taglia corto, "Io punto all'eccellenza, non al buono". Oggi poi rincara la dose con un tweet al veleno (ora non più online): "La gente è la mia vittoria", cinguetta, "Da casa eravamo il quadruplo rispetto agli altri. Dalla parte vostra per sempre. Ci vediamo al tour e allo Stadio Olimpico". Ma c'è anche un video che svela il carattere non proprio accomodante di Ultimo - al secolo Niccolò Moriconi -. Lo ha pubblicato Alberto Dandolo, giornalista di Dagospia sul suo account Instagram e mostra il cantante mentre attraversa la folla di reporter e operatori accompagnato da un bodyguard. Una giornalista prova a fargli una domanda, lui passa oltre. "Grazie Ultimo", "Ma chi cazzo sei? ", "Simpatico", "Ciao Gesù", urla qualcuno ironizzando evidentemente su quello che viene considerato un atteggiamento un po' arrogante. E lui replica stizzito: "Ma vaff...". "Ultimo sì, ma in quanto a buona educazione", scrive Dandolo. Sottolineando come la scena ripresa fosse l'apice di un rapporto burrascoso tra stampa e cantate: "Ecco come il giovane artista è stato solito rivolgersi ai giornalisti per tutta la kermesse sanremese. La neuro please!".

Ultimo sbotta con i giornalisti: "Per sentirvi importanti, mi rompete il cazzo". Il secondo classificato al 69° Festival di Sanremo, durante la conferenza stampa, ha discusso con un giornalista. Prima su Mahmoud, che lui ha definito "un ragazzo", e poi, tra il serio e il faceto, sulla mancata vittoria: "Me l'avete tirata e anche se mi sono grattato non è bastato", scrive Luisa De Montis, Domenica 10/02/2019, su Il Giornale. In conferenza stampa, subito dopo la proclamazione di Mahmoud, come vincitore del 69° Festival di Sanremo, Ultimo è sembrato un po' risentito. Ad accoglierlo, in sala stampa, l'applauso dei giornalisti, al quale, però, il giovane cantante romano ha risposto con un gelido "grazie, troppo buoni, troppo buoni".

Ultimo: "Me l'avete tirata". La frecciata, infatti, è arrivata dopo poco: "Io non ho mai avuto la pretesa di venire qui e vincere, al contrario di quello che tutti voi e tutti i siti hanno sempre fatto, tirandomela. Io mi sono sempre grattato ma non è servito, non è servito a niente". Poche risate, infatti, e qualche momento di imbarazzo. "La mia vittoria, se posso dirlo", ha continuato il giovane cantante romano, "così come quella di tanti artisti che, magari, non sono arrivati neanche in fondo al Festival, sarà sicuramente dopo il Festival di Sanremo. La mia vittoria sono i live, la gente che mi vuole bene e che si riconosce in quello che scrivo".

La discussione con i giornalisti. Ma la vera polemica si è accesa subito dopo, quando Ultimo ha dichiarato di essere stato contento di aver partecipato alla kermesse e di essere stato felice per il primo classificato, Mahmoud. Che lui ha definito "ragazzo", poco più grande di lui, tra l'altro. La frase ha colpito la sala stampa, provocando la reazione del cantante: "Ragazzo, quanti anni c'ha? Come lo devo chiamare? L'uomo, il ragazzo? È un ragazzo, lo chiamo ragazzo. Lo sai perché non mi va bene e parlo con te (indicando un giornalista in particolare, ndr), perché voi, in questa settimana, per sentirvi importanti, voi dovete sempre rompere il cazzo. È questo che non mi va bene, a me non interessa, qualsiasi cosa io dica, voi troverete qualcosa da dire". La lite è proseguita tra imbarazzo e qualche fischio. Ultimo ha poi concluso dicendo: "Non sono assolutamente rancoroso, sono contento di aver partecipato, punto".

Mahmood vince Sanremo, ma il preferito del televoto era Ultimo che twitta: "Da casa eravamo il quadruplo", scrive il 10 febbraio 2019 La Repubblica. Sulla vittoria di "Soldi" ha avuto un grande peso il giudizio di sala stampa e giuria d'onore. Il pubblico a casa, che influenzava il giudizio al 50%, avrebbe premiato "I tuoi particolari". Mahmood vince la sessantanovesima edizione del festival di Sanremo ma per il televoto la vittoria doveva andare a Ultimo. Analizzando i dati scorporati delle votazioni si riscontra che Soldi del rapper italoegiziano ha ottenuto il 38,9 % sommando televoto, sala stampa e giuria d'onore seguito da Ultimo con il 35,6% e da Il Volo con il 25,5%. Ma la classifica del televoto dà un risultato molto diverso, segno che il pubblico a casa la pensa diversamente rispetto ai giurati capitanati da Mauro Pagani e ai critici e cronisti. Per il televoto infatti Ultimo sarebbe stato il vincitore con 46,5% di voti rispetto a 39,4% de Il Volo e solo 14,1% per Mahmood. Il sistema di votazione è composto dal televoto (50% sulla classifica di fine serata), dal voto della sala stampa (30%) e dal voto della giuria d’onore (20%). La classifica totale è la media di tutte le serate del Festival: i tre artisti più votati accedono alla finalissima e si esibiscono di nuovo. Le nuove votazioni (sempre televoto, sala stampa e giuria) si sommano a quelle precedenti e la canzone più votata è la vincitrice. Intanto nella notte Ultimo aveva twittato: "La gente è la mia vittoria. Da casa eravamo il quadruplo rispetto agli altri. Dalla parte vostra per sempre. Ci vediamo al tour e allo Stadio Olimpico". In sala stampa era stato chiara la delusione del musicista romano che in sala stampa si era sfogato con i cronisti: "Io non ho mai avuto la pretesa di venire qui e vincere, a differenza di quello che avete detto voi, tirandomela". Poi aveva attaccato la sala stampa dicendosi infine amareggiato.

Sanremo 2019, lo sfogo di Ultimo con i cronisti: ''Vi sentite importanti e rompete il cazzo'', scrive il 10 febbraio 2019 Repubblica tv. Sotto pressione, probabilmente deluso per la mancata vittoria, Ultimo incontra i cronisti e si lascia andare. ''Io non ho mai avuto la pretesa di venire qui e vincere, a differenza di quello che avete detto voi, tirandomela – dice – Mi sono grattato ma non è servito a niente. La mia vittoria e quella di tanti altri artisti è sicuramente dopo il festival. La mia vittoria sono i live, la gente che mi vuole, che si riconosce in quello che scrivo''. Poi, dice ''sono contento che abbia vinto il ragazzo Mahmood'', e di fronte al rumoreggiare della sala stampa per l’uso di quell’espressione, ''il ragazzo Mahmood'', Ultimo esplode: ''Sapete perché non mi sta bene? – dice rivolto ai giornalisti – Perché voi avete solo questa settimana per sentirvi importanti, e rompete il c…''. Salvo aggiungere: “Non ce l’ho con voi, ce l’ho con me stesso, sono amareggiato''.

Sanremo 2019, Ultimo e il tifo di Salvini: "Non mi interessa, le canzoni non sono più mie", scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Ultimo era arrivato a Sanremo come grande favorito, lo ha finito piazzandosi secondo, ma incassando almeno il tifo di Matteo Salvini, che ha confessato di aver sperato nella sua vittoria fino all'ultimo. Il vincitore di X-Factor però arriva in conferenza stampa fin troppo nervoso, la pressione subita sin dall'inizio della kermesse vissuta da favorito lo ha esasperato e l'idea di andare a parlare con i giornalisti, seduto accanto al rapper Mahmood che gli ha sfilato il primo posto, proprio non lo entusiasma. Per tutto il tempo Ultimo cerca di ignorare Mahmood, in un passaggio lo chiama anche "il ragazzo", tenendosi idealmente il più lontano possibile. Inevitabile la domanda sul sostegno di Salvini, Ultimo taglia corto e si scrolla di dosso potenziali etichette politiche: "Le canzoni che scrivo non sono piu' mie. Se piacciono a Salvini, a un dentista, a un muratore, non mi cambia nulla".

Aldo Vitali sulla copertina di Tv Sorrisi e Canzoni: "Eco perchè non c'è Ultimo". Tgcom 24 il 12 febbraio 2019. Non si placano le polemiche intorno al Festival di Sanremo. A tenere banco è ancora Ultimo, il cantautore romano secondo classificato e grande sconfitto della kermesse dell’Ariston. Sulla copertina del prossimo numero di TV Sorrisi e Canzoni, Niccolò Moriconi non appare. La foto infatti vede protagonisti il vincitore Mahmood e i terzi classificati, Il Volo. A spiegare la scelta è Aldo Vitali, direttore della rivista dal 2012: “È una tradizione che i tre cantanti arrivati sul podio, verso le due e mezza si facciano scattare la foto e poi vadano a festeggiare mentre noi chiudiamo il giornale”. Una routine diventata impossibile data la furia di Ultimo: “Dopo la finale, lui era arrabbiatissimo – continua Aldo Vitali in collegamento con “Pomeriggio Cinque” – e nonostante il suo entourage gli abbia consigliato di presentarsi almeno da noi, quindi lontano da occhi indiscreti, non ha voluto saperne”. C’è stata anche l’opzione fotomontaggio: “Avevamo delle sue foto, nello stesso posto, con la stessa luce, ma non sarebbe stato onesto”.

Sanremo, Ultimo non si presenta per la foto: "Ha tirato un pugno e si è fatto male". Ultimo ha deciso di non presentarsi per posare per la copertina di Tv Sorrisi e Canzoni e ora il direttore spiega cosa è successo, scrive Anna Rossi, Martedì 12/02/2019, su Il Giornale. Questa edizione del Festival di Sanremo si è ormai conclusa da qualche giorno, ma le polemiche sembrano non volersi placare. In particolare, è il nome di Ultimo che tiene banco nei salotti. Il cantante, infatti, dopo aver sfuriato contro i giornalisti durante il dopo Festival e dopo aver disertato Domenica In, si è rifiutato di posare per il settimanale Tv Sorrisi e Canzoni. Una scelta insolita che non veniva presa da tempo. I tre finalisti del Festival, infatti, da sempre posano per la copertina della rivista. Ma non Ultimo. La decisione del cantante, quindi, aveva subito fatto torcere il naso. Diciamo in questi giorni si stanno un po' tutti facendo un processo all'artista. Non si sa da quale pulpito, ma lo fanno. A parte questo, quello che è certo è che Ultimo per Tv Sorrisi e Canzoni non ha posato. E ora a parlare Aldo Vitali, il direttore del settimanale. Ospite di Pomeriggio Cinque ha spiegato il perché Ultimo non si sia presentato alla foto di rito. "È successo - dice a Pomeriggio Cinque - che mentre noi abbiamo contattato i tre finalisti, ad un certo punto lo staff di Ultimo ci ha lanciato un allarme dicendoci: 'Non sappiamo se Ultimo verrà perché è molto arrabbiato'. Noi abbiamo pensato 'Va beh, sarà arrabbiato con i giornalisti, ma noi siamo un’altra cosa!', così abbiamo iniziato una trattativa con il suo staff. Pare che Ultimo abbia addirittura tirato un pugno contro il muro facendosi male alle nocche della mano e si sia chiuso in albergo. Il suo staff ha cercato di convincerlo ma alla fine non ne ha voluto sapere. Avevamo pensato di fare una copertina con un fotomontaggio, ma non sarebbe stato giusto". Questi i fatti raccontati dal direttore, non confermato - per il momento - dal diretto interessato. Ma una volta spiegato l'accaduto, Vitali lancia anche una frecciatina al veleno a Ultimo. Il direttore, infatti, dice di comprendere l'arrabbiatura del cantante, ma poi ci tiene a ricordargli che "l'anno scorso, però, ha vinto con lo stesso identico meccanismo di voto di quest’anno, e non ha detto che i giornalisti hanno falsato il televoto eccetera… Quest’anno, non avendo vinto, la cosa non gli è andata giù".

Il cantante, che ha disertato Domenica In, ha dato buca anche al "Rosario della Sera" su Radio Deejay, scrive Franco Grilli, Lunedì 11/02/2019, su Il Giornale. "Niccolò stai commettendo degli errori, nonostante credo che tu abbia ragione, ma dalla ragione al torto ci vuole un attimo…". Il consiglio-rimprovero di Fiorello a Niccolò Moriconi, alias Ultimo. Già, perché il cantante – scottato per come è maturato il secondo posto al 69esimo Festival di Sanremo – ha disertato polemicamente la puntata di Domenica In e, a seguire, anche l’ospitata proprio in trasmissione da Fiorello. "Ultimo sarebbe dovuto essere ospite in radio oggi al Rosario della Sera alle 19 su radio Deejay ma non verrà", l'annuncio dello showman suo proprio profilo Instagram, commentando proprio la polemica circa la controversa vittoria di Mahmood decisa dal voto delle giurie che hanno ribaltato il televoto popolare. "Ma ahmmod non c'entra niente è il sistema di votazione che è sbagliato" sottolinea l'artista siciliano. Che aggiunge: "Vorrei fare un appello a Ultimo: anche io quando ero giovane e arrivai quinto a Sanremo non mi presentati a Domenica In perché ero arrabbiato. Ma fu un errore. E fui consigliato male. Ultimo lo capisco, ha 20 anni ci è rimasto male, è stato votato dal 46% del pubblico e le due giurie hanno ribaltato il risultato...". Infine, Fiorello chiosa: "Prendete Il Volo: sono stati insultati da alcuni giornalisti della sala stampa e non hanno mai risposto, sono stati sempre garbati. Niccolò, vieni da zio Fiore che ti dico io come si fa. Dai cambia idea, siamo lì per divertirci. Vieni in radio per sdrammatizzare e ridere, perché tutto è stato strumentalizzato. Questo è il festival in cui tutto è stato travisato".

Ultimo andrà da Fiorello. Contrordine: Ultimo sarà ospite oggi da Fiorello a Il Rosario della Sera: Dopo un primo momento, in cui il secondo classificato di Sanremo 2019 aveva declinato l'invito, è stato lo stesso cantante a comunicare via Twitter che sarebbe andato in trasmissione: "Amico arrivo!", ha scritto il cantante, facendo felice Fiorello.

Francesco Persili per Dagospia l'11 febbraio 2019. “Sotto il sole, sotto il sole, di Sanremo, di Sanremo, quasi quasi mi pento... e non ci penso più”.  Dopo le scintille per il mancato primo posto al Festival, Ultimo stempera da Fiorello, su Radio Deejay, le polemiche con la sala stampa di Sanremo e accetta la pax canora proposta dallo showman. “Adesso facciamo un gesto distensivo nei confronti dei giornalisti. Sai come? Cantiamo un pezzo dei The Giornalisti e gliela dedichiamo". Il cantante romano raccoglie l’invito di Fiorello e chiude la questione sulle note di “Riccione”, trasformata nell’occasione in “Sanremo”. “Ultimo ha anche le sue ragioni, aveva preso il 40% al televoto, poi è arrivata la giuria d’onore e ha cambiato le carte in tavola ma l’anno prossimo Baglioni cambierà tutto”, ironizza lo showman siciliano, “ci saranno le palette e il voto palese come a Ballando. Avete mai visto polemiche a Ballando?”. Fiorello si dice “senza parole” davanti alle immagini della sala stampa che inveisce contro “Il Volo”. “Sono 3 ragazzi, non si può, è stata una cosa bruttissima da vedere. I giornalisti hanno un codice deontologico, devono essere imparziali. Adesso chiedano scusa ai ragazzi del Volo che elegantemente sono rimasti in silenzio. Oggi è anche il compleanno di Ginoble, che nella parodia dei “The Jackal” è quello che tromba…”. E’ un fiume in piena lo showman siciliano. “Ad avercene di Ultimi che arrivano secondi”, scherza mentre il cantautore di San Basilio confessa il suo sogno di vivere in Austria in una casetta sul lago e racconta il suo incontro con Vasco: “Prima mi ha chiesto: E tu chi saresti? Poi mi ha detto: “Sei molto bravo”. “A me chiedeva l’imitazione di Ramazzotti – ricorda Fiorello - Io la facevo e lui rideva come un pazzo”.  Poi spazio alla canzone “I tuoi particolari” presentata sul palco dell’Ariston e dedicata all’ex fidanzata Federica. “Se solamente Dio inventasse delle nuove parole/ Potrei scrivere per te nuove canzoni d'amore/ E cantartele qui”. La mille giorni di te e di me di Ultimo scatena Fiorello: “Ha un testo meraviglioso, dopo una canzone del genere la tua ex fidanzata busserà alla tua porta. Busserei io…”. “Finisce la vita, può finire anche l’amore”, il commento del cantante romano (e romanista) che il 4 luglio si esibirà per la prima volta allo stadio Olimpico. “Ci sarà tutta San Basilio. E Federica? Ci sarà anche lei…” Poi è ancora musica, cazzeggio e ironia. Fiorello fa una battuta su Mahmood riferita alle sue origini egiziane da parte paterna: "Ultimo ha distrutto la Piramide Cestia col piccone e tutto ciò che è egiziano". Poi chiosa: "Se c'è stato qualcosa di sbagliato, non è certo Mamhood che ha vinto ma il metodo di votazione”.

Sanremo, Ultimo ricompare da Fiorello. Polemica su Instagram. Ultimo si presenta allo show "Il Rosario di sera". Fiorello stempera i toni della polemica ma la bufera non si placa, scrive Di Lei l11 febbraio 2019. Fiorello ospita Ultimo e parte la gag: "Dove eri finito?" Dopo il polemico esito del Festival di Sanremo, Fiorello ha ospitato Ultimo nel suo programma su Radio Deejay: immancabili le gag tra il presentatore e il cantante, come si vede dal post di Rosario su Instagram. Ultimo finalmente ricompare in pubblico a Radio Deejay nello show di Fiorello, Il Rosario della sera, dopo aver disertato Domenica In e la foto per la copertina di Tv Sorrisi e Canzoni. Dopo l’indignazione di Ultimo per la vittoria a Sanremo di Mahmood al posto suo, Fiorello è riuscito nell’impresa che nemmeno Mara Venier ha potuto. Lo showman è riuscito ad avere come ospite il cantante 22enne. E su Instagram commenta: “Alla fine @ultimopeterpan è arrivato! Bravo, così si fa!”. Fiorello invita il giovane cantante a chiudere la polemica con la sala stampa del Festival, prendendo a prestito la canzone dei The Giornalisti Riccione che per l’occasione viene trasformata in Sanremo. Il presentatore cerca di giustificare l’irruenza di Ultimo che se l’è presa coi giornalisti per il mancato primo posto del Festival: “Ha 20 anni, a tutti piace vincere, aveva preso il 46% al televoto…”. Poi ricorda quando anche lui partecipò al Festival nel 1995 dove arrivò soltanto quinto con Finalmente tu, mentre era dato per favorito, proprio come Ultimo quest’anno. Allora lo staff gli consigliò di non andare a Domenica In. Ma solo dopo anni, Fiorello ha capito che fu un errore. Dopo aver fatto i complimenti a Ultimo per il testo della sua canzone, I tuoi particolari, si rivolge a Mahmood: “Se c’è stato qualcosa di sbagliato, non è certo Mamhood che ha vinto”. Mentre Fiorello cerca di superare le tensioni, sui social la polemica s’infiamma. Tutti riconoscono la classe dello showman: Grande fiore - solo tu fai ridere ultimo - bravo una bella coppia il Primo e Ultimo che poi siete tutti e due pazzeschi.

Altri scrivono: Fiorello sei sempre il migliore!!! Ti stimo perché sei l’unico che ha trattato la cosa in modo intelligente e non sta massacrando un ragazzo di 23 anni! Bravo.

C’è chi poi fa appello alla necessità di guidare i giovani nel mondo dello spettacolo, anziché criticarli e abbandonarli a loro stessi: Cerchiamo di sostenerlo allora. I giovani hanno bisogno di verità non di fare i ruffiani per IP successo!

Ma in molti non giustificano l’atteggiamento aggressivo del cantante: Solo tu potevi recuperarlo ma comunque ciò non toglie che ha perso una grande occasione. L’educazione viene prima di tutto.

E ancora: Fatti un bagno di umilta non sempre si può vincere.

Proseguono: Questo ragazzo con questo comportamento si sta bruciando da solo!!

Ultimo, dopo Sanremo la bomba di Dagospia: "La sua enorme cazzata. Ricordate quando per Fabrizio Corona...", scrive il 13 Febbraio 2019 Libero Quotidiano.  Il passato, inesorabile, ritorna. Si parla di Ultimo, secondo al contestatissimo Festival di Sanremo con il brano I tuoi particolari. Si parla di una sua vecchia canzone, contro cui ha puntato metaforicamente il dito Radio Latte Miele. Brano in cui Ultimo attaccava la giustizia italiana e difendeva Fabrizio Corona, trattato alla stregua di un perseguitato. "Prima di prendersela con i giornalisti della sala stampa del Festival di Sanremo Ultimo aveva attaccato la Giustizia italiana al grido di “La giustizia è gettata nel cesso! in difesa di Fabrizio Corona". Lo ricorda Carlo Mondonico ai microfoni di Spoiler, trasmissione di Latte Miele: si riferisce alla canzone dedicata a Corona, all'epoca detenuto in carcere. Un brano di denuncia, nel quale compare anche la voce di Giancarlo Giannini, che si manifesta chiaramente contro la Giustizia italiana con un ritornello definito da molti offensivo e irrispettoso, che ripete, come detto: "La giustizia è gettata nel cesso". Vicenda che per inciso viene ripresa e rilanciata anche da Dagospia, che titola in modo assai eloquente: "Tante cazz*** dalla prima all'Ultimo". 

Da “Radio Latte Miele” il 13 febbraio 2019. Prima di prendersela con i giornalisti della sala stampa del Festival di Sanremo Ultimo aveva attaccato la Giustizia italiana al grido di “La giustizia è gettata nel cesso!” in difesa di Fabrizio Corona. Carlo Mondonico ai microfoni di Spoiler- Radio LatteMiele, racconta quando nel 2015 Ultimo ha scritto e cantato la canzone “Un uomo migliore” dedicata a Fabrizio Corona, all’epoca detenuto in carcere, prendendo le sue difese. Un brano di denuncia, nel quale compare anche la voce di Giancarlo Giannini, che si manifesta chiaramente contro la Giustizia italiana con un ritornello definito da molti offensivo e irrispettoso, che ripete. Presentando il brano Ultimo aveva dichiarato (fonte Panorama): “Ho scritto questo brano senza alcun intento polemico ma sentendolo piuttosto come un’esortazione ad ignorare i giudizi gratuiti e le condanne nel prossimo, scoprire noi stessi e sentirci i soli artefici del nostro domani”. All’epoca Fabrizio Corona non diede importanza alla canzone a lui dedicata, ma oggi si dichiara il suo primo fan: “Ultimo sei il numero uno! Sono stato un pirla a non darti importanza”.

Testo “Un uomo migliore” di Ultimo (Niccoló Morriconi)

Che la coscienza possa pesare ad ogni giudice corrotto

Che nei suoi occhi si riesca a trovare una lacrima per ogni suo torto

Che le sue mani possano tremare di fronte ad ogni sua ipocrita idea

Che se la giustizia non è uguale per tutti

La vita invece lo è

C'è chi ha ucciso sua figlia e adesso

Piange come un cretino in tv

E c'è chi stupra e adesso

E' in ciabatte tanto non lo rifarà più

E poi c'è chi dice la verità

E non si pente davanti a un mantello

Con gli occhi di un ragazzo che sà

Cosa vuol dire sentirsi diverso

Cosa vuol dire sentirsi diverso

Sono Fabrizio e vi scrivo da dentro

Da una gabbia di vuoto e cemento

Vorrei tanto parlare a mio figlio

Raccontargli la vita che ho fatto

Che ho sbagliato ma questo lo so

Qui nessuno è nato perfetto

Di fronte a Dio mi pentirò

Ma la giustizia è gettata nel cesso

La giustizia è gettata nel cesso

La giustizia è gettata nel cesso

La giustizia è gettata nel cesso

Ero un idolo finché andavo bene

E ora solo con le tasche vuote

Chiedo scusa a mia madre se piange

Vorrei tanto dirle che sto bene

Ma non riesco, è troppa la merda

Che mi sputano senza pensare

Voi toglietemi anche le ali

Volerò, io volerò

Portando avanti i miei ideali

Portando avanti i miei ideali

Portando avanti i miei ideali

Portando avanti i miei ideali

Portando avanti i miei ideali

Che la speranza non possa morire per chi vive in un modo diverso

Che la forza rimanga per sempre per chi non vuol mischiarsi nel coro

Sono Fabrizio il criminale

In un'Italia che piange e che muore

Ma che sorride ad un uomo migliore

Sanremo 2019, trionfa Mahmood con Soldi. Ma è rivolta all'Ariston: il pubblico incorona Loredana Bertè, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Per l'Ariston il Festival di Sanremo lo ha vinto Loredana Bertè: quando viene relegata al quarto posto la platea impazzisce, protesta, grida "Loredana, Loredana". Tanto che Claudio Bisio è costretto ad ammettere: "Per l'Ariston vince Loredena Bertè". Dunque Claudio Baglioni, che chiede con volto contrito "rispetto per i cantanti in gara, che sono 24". Tutto l'Ariston per la Bertè, ma alla fine questo 69esimo Festival di Sanremo lo vince Mahmood, con il brano Soldi: trionfa il cantante con padre egiziano, vittoria accolta dai brusii insistenti della paltea. Terzi classificati i tenorini de Il Volo con Musica che Resta; seconda piazza per Ultimo, il favorito della vigilia, con Il ballo delle Incertezze. Mahmood accoglie la vittoria con voce rotta: "Incredibile, non ci sto credendo". Fischi e contestazione del pubblico anche per gli ultimi posti, con Nek al 19esimo posto e Paola Turci al sedicesimo. Fischi ancora più forti per Achille Lauro al nono posto con la contestatissima Rolls Royce: ma in questo caso la platea punta il dito contro l'artista, al centro di mille polemiche, e non contro la posizione in classifica. Da sottolineare anche i riconoscimenti ottenuti da Daniele Silvestri, che con il suo brano Argento Vivo ottiene sia il premio della critica sia il premio della sala stampa Lucio Dalla, e poi incassa anche il premio per il miglior testo "Sergio Bardotti". Il premio Sergio Endrigo per la migliore interpretazione va invece a Simone Cristicchi con Abbi Cura di Me, che incassa anche il premio Giancarlo Bigazzi per la miglior composizione musicale, assegnato dall'orchestra dell'Ariston. E ancora, Ultimo si consola con il premio Tim Music per il brano più ascoltato in streaming.

Barbara Visentin per corriere.it il 10 febbraio 2019. Primo classificato al Festival di Sanremo, ma terzo nelle preferenze espresse al televoto. La vittoria di Mahmood ha messo in luce il divario fra i voti espressi dal pubblico a casa e quelli delle due giurie «di qualità», cioè i giornalisti della sala stampa e la giuria d’onore, che hanno letteralmente ribaltato i risultati. Secondo i primi dati che emergono dalla finalissima di sabato 9 febbraio, il cantautore italo-egiziano, vincitore a sorpresa della 69esima edizione della kermesse, si è aggiudicato il gradino più alto del podio con il 38,9% dei voti complessivi, staccando per soli tre punti il secondo classificato Ultimo (35,6%) e lasciando terzi Il Volo con il 25,5% dei voti. Questi risultati sono ottenuti combinando le preferenze espresse dal pubblico a casa, che hanno un peso del 50%, insieme al voto della sala stampa che conta per il 30% e quello della giuria d’onore (20%). Andando però a vedere che cosa aveva scelto il pubblico tramite il televoto, il podio è ribaltato e vede nettamente in testa Ultimo con il 46,5% delle preferenze, seguito da Il Volo con il 39,4% e da Mahmood con soltanto il 14,1% dei televoti. La scelta delle giurie interne è stata quindi determinante nella vittoria di Mahmood, lasciando deluso il cantautore romano che ha subito twittato: «La gente è la mia vittoria. Da casa eravamo il quadruplo rispetto agli altri. Dalla parte vostra per sempre. Ci vediamo al tour e allo Stadio Olimpico».

SIMONE CRISTICCHI. “Abbi cura di me”: una poesia che parla di fragilità e amore (Sanremo 2019). Simone Cristicchi, vincitore del festival nel 2007, torna dopo undici anni di assenza sul palco di Sanremo 2019. Presenta il brano “Abbi cura di te” che parla della fiducia nell’altro, scrive il 05.02.2019 Paolo Vites su Il Sussidiario. Un grido di speranza quello lanciato da Simone Cristicchi dal palcoscenico della 69esima edizione del Festival di Sanremo 2019 con il brano “Abbi cura di me”. Una preghiera universale che arriva al cuore e che ha coinvolto tutto il pubblico dell’Ariston che sul finale ha urlato “bravo, bravo, bravo”. A distanza di dodici anni dalla prima vittoria con “Ti regalerò una rosa”, Cristicchi è tornato in gara con una canzone d’autore, una poesia in cui parla di “fragilità, di debolezza” ma che al tempo stesso ha una grande forza emotiva. “E’ leggera come una piuma e potente come una tempesta” – ha raccontato l’autore sul brano – “credo che sia il frutto di una serie di domande importanti che mi sono posto, ho 42 anni e ho iniziato da qualche anno a farmi delle domande sul senso di essere su questa terra ed è uscita fuori questa canzone che si interroga sulla felicità, sulla bellezza, sul senso dell’esserci e anche sul dolore sulla sofferenza”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)

SIMONE CRISTICCHI A SANREMO 2019. Simone Cristicchi, che ha trionfato al festival di Sanremo nel 2007 con il brano Ti regalerò una rosa e ci torna per la quarta volta, è artista poliedrico. Si dedica infatti anche al teatro dove ha portato in scena opere di denuncia coraggiose come quella dedicata agli italiani profughi dell’Istria, ma soprattutto sulla malattia mentale. Ha infatti lavorato da giovane diverso tempo come volontario in un centro di igiene mentale, la cui problematica conosce molto bene. Il brano con cui vinse Sanremo infatti parlava proprio di un ospedale psichiatrico, visto con gli occhi di un paziente. E’ felicemente sposato con Sara, di professione archeologa, da cui ha avuto due figli, della sua famiglia ha detto: “Le mie note preferite? Mia moglie Sara e i miei due figli Tommaso e Stella”.

CRISTICCHI E IL DRAMMA DEI PROFUGHI ISTRIANI. “Magazzino 18” è il titolo dello spettacolo messo in scena da Simone Cristicchi, ispirato al libro di un giornalista di origine polacca, Jan Bernas, “Ci chiamavano fascisti eravamo italiani”. L’opera è incentrata sul dramma delle centinaia di migliaia di italiani costretti dagli jugoslavi ad abbandonare la loro terra, l’Istria, quando alla fine della seconda guerra mondiale quella regione venne ceduta come ripagamento dei danni di guerra. Moltissimi di loro vennero anche uccisi dai partigiani comunisti italiani, gettati nelle foibe, fosse carsiche della regione, perché accusati di essere fascisti. Magazzino 18 è un deposito tutt’ora esistente nel vecchio porto di Trieste dove furono ammassate le masserizie di quella povera gente, italiani  di Capodistria, di Fiume, di Pola, di Albona, di Orsera, di Parenzo, di Rovigno, di Zara, di Spalato, di Ragusa; italiani sfuggiti alle foibe e alla  ferocia dei partigiani comunisti di Tito e costretti a lasciare le loro case dopo quel 10 febbraio 1947 quando tutte quelle terre furono assegnate all’allora Jugoslavia. Per questo spettacolo Cristicchi fu criticato e accusato dagli ex comunisti italiani che ancora non vogliono riconoscere le colpe dei partigiani.

“ABBI CURA DI TE”, IL TITOLO DELLA CANZONE DI SIMONE CRISTICCHI A SANREMO 2019. A sei anni di distanza dal suo ultimo disco, Simone Critichi pubblica l’8 febbraio una raccolta in cui appaiono due inediti, uno dei quali il brano presentato a Sanremo 2019, Abbi cura di me. Così lo spiega il cantautore: “Nei versi della canzone, ricorre il tema millenario dell’accettazione, della fiducia, dell’abbandonarsi all’altro da sé, che sia esso un compagno, un padre, una madre, un figlio o Dio. Nelle mie intenzioni, questo brano vuole essere una preghiera d’Amore universale, una dichiarazione di fragilità, una disarmante richiesta d’aiuto”. Il brano è stato scritto da Cristicchi insieme a Nicola Brunialti e Gabriele Ortenzi con la produzione artistica di Francesco Musacco ed esecutiva di Francesco Migliacci. L’album “Abbi cura di te”, oltre ai successi presentati negli anni al Festival di Sanremo, ripercorrerà tutta la carriera di Cristicchi partendo dai giorni nostri fino ad arrivare agli esordi nel 2005 con il tormentone “Vorrei cantare come Biagio”. 

Sanremo, 30 fatti poco noti della serata finale, scrive il 10 febbraio 2019 La Repubblica Luca Bottura.

1.    La canzone di Cristicchi è uguale alla colonna sonora di Risvegli. Pronta la risposta del cantautore: “Sì, e le foibe invece?”.

2.    Nella pubblicità Nivea che precedeva il festival, c’era un truccatore che si definisce Glam Artist. Dev’essere una roba tipo Navigator, ma vestiti peggio.

3.    Bisio ha interrotto la Tatangelo prima che finisse perché ha fatto una pausa troppo lunga. Praticamente quel che è successo al programma di Celentano su Canale 5.

4.    Migliorano le condizioni di Jovanotti, che si era lanciato nel vuoto dopo aver visto “L’ombelico del mondo” usato per lo spot di Sanremo Giovani.

5.    Il ministro Buzzetti su Anna Tatangelo: “È del sud: prima di ripresentarsi deve fare sacrifici e mettersi a lavorare”.

6.    La vittoria era quasi certa per Renga, purtroppo molti si sono confusi con l’icona grafica che lo rappresentava e hanno votato Paolo Vallesi.

7.    Stasera (giuro che è vero) Salvini ha postato su Twitter un video in cui cantava “Io vagabondo”. Poi, appreso che è un pezzo dei Nomadi, ha tentato di darsi fuoco da solo.

8.    La nuova canzone presentata da Eros Ramazzotti è stata scritta dicendo “Alexa, scrivi un pezzo di Ramazzotti” all’assistente elettronico di Amazon.

9.    Accuse di plagio anche per Loredana Bertè: sarebbe in realtà Tina Turner con la parrucca della Fata Turchina.

10.    Raggi su Twitter: “Il fatto che i tram non andassero avanti più già nelle vecchie canzoni di Ramazzotti testimonia che è tutta colpa dei governi precedenti”.

11.    A un certo punto durante il pezzo con Fonsi, Ramazzotti si è tolto gli auricolari perché non ne poteva più neanche lui di ascoltare un pezzo di Fonsi e Ramazzotti.

12.    Conte: “È vero, il Pil è allo 0,2 per cento. Ma prima aspettiamo il voto della giuria di qualità”.

13.    Accuse di plagio anche per Achille Lauro. La sua “Rolls Royce” sarebbe copiata da un vecchio pezzo di Memo Remigi: “Fiat Duna”.

14.    In realtà il microfono di Mahmood non è partito perché i tecnici a Sanremo servivano #primagliitaliani.

15.    I Negrita sono comunque arrivati 17esimi. “A ‘sto punto tanto valeva che l’endorsement ce lo facesse Cannavacciuolo”.

16.    Buone notizie per Enrico Nigiotti: Nonno Hollywood è arrivato solo decimo ma proprio ieri sera ha raggiunto quota 100.

17.    Bella idea degli Zen Circus, che hanno ingaggiato alcuni black bloc come figuranti, evitando che raggiungessero gli altri nella distruzione del centro di Torino.

18.    Dopo la gaffe al Dopofestival, Renga precisa: “Non ho niente contro le donne che cantano, ho amiche donne, basta che lo facciano a casa loro”.

19.    Brutto episodio per Patty Pravo prima di andare in scena: quelle robe che aveva sul vestito nero non erano decorazioni, ma i resti dello stormo di piccioni che l’aveva sorvolata nel parcheggio dell’Ariston.

20.    Per l’ultima serata era previsto anche l’uso di effetto fumo sul palco, ma il presidente Rai Foa si è opposto sostenendo fossero scie chimiche.

21.    Clamoroso caso di conflitto d’interessi di Elisa. Il verso “con le battute non mi sconcentrare” è stato chiaramente scritto da Luigi Di Maio.

22.    Motta sarebbe in realtà Asia Argento con la permanente.

23.    Dopo i successi di Morandi e Baglioni, anche l’anno prossimo la conduzione potrebbe essere affidata a un anziano cantante a suo agio con la comicità: Silvio Berlusconi.

24.    Crescono i sospetti che il televoto fosse ospitato sulla piattaforma Rousseau: a un certo punto era in testa Toninelli.

25.    Proteste del pubblico in sala per il quarto posto di Loredana Bertè: oggi è prevista una manifestazione dei gilet azzurri.

26.    A un certo punto Matteo Orfini del Pd ha twittato (giuro che è vero) la sua classifica ideale, dando come vincitori gli Zen Circus. Voleva essere sicuro di perdere anche lì.

27.    Cristicchi ha dedicato il premio “Sergio Endrigo” alle due persone che più hanno influenzato il suo pezzo: Robert De Niro e Robin Williams.

28.    Salvini: “Impossibile che uno straniero abbia vinto con un pezzo che si chiama ‘Soldi’. Devono essere i 35 euro che gli regalavano i buonisti prima di noi”.

29.    Un cantante di origini egiziane ha vinto il Festival: ormai fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare.

30.    Alla fine di Sanremo, finalmente svelato da Tim chi sarà il primo italiano in orbita: lo spread.

Sanremo, il Festival dalla A alla Z, scrive il 26.01.2019 Beppe Donadio su La Regione. Tutto (o quasi) quello che c'è da sapere sull’immarcescibile gara canora al via martedì 5 febbraio. Auguri...

Appignani, Mario [o Cavallo Pazzo] Irrompe a sorpresa (?) durante l’edizione 1992 per gridare “Questo Festival è truccato, lo vince Fausto Leali” (vincerà Luca Barbarossa).

Ariston, Teatro [edificio] Dal Salone delle Feste del Casinò, dove si è svolto sin dal 1951, il Festival trasloca qui nel 1977.

Armstrong, Louis [trombettista] Chiamato nel 1968 ad eseguire in italiano traballante ‘Mi va di cantare’, il grande musicista vuole dilatare l’esecuzione improvvisando alla tromba, ma viene interrotto da Pippo Baudo (vedi poco sotto).

Bano, Al [cantante e viticoltore] Detentore di 15 partecipazioni, nel 2015 si riunisce con Power Romina per la gioia dei fan sovietici e per quella di Checco Zalone, che in 'Quo vado' celebra la saudade italiana.

Baudo Pippo [imperatore] Spalmate su 40 anni, detiene il record di conduzioni.

Benigni, Roberto [Premio Oscar] Nel 1980 bacia alla francese la compagna Olimpia Carlisi per 45 secondi di diretta tv, chiama il presidente della Repubblica Cossiga “Kossigaccio” e Papa Giovanni II “Wojtilaccio”. E la Democrazia Cristiana insorge.

Berté, Loredana [rocker] Nel 1986, molto prima di Lady Gaga, canta il brano ‘Re’ indossando un vestito in latex nero con finto pancione da donna incinta. È scandalo, l’etichetta la molla.

Bloodvessel, Buster [striker] Leader della band inglese ska Bad Manners, nel 1981 si toglie i pantaloni durante Lorraine, abbassa le mutande e mostra il deretano seminudo alle prime file.

Bongiorno, Mike [padre della tv] Tra le gaffe sanremesi spicca “Sono state votate 5 canzoni ieri e 5 stasera. In tutto fanno 12”. Sanremo gli ha dedicato una statua bronzea in via Escoffier.

Cutugno, Toto [un italiano vero] Manifesto dell’emigrante, nel 1983 L’italiano si piazza soltanto al 5° posto. La canzone, che ha venduto milioni di copie nel mondo (qui con il Coro dell'Armata Rossa), fu rifiutata da Adriano Celentano. A proposito...

Celentano, Adriano [Il molleggiato] Ospite nel 2012, dichiara: “Giornali come ‘Avvenire’ e ‘Famiglia Cristiana’ andrebbero chiusi definitivamente. Parlano di politica anziché di Dio”. La politica si scalda ancor più di quando, nel 1961, diede le spalle alla telecamera cantando 24mila baci.

Dalla, Lucio [genio] Intitolata Gesù Bambino, nel 1971 la censura pretende il cambio in ‘4 marzo 1943’. “Tra i ladri e le puttane” diventa “Per la gente del porto”.

Di Sanremo, Orchestra [musicisti, lanciatori di spartiti] Nel 2010, in disaccordo con giuria e televoto che escludono Malika Ayane e premiano il trio Pupo-Emanuele Filiberto-Luca Canonici, gli orchestrali stracciano le partiture e le gettano orgogliosamente sul palco.

Dulbecco, Renato [biologo] Premio Nobel per la medicina nel 1975, presenta l’edizione 1999 con Fabio Fazio (ebbene sì, a Sanremo succede anche questo).

E le Storie Tese, Elio [Il Complessino] Nel 1996 vince Ron, ma i voti avrebbero premiato ‘La Terra dei Cachi’, seconda. In una settimana, la band cult “Come i Cult” (cit. Elio) sfoggia braccia di gomma, parrucche e travestimento da Rockets (band francese con le facce argentate). Vent’anni più tardi, vestiti da Kiss, torneranno con ‘Vincere l’odio’, canzone di soli ritornelli.

Faletti, Giorgio [fu attore e fu giallista] Signor Tenente, ispirata alle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, giunge seconda nel 1994.

Filogamo, Nunzio [presentatore] Con la frase “Cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate” inaugura nel 1951 il 1° Festival. Dopo avere condotto 3 edizioni, non può presentare la quarta: nel 1954, la sua presunta omosessualità avrebbe costretto la Rai cattolica a revocargli l’incarico.

Gabriel, Peter [innovatore] Nella 2ª serata del Sanremo 1983 esegue Shock the monkey. Volando sopra la platea aggrappato a una fune, l’ex Genesis si schianta di schiena contro il palco. Vista l’esistenza di ‘So’ e dei capolavori successivi, è chiaro che sopravvive (35 anni dopo, simbolicamente, sulla platea dell’Ariston volerà anche Mangoni vestito da Supergiovane).

Ghinazzi, Enzo [in arte Pupo] “Nel 1984 c’era il Totip e ricordo che comprammo le schedine, spendendo io 25 milioni, 25 milioni il mio impresario e altri 25 milioni la casa discografica. Questo è Sanremo”, disse Ghinazzi una mattina del 1992, prima di smentire tutto la sera stessa.

Gorbaciov, Mikhail [politico] Nel febbraio del 1999, il padre della perestrojka volò dal Cremlino sul palco dell’Ariston. E come Nostradamus: “I comunisti veri sono quelli di Rifondazione? Li compatisco, se non vedono cosa accade fuori dalla finestra sono condannati”.

Grandi, Irene [interprete toscana] ‘Bruci la città’ non è ammessa a Sanremo 2007. Uscita come singolo, sarà la canzone più ascoltata dell’anno.

Grillo, Beppe [rivoluzionario] Nel 1989 dichiara che “il Festival fa schifo” e si produce in un affondo alla categoria: “Giornalisti con tre lauree che andavano a Kabul, ora girano chiedendo Dov’è Peppino Di Capri, che sono rovinato?”.

Houston, Whitney [divina] Ospite a Sanremo nel 1986, la cantante scomparsa nel 2012 esegue due volte il brano All at once, accogliendo la richiesta di bis.

Kensit, Patsy [non epocale cantante del non epocale gruppo Eight Wonder] Nel 1987, durante l’esecuzione della non epocale I’m not scared, la spallina del vestito le si abbassa dando vita a un epocale topless immortalato dalle telecamere.

Jalisse, I [coniugi] Vincono a sorpresa nel 1997 con Fiumi di parole, che ricorda Listen to your heart dei Roxette (“ricorda” è un eufemismo). Il brano è quarto a Eurosong, ma per alcuni poteva vincere. Da cui il presunto boicottaggio per evitare che la Rai debba organizzare, l’anno successivo, un evento costosissimo.

John, Elton [rocket man] Vedi “Luzzatto Fegiz”.

La Notizia, Striscia [format] Marzo 1990: il programma rivela in anticipo i nomi dei primi 3 classificati. “Si disse che avevamo usato delle microspie. E invece chi fece la soffiata era un uomo di statura normale” scrive il creatore Antonio Ricci (la previsione si avvererà anche nel 1996).

Le Bon, Simon [sciupafemmine] Fratturatosi un piede in un locale durante la settimana, nella serata finale del Sanremo 1985 esegue con i suoi Duran Duran Wild boys con il gesso.

Luzzatto Fegiz, Mario [critico musicale] Oggi lo si chiamerebbe influencer (ma il critico musicale, oggi, non influenza più un bel niente). Nel 1995 spedisce alla sua redazione la dettagliata esibizione di Elton John prima che questi si esibisca. Sir Elton, in viaggio da Montecarlo verso Sanremo, litiga con il fidanzato e fa inversione a U. Il pezzo è già in stampa ed esce il giorno dopo sul Corriere della Sera.

Martini, Mia [unica] Nel 1982 i giornalisti fondano il Premio della Critica appositamente per premiare la sua interpretazione di ‘E non finisce mica il cielo’ di Ivano Fossati. Dal 1996, un anno dopo la sua morte, il premio porta il suo nome.

Mercury, Freddie [rockstar] I Queen a Sanremo nel 1984 cantano ‘Radio Gaga’. Da un’intervista tv: “Cerco di cantare in modo naturale. Ci sono molti cantanti che la voce la usano meglio di me. Aretha Franklin, Rod Stewart. Mi piacerebbe tanto cantare come quelli veri”.

Modugno, Domenico [Mister Volare] Nel 1958 Nel blu dipinto di blu viene bocciata perché scritta e cantata dalla stessa persona (cosa mai successa prima). Riammessa, vince. Nel 1968, complice il suicidio di Luigi Tenco l’anno prima, ‘Meraviglioso’ – storia di un aspirante suicida – è esclusa dalla competizione perché “fuori luogo”.

Molko, Brian [frontman alterato dei Placebo]. Nel 2001 si prende del “buffone” e del “cretino” dalle prime file dopo aver sfasciato chitarra e amplificatore alla fine di ‘Special K’. “Con quella faccia può andare allo Zecchino d'Oro”, commenta Piero Chiambretti.

Nazzaro, Gianni [interprete] Nel 1987 presenta alle selezioni Perdere l’amore e viene scartato. Affidata a Massimo Ranieri, la canzone vinceràl’edizione 1988.

Nek [all’anagrafe Filippo Neviani] Nel 1993, il brano anti-abortista In te (Il figlio che non vuoi), cantato in giacchetta elegante, scuote per motivi opposti femministe e mondo cattolico.

Occhiena, Marina [ex dei Ricchi e Poveri] Nel 1983 Angela la brunetta chiede che Marina la biondina sia allontanata poiché amante del compagno. Previo accordo economico, il trio può cantare a Sanremo Sarà perché ti amo.

Pagano, Giuseppe [aspirante suicida] Nel 1995 un disoccupato minaccia di lanciarsi dalla galleria dell’Ariston in piena diretta tv. Lo salva Pippo Baudo. “Cercava lavoro”, dirà il presentatore a Festival concluso. “Era tutta una messinscena”, dirà Pagano a Striscia la notizia.

Pizzi, Nilla [regina] Vincitrice del 1° Festival con Grazie dei fior. Diceva nel 1951: “Non sapevamo cosa fosse un festival. Capimmo che era importante quando ci dissero di vestirci eleganti”.

Povia [Giuseppe, cantante] Nel 2009, con ‘Luca era gay’, certifica che dall’omosessualità si può guarire. Il caso arriva sino a Strasburgo, per sospetta violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Power, Romina [cantante?] Vedi alla voce Bano.

Queen, The [miti] Vedi alla voce Mercury

Rossi, Vasco [rocker] Penultimo nel 1983 con Vita spericolata, l’anno prima aveva fatto di meglio (ultimo con Vado al massimo).

Rubino, Renzo [cantautore dichiarato] Nel 2014, in barba a Povia e a Luca, il calabrese canta ‘Amami uomo’ (“Con le mani da uomo”), esplicita dichiarazione d’amore gay.

Salerno, Sabrina e Squillo, Jo [cantanti?] Eseguita nel 1991, la canzone ‘Siamo donne’ potrebbe essere oggi l’inno del movimento #metoo, non fosse che Julia Roberts su Hollywood Boulevard in ‘Pretty Woman’, quanto a look trasgressivo, pare un’educanda.

Solo, Bobby [Elvis d’Italia] A Sanremo ’64 canta in playback Una lacrima sul viso per via di una forte laringite. Grazie a quello che oggi si chiamerebbe lip-sync, nessuno se ne accorge.

Straits, Dire [sultani dello swing] Nel 1981 gli 8 minuti della versione integrale di ‘Tunnel of love’ provocano mugugni in quanto playback.

Tatangelo, Anna [ragazza di periferia] Nel 2008 dedica il secondo posto al compagno D’Alessio. Il suo ‘Gigi ti amo’ è accolto da una selva di fischi.

Tenco, Luigi [cantautore] Si uccide nel 1967 a soli 29 anni in una stanza d'albergo, dopo l'esclusione della sua ‘Ciao amore ciao’ (qui cantata da Dalida in prova). Lo fa con un colpo di pistola che nessuno, nemmeno Lucio Dalla che stava nello stesso hotel, ha udito. Oggi, la sua morte sarebbe un Cold case irrisolto. Times, Financial [giornale britannico] La rispettabilissima rivista economica definisce Sanremo 1998 “Una sagra del kitsch”.

Tognazzi, Ugo [attore] Nel 1962 l’annunciata scenetta con Raimondo Vianello sul presidente del Consiglio, il democristiano Amintore Fanfani, viene censurata dalla Rai.

Troisi, Massimo [comico] “Mi hanno detto che posso parlare di tutto tranne che di religione, politica, terrorismo e terremoto. E allora sono indeciso tra una poesia di Giovanni Pascoli e una di Carducci”. Nel 1981 la Rai chiede il copione in anticipo e il comico napoletano rinuncia.

U2 [rock band] Nel 2000, sceso in platea per cantare The ground beneath your feet, Bono Vox risponde con un inchino all’applauso di Mario Merola. Il re della sceneggiata napoletana se ne fa un vanto personale (ma i due non si conoscono).

Vianello, Raimondo [principe del black humor] Presentatore nel 1998, per problemi al traduttore in cuffia liquida Madonna in fretta e furia (vedi anche alla voce Tognazzi Ugo).

Villa, Claudio [Reuccio]. Nel ’64 il Festival vuole aprire agli stranieri; lui s’impunta e Sanremo chiude le frontiere prima di Salvini. Nel ’72 guiderà lo sciopero dei cantanti; nell’86 protesterà contro la puzza di fritto del McDonald’s di Roma.

Zero, Renato [Non dimenticatemi!] Secondo nel ’91, si dice scippato da Riccardo Cocciante e giura di non mettere più piede su di un palco.

Zen Circus [band] Vincono il Festival 2019 (da intendersi come pronostico).

Sanremo 2019: i 5 momenti cult del Baglioni-bis. Dallo show di Pio e Amedeo all'incursione di Ornella Vanoni, che cosa ci ricorderemo di questo Festival. Ascolti in leggero calo per Sanremo 2019, scrive Francesco Canino il 10 febbraio 2019 su Panorama. Dallo show di Pio e Amedeo alla surreale incursione di Ornella Vanoni. Ma cosa resterà nella "memoria collettiva" del Sanremo 2019? Ora che il Baglioni-bis è stato definitivamente archiviato, è tempo di bilanci: prima di capire se il "dirottatore artistico" tornerà all'Ariston anche il prossimo anno, ecco i cinque momenti cult di un'edizione che non ha brillato per adrenalina.

Sanremo 2019, il bilancio finale degli ascolti. Il day after di Sanremo 2019 si apre come sempre con il punto sugli ascolti e lo sguardo proiettato al 2020. La finalissima del Festival è stata vista da 10 milioni 622 mila telespettatori, pari al 56,5% di share, due punti sotto il 2018. “Ma il trend è crescente. Oltre lo share, valgono i numeri assoluti. Noi siamo soddisfatti", ammette il direttore di Rai 1, Teresa De Santis. La media complessiva delle cinque serate è di 9.797.000 spettatori col 49.38% di share e un'importante crescita sul fronte del pubblico più giovane, in particolate tra gli 8-24 anni, si è toccato il 54,7%, il più alto dall'88. Record anche sulle piattaforme digitali: è stato lo show più commentato di sempre, con 15 milioni di interazioni complessive. La raccolta pubblicitaria chiude invece a 31 milioni di euro e sul futuro di Baglioni all'Ariston, i dubbi restano (e la voglia pure): "Non ne ho la più pallida idea. Ci sarebbero molte modifiche da fare ma forse il troppo storpia", ammette sull'ipotesi di un tris alla guida del Festival.

I 5 momenti cult da ricordare, lo show di Pio e Amedeo. Passare dal nazional-popolare al popolar nazionale era una delle ambizioni massime di Claudio Baglioni per il suo bis al Festival. In attesa di decrittare il significato preciso delle sue parole, a sparigliare i giochi in chiave pop ci hanno pensato Pio e Amedeo, piombati all’Ariston con la delicatezza di un ciclone. Per chi già conosceva il loro umorismo politicamente scorretto, sono stati una riconferma, per tutti gli altri, invece, una godibile scoperta. Possono piacere o meno, ma in questo momento sono tra gli attori che meglio sanno raccontare gli eccessi e le mediocrità degli italiani. E soprattutto fanno il loro mestiere, ovvero sanno far ridere, anche su un palco che ha fatto floppare persino comici blasonati.

Ornella Vanoni la disturbatrice. La quota Ora o mai più ha fatto improvvisamente irruzione all’Ariston con un’Ornella Vanoni perfettamente a suo agio nel ruolo di disturbatrice. Ha stravolto il copione, cantato una canzone brasiliana con la Raffaele, infranto il protocollo del buon conduttore avvicinandosi a parlare con Patty Pravo pochi secondi prima della sua esibizione. Imprevedibile, sopra e oltre le righe, la cantante è stata la vera ospite comica di questa edizione. Geniale la sua battuta finale: "Sono venuta gratis, che non diventi un'abitudine". Definitiva.

Le imitazioni di Virginia Raffaele. Per vederla imitare – ma senza maschere e parrucche – ci è toccato aspettare la quinta e ultima serata. Virginia Raffaele si è attenuta alle indicazioni del “dirottatore artistico” Baglioni, che le ha chiesto di essere sé stessa e tentare l'ardita strada della conduzione pura. L’inizio è stato incerto, poi, masticando la scena, si è acclimatata oscurando il sodale Claudio Bisio (testi e ansia da prestazione non l’hanno aiutato, anzi) a colpi di battute e fuori programma: due comici come co-conduttori rischiano di depotenziarsi a vicenda e a loro è capitato proprio questo. Al "naturale" ha deluso chi l'aspettava nei panni della solita Belén o della Bruzzone, ma la scelta è chiara e precisa: aveva un’importante possibilità tra le mani e ha deciso giocarsela (bene) andando oltre i cliché.

L'omaggio a Mia Martini. Tra arrivi e partenze, incroci pericolosi, ospiti di cui ci si dimentica un minuto dopo l’uscita di scena e conduttori di cui si fatica a capire il talento (come Melissa Greta Marchetto), c’è anche chi per fortuna ha lasciato il segno in maniera marcata. Come Serena Rossi, arrivata per omaggiare Mia Martini - in vista del biopic sulla cantante, in onda il 12 febbraio su Rai 1 - lo ha fatto in un modo così potente e talentuoso da meritarsi applausi a scena aperta e ovazioni. La sua interpretazione di Almeno tu nell’universo, in coppia con Baglioni, è stata intensa come un pugno allo stomaco e drammaticamente emotiva. Che talento la Rossi, che talento!

L'insurrezione dell'Ariston per la Bertè fuori dal podio. Una scena così, con il pubblico che paralizza la scaletta a colpi di boati, fischi e insulti, non si vedeva da anni. È stata un’insurrezione in piena regola quella organizzata dalla platea dell’Ariston dopo l’annuncio del quarto posto di Loredana Bertè: un piazzamento, appena fuori dal podio, tra i più ingiusti e inaspettati di questa edizione, soprattutto dopo essersi mangiata la scena, sfoderando carisma, grinta, malinconia, voce e iconicità spinta. Il “contentino” è arrivato domenica mattina, il 10 febbraio, con un raffazzonato “premio del pubblico” che non riescono neppure a consegnarle in sala stampa perché ancora dorme. Ma un’artista del suo livello, meritava molto di più.

Sanremo 2019, ora Virginia Raffaele è accusata di satanismo. L’esorcista: “Ha invocato Satana”. I politici gli vanno dietro. Salvini: "Condivido preoccupazioni". La gag consisteva nel suo bloccarsi come capita ai vecchi dischi: a un certo punto, interrompendosi, Raffaele dice "Satana" per cinque volte in falsetto. Una presa in giro se contestualizzata nello sketch. Invece è diventato un caso politico, con attacchi da esponenti politici di area cattolica e pure "i dubbi" del vicepremier, scrive Il Fatto Quotidiano il 13 Febbraio 2019. “Virginia Raffaele ha invocato per ben 5 volte il nome di Satana sul palco dell’Ariston”. La polemica che chiude Sanremo 2019 va oltre ogni immaginazione. Ed è la denuncia di satanismo alla conduttrice. Con tanto di endorsement ed esternazioni preoccupate di politici convinti di rappresentare l’area cattolica. Fino al post del ministro dell’Interno, che fa tutt’altro che sdrammatizzare. A dare il via è l’esorcista don Aldo Buonaiuto, coordinatore del servizio nazionale Antisette, secondo cui in uno degli sketch fatti al Festival di Sanremo, quello in cui intonava la canzone “Mamma” di Beniamino Gigli fingendosi un grammofono rotto, la comica romana ha pronunciato per 5 volte il nome di Satana. La gag consisteva nel suo interrompersi come capita ai vecchi dischi: a un certo punto, interrompendosi, Raffaele dice “Satana” per cinque volte in falsetto. Era chiaramente una presa in giro delle vecchie teorie più o meno complottiste secondo cui ascoltando al contrario alcune canzoni rock e pop si sentirebbero messaggi satanici. Il passaggio “incriminato” è al minuto 3.35 di questo video. Buonaiuto però, non ha evidentemente colto l’ironia e ha lanciato invece un appello alla comica romana” perché chiarisca quella che apparirebbe una gag spiritosa ma poi stonata perché sembra non tenere conto della sensibilità di tante persone che soffrono a causa della presenza del maligno – si legge in un articolo pubblicato sul sito In Terris, diretto proprio da don Bonaiuto -. Pur non comprendendo quale fosse l’intento, il ridicolizzare o, ancor più grave, inneggiare il nome di Satana in prima serata su Rai Uno, penso sia stato uno scivolone sconcertante”. E fin qui il pensiero dell’esorcista. A far diventare la questione un caso nazionale, una cosa seria, ci pensano poi i politici, a partire dal ministro dell’Interno. L’articolo con le parole dell’esorcista è stato infatti condiviso su Facebook dal vicepremier Matteo Salvini, che ha detto di condividere e capire “le preoccupazioni espresse da don Aldo Buonaiuto”, e subito la vicenda è diventata una questione politica. Oltre a lui una pletora di politici “Prendere in giro, ridicolizzare e invocare il maligno di fronte a un pubblico di milioni di italiani, compresi minori, è alquanto discutibile – ha attaccato il senatore leghista Simone Pillon, tra gli organizzatori del Family Day e autore del controverso ddl sul diritto di famiglia -. L’attrice comica Virginia Raffaele è solitamente molto brava, ma in questo caso fatichiamo a comprendere le sue scelte: su certe cose, che purtroppo causano sofferenze a molte persone, c’è purtroppo ben poco da ridere”. Sulla stessa linea anche Maurizio Gasparri, di Forza Italia: “Ho letto le considerazioni di Don Aldo Buonaiuto, persona che conosco e reputo di assoluta serietà, ho visto il filmato in cui in effetti, a scopo satirico?, Virginia Raffaele a Sanremo in uno sketch sembra citare Satana varie volte. Equivoco acustico? Modo di dire che potrebbe capitare a chiunque? Altro? Sarà la stessa Raffaele, ormai celebrata artista, a svelare il mistero. Così almeno questa coda, diabolica…, sanremese uscirà dal campo delle controversie festivaliere e resterà in campo solo la musica”. Lega, Forza Italia…e anche Pd. Tutti a una voce sola, contro il satanismo di Virginia Raffaele. Beppe Fioroni, esponente del Partito democratico, ha commentato le dichiarazioni di don Buonaiuto: “La riflessione di don Aldo Buonaiuto sulla citazione da parte brava Virginia Raffaele a Sanremo di Satana per più volte, sicuramente avrà una sua spiegazione, ma è necessario che chi ha pronunciato tali parole renda pubblica ed evidente questa spiegazione. In Italia il problema del Male e della sofferenza che provoca in tante persone non può mai essere sottovalutato né tantomeno banalizzato”. Sul caso è intervenuto anche il segretario nazionale Udc, Lorenzo Cesa: “Il richiamo di Don Aldo Buonaiuto che si rivolge a Virginia Raffaele in merito alla sua gag in cui ha più volte citato Satana è assolutamente condivisibile. Ognuno è libero di esprimersi come meglio crede ma non deve mai mancare il rispetto e concludere in quella maniera che dimostra almeno scarsa sensibilità. Speriamo che quanto prima si possa chiarire tutto ciò archiviandolo come una pessima distrazione sanremese di cattivo gusto”.

Salvini con gli esorcisti contro Virginia Raffaele: "Il suo sketch di Sanremo inneggia a Satana". Virginia Raffaele durante lo sketch di Sanremo che ha scatenato le polemiche. Don Buonaiuto: "Per ben 5 volte ha invocato il demonio". Il vicepremier: "Non sottovalutiamo il problema delle sette". Martina (Pd): "Ministro, provi un po' a lavorare", scrive Simone Fontana il 13 febbraio 2019 su La Repubblica. "Inaccettabile che il palco di Sanremo si trasformi in un inquietante pulpito da cui per ben 5 volte viene invocato il nome di Satana". Tra le tante critiche che hanno interessato il Festival di Sanremo, la più singolare è sicuramente quella dell'associazione degli esorcisti, che si è scagliata contro Virginia Raffaele per lo sketch del grammofono in cui avrebbe "ridicolizzato le persone che soffrono a causa del demonio o, ancor più grave inneggiato il nome di Satana in prima serata su Rai Uno". Una presa di posizione che sembra arrivare dagli anni '70 dello scorso secolo, quando il rock era stato bollato come musica diabolica, portatrice di messaggi satanici e subliminali, da evitare - quindi - nella maniera più assoluta. Ma questo avveniva prima che anche la Chiesa sdoganasse il genere. Ma tutto questo non sembra interessare al vicepremier Matteo Salvini che, con un post Facebook, rilancia la polemica, condividendo un articolo con le dichiarazioni dell'esorcista don Aldo Buonaiuto, della Comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi e coordinatore del servizio nazionale Antisette: "Non sottovalutiamo il problema delle sette sataniche con tutti i problemi connessi" scrive il vicepremier, "ascoltiamo con attenzione gli esperti che ci aiutano a combattere il fenomeno". La pietra dello scandalo è la performance in cui la conduttrice e comica reinterpreta "Mamma" di Beniamino Gigli personificando e "dando voce" ai difetti di riproduzione del suono della puntina di un vecchio e malandato grammofono con tanto di gracchiate e salti. In uno dei suoi momenti di malfunzionamento, Raffaele esclama per cinque volte la parola "Satana", come a far intendere che il grammofono sia stato posseduto. Sulla vicenda la politica interviene con critiche bipartisan: da Beppe Fioroni, esponente del Pd, a Maurizio Gasparri. "Equivoco acustico? Modo di dire che potrebbe capitare a chiunque? Altro? - si chiede l'esponente di Forza Italia - Sarà la stessa Raffaele, ormai celebrata artista, a svelare il mistero. Così almeno questa coda, diabolica..., sanremese uscirà dal campo delle controversie festivaliere e resterà in campo solo la musica". Sulla questione è intervenuto anche l'ex segretario del Pd Maurizio Martina, che stigmatizzando le parole del vicepremier dichiara su Facebook: "Ministro, provi un po' a lavorare dai, anzichè spiegarci il problema delle sette" e approfitta per tornare ad attaccare l'azione politica di Matteo Salvini: "Ci dica perchè con la vostra manovra 100mila persone perderanno l'assegno di ricollocamento al lavoro. E ci dica perchè il suo governo blocca la Tav e tutte le opere strategiche".

Satana a Sanremo? Non c’è niente da ridere, scrive il 14 febbraio 2019 Sabrina Cottone su Il Giornale. Non conosco Virginia Raffaele e non ho ragione di credere che sia una satanista. Mi limito a sperare che, da comica, stesse scherzando. Eppure mi ha molto impressionato ciò che è accaduto a Sanremo, ovvero un’invocazione a Satana con tanto di balletto durante una delle serate in cui la tv fa più incetta di spettatori, bambini e adolescenti inclusi, come è stato confermato dall’analisi dell’audience. "Ma tu credi a Satana?" mi sono sentita chiedere da amici a colleghi.  Ebbene sì, credo con la Tradizione della Chiesa che sia un essere personale e che, come ricorda spesso Papa Francesco e ha illustrato Paolo VI nell’udienza generale del 15 novembre 1972, il male è <un essere vivo, spirituale, pervertitore e pervertito. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa. Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente> oppure chi la spiega come <una personificazione concettuale e fantastica delle cause dei nostri malanni>. Come si legge nel Catechismo della Chiesa cattolica al punto 2851 commentando l’invocazione <e liberaci dal male>, conclusione della preghiera del Padre Nostro: <In questa richiesta, il male non è un’astrazione; indica invece una persona: Satana, il maligno, l’angelo che si oppone a Dio. Il «diavolo» è colui che «si getta di traverso» al disegno di Dio e alla sua «opera di salvezza» compiuta in Cristo>. Fin qui ciò che riguarda la fede dei cattolici. Il tema che vorrei affrontare è però un altro. Si è liberissimi di non credere all’esistenza di Satana e dei demoni, naturalmente, ma non si può a cuor leggero sottovalutare l’esistenza di un cospicuo numero di sette sataniche e di satanisti più o meno sparsi o anonimi che non solo credono nell’esistenza del diavolo, ma lo emulano nel male. Arrivano a uccidere, come hanno dimostrato numerosi casi di cronaca. A questo fenomeno in diffusione soprattutto tra i giovani sono stati dedicati importanti studi scientifici e convegni come quello dello scorso novembre all’Università Lumsa di Roma, dal titolo ‘Manipolazioni e crimini: la trappola delle sette’, al quale ha partecipato anche il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Suppongo sia anche per questo che il ministro Salvini sia stato così pronto a raccogliere il grido di allarme di don Aldo Bonaiuto davanti alla discutibile performance alla quale milioni di italiani si sono trovati ad assistere a Sanremo. Don Aldo, per coloro ai quali interessa questa informazione, oltre che essere tra i volti più noti dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Benzi, è un sacerdote esorcista, ovvero ha ricevuto un mandato della Chiesa per scacciare la presenza demoniaca da persone e luoghi. Le sette sataniche e il satanismo criminale sono un’emergenza reale, quotidiana, di malvagità continua più o meno nascosta, indottrinamento e manipolazione, e non è bene svegliarsi solo quando ci si trova davanti al peggio: omicidi che appaiono incomprensibili. Lo sono, incomprensibili, perché quando si sente parlare di Satana la reazione più comune è farsi una risata. Anche per questo mi hanno fatto soffrire tutte le battute che ho letto sui social sul caso. Sarà forse anche stata una goliardata, ma dalle conseguenze imprevedibili. Con un po’ di cielo solo se ciò che è accaduto servirà a riflettere sulla gravità del fenomeno. Non c’è bisogno di fare pubblicità in prima serata a Satana e alle sue sette, se ne fanno già tanta da sé.

PS. Per coloro che fossero interessati, riecco l’invocazione a San Michele Arcangelo che il Papa ha consigliato di pregare dopo il Rosario (ma immagino anche prima o in altri momenti di difficoltà)

PREGHIERA A SAN MICHELE ARCANGELO 

San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia;

sii tu nostro sostegno contro la perfidia e le insidie del diavolo, che Dio eserciti il suo dominio su di lui, te ne preghiamo supplichevoli;

e tu o Principe della milizia celeste, con la potenza divina, ricaccia nell’inferno Satana e gli altri spiriti maligni i quali errano nel mondo per perdere le anime. Amen

Sanremo 2019: il meglio e il peggio della finale. Tutto sulla quinta serata del Festival, dai fischi contro il quarto posto di Loredana Berté alla clamorosa vittoria di Mahmood che batte il super favorito Ultimo e Il Volo, scrive Francesco Canino il 10 febbraio 2019 su Panorama. È Mahmood il vincitore di Sanremo 2019. Dopo quattro serate tra musica, mega show, gaffe e imprevisti, il Baglioni-bis si chiude con un clamoroso e inaspettato dei ribaltoni: partito tra le "polemiche sovraniste" - e proseguito con poco pochissimo show e tanta musica - il Festival viene vinto da un ragazzo di 27 anni di origini egiziane (che rivendica il suo essere al 100% italiano) che ha battuto il super favorito Ultimo. Ecco il meglio e il peggio della quinta serata, in onda il 9 febbraio, tra lacrime e fischi.

Sanremo 2019, il "congedo" di Claudio Baglioni. La serata si apre con un Claudio Baglioni in total white (pare uscito dalla pubblicità di un celebre caffè) che parla al pubblico, definendolo “testimone e complice”, e traccia un bilancio del suo Festival da “dirottatore artistico”, con parole che hanno il retrogusto del congedo. "Non sai mai se hai fatto bene o male, se c'è stato troppo spettacolo o troppo concorso”, ammette. “Hanno vinto le speranze degli artisti e la musica. Spero che questo solco tracciato resti: abbiamo bisogno di un Festival della canzone italiana e spero rimanga tale fino al prossimo Sanremo e a quelli che verranno". 

Le lacrime di Anna Tatangelo. Il primo fuoriprogramma della finale lo regala Anna Tatangelo che sul finale di Le nostre anime di notte cede alla commozione e sdogana "la lunga notte delle lacrime". Dopo anni di becero massacro mediatico, per Lady Tata si chiude un Sanremo speciale e riuscitissimo (dall’ottimo duetto con Syria ai look impeccabili, non ha sbagliato un colpo): la canzone, che parla di una coppia che ha rischiato di veder finire il proprio rapporto, forse le fa rivivere il suo privato complicato dell’ultimo anno e scoppia in lacrime. Doppiamente fragile, per citare una delle sue hit, ma sempre diva.

Il ritorno di Ramazzotti e la grande emozione di Elisa. Dal 1986 con furore, sul palco dell’Ariston torna Eros Ramazzotti e trentatré anni dopo, ancora graffia con Adesso tu. Poi, in coppia con Luis Fonsi fa impazzire il teatro e certifica la fine di un'epoca: dopo anni di signori imbalsamati nei loro smoking presi in affitto e dame con cotonature a prova di abusivismo edilizio, il pubblico dell'Ariston si è improvvisamente scongelato. Ora è tutta una standing ovation e una lotta all'ultima Instagram Stories. Da brividi invece Elisa, che prima canta il suo nuovo singolo, poi incanta tutti in coppia con Baglioni: il loro Vedrai Vedrai, l'omaggio a Luigi Tenco, è il duetto più bello e onirico di questo Festival. 

Berté-Mahnmood-Arisa-Nigiotti, lacrime e imprevisti. Sul fronte gara, terza esibizione e terza standing ovation per Loredana Berté, icona tra le icone di questo Sanremo (come Patty Pravo, con un look così esagerato da non essere imbrigliabile in alcun aggettivo). Tra alti e bassi, l’imprevisto è dietro l’angolo: così, mentre Mahmood è costretto a ricominciare a cantare a causa del microfono che non funziona (evidentemente gli ha portato bene), Arisa deve invece fare i conti con la febbre a 39 che le “spezza la voce”. Eroicamente termina l’esecuzione, poi scoppia in lacrime, così come Enrico Nigiotti, che conclude la sua canzone con gli occhi lucidi (e una punta di polemica per essersi esibito per la terza volta dopo mezzanotte).

Meno male che Virginia Raffaele c’è. Tra gag dimenticabilissime e intermezzi di spettacolo da “grande boh”, anche la finale del Festival non brilla per picchi di originalità: Claudio Bisio appare finalmente meno imbrigliato ma il suo Sanremo si chiude con un bilancio incolore. I fuoriprogramma (e il graffio vero) è tutto nelle mani di Virginia Raffaele: ci sono volute cinque serate, ma finalmente Virginia fa Virginia e strappa applausi a scena aperta con un medley in cui canta e imita alla sua maniera la Ayane, la Ferreri, Patty Pravo e ovviamente Ornella Vanoni. La quota cult è garantita (il suo grandioso talento anche) ma la scelta - legittima, per carità - di togliersi la maschera per buttarsi nella conduzione pura resta piuttosto incomprensibile. 

Fischi per il quarto posto di Loredana Berté. Dopo quattro ore di diretta, all'una di notte, arriva il momento di conoscere i tre cantanti più votati dalle giurie, quelli che si contenderanno la vittoria. E in quel momento scoppia all'Ariston una scena da annali del Festival, con il pubblico che fischia per diversi minuti contro il quarto posto di Loredana Berté: l'esclusione dal podio è davvero una beffa immeritata e sgradevole, perché la sua Cosa ti aspetti da me era una delle canzoni più belle di questo Festival. La corsa a tre è tra Ultimo, Il Volo e Mahmood. Il voto complessivo di televoto, sala stampa e giuria d’onore è stato del 38,9% per Mamhood seguito da Ultimo con il 35,6% e da Il volo con il 25,5%. Il dettaglio del televoto è stato: 46,5% per Ultimo, 39,4% Il volo e 14,1% per Mamhood.

Vince Mahmood, beffato Ultimo. C'è almeno una solida certezza in questa finale: Ultimo è entrato da Papa (con mesi di anticipo) e ne è uscito da cardinale. Con un clamoroso colpo di coda, il cantante romano finisce invece al secondo posto battuto da Mahmood - terzo Il Volo, che chiude un podio giovanissimo - e in sala stampa, dopo la diretta, se la prende con i giornalisti.

L'attacco di Ultimo ai giornalisti nella conferenza stampa post-finale di Sanremo2019. "Me l'avete tirata", azzarda polemizzando. "Non ho bisogno di crearmi un velo di finzione. Se non riesco a raggiungere una cosa mi arrabbio", sbotta clamorosamente. Poi aggiunge: "Non ce l'ho con nessuno, sono amareggiato perché punto all'eccellente non al buono". Poi lo sfogo prosegue: "La mia vittoria sono i live, è la gente che si riconosce in quello che scrivo. Sono comunque contento di aver partecipato al Festival. Avete questa settimana per sentirvi importanti". Decisamente più soddisfatto Mahmood, che a domanda diretta sulle polemiche sui migranti, risponde serafico: "Sono un ragazzo italiano, nato e cresciuto qui. Sono italiano al 100%".

Le polemiche per il voto delle giurie. Intanto sui social scoppiano le reazioni contrastanti dei fan e dei telespettatori, compresi il vicepremier Matteo Salvini e la sua ex fidanzata Elisa Isoardi, che festeggia la vittoria di Mahmood e si schiera a suo favore mentre il ministro dell'Interno non nasconde la sua delusione twittando così: "Mahmood...mah....la canzone italiana più bella?!? Io avrei scelto Ultimo". Il problema di fondo? L'esito del televoto che ha completamente ribaltato dal voto della giuria d'onore e quella della sala stampa. I numeri sono chiari: Ultimo ha preso il 46,5%, Il Volo il 39,4% e Mahmood solo il 14,1%. 

Sanremo 2019, nessuno è perfetto. Con la vittoria di Mahmood si chiude il Festival dell'accoglienza, che ha mostrato tutta la musica a disposizione del nostro Paese. Il piatto insomma c'è stato. Il condimento televisivo un po' meno, scrive Beatrice Dondi il 10 febbraio 2019 su L'Espresso. «Nessuno è perfetto» aveva esordito Baglioni vestito di bianco come il Cenerutolo di Bar Sport. E ancora non sapeva che al terzo posto ci sarebbe finito il Volo. D'altronde Sanremo è lo specchio d'Italia e si sa che le votazioni non sempre vanno come si vorrebbe. Ma qualcosa di buono in fondo al setaccio del carrozzone festivaliero rimane, a partire da Mahmood, ill vincitore un po' sardo, un po' egiziano, un po' X Factor, un po' Sanremo, a cui il vicepremier Salvini avrebbe preferito Ultimo, italiano italiano arrivato secondo. Perché queste cinque lunghe maratone sono riuscite a mostrare interamente il panorama della musica questo Paese. E che no, proprio come questo Paese non è perfetta, ma è quella che c'è. E l'abbiamo ascoltata tutta. Da Macario a Elisa, da Eros alla trap. Il buon Claudio ha portato all'Ariston le note del pentagramma declinate in ogni modo possibile e questo è un fatto. Che nessuno aveva fatto. Lanciando a suo modo un messaggio che è l'esatto contrario della grettezza sbandierata da “Prima gli italiani”. Perché su quel palco c'erano tutti, brutti e bellissimi, giovani e nonni di Hollywood, alto, basso, medio, strano, diversità e tradizione. Ragazzini e gigantesse. Figlie e sorelle. Sorprese dalle origini straniere e gradevoli voci (maschili ovviamente), raffinati interpreti e, come ha elegantemente sottolineato il senatore Gasparri “sventurati sfuggiti a qualche retata”. E la parola tutti è sinonimo di accoglienza. Come dimostra il fatto che i vincitori sono coetanei dalle età così diverse. Poi per carità, c'è anche la televisione, la scatola che tutta quella musica deve incorniciare, e che ha latitato non poco. Ma quando si tirano le somme come corde di violino la quantità per una volta vince. Di fronte a una snocciolata di milioni di spettatori è passato “ah” Achille Lauro, coi tatuaggi sulla guancia e una Rolls Royce di polemiche insieme all'abbraccio di Nino D'Angelo con Livio Cori. Le giacche insostenibili di Irama con la schiena nuda di Anna Tatangelo, che divina lascia cadere due lacrime sul palco. Arisa che nonostante abbia 39 di febbre si sente bene lo stesso e Silvestri che con il suo racconto di adolescenza in gabbia semina perle di magnifica ansia e si porta a casa almeno due premi. E di questo al buon Baglioni bisogna dare atto: il piatto c'è stato. Sul condimento ci sarebbe parecchio da dire, per esempio il fatto che Virginia Raffaele abbia mandato avanti la sua controfigura sbiadita e che sia arrivata solo per finale, che gli sketch siano stati copiati uno dopo l'altro per tutta la durata del festival, che Bisio abbia urlato da una quinta all'altra e poco più, che gli autori si siano limitati a timbrare il cartellino e che soprattutto più che una finale di Sanremo è sembrato un sequestro di persona. Ma nessuno è perfetto. «Vi giuro che abbiamo fatto tutto il possibile – aveva esordito il dirottatore artistico. «Non so chi vincerà, ma sicuramente hanno vinto la musica, le parole, le speranze di giovani artisti, e di alcuni meno giovani, che ci mettono la loro vita e confidano in quello che accadrà domani. Spero che questo solco resti, perché abbiamo bisogno di un Festival della canzone italiana». E parafrasando la nota pubblicità, diciamo che non è proprio “bisogno”, è più voglia di qualcosa di buono. Ma nessuno è perfetto.

Polemiche, gaffe, contestazioni Alla faccia dell'Armonia di Baglioni, scrive Laura Rio, Lunedì 11/02/2019, su Il Giornale.  Il Festival è cominciato con un'esorbitante polemica sui migranti ed è finito con un'altra ancor più gigantesca sul figlio di un immigrato. La vittoria di Mahmood, italiano nato in Italia, mamma sarda e padre egiziano, ha scatenato una guerra politica più devastante di quella generata dalle dichiarazioni di Baglioni poco prima l'inizio della kermesse. Il televoto popolare viene «corretto» dal voto della Giuria d'Onore e dei giornalisti. Risultato: telespettatori infuriati, web impazzito, il secondo arrivato, Ultimo, incavolato nero, pure il conduttore Baglioni perplesso. Insomma, questo Sanremo sarà ricordato come quello delle divisioni, intestine ed esterne. Metteteci qualche gaffe di troppo, «inni alla droga», accuse di plagio... Altro che il Festival dell'armonia a cui teneva il presentatore, che si è riempito la bocca per giorni di ying e yang, gli opposti che si attraggono. Alla fine, non si è ricomposto nulla. Tutti scontenti, nonostante i numeri dicano che in sostanza la kermesse sia piaciuta: 56,5% di share nella serata finale con 10.622mila spettatori. Comunque in flessione rispetto allo scorso anno (58,3% e 12.125mila spettatori). In media, nelle cinque serate, un calo di due punti di share e una perdita di un milione e mezzo di spettatori. La Rai incamera ascolti e incassi pubblicitari, ma perde in credibilità. Non solo per la mancanza di concordia tra la dirigenza e il presentatore all'inizio dell'avventura, frattura poi ricomposta, ma anche per il risultato finale della gara. Ricordiamo: il voto popolare aveva indicato come vincente Ultimo, mentre la sala stampa e la giuria di qualità (che insieme valgono il 50%) hanno ribaltato il televoto portando sul podio più alto Mahmood. Nel tempo, era stato deciso di far intervenire più giurie per controbilanciare un voto da casa passibile di brogli o altre storture. Quest'anno la scelta si è rivelata un boomerang, perché il pubblico si è ribellato. Pure Baglioni ne ha preso le distanza e si è dichiarato a favore del solo televoto. Anzi è una delle poche critiche che ha mosso alla Rai, nonostante ci si attendeva che si togliesse qualche sassolino dalle scarpe nella conferenza stampa di chiusura. «O il risultato finale viene deciso da giurie ristrette, di esperti, oppure questa mescolanza diventa discutibile - ha detto -. Si crea la situazione per cui pochi pesano per molti». E aggiunge: «Qualsiasi direttore arrivi si trova delle incrostazioni precedenti, delle servitù di passaggio (come le giurie di qualità). E c'è anche un atteggiamento timoroso verso i giornalisti accreditati cui non si vuole togliere il potere di votare». Posizione che, in maniera molto più dura, aveva espresso anche Ultimo, arrivato in sala stampa all'una e mezza di notte, dopo la proclamazione del podio, con il volto stravolto dalla rabbia attaccando in maniera sproposita i giornalisti presenti. «Mi avete rotto il cazzo». Lui si aspettava di vincere, il mancato alloro l'ha fatto scattare. Pure Salvini ha twittato che preferiva lui. Addirittura Maria Giovanna Maglie, candidata a guidare una importante striscia di approfondimento dopo il Tg1, ha criticato la vittoria di «uno che di nome fa Maometto, la frasetta in arabo c'è...». Anche Luigi Di Maio ieri sera si è espresso sul tema: «Per l'anno prossimo, magari - auspica il leader del M5S-il vincitore si potrebbe far scegliere solo col televoto». Insomma, nessuno sta al suo posto, tutti vogliono mettere becco sul Festival. L'unico che dovrebbe parlare - Baglioni - e sciogliere la riserva sulla prossima kermesse, non chiarisce: tornerà l'anno prossimo? «Mi piacerebbe, ma ho altro da fare, disco e tour». Si vedrà. Con quello che ha passato quest'anno, ci penserà bene.

Sanremo, il giallo sul televoto dietro il trionfo di Mahmood: il golpe della giuria, il ribaltone, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo la vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo è scoppiata la polemica sulle procedure di voto che hanno portato il rapper italo-egiziano a trionfare nella 69esima edizione in finale contro Ultimo e il Volo. Nell'ultima parte della trasmissione ci sono stati pochi e fondamentali minuti per dare la possibilità ai telespettatori di esprimere il televoto, con nuovi codici assegnati da un notaio ai tre finalisti. Un elemento di novità che ha in parte disorientato il pubblico, qualcuno si è lamentato sui social, ma le operazioni comunque procedono e sul palco dell'Ariston arriva il momento della proclamazione del vincitore. Quando Claudio Baglioni, Virginia Raffaele e Claudio Bisio svelano che a vincere il Festival è stato Mahmood però nasce un giallo, che per tutta la notte scatenerà grandi polemiche per un possibile equivoco. La regia Rai ha mostrato le percentuali di voti incassati dai finalisti: Mahmood al 14%, Ultimo il 47% e Il Volo il 39%. Poco dopo però i numeri cambiano: Mahmood vince con il 38,9%, Ultimo arriva secondo con il 35,6% e il Volo terzi con il 25,5%. Il sospetto che qualcuno abbia ribaltato il risultato per ottenerne uno più gradito serpeggia sui social. Finché non vengono svelate le percentuali di voto arrivate dalla Giuria d'onore e dalla giuria della sala stampa: Mahmooh ha trionfato con il 63,7%, Ultimo ha ottenuto appena il 24,7% e il Volo l'11,6%. A spingere alla vittoria il rapper italo-egiziano è stata quindi non solo la stampa, ma anche la giuria seduta in platea all'Ariston, piena zeppa di personaggi dello spettacolo ben noti al pubblico. Ben noti soprattutto per il propio orientamento politico, dal regista Ferzan Ozpetek alla conduttrice Serena Dandini, passando per il giornalista Beppe Severgnini, Camila Raznovic, Claudia Pandolfi e Joe Bastianich e infine il presidente Mauro Pagani. Una manina in fondo c'era, ed era mancina.

Sanremo, televoto e giuria: nessuno complotto. Ecco perché ha vinto Mahmood, scrive Ernesto Assante il 10 febbraio 2019 su La Repubblica. Sommare televoto e voto delle due giurie ha prodotto un risultato singolare ma, alla fin fine, giusto ed equilibrato. Proviamo a spiegare quello che probabilmente è successo. Certo, tutto è perfettibile e, per quello che riguarda Sanremo, nulla è perfetto. Non lo è di certo il voto popolare assoluto, che è stato "corretto" negli anni con l'aggiunta delle altre votazioni per evitare che a vincere, ogni anno, fossero quelli con la maggior popolarità penalizzando quelli con la maggiore qualità. Non lo è il voto delle sole giurie di giornalisti, che si orientano, naturalmente, con gusti decisamente diversi da quelli del pubblico televisivo o della sala dell'Ariston. E non è sano, per come è fatto Sanremo, nemmeno un voto dato unicamente da una giuria "d'onore" come quella che quest'anno ha contribuito a determinare un risultato diverso da quello che ci sarebbe stato con il televoto. Sommare le tre cose ha prodotto un risultato singolare ma, alla fin fine, giusto ed equilibrato, perché ha premiato tra i tre artisti in finale, quello per il quale l'equilibrio tra popolarità e qualità era mediamente più alto. Proviamo a spiegare quello che probabilmente è successo, e diciamo probabilmente perché gli unici numeri che abbiamo a disposizione sono quelli del voto popolare e le percentuali di "peso" delle diverse giurie. Il dato finale certo è che Mahmood ha vinto con una media ponderata del 38.9%, Ultimo si è arrivato a conquistare la il secondo posto con il 35.6% ed Il Volo ha raggiunto al terza posizione con il 25.5%. Il dato del televoto da solo era decisamente diverso: Ultimo per il pubblico da casa era il primo, con il 46.5% delle preferenze, Il Volo ha conquistato un notevole 39.4% dei consensi e Mamhood solo il 14.1% dei voti. Come è stato possibile che si sia invertito il risultato finale? Con i voti assegnati dalle altre due giurie, quella dei giornalisti e quella della "Giuria d'Onore", che hanno votato Mahmood in blocco e non avrebbero potuto fare diversamente. Spieghiamoci: la sala stampa aveva due beniamini, Daniele Silvestri e Rancore, premiati ampiamente con i riconoscimenti assegnati dalla critica. E poi c'era Cristicchi, anche lui premiato con due riconoscimenti per il testo e la musica. E poi, volendo scendere di qualche gradino, c'erano la Bertè, Motta (anche lui non a caso premiato la sera precedente), Zen Circus, Achille Lauro... Nessuno di questi ha passato la selezione finale, dove la dispersione dei voti della sala stampa, che non si è concentrata su un unico candidato ma ha votato per puro gusto personale, non ha permesso a nessuno di loro di prevalere. La sala stampa, alla fine, si è trovata a dover votare fra tre finalisti che non erano la "prima scelta" dei giornalisti. Tra i tre rimasti quello che metteva d'accordo tutti era Mamhood, con il giusto equilibrio tra divertimento, qualità, tematiche e musica. Non abbiamo i numeri, sappiamo solo che la somma dei voti delle due altre giurie ha determinato con il 63% a Mamhood, il 24,7% a Ultimo e solo l'11,6 a Il Volo ha determinato il ribaltone, ma possiamo ipotizzare che un 50% dei voti della stampa sia andato a Mamhood, più di un trenta a Ultimo, quel che resta a Il Volo. Un voto "di sinistra"? No, la sala stampa conta circa quattrocento giornalisti, di tutte le testate italiane, non solo quelle orientate a sinistra. E la sala stampa, proprio per la ovvia "competitività" tra i critici dei diversi giornali, non è orientabile in un senso o in un altro, ogni giornalista vota per proprio conto, nessuno si accorda con nessuno. Poi c'è la "Giuria d'Onore" e qui tutto cambia, perché si tratta di una giuria, che funziona quindi con meccanismi collettivi. Spieghiamoci meglio: una giuria è un organismo che prevede che venga presa una decisione dopo un confronto, cosa che certamente è avvenuta tra i giurati seduti in prima fila all'Ariston. Quindi è ipotizzabile che la giura abbia scientemente deciso di mettere la maggior parte del suo peso, il 20% del totale, su un personaggio solo dei tre, con il classico meccanismo per il quale ogni giuria, anche quella del festival di Cannes o quella del festival di Venezia nel cinema o quella del Premio Strega in letteratura, decide un unico vincitore. E quale artista tra i tre avrebbe mai dovuto votare una giuria composta da Mauro Pagani, Elena Sofia Ricci, Ferzan Ozpetek, Serena Dandini, Claudia Pandolfi, Beppe Severgnini, Camila Raznovich e Joe Bastianich? Lo hanno fatto perché sono di sinistra? No, lo hanno fatto perché hanno valutato la qualità "artistica" del brano a loro avviso, liberamente. La giuria d'onore funziona come le giurie dei festival di cinema e nello stesso modo si è comportata. Facciamo un esempio? Mettiamo il caso che in un'ipotetica serata finale del Festival di Venezia arrivassero a contendersi la vittoria "Cado dalle nubi" di Checco Zalone e "Perfetti sconosciuti" di Paolo Genovese, cosa credete che avrebbe votato la stessa giuria? E se fosse stata a Cannes davanti a un film degli Avengers e uno di Cuaron? Conterebbe che Zalone e gli Avengers sono amatissimi dal pubblico? Sarebbe un "voto di sinistra" far vincere Genovese o Cuaron? AI festival di cinema vincono spesso film talmente impopolari che nemmeno arrivano in sala, nessuno pensa di giudicare incompetenti o cretini i componenti delle giurie. Oltretutto le regole del gioco erano chiare fin dall'inizio, soprattutto ai cantanti. Supponiamo che Ultimo abbia chiamato Baglioni e gli abbia detto "ho una canzone che vorrei proporre al Festival", Baglioni l'ha ascoltata, ha detto di sì e poi ha aggiunto: "E' una gara, ci sono meccanismi diversi di voto, quello popolare, quello della sala stampa e quello della 'Giuria d'Onore". Funziona così. Ti va bene partecipare?". E Ultimo deve aver risposto di sì. Non sappiamo se sia andata veramente in questo modo ma di certo Ultimo, al secolo Niccolò Moriconi, è stato informato di come funzionava la gara prima di parteciparvi. Sapeva che i voti si sarebbero sommati e che ogni parte del meccanismo avrebbe avuto un peso diverso. Sapeva e accettato che potesse finire così. Inutile, anzi stupido, recriminare adesso. Le regole del gioco erano chiare fin dall'inizio, se oggi non le accettasse, solo perché non ha vinto, Ultimo non avrebbe ragione. Quindi? La "magia" del festival è già finita, la "fratellanza dell'amore universale" è svanita assieme alle prime luci dell'alba di domenica, è tornata ad avere visibilità non l'Italia delle canzoni, della bellezza, del divertimento e dell'armonia, ma quella che pensa che le "elite" siano responsabili di tutto, contro il volere del popolo, in questo caso incarnate dai giornalisti e da un pugno di artisti e personaggi dello spettacolo di chiara fama, "elite" che nel comune sentire di questi tempi non dovrebbero contare di più del televoto. Peccato, Sanremo è finito, ci siamo svegliati e siamo tornati ad essere quelli di sempre. 

Sanremo 2019, come ha vinto Mahmood: la clamorosa analisi del voto, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Il bordello del pubblico dell’Ariston ci ha svegliato... che è successo? abbiamo vinto la guerra contro la Francia?": finisce con questa frase ironica la diretta del gruppo comico The Jackal sul Festival di Sanremo 2019, la cui conclusione ha scatenato clamorose polemiche su televoto e accuse a una "giura politica". Il vincitore della 69esima edizione del Festival è infatti Mahmood, di padre egiziano che nella sua canzone Soldi parla anche in arabo. "Ieri eri qua ora dove sei papà, Mi chiedi come va come va come va, Sai già come va come va come va", ha scritto questa mattina su Twitter il cardinale Gianfranco Ravasi, scatenato sui social durante il Festival. Ha intonato di fatto una strofa del brano vincente. "Mahmood mah La canzone italiana più bella?!?", ha commentato invece Matteo Salvini, il quale avrebbe preferito vedere la vittoria di Ultimo. E durante la conferenza stampa di fine Festival è stato però proprio il cantante romano a rispondere al ministro: "Io nel momento in cui scrivo le mie canzoni e poi escono, non m’interessa se piacciono a Salvini o al fornaio o al muratore...". Contro Salvini, poi, i soliti insulti di Chef Rubio, che sui social ha pubblicato l'ennesima schifezza: "Io dico che non ce capisci né de musica né de politica né de donne né de vita né de cibo... non vali un cazzo... insomma, e non perdi occasione per dimostrarlo". Nel frattempo monta la polemica su Mahmood, tutta incentrata sulle sue origini. "Un vincitore molto annunciato. Si chiama Maometto, la frasetta in arabo c’è, c’è anche il Ramadan e il narghilè, e il meticciato è assicurato. La canzone importa poco, Avete guardato le facce della giuria d’onore?": queste le durissime parole di Mariagiovanna Maglie, possibile futura conduttrice di un programma di informazione su Rai 1 dopo il telegiornale delle 20. La giornalista ha criticato la vittoria di Mahmood come migliaia di altri utenti, che insistono sui risultati del voto. Interessante l'analisi proposta dal co-fondatore di YouTrend Lorenzo Pregliasco, "Mahmood è balzato in testa grazie al 63% delle giurie (sala stampa e giuria d’onore), superando di poco Ultimo. Il televoto avrebbe infatti premiato Ultimo con il 46,5% delle preferenze, seguito da Il Volo con il 39,4% e dal vincitore finale con il 14,1%. Le giurie combinate hanno invece assegnato il 63,7% dei voti a Mahmood, seguito da Ultimo con il 24,7% e da Il Volo con l’11,6%".

Michela Tamburrino per ''la Stampa'' l'11 febbraio 2019. Il Festival più social della storia ha generato polemiche e anche sofferenza. Come quella che ha provato Mahmood, vincitore di Sanremo, stamattina leggendo i tweet di Maria Giovanna Maglie all' indomani della sua vittoria: «Un vincitore molto annunciato. Si chiama Maometto, la frasetta in arabo c' è, c' è anche il Ramadan e il narghilè, e il meticciato è assicurato. La canzone importa poco, avete guardato le facce della giuria d' onore?».

Ma che cosa le ha fatto Mahmood? Non dovrebbe neppure essere detto ma è italiano, nato qui da madre sarda e padre egiziano?

«Nulla e infatti io non ce l'avevo con lui, solo un ignorante può pensare che meticciato sia un insulto razzista. Significa che non ha mai letto un libro, io riprendo frasi di Scalfari e del cardinale di Ferrara che usano il termine conferendogli un'accezione positiva, anche Lévi Strauss ha fatto lo stesso. Il razzismo sta nella testa dei prepotenti, è l'endorsement del conduttore come hanno notato in molti».

Non era contro Mahmood, allora con chi ce l'aveva?

«Contro la giuria d' onore pilotata che ha sovvertito il volere popolare. E ho notato la violenza totale e il livello infimo del dibattito. Io ho espresso un giudizio personale che è mio e appunto voglio che sia garantito il mio diritto a dire quello che penso senza che la mia persona venga attaccata».

L' attaccato però sembrava appunto il cantante vincitore.

«Invece no, anzi. Gli è stata attaccata addosso un'etichetta che non lo aiuterà. Di lui non si ricorderà la canzone ma il significato che le hanno voluto dare al di là dell'indubbio merito. Poi se mi si chiede chi mi sia piaciuto dico Cristicchi e Loredana Berté per il suo percorso».

Però sembrava un attacco pretestuoso contro un giovane cantante per il solo fatto di non chiamarsi Mario.

«Ma il giochetto della giuria era chiaro, bastava vedere le loro facce soddisfatte. Una giuria che, escluso Mauro Pagani, non era composta da competenti. Un cuoco, un'attrice, una scrittrice, un regista. Allora anche io dico la mia a modo mio su Twitter e se non posso esprimere un parere allora c' è qualcosa nel Paese che non va. La violenza peggiora perché è in predicato un programma per me? Ma che cosa posso spostare con il mio giudizio? 

Sanremo 2019, i risultati delle votazioni serata per serata. Bertè penalizzata dalla giuria d’onore. Flop Tatangelo al televoto, scrive domenica 10 febbraio 2019 Roberto Mallò su Davidemaggio.it.

Votazioni quinta serata Sanremo. La sessantanovesima edizione del Festival di Sanremo si è conclusa con la vittoria del brano Soldi di Mahmood. Fin dall’inizio, Ultimo – insidiato da Il Volo – sembra destinato a vincere fino allo scontro finale a 3. Loredana Bertè, invece, è stata da sempre tra i nomi preferiti dalla Sala Stampa ma la votazione della Giuria d’Onore (subentrata a partire dalla quarta serata) non le ha consentito di arrivare tra i primi tre. Ecco tutte le graduatorie generali, serata per serata.

Sanremo 2019, votazioni prima serata (1-24)

CLASSIFICA TELEVOTO (40%):

1 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 17,99%

2 – Il Volo (“Musica che resta”) 17,21%

3 – Federica Carta e Shade (“Senza farlo apposta”) 5,27%

CLASSIFICA GIURIA DEMOSCOPICA (30%)

1 – Il Volo (“Musica che resta”)

2 – Ultimo (“I tuoi particolari”)

3 – Loredana Bertè (“Cosa ti aspetti da me”)

CLASSIFICA SALA STAMPA (30%)

1 – Mahmood (“Soldi”)

2 – Simone Cristicchi (“Abbi cura di me”)

3 – Daniele Silvestri (“Argento vivo”)

CLASSIFICA PRIMA SERATA:

1 – Ultimo (“I tuoi particolari) 11,53%

2 – Il Volo (“Musica che resta”) 10, 72%

3 – Simone Cristicchi (“Abbi cura di me”) 6,43%

La prima serata di Sanremo 2019 vede primeggiare, fin dall’inizio, Mahmood in Sala Stampa. Il cantante però, grazie alle posizioni del televoto (21esimo) e della giuria demoscopica (19esimo), si deve accontentare soltanto dell’ottavo posto. Ottima terza posizione per Federica Carta e Shade al televoto ma i due, tuttavia, si fermano sul 12esimo gradino della classifica generale. Per la Sala Stampa, infatti, sono ultimi. Da segnalare il quarto posto al televoto dei Boomdabash che battono di un soffio Irama, quinto per il pubblico televotante. Anna Tatangelo è ultima al televoto con appena l’1.2% dei voti (22esima per la Sala Stampa, 15esima per la demoscopica).

Sanremo 2019, votazioni seconda serata (1-12)

CLASSIFICA TELEVOTO (40%):

1 – Il Volo (“Musica che resta”) 38,32%

2 – Loredana Bertè (“Che cosa vuoi da me”) 8,12%

3 – Federica Carta e Shade (“Senza farlo apposta”) 7,29%

CLASSIFICA GIURIA DEMOSCOPICA (30%)

1 – Il Volo (“Musica che resta”)

2 – Loredana Bertè (“Che cosa vuoi da me”)

3 – Daniele Silvestri (“Argento vivo”)

CLASSIFICA SALA STAMPA (30%)

1 – Arisa (“Mi sento bene”)

2 – Daniele Silvestri (“Argento vivo”)

3 – Loredana Bertè (“Che cosa vuoi da me”)

CLASSIFICA SECONDA SERATA:

1 – Il Volo (“Musica che resta”) 21,51%

2 – Arisa (“Mi sento bene”) 12,78%

3 – Loredana Bertè (“Che cosa vuoi da me”) 12,35%

Nella seconda serata della kermesse canora si sono esibiti soltanto 12 artisti su 24. Il Volo è imbattibile al televoto e primo per giuria demoscopica, mentre Arisa riesce a conquistare la Sala Stampa (mentre è settima al televoto). Carta e Shade, anche in questo caso, sono nell’ultima posizione per la Sala Stampa, a dispetto del pubblico da casa che li premia ancora. Da segnalare Achille Lauro, penalizzato dalla demoscopica (dodicesimo) e quarto per televoto e Sala Stampa. Negrita ultimi per il televoto.

Sanremo 2019, votazioni terza serata (1-12)

CLASSIFICA TELEVOTO (40%):

1 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 27,92%

2 – Irama (“La ragazza con il cuore di latta”) 14,62%

3 – Boomdabash (“Per un milione”) 11,42%

CLASSIFICA GIURIA DEMOSCOPICA (30%)

1 – Simone Cristicchi (“Abbi cura di me”)

2 – Ultimo (“I tuoi particolari”)

3 -Irama (“La ragazza con il cuore di latta”)

CLASSIFICA SALA STAMPA (30%)

1 – Simone Cristicchi (“Abbi cura di me”)

2 – Mahmood (“Soldi”)

3 – Ultimo (“I tuoi particolari”)

CLASSIFICA TERZA SERATA:

1 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 19,90%

2 – Simone Cristicchi (“Abbi cura di me”) 13,99%

3 – Irama (“La ragazza con il cuore di latta”) 12,32%

Nel corso della terza serata del Festival si sono esibiti i 12 artisti (su 24) rimanenti. Per la Sala Stampa, Cristicchi ha la meglio sul futuro vincitore Mahmood (quarto nella classifica generale). Il televoto premia i Boomdabash, i quali si piazzano in terza posizione. Il gruppo, comunque sia, si ferma in sesta posizione per via della Sala Stampa (10^ posto). Ultimo compare nella top 3 di tutte e tre le giurie. Penultimo posto, al televoto, per Anna Tatangelo che riesce a precedere soltanto Motta.

Sanremo 2019, votazioni quarta serata serata (1-24)

CLASSIFICA TELEVOTO (50%):

1 – Il Volo (“Musica che resta”) 22,35%

2 – Ultimo (“I tuoi particolari) 14,44%

3 – Irama (“La ragazza con il cuore di latta”) 8,38%

CLASSIFICA GIURIA D’ONORE (20%)

1 – Mahmood (“Soldi”)

2 – Daniele Silvestri (“Argento vivo”)

3 – Motta (“Dov’è l’Italia”)

CLASSIFICA SALA STAMPA (30%)

1 – Loredana Bertè (“Che cosa vuoi da me”)

2 – Arisa (“Mi sento bene”)

3 – Daniele Silvestri (“Argento vivo”)

CLASSIFICA QUARTA SERATA:

1 – Il volo (“Musica che resta”) 12,47%

2 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 10,29%

3 – Mahmood (“Soldi”) 8,3o%

RISULTATO CUMULATO QUARTA SERATA CON SERATE PRECEDENTI:

1 – Il Volo (“Musica che resta”) 11,61%

2 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 10.29%

3 – Simone Cristicchi (“Abbi cura di me”) 6,63%

Nella quarta serata, dedicata ai duetti, la Giuria d’Onore subentra alla Giuria Demoscopica. Il Volo riesce a raggiungere la prima posizione nel cumulo dei voti di tutte e quattro le serate, così come Ultimo raggiunge la seconda posizione. Mahmood si ferma invece al terzo posto della classifica della serata, mentre è quinto in quella del cumulo totale. Nino D’Angelo e Livio Cori sono già al ventiquattresimo posto. Ultima al televoto Anna Tatangelo con appena l’1,05%. Caso curioso quello di Motta che vince la serata dei duetti per la Giuria d’Onore ma poi è terzo per la stessa giuria. Perchè?

Sanremo 2019, votazioni quinta serata (1-24)

CLASSIFICA TELEVOTO (50%):

1 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 19,25%

2 – Il Volo (“Musica che resta”) 17,65%

3 – Loredana Bertè (“Che cosa vuoi da me”) 9,49%

CLASSIFICA GIURIA D’ONORE (20%)

1 – Mahmood (“Soldi”)

2 – Daniele Silvestri (“Argento vivo”)

3 – Arisa (“Mi sento bene”)

CLASSIFICA SALA STAMPA (30%)

1 – Loredana Bertè (“Che cosa vuoi da me”)

2 – Mahmood (“Soldi”)

3 – Daniele Silvestri (“Argento vivo”)

CLASSIFICA QUINTA SERATA:

1 – Mahmood (“Soldi”) 13,30%

2 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 12,92%

3 – Loredana Bertè (“Che cosa vuoi da me”) 10,35%

RISULTATO CUMULATO QUINTA SERATA CON VOTAZIONI PRECEDENTI:

1 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 11,72%

2 – Il Volo (“Musica che resta”) 10,54%

3 – Mahmood (“Soldi”) 9,85%

Prima della finalissima, la vittoria sembra essere in mano ad Ultimo, anche se il giovane non è in top 3 né per la Giuria d’Onore (6^) né per la Sala Stampa (6^). La Bertè non riesce a salire sul podio anche a causa della Giuria d’Onore, che la mette in sesta posizione a pari merito con Ultimo e prima di Cristicchi e de Il Volo. Irama, quarto al televoto, deve accontentarsi del 12esimo posto della Giuria d’Onore e del decimo posto della Sala Stampa.

Sanremo 2019, votazioni finalissima.

CLASSIFICA TELEVOTO (50%):

1 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 48,80%

2 – Il volo (“Musica che resta”) 30,36%

3 – Mahmood (“I tuoi particolari”) 20,95%

CLASSIFICA GIURIA D’ONORE (20%):

1 – Mahmood (“Soldi”)

2 – Ultimo (“I tuoi particolari”) – Il volo (“Musica che resta”) – EX AEQUO

CLASSIFICA SALA STAMPA (30%):

1- Mahmood (“Soldi”)

2- Ultimo (“I tuoi particolari”)

3- Il Volo (“Musica che resta”)

CLASSIFICA FINALISSIMA: 

1 – Mahmood (“Soldi”) 47,15%

2 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 34,62%

3 – Il Volo (“Musica che resta”) 18,22%

CLASSIFICA E RISULTATO CUMULATO CON VOTAZIONI PRECEDENTI:

1 – Mahmood (“Soldi”) 38,92%

2 – Ultimo (“I tuoi particolari”) 35,56%

3 – Il Volo (“Musica che resta”) 25,53%

Il televoto a tre della finalissima premia Ultimo, ma la Sala Stampa e la Giuria D’Onore posizionano Mahmood al primo posto. Ultimo scivola così al secondo posto a causa dell’ex aequo raggiunto con Il Volo nella classifica della Giuria d’Onore.

Sanremo, Mahmood vince ma il televoto sceglie Ultimo. Bufera social: «Voto politico», scrive Domenica 10 Febbraio 2019 Veronica Cursi su Il Messaggero. Bufera sui social per la vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo 2019 che ha sovvertito ogni previsione superando Ultimo, favorito sin dalla prima serata. Per il primo posto del rapper italo-egiziano qualcuno parla di boicottaggio ipotizzando una sorta di «voto politico» e puntando il dito contro la giuria della Sala Stampa e la giuria d'onore che avrebbero ribaltato il risultato a pochi minuti dalla fine. E Ultimo che a fine Festival ha sbottato contro i giornalisti non smorza la polemica: «Questo il televoto da casa - scrive su Instgaram postando una foto che ritrae i risultati: "Ultimo 46,5%, Il Volo 39,4% e Mahmood 14,1%". La gente è la mia vittoria». La votazione si eseguiva attraverso il Televoto (per il 50%), la giuria della Sala Stampa (per il 30%) e la giuria d’Onore (per il restante 20%).  Al termine delle esibizioni delle 24 canzoni è stata stilata una classifica dei cantanti, determinata dalla media tra le percentuali di voto ottenute in serata e quelle delle serate precedenti. Da quel momento si è aperta una nuova votazione per le sole canzoni risultate ai primi 3 posti nella classifica: ovvero Ultimo, Il Volo e Mahmood, giudicate con la stessa modalità di voto. Alla fine una nuova classifica delle 3 canzoni, determinata tra le percentuali di voto ottenute in quest’ultima votazione e quelle ottenute dalle votazioni precedenti ha decretato il vincitore. Sui social a notte fonda compare questa tabella: se il televoto ha assegnato a Ultimo ben il 46,5%, le giurie gli hanno dato solo il 24,7% mentre Mahmood, che aveva il 14,1% dal televoto, ha ottenuto ben il 63,7% dalle giurie sovvertendo, dunque, completamente il risultato finale. «Allora diciamolo che il televoto non conta nulla», si sfoga il popolo del web. 

Myriam da Salerno:

ULTIMO 46,5%

IL VOLO 39,4%

MAHMOOD 14,1%

ALLORA DICIAMOLO CHE È STATO DECISO CHE VINCESSE MAHMOOD PER PROVOCARE SALVINI

DICIAMOLO CHE ALLA FINE IL TELEVOTO NON CONTA UN BEL NIENTE

LA PRIMA E L’ULTIMA VOLTA CHE VEDO SANREMO —#Sanremo2019

La giuria di qualità era composta dal compositore Mauro Pagani (che ne è anche presidente) e da: Ferzan Özpetek (regista e scrittore), Camila Raznovich (conduttrice televisiva), Claudia Pandolfi (attrice), Elena Sofia Ricci (attrice), Beppe Severgnini (giornalista e opinionista), Serena Dandini (conduttrice televisiva) e Joe Bastianich (imprenditore e conduttore televisivo). Mentre la giuria della sala stampa dai giornalisti accreditati presso la sala stampa del Festival di Sanremo. Il televoto era possibile sia da dispositivi fissi che mobili.

I commenti al vetriolo «Voto radical chic», scrive qualcuno. «Tutto questo per fare dispetto a Salvini?». E ancora: «Sarà stato per caso deciso a tavolino, dalla sinistra benpensante per promuovere l'integrazione?». I commenti si sprecano: «Almeno il Baglioni è contento, ha avuto la risposta per Salvini». «Alla fine ha vinto il potere politico e non la canzone italiana».

Lorenzo Pregliasco: Nel televoto #Mahmood aveva il 14% (Ultimo 47%, Il Volo 39%). Se ha vinto vuol dire che sala stampa e giuria d'onore hanno votato compatte per lui #sanremo2019. Ecco i risultati dettagliati: #Mahmood è balzato in testa grazie al 63% delle giurie (sala stampa e giuria d'onore), superando di poco Ultimo#Sanremo2019

Schiaffo radical chic alla giuria popolare. Scelgono i soliti noti e fanno vincere Mahmood, scrive Luigi Mascheroni, Lunedì 11/02/2019, su Il Giornale. A Sanremo è successo quello che in campi diversi, ma allo stesso livello, accade in tutto il Paese. Sanremo è Sanremo, che è l'Italia. E succede che a Sanremo, Italia, una minoranza, non chiamatela neppure élite, è una pseudo élite, sovverte il (tele)voto del pubblico. Altri Paesi sono esperti di golpe, noi ci accontentiamo per fortuna di ribaltoni, in politica e non solo. E così il giovane Mahmood, trionfatore finale, per il televoto era solo terzo con il 14,1% delle preferenze, mentre il vincitore sarebbe stato Ultimo, con il 46,5%. Praticamente quattro volte di più. Poi sono arrivati i voti della sala stampa e della Giuria di qualità, e tutto è cambiato. E mai come in questo caso i social sono insorti, ritenendo ingiusta l'inversione della decisione del pubblico sovrano. Cioè: tu per 69 anni mi vendi il Festival della canzone italiana come l'evento «nazionalpopolare» per eccellenza, poi però del «popolare» te ne freghi e affidi la decisione più importante, quella del vincitore, a una ristrettissima cerchia di addetti ai lavori. Come se si trattasse di una Mostra dell'arte cinematografica di Venezia qualunque... Lì sì che devono votare e decidere registi, attori, produttori, sceneggiatori. Ma a Sanremo, se è «nazionalpopolare», sceglie il popolo. O no? No. Sceglie, alla fine, una numero ristretto di giornalisti della sala stampa (la casta più ideologizzata che esista oggi in Italia) e un numero ancora più ridotto di intellettuali (otto; in numeri arabi: 8), espressione di una Giuria d'onore presieduta da Mauro Pagani, e va benissimo, e composta da Ferzan Ozpetek, Camila Raznovich, Claudia Pandolfi, Elena Sofia Ricci, Beppe Severgnini e Serena Dandini, lasciando perdere Joe Bastianich, nomi che letti in fila uno dopo l'altro - mancavano solo Saviano, Gad Lerner e la Boldrini - pensi subito al congresso ombra, commissione Cultura, del Pd. Ecco, è esattamente questo ciò che infastidisce. Non che abbia vinto un (bravissimo) ragazzo italiano il cui padre solo per caso è egiziano. Ma che ciò lo abbia deciso non il pubblico pagante (0,50 centesimi per ogni chiamata da telefono fisso) ma una pseudo élite completamente scollegata dal Paese (come lo sono mediamente i giornalisti, di qualsiasi cosa si occupino: politica, economia, cinema, musica e libri non ne azzeccano una) e un salottino pariolino, o Solferino, cultural-chic. «Noi siamo noi, e voi non siete un...». Per farla breve. Circa duecento giornalisti e otto giurati hanno praticamente annullato i desiderata di due milioni di telespettatori (circa), negando la democrazia. Festivaliera, si intende. Un bel problema. Tanto che lo stesso direttore artistico del Festival, Claudio Baglioni, durante la conferenza stampa conclusiva ha ammesso che forse è meglio cambiare la formula della votazione: «Se il Festival volesse essere una manifestazione popolare potrebbe anche essere gestita solo dal televoto». Ma va? Da parte sua il Codacons, l'associazione dei consumatori, oggi presenterà un formale esposto all'«Autorità per la concorrenza»: «Il voto del pubblico da casa è stato di fatto umiliato, con conseguenze enormi sul fronte economico, considerato che gli spettatori hanno speso soldi attraverso il televoto, reso inutile dalle decisioni di altre giurie». La domanda è legittima. Ma è corretto far vincere un cantante che ha appena il 14% del voto delle persone da casa solo perché Severgnini non sopporta Salvini? Si chiamano capricci. Poi non dite: «Ma Mahmood meritava comunque...». Il voto da casa si paga. Se non serve a niente, meglio toglierlo. «Cosa c'entra Salvini?», dite. C'entra. Perché la politicizzazione della vittoria di Sanremo (in un'edizione che ha strumentalizzato da subito il tema dell'immigrazione) c'è stata, eccome, e da entrambe le parti. Lo ha fatto chi, da destra, si domanda ironicamente se sia una coincidenza che a vincere a Sanremo al tempo di Salvini e dei migranti sia un italo-egiziano che canta con tono arabo il marocco-pop... E lo ha fatto chi, da sinistra, ha twittato di godere per una vittoria che andrà di traverso al Capitano. Comunque ne riparliamo alle elezioni europee, quando non ci sarà una Giuria di qualità per ribaltare il voto popolare (e sovrano, più che sovranista) come accade in Riviera. Ve lo immaginate? Il risultato delle urne passato al vaglio di una giuria composta da Eugenio Scalfari, Gustavo Zagrebelsky e Michela Murgia... Non diciamolo a voce alta. Il Pd potrebbe prenderla come una buona idea.

Sanremo 2019, "vittoria-truffa di Mahmood": il Codacons denuncia la Rai, guerra totale, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dalle polemiche agli esposti: il finale del Festival di Sanremo è veleno puro. Nel mirino la classifica finale, il fatto che il televoto (pagato) del pubblico, di fatto, conti zero. Vince Mahmood, fatto fuori Ultimo, che da casa era stato votatissimo. Proprio come Loredana Bertè, addirittura fuori dal podio in un Ariston scatenato per un verdetto ritenuto ingiusto. Dunque, puntuale come le tasse, in campo scende il Codacons: "La classifica finale di Sanremo 2019 finisce sul tavolo dell’Antitrust". L'associazione dei consumatori rende noto che "depositerà domani un formale esposto all’Autorità per la concorrenza denunciando il meccanismo di voto dell’ultima serata del Festival, che ha di fatto annullato le preferenze espresse dal pubblico con possibile danno economico per i cittadini". "Nella finalissima di ieri il cantante Ultimo - sostiene il Codacons - è risultato essere il più votato dal televoto, ottenendo il 46,5% dei voti del pubblico, addirittura 30 voti percentuali in più rispetto al vincitore Mahmood, che ha ottenuto solo il 14,1% delle preferenze. Nonostante tali numeri schiaccianti, il voto della sala stampa e della giuria d’onore ha ribaltato la classifica del televoto, assegnando la vittoria a Mahmood. Ma così facendo - denuncia l'associazione che tutela i consumatori - il voto del pubblico da casa è stato di fatto annullato e umiliato, con conseguenze enormi sul fronte economico, considerato che i telespettatori hanno speso soldi attraverso il televoto, un televoto reso inutile dalle decisioni delle altre giurie". Il meccanismo delle votazioni, quindi, conclude il Codacons, "sembra aver arrecato un danno a quegli utenti che da casa hanno espresso la propria preferenza (a pagamento) e potrebbe addirittura realizzare la fattispecie di pratica commerciale scorretta. In tal senso il Codacons depositerà domani formale esposto ad Antitrust affinché apra una indagine sulla classifica di Sanremo 2019". Inizia la battaglia legale?

Sanremo 2019, Lara Comi durissima contro la Rai: "Scandalo con i soldi pubblici", svelata la farsa, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. La polemica sul televoto al Festival di Sanremo diventa anche politica. Nel mirino il fatto che il voto del pubblico, di fatto, sia stato completamente scavalcato da quello delle giurie della kermesse, consegnando la vittoria a Mahmood e non a Ultimo, il più votato dal pubblico. E dopo le accuse di Giorgia Meloni alla Rai, ecco quelle di Lara Comi: "Se il televoto non conta niente - s'interroga la deputata di Forza Italia - perché la Rai lo fa pagare agli italiani, che già strapagano il canone?". Così l'azzurra in un tweet, commentando l'esito del Festival. Dunque, la Comi ha aggiunto: "Fatemi capire... gli italiani, pagando pure, avevano scelto Ultimo e poi pochi signori pagati dagli italiani scelgono un altro? A me piaceva Ultimo", conclude la Comi. La polemica monta e continua.

Lo sfogo di Ultimo: "Sanremo deciso da giudici che mi urlano stronzo". Non si placa la bufera su Sanremo dopo che la giuria di giornalisti ha premiato Mahmood ribaltando il televoto. E Ultimo, come Loredana Bertè, dà anche forfai a Domenica In, scrive Renato Zuccheri, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale.  Ultimo, dopo la cocente sconfitta a Sanremo e il giudizio del televoto ribaltato da quello della giuria, si sfoga sul suo profilo Instagram. Il cantante romano attacca il meccanismo del voto e rivela alcuni lati nascosti del Festival di Sanremo: "Il discorso che faccio è molto semplice, la mia incazzatura è molto semplice - dice Ultimo nel suo video -. Io mi chiedo come sia possibile che il Festival di Sanremo dia l'opportunità di televotare da casa, quindi di spendere dei soldi, la gente vota da casa, spendendo dei soldi... Si riesce ad arrivare a un televoto del 46%, noi siamo riusciti ad arrivare al 46,5% del televoto, un altro artista arriva al 14... ecco, questa differenza, di più del 30%, viene completamente ribaltata dal giudizio di giornalisti, gli stessi che quando annunciano sul palco che Il Volo è arrivato terzo esultano come se stessero allo stadio gridando "Merde! Pezzi di merda", gli stessi che mentre parlo io gridano "Stronzo! Deficiente! Vai a casa! Imbecille! Coglione!". Il cantante poi continua chiedendosi se sia normale far votare le persone, facendo spendere dei soldi, se poi questo voto può essere completamente rovesciato: "Com'è possibile? Mi viene da pensare che non è il Festival scelto dal popolo, questo è un Festival scelto dai giornalisti". Accuse pesanti, che sono tra l'altro molto simili a quanto afferamto dal Codacons oggi, che ha annunciato un esposto all'Autorità competente.

Lo sfogo di Ultimo: "Mi chiamavano stronzetto". Ma non c'è solo lo sfogo di Ultimo su Instagram. La bufera sul podio di Sanremo è arrivata anche a Domenica In, con il cantante e Loredana Bertè che hanno dato forfait alla trasmissione condotta da Mara Venier. La conduttrice si è rivolta pubblicamente alla cantante dicendo: "Qui avresti trovato un'amica che da trent'anni ti sostiene. Loredana non prendertela, sono solo canzonette".

Domenica In, Ultimo massacrato in diretta da Davide Maggio: "Quanta boria, non hai le palle", scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. No, a molti non è piaciuta la decisione di Ultimo di disertare Domenica In di Mara Venier in polemica dopo il secondo posto al Festival di Sanremo. Il cantante, infatti, non si è presentato all'Ariston per la puntata speciale della domenica pomeriggio (questo anche dopo uno scambio a suon di insulti con alcuni giornalisti). E tra quelli a cui la decisione di Ultimo non è piaciuta c'è Davide Maggio, il celebre critico televisivo, che su Twitter non usa giri di parole, affatto: "Ultimo non ha nemmeno le palle di presentarsi a Domenica In. Quanta boria, ragazzo. Scendi dal pero, che le delusioni e le batoste arrivano a tutti e sono una costante nella vita di ciascuno. E ricorda che sei arrivato secondo, non Ultimo. Goditela", ha concluso Davide Maggio.

Domenica In, Ultimo insultato prima della diretta: sfregio a Mara Venier, diserta la trasmissione, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. La protesta di Ultimo continua. No, proprio non ha digerito il secondo posto al Festival di Sanremo, vinto da Mahmood con Soldi. Dopo le polemiche in conferenza stampa, dove ha sollevato il caso-televoto, dopo la gli attacchi ai giornalisti la protesta continua a Domenica In di Mara Venier. Come? Presto detto: il cantante, che avrebbe dovuto esibirsi con I tuoi particolari, ha disertato la trasmissione, in onda su Rai 1 con la consueta edizione speciale dal palco dell'Ariston. "Era molto nervoso, voleva lasciare Sanremo già stanotte", ha rivelato la Venier. Dunque, la conduttrice ha aggiunto: "Ultimo è un grande, forse meritava di vincere. Di certo spiace che non sia qui". Piccatissima la reazione dei giornalisti presenti a Domenica In, dai quali Ultimo è stato definito "borioso e pieno di spocchia". Resta il vuoto, resta l'assenza. Una scelta discutibile, perché l'artista avrebbe potuto dare la sua versione dei fatti e, comunque, celebrare un secondo posto al Festival che resta un grandissimo traguardo. Dietro la decisione il fatto che Ultimo poco prima della diretta è stato insultato da alcuni giornalisti, come si vede nel video qui sotto. L'artista è stato apostrofato con diversi "vaffanculo", qualcuno lo ha chiamato "stronzetto", e ancora gli è stato urlato "ma chi cazzo sei?". Da par suo, ultimo ha risposto con diversi "vaffa". E il caso si complica.

Domenica In, anche Loredana Bertè non si presenta: terremoto a Sanremo, accusa pesantissima alla giuria, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Non solo Ultimo diserta Domenica In di Mara Venier. Dopo la fine, le polemiche esplodono e travolgono il Festival di Sanremo: anche Loredana Bertè, infatti, non si è presentata allo speciale della domenica pomeriggio su Rai 1 in diretta dall'Ariston. Ultimo, come è noto, ha deciso di non palesarsi dopo le polemiche per la seconda piazza e quelle con i giornalisti, con cui è finita a insulti. E anche la Bertè avrebbe scelto di disertare in polemica col suo quarto posto, contestatissimo dalla platea dell'Ariston che la avrebbe voluta vedere almeno tra i primi te. Quando la Venier annuncia che neppure Loredana Bertè parteciperà a Domenica In, il pubblico dell'Ariston mugugna, si fanno nuovamente sentire i brusii. E a spiegare meglio cosa stesse succedendo ci ha pensato Luca Dondoni, firma de La Stampa e tra gli ospiti del programma di Rai 1. "Si è mosso qualcosa di molto grosso - ha premesso -, qualcosa che non ha precedenti. Sappiamo infatti che non sarà soltanto la Bertè a non presentarsi oggi a Domenica In". Dondoni, dunque, ha svelato che "si è formato un cartello di cantanti solidali con Loredana, e questi cantanti non verranno in trasmissione in segno di protesta contro il fatto che la Bertè non sia arrivata tra i primi tre a Sanremo". Contestazione durissima, dunque, contro la giuria: Ultimo, la Bertè e anche il cartello di cantanti solidali con quest'ultima. Affranta e anche un po' innervosita Mara Venier, che si è rivolta alla cantante in diretta: "Qui avresti trovato un'amica che ti vuole bene da trent'anni, che ha fatto molto, molto per te", ha rimarcato la conduttrice, cercando di urlare nonostante i guai alla voce. Dunque, dopo le parole dal sapore piuttosto polemico, Mara ha concluso: "Ti voglio e ti vorrò sempre bene, forse avresti meritato di vincere tu, ma ti avrei voluto qui a Domenica In".

Domenica In, la pesantissima accusa di Rita Dalla Chiesa a Baglioni: "Vergogna contro Loredana Bertè", scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Codazzo pieno di polemiche per il Festival di Sanremo. Una di queste riguarda Loredana Bertè, arrivata quarta tra le proteste del pubblico dell'Ariston, che ha a lungo rumoreggiato. E a rafforzare la polemica, ora, ci pensa anche Rita Dalla Chiesa. Lo fa su Twitter dove scrive: "Brutte le risate di chi era sul palco mentre il pubblico protestava per il quarto posto di Loredana Bertè". Dunque, tagga Domenica In, la trasmissione di Mara Venier in diretta dall'Ariston su Rai e 1 dove era appena stato proposto il video delle proteste della platea. La Dalla Chiesa non fa i nomi, ma il riferimento è assolutamente chiaro: sul palco, a ridere, c'erano Claudio Baglioni, Virginia Raffaele e Claudio Bisio. I tre, infatti, hanno accolto col sorriso e qualche risata i brusii del pubblico. Scelta che la Dalla Chiesa non ha apprezzato, affatto.

Sanremo 2019, chi ha fatto fuori Loredana Bertè: il documento, la prova schiacciante, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Finito il Festival di Sanremo, sono esplose le polemiche: nel mirino la classifica finale. Due i punti contestati: il secondo posto di Ultimo a favore di Mahmood (e a protestare è stato Ultimo) ma soprattutto il quarto posto di Loredana Bertè. Per quest'ultima si è mobilitato l'Ariston - che ha protestato sonoramente - così come si è mobilitato il popolo dei social network. Anche la Bertè ha dimostrato di non gradire, disertando la Domenica In di Mara Venier. Ma per capire cosa è successo, per comprendere chi ha fatto fuori la Bertè quanto meno dal podio, basta analizzare i risultati delle votazioni. Esaminando i dati relativi a tutte le serate, si comprende come la Bertè è sempre stata tra i nomi preferiti dalla sala stampa. A metterla ko è stata invece la Giuria d'Onore, subentrata a partire dalla quarta serata, che non ne ha apprezzato il brano Cosa ti aspetti da me. Come sottolinea in una dettagliata analisi davidemaggio.it, è stata dunque la Giuria d'Onore a negare il podio alla Bertè. Un podio che appariva davvero meritatissimo.

Domenica In, Enzo Paolo Turchi e la bomba su Sanremo: "Perché Loredana Bertè non è andata dalle Venier", scrive l'11 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Polemiche infinite dopo il termine del Festival di Sanremo. Una di queste, come è noto, ha al centro Loredana Bertè: fuori dal podio, per protesta contro la kermesse non si è presentata nello studio di Domenica In di Mara Venier. La conduttrice si è rivolta alla Bertè esprimendo tutto il suo disappunto per la mancata ospitata, ricordando però anche quanto le voglia bene. E della vicenda, a Storie Italiane, oggi ne ha parlato anche Enzo Paolo Turchi, amico storico e molto stretto di Loredana: "Ha fatto bene a non presentarsi. Io le sono amico, la conosco molto bene e so cosa vuol dire quando ti toccano come artista, ha fatto bene a non andare". Ma non è finita. Enzo Paolo Turchi ha infatti aggiunto: "Loredana è una rock star. E a differenza di Ultimo può permetterselo". Già, perché anche Ultimo ha dato forfait a Mara Venier.

Pomeriggio 5, Barbara D'Urso e la rivelazione-choc su Loredana Bertè: "Sul palco a Sanremo ridotta così", scrive l'11 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Il Festival di Sanremo è finito da due giorni, ma si continua a parlare di Loredana Bertè. In questo caso non della classifica, delle proteste, delle polemiche. In questo caso si parla del guaio che la avrebbe colpita proprio nei giorni della kermesse all'Ariston. A svelare quanto le sarebbe accaduto è stata Barbara D'Urso a Pomeriggio 5. Carmelita, infatti, ha dedicato la prima parte della puntata di lunedì 11 febbraio proprio al Festival. E tra un'intervista e l'altra, la D'Urso ha rivelato che la Bertè avrebbe avuto gravi problemi alla voce poco prima di salire sul palco. La conduttrice e la cantante sono molto amiche, e in questi giorni si sono sentite telefonicamente: la Bertè si sarebbe lamentata di essere rimasta senza voce, temeva insomma di non riuscire a dare il meglio di sé. Ma sbagliava: nessuno, o quasi, si è reso conto del guaio alle corde vocali. Tanto che per gran parte del pubblico la vincitrice morale della 69esima edizione del Festival è proprio lei. La D'Urso, infine, ha rivelato che la cantante ha fatto diversi aerosol proprio per non perdere completamente la voce. Stoica.

Sanremo 2019, Loredana Bertè, "le sue gambe e le tette di...". Sconcerto in diretta, apprezzamento indecente, scrive l'11 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Le minigonne di Loredana Bertè sono diventate un po' il simbolo di Sanremo 2019. La vulcanica artista, 68 anni, ha conquistato tutti con la sua performance scatenando il delirio all'Ariston quando è stata esclusa dalla terna di finalisti del Festival. Luciana Littizzetto, a Che tempo che fa, ha deciso così di tributarle un omaggio a modo suo, cioè un po' volgarotto anche se simpatico.  "Vorrei le gambe di Loredana - ha confessato davanti a un esterrefatto Fabio Fazio - insieme alle tette di Orietta Berti". Esplosione tra il pubblico, con Lucianina che si conferma, in fondo, un po' democristiana: impossibile dimenticare l'autrice di Fin che la barca va, ospite fissa di Fazio. Non sia mai che nasca un incidente diplomatico: dopo il disastro di Sanremo, la Rai potrebbe non sopportarlo...

Sanremo, la Bertè rompe silenzio: "Contro di me un'ingiustizia". La Bertè rompe il silenzio dopo la delusione del Festival di Sanremo: "Non mi aspettavo che non mi facessero salire sul podio... volevo vincere per Mimì", scrive Luisa De Montis, Domenica 17/02/2019, su Il Giornale. "Sinceramente non mi aspettavo che non mi facessero salire sul podio. E, sì, speravo di vincere anche per riscattare mia sorella Mimì". Loredana Bertè rompe il silenzio a una settimana dalla chiusura del Festival di Sanremo che l'ha vista vincitrice soltanto morale, con il pubblico in sala che ha fischiato durante l'annuncio del podio che l'ha esclusa. "Non ho molta voglia di parlare", dice al Corriere, "Io sono sempre molto autocritica, ma questa volta so di avere dato il massimo; e il pezzo di Curreri è bellissimo. Posso autocitarmi? 'C’è qualcosa che non va'. Sono venuta a Sanremo per chiudere un cerchio, e credo di aver ottenuto più di quanto qualsiasi artista potrebbe chiedere...". La cantante non accetta il risultato finale deciso da televoto e due giurie. Proprio come Ultimo, che si è però lasciato andare a uno sfogo contro i giornalisti. "Credo che nel suo caso, come nel mio, la delusione arrivi dalla forte discrepanza fra il plauso del pubblico e il mancato risultato finale", ha detto la Bertè, "A me però sul podio manco mi ci hanno fatto arrivare… Io credo che sarebbe fondamentale che la giuria d’onore fosse composta da addetti ai lavori: musicisti, manager, produttori, dj. E sarebbe bello che i voti fossero palesi. Mahmood? Ha una voce molto particolare, il suo pezzo mi è piaciuto subito. Tiferò per lui all’Eurovision". La Bertè chiude definitivamente con il Festival di Sanremo: "Come concorrente, non tornerò", taglia corto, "Forse come super ospite, non so. I prossimi conduttori? Mah, non saprei. Facessero loro. Per me ormai lo potrebbe presentare pure Topolino con la Banda Bassotti".

Cristicchi contro la giuria radical-chic di Sanremo: "Mi ha declassato". Simone Cristicchi, tra i migliori interpreti della canzone d'autore italiana, al Festival di Sanremo si è piazzato solo al 12° posto. "Con il voto da casa ero primo, poi c'è stata la volontà di ribaltare il giudizio popolare. Il meccanismo va rivisto", scrive Roberto Bordi, Domenica 17/02/2019, su Il Giornale. "A Sanremo ero primo, ma poi la giuria mi ha sbattuto al 12° posto. C'è stata la volontà di ribaltare il giudizio popolare, l'ho detto anche al presidente della Rai. Il meccanismo va rivisto". In un'intervista al quotidiano La Verità, a distanza di una settimana dal successo di Mahmood è arrivata la netta presa di posizione di uno dei protagonisti dell'ultima edizione del Festival: Simone Cristicchi. Il cantautore romano tra i principali esponenti della canzone d'autore italiana e protagonista sul palco dell'Ariston con la canzone "Abbi cura di me" dedicata ai profughi istriani, non nasconde un certo risentimento per il complicato meccanismo di voto. 40 per cento pubblico da casa, 30 per cento giuria, 30 per cento sala stampa dell'Ariston. Questo l'arzigogolato e discutibile sistema per l'elezione del vincitore del più importante evento nazional-popolare d'Italia. Inevitabili le polemiche, scatenate subito dal secondo classificato Ultimo che il voto popolare aveva incoronato come vincitore prima del suo declassamento al secondo posto legato al voto della giuria e dei giornalisti. Che qualcosa debba essere cambiato, lo ha ammesso anche il direttore artistico Claudio Baglioni. "Ma vi dico francamente che c'è un certo timore a diminuire il peso o a togliere il voto della sala stampa, perché qualcuno teme che si possa creare un clima ostile. Anche se io non voglio credere che questo succederebbe", aveva confessato Baglioni il giorno dopo la finale. Ormai, però, l'edizione del 2019 è andata e Cristicchi, dato alla vigilia tra i favoriti, si è dovuto accontentare di un piazzamento lontano dal podio. "Ero primo, sono stati giornalisti e giuria a ribaltare il giudizio popolare", lo sfogo del vincitore di Sanremo 2007 con "Ti regalerò una rosa", autore di altri pezzi divertenti e delicati come "Vorrei cantare come Biagio Antonacci" e "Studentessa universitaria". A questo punto, ci si augura che qualcuno metta mano al sistema di voto. È importante. Perché Sanremo è Sanremo.

Guccini: "L'omaggio a me e 'Dio è morto'? A Baglioni non fregava nulla..." Guccini contro Baglioni e l'omaggio alla sua carriera al festival di Sanremo: "L'ha pure cantata male, non gliene fregava nulla...", scrive Chiara Sarra, Sabato 16/02/2019, su Il Giornale. L'omaggio sul palco di Sanremo alla sua carriera non è piaciuto a Francesco Guccini. E in particolare l'interpretazione di "Dio è morto" da parte di Claudio Baglioni. "Se il Liga ha provato a impegnarsi, Baglioni proprio no", sentenzia il cantautore in un'intervista al Corriere, "Ha pure sbagliato a prendere la nota alta, si vedeva che non ne aveva voglia, anzi non gliene fregava proprio niente. Sanremo l'ho visto poco: non mi piacciono quei pezzi con strutture tutti uguali, una strofa e subito il ritornello a salire. Mahmood favorito? Quante sciocchezze, le giurie non si parlavano, come avrebbero fatto a mettersi d’accordo?". Guccini ha parlato anche del fatto che l'anno scorso avrebbe rifiutato una sua canzone, intitolata "I migranti", che doveva essere interpretata da Enzo Iacchetti: "La canzone è stata proprio bocciata", ribadisce Guccini, nonostante il direttore artistico del Festival abbia sempre smentito.

Paola Pellai per “Libero quotidiano” l'11 febbraio 2019. Per una settimana Mara Maionchi ha fatto le ore piccole commentando in diretta il Festival di Sanremo dai microfoni di RTL 102.5 e io sono la prima a tirarla giù dal letto il giorno dopo. «Ho dormito un paio d' ore più del solito, a pranzo una bistecchina ai ferri, ho bisogno di depurarmi...»

Tossine da Festival?

«Troppe cene e condimenti fuori di casa».

La musica italiana può dormire sonni tranquilli?

«In questo Festival ho ascoltato cose buone, i due maroni non me li sono fatti. Ha vinto Mahmood, una sorpresa tipo alla Gabbani un paio d' anni fa.Una canzone piacevole in mezzo ad altre tristi. Un ritornello gradevole e lui ha una bella timbrica. Ultimo e Il Volo hanno completato un podio giovane con due canzoni tradizionali che hanno rispettato la regola. Punto».

Le giurie popolari hanno stroncato il verdetto ufficiale.

«Non seguo i meccanismi delle giurie, non m' interessano. Io giudico quello che arriva a me e io dico che "Soldi" sta nel tempo attuale e nei gusti di oggi».

Chi ti ha deluso?

«La mia delusione è stata non vedere Loredana Bertè nei primi tre. Bella canzone, interpretata al meglio, con un'aggressività e una passione commoventi».

C' è chi ha trovato il trio Baglioni-Bisio-Raffaele non all'altezza.

«I tre hanno dovuto riempire uno spazio di 4 ore in diretta per una settimana di fila. E non uno spazio qualsiasi, ma ingombrante. Sarebbe difficile per ogni programma, moltiplica il tutto per quello che rappresenta Sanremo. Nessuno dei tre fa il mestiere di presentatore, eppure hanno sempre rispettato un equilibrio, non si sono calpestati e neppure risparmiati, con parodie, imitazioni, balli, sketch...».

Festival di Sanremo o di Salzano?

«L' agenzia di Salzano ha la maggior parte degli artisti italiani, difficile fare Sanremo senza di lui. Conosco Baglioni dagli anni '70, credo alla sua buona fede e correttezza e se mi fossi trovata nei suoi panni, forse, avrei agito allo stesso modo. Avere un direttore artistico credibile è una garanzia per chi ci partecipa.

Non è vero che tutti vogliono andare a Sanremo. Andarci ed arrivare ottavo va bene ma essere eliminato subito è un terrore che spesso frena le partecipazioni. Togliere le eliminazioni è stata un'intuizione vincente. La clausola di trasparenza della Rai? Mi dite come si può organizzare un festival senza conoscere chi detiene la musica in Italia?».

Solo 6 donne su 24 concorrenti.

«Festival maschilista? Balle! Forse le donne non hanno voluto andarci, non avevano la canzone giusta. Ma mi piace sottolineare che Gianna Nannini è salita sul podio visto che è una delle autrici del brano de Il Volo. È una brutta usanza italiana quella di non dare il giusto rilievo agli autori».

Mahmood partecipò ad X-Factor nel 2012. Se non passi dai talent non sei nessuno?

«C' è chi ha la fissa che i talent ammazzino la musica, accuse generiche slegate dalla realtà. Non tutto ciò che esce dai talent è buono, ma io dico, per esempio, che il decimo posto di Enrico Nigiotti al suo primo Sanremo con una canzone sua è il segno che i talent con lui ci hanno visto giusto. Oggi poi è il web il vero giudice, pensate a Cosmo, Salvo, i Calcutta... Gente che ha già dischi di platino alle spalle».

Non ti pare si stia esagerando con rap e trap?

«Le mode vanno così, ma poi è la canzone tradizionale quella che resta nel tempo. Nulla la distrugge o la fa dimenticare. Non a caso a Sanremo ci sono stati riconoscimenti importanti per Simone Cristicchi e Daniele Silvestri».

La tua canzone del cuore uscita da Sanremo?

«Nessun dubbio. "Vita spericolata" di Vasco Rossi, un capolavoro, eppure si piazzò penultima nel 1983. E poi ricordo con affetto "E se domani" di Fausto Cigliano nel 1964 e "Il ragazzo della via Gluck" di Adriano Celentano nel 1966: entrambe le canzoni vennero escluse dalla finale. Così per dire riguardo alle giurie...».

Questo Paese è cambiato?

«L' Italia si è incattivita molto. Ci attacchiamo su tutto, perdoniamo solo i nostri errori e non li ammettiamo negli altri. Mica solo nella musica. Siamo diventati tuttologi. Riusciamo a litigare persino sul minestrone. Tu la patata la cuoci o la rompi? Metti le carote o le eviti? Ma sai che ti dico? L' importante è che quando lo mangi, il minestrone sia buono».

Gino Castaldo per “la Repubblica” l11 febbraio 2019. Era talmente impensabile una loro vittoria che dovettero riacciuffarli all' ultimo momento. Gli Avion Travel nel 2000 erano già nel van che li riportava a casa, e i primi a stupirsi di aver vinto furono proprio loro e lì sì, ci fu davvero il complotto della giuria di esperti, un colpo di mano peraltro del tutto regolare, autorizzato dal regolamento. Nello stupore generale, ci si rese conto che nessuno aveva calcolato questa possibilità: bastava che ogni membro della giuria di qualità mettesse zero a tutti gli altri partecipanti, e 10 agli Avion Travel, per ottenere un ribaltamento di molte posizioni. Ovviamente il meccanismo fu rivisto l'anno seguente, quando vinse Elisa. La giuria di qualità fu ampiamente ridimensionata e addirittura cancellata nelle ultime due serate. Il meccanismo delle votazioni è sempre stato un punto cruciale, controverso e spesso cervellotico, delle varie edizioni del festival. Prima dell'avvento del televoto si usavano prevalentemente le giurie demoscopiche, composte da istituti specializzati in base a parametri forniti dal committente. Esempio: i componenti devono essere scelti con equilibrio di appartenenza anagrafica e regionale, e dimostrare di essere stati almeno in parte acquirenti regolari di prodotti musicali. Ma gli esiti sono apparsi molto spesso ondivaghi e incomprensibili. Nell' edizione del 2004, quella presentata da Simona Ventura, arrivò per la prima volta il televoto, ma anche quello, a parte i sospetti di possibili manipolazione, non ha mai convinto perché non ha alcun criterio di rappresentatività, è un mondo a parte, emotivo, più simile al tifo da curva calcistica che a uno specchio generalizzato del gusto di massa, è inaffidabile e soprattutto, non va dimenticato, a pagamento. Per votare bisogna spendere dei soldi, e per questo uno dei vertici assoluti del virtuosismo da regolamento avvenne nel 1983 quando fu introdotta la votazione attraverso le schedine del Totip. Rimase in voga fino a quando ci si rese conto che si trattava di un modo legale per giustificare l'acquisto dei voti da parte dei cantanti. Calcoli alla mano si comprese che agli impresari conveniva, visto che con giocate plurime c'era anche la quasi certezza di recuperare parte dell'investimento, grazie alle schedine vincenti al concorso. Assurdità, certo, ma sono successe, e quando la memoria difetta, la storia si ripete, puntualmente, con tutti i suoi sbagli.

Radio Cusano Campus il 13 febbraio 2019. I Jalisse vinsero il Festival di Sanremo nel 1997 e da poco tempo sono tornati alla ribalta vincendo Ora o mai più, il programma televisivo andato in onda in prima serata in Rai condotto da Amadeus, nel quale hanno annunciato anche l’uscita del loro nuovo singolo “Ora”. Alessandra Drusian e Fabio Ricci sono intervenuti su Radio Cusano Campus durante la trasmissione “Un giorno da ascoltar” con Arianna Caramanti e Misa Urbano per parlare anche di Sanremo. “Per noi –ha affermato Fabio Ricci- è stata una fantastica esperienza, non sapevamo se partecipare o meno poi ci siamo lasciati convincere ed è stato un bene visto i risultati ottenuti. Abbiamo avuto modo anche di farci conoscere umanamente a tutta quella gente che credeva che fossimo solo quelli di “Fiumi di parole”, cancellando qualche stereotipo che non ci abbandonava da anni. Purtroppo in Italia parla di musica anche chi non dovrebbe: dovrebbe parlare chi compra la musica non gli addetti ai lavori che fanno molte volte danni ed è per questo che all’Estero abbiamo fatto successo e qui in Italia non molto. Basti guardare il vincitore di Sanremo Mahmood, contestatissimo qui ma molto apprezzato altrove e che sta dimostrando che il suo pezzo piace molto. Sono contento per questo ragazzo che ha vinto e spero abbia successo con la sua “Soldi”.” “Non avevamo la casa discografica potente alle spalle –ha spiegato Alessandra Drusian- continuando ad essere indipendenti, continuando ad avere la nostra libertà anche sulla scelta dei pezzi da scrivere e da cantare, scegliendo sempre ciò che ci sta più a cuore. Non abbiamo nessuno che dirige le nostre strade. Il nostro nuovo singolo “Ora” è nato nel 2017, l’avevamo proposto anche alla Commissione di Sanremo e parla di questi lunghi vent’anni che i Jalisse hanno trascorso, anche i nostri momenti più bui, gli attimi in cui siamo stati messi da parte, dando importanza però alla nostra forza di rialzarsi, alla nostra positività perché la vita va presa così. Grazie a “Ora o mai più” abbiamo avuto l’occasione di proporre questo brano che è una sorta di racconto dei nostri vent’anni in cui non ci siamo mai fermati nonostante tutto quello che abbiamo passato e abbiamo sempre avuto la forza di affrontare la vita con serenità: chiunque si può rispecchiare in questo brano perché i momenti più scuri capitano a tutti nella vita. Tornando a Sanremo, penso che bisognerebbe introdurre un sistema di votazioni più equo e di conseguenza credo che occorrerebbe dare più importanza al voto popolare che è quello che sceglie la musica, che sta lì a vedere il Festival e che vota spendendo anche i suoi soldi per la propria preferenza. In tutti i Sanremo ci sono polemiche anche quando vincemmo noi, infatti dissero che avevamo ottenuto la vittoria tramite il televoto anche se non fu così perché ci votò anche la giuria di qualità all’epoca capitanata da Pavarotti. Anche quest’anno le cose non sono state fatte in maniera molto giusta anche se non si può mai accontentare tutti, si sa: chiunque vinca c’è sempre una polemica e nessuno è mai contento. Ad esempio per me il Festival doveva essere vinto o da Loredana Bertè o dal Volo, la musica deve dare positività, trasmettere dei sentimenti e loro lo fanno.”

Sanremo, la sala stampa esulta per il terzo posto de Il Volo: "Merde". Francesco Facchinetti mostra cosa è successo nella sala stampa quando il Volo sono stati proclamati terzi in classifica, scrive Anna Rossi, Domenica 10/02/2019, su Il Giornale. La finalissima del Festival di Sanremo si è conclusa con un mare di polemiche. Fra le prime quelle che riguardano la vittoria di Mahmood su Ultimo. Poi ci sono le diversità di percentuali fra giuria d'onore-sala stampa e pubblico a casa. E infine, il tutto si infiamma con un video pubblicato da Francesco Facchinetti. Il cantante, infatti, ha pubblicato sui social un filmato di ieri sera. Il video è girato nella sala stampa al momento della proclamazione del terzo posto de Il Volo. Nei pochi secondi condivisi sui social si vedono decine di giornalisti esultare per la sconfitta del trio lirico. Ma non solo. Un video sconvolgente, che arriva direttamente dalla sala stampa del Festival di Sanremo. Un video postato sui social da Francesco Facchinetti. Siamo al momento finale della kermesse, alla proclamazione del vincitore. Ma si inizia, ovviamente, dal terzo posto. E quando Claudio Baglioni annuncia che in terza piazza ci sono i tre tenorini de Il Volo, si scatena il delirio. In molti, anzi moltissimi, esultano. E c'è anche una donna che urla: "Merde". Facchinetti, in calce al video e riferendosi ai giornalisti che insultavano i tenorini, ha commentato: "Io vi prenderei a calci in culo fino alla fine del mondo: idioti, coglioni e buffoni". Semplicemente scatenato. Come si sente e vede chiaramente nel filmato, qualche giornalista urla (felice) parole piuttosto fuori luogo: "Merde, coglioni". Nella sala stampa, quindi, alcuni giornalisti hanno festeggiato per la sconfitta de Il Volo. Ma i festeggiamenti sono stati mirati ad offendere il trio. E questo Facchinetti non lo accetta perché "il lavoro del giornalista è un lavoro serio e non ci si può permettere di fare così. Vi prenderei a calci nel culo fino alla fine del mondo. Idioti, coglioni. Fortunatamente non lo hanno fatto tutti i giornalisti, ma sono pochi i giornalisti che sanno cosa sia il loro lavoro". Questo filmato, ma soprattutto questo atteggiamento inaspettato da parte della sala stampa, non era ancora stato mostrato al pubblico. Ma ora arriva la denuncia di Facchinetti a scoperchiare il vaso di Pandora.

Questo è il video in cui alcuni giornalisti nella sala stampa di #Sanremo2019 esultano al terzo posto de @ilvolo gridando felici: “Merde”. Io vi prenderei a calci in culo fino alla fine del mondo: idioti, coglioni e buffoni.

Sanremo 2019, Il Volo: "Insulti in Sala Stampa sono bullismo e sfottò". Arriva la reazione di Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble in merito a un video in cui la Sala Stampa di Sanremo 2019 reagisce duramente alla proclamazione del terzo posto, scrive Andrea Conti, Lunedì 11/02/2019, su Il Giornale. In queste ore è girato sul Web un video in cui parte dei giornalisti in Sala Stampa al Festival di Sanremo 2019 hanno commentato urlando con epiteti sgradevoli il terzo posto de Il Volo con "Musica che resta". I termini usati non sono stati proprio educati nei confronti di Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble. Arriva oggi la replica da parte dei tenori: "Alcuni giornalisti (ed è bene dire che solo alcuni) ci hanno pesantemente insultato. Hanno usato parole come 'merde', 'vaffanculo', 'in galera'. Le consideriamo una vera e propria forma di bullismo, di sfottò da stadio. - dicono all'agenzia Ansa - Queste persone non hanno portato gloria all'ordine che rappresentano. Il loro atteggiamento è stato un insulto, prima che a noi, a tutti i colleghi giornalisti che svolgono il proprio lavoro in maniera seria e professionale. In 10 anni abbiamo avuto molte critiche sulla nostra musica, sul genere che cantiamo, accuse di essere arroganti, spocchiosi, bimbiminchia.... Non abbiamo mai proferito parola o dato importanza a tutto ciò anche perché fortunatamente abbiamo sostenitori che ci supportano quotidianamente perché amano quello che facciamo. Ma quando vediamo dei video che testimoniano la cattiveria e la poca umanità da parte di persone che potrebbero essere nostri genitori (molti anche nostri nonni) ci dà molto fastidio perché ogni artista deve avere il proprio spazio di espressione musicale. Essere chiamati 'merde' o vedere qualcuno che sbraita 'in galera' solo perché stiamo facendo quello che ci piace fare nella vita, è molto irrispettoso nei nostri confronti ma sopratutto nei confronti della libertà di espressione. La musica dovrebbe essere libertà non motivo d'insulto". Una replica precisa e puntuale da parte dei giovani tenori, che si sono mostrati impeccabili e garbati anche durante la conferenza stampa finale dei vincitori di Sanremo 2019. Non è la prima volta comunque che la Sala Stampa non mostra "simpatie" per Il Volo. Il trio nel 2015 dovette subire i mugugni della Sala Stampa, che li accolse abbastanza freddamente dopo la vittoria con "Grande amore". Ma di acqua sotto i ponti ne è passata da allora e Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble hanno consolidato la loro carriera in Italia e all'estero. Le cose a quanto pare non sono cambiate da (parte) della critica nei loro confronti, ma i tenori hanno saputo rispondere elegantemente con argomentazioni giuste e puntuali. Il rispetto per il lavoro degli artisti ci deve sempre essere, a prescindere dai gusti personali e dalle critiche più che legittime.

Sanremo, i ragazzi di Il Volo rompono il silenzio: "Insultati dai giornalisti, un bullismo da stadio", scrive Repubblica.it l'11 febbraio 2019. Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble raccontano gli epiteti pesanti che "alcuni giornalisti" al Festival hanno usato contro di loro. "Un insulto, prima che a noi, ai loro colleghi che lavorano con professionalità". Non accennano a placarsi le polemiche intorno alla finale del Festival di Sanremo e nel giorno in cui Ultimo pubblica su Instagram un altro video per lamentarsi del ribaltamento del voto finale che ha proclamato vincitore Mahmood, anche Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble, ovvero Il Volo, rompono il silenzio per dire la loro sugli insulti ricevuti dai giornalisti definendoli anche "una forma di bullismo". Terzi classificati dopo Mahmood e Ultimo, dicono di aver avuto bisogno "di qualche giorno per essere lucidi e affrontare questa cosa. Dunque alcuni giornalisti, ed è bene dire che solo alcuni, ci hanno pesantemente insultato. Hanno usato parole come 'merde', 'vaffanculo', 'in galera' che consideriamo come frutto di una vera e propria forma di bullismo, di sfottò da stadio". "Queste persone - aggiungono i tre cantanti - non hanno portato gloria all'ordine che rappresentano. Il loro atteggiamento è stato un insulto, prima che a noi, a tutti i colleghi giornalisti che svolgono il proprio lavoro in maniera seria e professionale". Il rapporto del trio con la stampa negli ultimi anni non è stato sempre sereno. Amatissimi dal pubblico in Italia e all'estero, i tre ex bambini prodigio, esponenti di spicco dell'opera pop, hanno festeggiato il primo decennio di carriera al Festival, dopo averlo vinto nel 2015 con Grande amore. Stavolta in conferenza stampa hanno incassato il disappunto dei giornalisti mentre a sorpresa è stato Ultimo, secondo classificato, il protagonista di un duro sfogo contro gli inviati dei giornali che gli avevano preferito, nel voto, il vincitore Mahmood, vanificando il favore plebiscitario ottenuto dal pubblico da casa attraverso il televoto. "In 10 anni - spiegano ancora i ragazzi del Volo - abbiamo avuto molte critiche sulla nostra musica, sul genere che cantiamo, accuse di essere arroganti, spocchiosi, bimbiminchia... Non abbiamo mai proferito parola o dato importanza a tutto ciò anche perché fortunatamente abbiamo sostenitori che ci supportano quotidianamente perché amano quello che facciamo. Ma quando vediamo dei video (aggiungono a proposito di alcune immagini diventate virali sul web, ndr) che testimoniano la cattiveria e la poca umanità da parte di persone che potrebbero essere nostri genitori, molti anche nostri nonni, ci dà molto fastidio perché ogni artista deve avere il proprio spazio di espressione musicale". "Essere chiamati merde o vedere qualcuno che sbraita in galera solo perché stiamo facendo quello che ci piace fare nella vita, è molto irrispettoso - ribadiscono - nei nostri confronti ma soprattutto nei confronti della libertà di espressione". La musica, concludono Piero, Ignazio e Gianluca, "dovrebbe essere libertà non motivo d'insulto".

Vieni da me, Sanremo e gli insulti a Il Volo dietro le quinte, Francesco Facchinetti svela la vergogna, scrive il 12 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Fregatene di Sanremo". Francesco Facchinetti, ospite di Vieni da me, ha rivolto un appello a Ultimo dopo gli insulti incrociati con i giornalisti della sala stampa dell'Ariston e le polemiche sul piazzamento finale deciso dalla giuria d'onore. Da Caterina Balivo, il conduttore e produttore è tornato sul boicottaggio subito da Il Volo ("Merde fate schifo", sono solo alcuni degli epiteti rivolti contro i tre tenori dai giornalisti), rivelando come anche lui sia rimasto vittima della stampa: "Fino a quando non ha venduto due milioni di copie e improvvisamente mi leccavano il culo per poi ridistruggermi quando le cose sono andare di nuovo male". Ultimo, secondo classificato dietro a Mahmood, l'ha presa male tanto da disertare l'appuntamento a Domenica In. "C'era un'aria molto tesa. Mi dispiace per lui, bisognava consigliarlo meglio. Capisco che non tutte le persone sono abituate a pressioni del genere". Poi il consiglio da fratello maggiore: "Sei giovane, la tua canzone piace, hai la fortuna di fare un mestiere che ami, riempi i palazzetti, L'unico limite sei tu, quindi vai oltre".

La sala stampa contro Il Volo e l’Italia, scrive il 13 Febbraio 2019 Stefano Olivari su L’Indiscreto. Le immagini della sala stampa di Sanremo che al 90% esulta come allo stadio alla notizia del terzo posto de Il Volo, non per il prestigio della medaglia di bronzo ma perché così di sicuro la vittoria sarebbe andata a qualcun altro, spiegano meglio di mille editoriali il carattere profondamente anti-nazionale delle élite italiane. Non che i giornalisti siano élite, mediamente sono (siamo) sfigati che per pochi euro inseguono le vite degli altri invece delle proprie, ma nella maggioranza si percepiscono come tali quando invece l’unica loro ricchezza è fare il lavoro che sognavano da bambini (non accade quasi a nessun altro). E nemmeno vogliamo dire che il popolo sia quello che alla una di notte spende mezzo euro a telefonata per votare Mahmoood, Ultimo e i tre ragazzi nati da Antonella Clerici: le minoranze organizzate hanno portato a un paio di guerre mondiali, fra le altre cose, non è che siano composte da gente migliore o più preparata ma solo da gente con più tempo da perdere. Il punto è che l’Italia è disprezzata prima di tutto dagli italiani, come provano anche le blande reazioni alle parole di Verhofstadt che dà del burattino a Conte. Lo abbiamo visto più volte anche nel calcio, con la Nazionale. Non siete juventini e vi stava sulle palle Lippi? Va bene, tifate contro l’Italia di Lippi. Non siete milanisti e vi stava sulle palle Sacchi? Va bene, tifate contro l’Italia di Sacchi. Non siete interisti e vi sta sulle palle Mancini? Va bene, tifate contro l’Italia di Mancini. Ma questo disprezzo, nella migliore delle ipotesi indifferenza, lo abbiamo visto anche per Valcareggi, Bearzot (fino alla santificazione post ’82), Vicini, Prandelli… Parliamo dei comportamenti veri, non delle frasi edulcorate ad uso del pubblico. Non così accade per i club, dove anzi accade il contrario: anche chi non è tifoso della squadra che segue è indotto a sentirsi sulla stessa barca della squadra, con atteggiamenti conseguenti. E gli esterofili nella musica sono anche più beceri, perché danno anche una giustificazione culturale alla propria ignoranza e al proprio rifiuto dell’italianità rappresentata da Il Volo che, ci piaccia o no, è quella che nella musica ha più successo. Perché al di là di Chiasso e di Ventimiglia quasi nessuno pagherebbe un biglietto per ascoltare gli altri 23 concorrenti di Sanremo, al di là del fatto che noi fra quelle del podio avremmo scelto la canzone di Mahmood. Ma senza gridare “merde” a chi è arrivato terzo.

Dal profilo Facebook de ''il Volo'' 12 febbraio 2019. Abbiamo avuto bisogno di qualche giorno per essere lucidi e dire la nostra su quanto accaduto. Alcuni giornalisti (ed è bene dire solo alcuni) ci hanno pesantemente insultato. Hanno usato parole come “merde”, “vaffanculo”, “in galera”, che consideriamo come il frutto di una vera e propria forma di bullismo, di sfottò da stadio. Queste persone non hanno portato gloria all’ordine che rappresentano, il loro atteggiamento è stato un insulto, prima che a noi, a tutti i colleghi giornalisti che svolgono il proprio lavoro in maniera seria e professionale. In 10 anni abbiamo ricevuto molte critiche sulla nostra musica, sul genere che cantiamo, siamo stati accusati di essere arroganti e spocchiosi. Non abbiamo mai dato importanza a tutto ciò, anche perché, fortunatamente, abbiamo sostenitori che ci supportano quotidianamente e amano quello che facciamo. Ma quando vediamo dei video che testimoniano la cattiveria e la poca umanità da parte di persone che potrebbero essere nostri genitori (molti anche nostri nonni), ci dà molto fastidio. Fastidio perché ogni artista deve avere il proprio spazio di espressione musicale. Essere chiamati "merde" o vedere qualcuno che sbraita "in galera" solo perché stiamo facendo quello che ci piace fare nella vita è molto irrispettoso, nei nostri confronti ma soprattutto nei confronti della libertà di espressione. La musica dovrebbe essere libertà non motivo d'insulto! Piero Barone, Ignazio Boschetto, Gianluca Ginoble de Il Volo. 

Il Volo terzo, volano insulti in sala stampa: «Merde, vaffanculo». I cantanti insorgono: «Bullismo», scrive Lunedì 11 Febbraio 2019 di Veronica Cursi su Il Messaggero. Non solo le polemiche per la vittoria di Mahmood. Gli insulti di Ultimo contro i giornalisti in sala stampa e sui social. Le critiche sul sistema di voto. Sanremo 2019 rischia di essere ricordato più per le polemiche che per le canzoni in gara. L'ultima sta facendo il giro del web in queste ore. Claudio Bisio annuncia il terzo posto de Il Volo durante la serata finale di Sanremo 2019 e la sala stampa esulta. No anzi fa di peggio. Alcuni giornalisti applaudono al verdetto e imprecano: «Merde, vaff...». Il video pubblicato da Francesco Facchinetti, in una storia su Instagram, scatena le polemiche. Ed è bufera.

Il Volo reagisce: è bullismo. «Alcuni giornalisti (ed è bene dire che solo alcuni) ci hanno pesantemente insultato. Hanno usato parole come "merde", "vaffanculo", "in galera". Le consideriamo una vera e propria forma di bullismo, di sfottò da stadio»: lo dicono all'ANSA Barone, Boschetto e Ginoble de Il Volo. «Queste persone non hanno portato gloria all'ordine che rappresentano. Il loro atteggiamento è stato un insulto, prima che a noi, a tutti i colleghi giornalisti che svolgono il proprio lavoro in maniera seria e professionale».

Il racconto di Facchinetti. L'ex capitan Uncino, oggi manager di alcuni cantanti tra cui Irama che partecipava proprio al Festival di Sanremo, lancia la bomba sui social: «La storia che avete appena visto l'ho scaricata da Instagram - spiega - Alcuni giornalisti hanno deciso di gridare «merde fate schifo», ai tre ragazzi de Il Volo.  Queste persone sono idioti incompetenti che dovrebbero essere radiati dall'Ordine. E a loro voglio dire una frase che trovate all'interno dell'Uomo Ragno: Da un grande potere deriva una grande responsabilità, perché essere giornalista è un grande potere. E anche se il vostro giudizio poteva essere negativo gridare insulti in sala stampa in un posto così importante è qualcosa di orribile.  «In tanti di voi - continua Facchinetti - mi scrivono "non hai paura dei giornalisti?" Non ho mai avuto aiuto da parte di nessun giornalista. Pochi sono stati dalla mia parte nella mia carriera, quando poi ho venduto 2 milioni di copie improvvisamente mi leccavano il culo per poi ridistruggermi quando le cose sono andate di nuovo male. Ho sempre detto quello che penso e continuerò a farlo. E spero che qualcuno prenda provvedimenti». Inviato al Festival di Sanremo 2019 per Vieni da me, Francesco Facchinetti commenta anche le polemiche che hanno travolto Ultimo. «È stato durissimo con i giornalisti. C’era un’aria molto tesa. Mi dispiace per lui, bisognava consigliarlo meglio. Capisco che non tutte le persone sono abituate a pressioni del genere». E quindi gli manda un consiglio: «Fregatene, vai oltre. Hai la fortuna di fare un mestiere che ti piace. L’unico limite sei tu, quindi vai oltre».

Sanremo, che errore quell'esultanza (e gli insulti) contro Il Volo, scrive il 12 Febbraio, Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera. Il ruolo della stampa e della critica è quello di raccontare e giudicare, non di prendere parte, figuriamoci farlo per un'esclusione. «La musica dovrebbe unire e non dividere mai», mi ha scritto Anna Tatangelo dedicandomi il suo cd dopo un dibattito post sanremese in cui si era sentita criticata. Non sembra più essere così. Sui social network gli hater, singoli o fan base organizzate, bullizzano chiunque critichi il loro preferito o sostenga chi a loro non piace. E purtroppo sono spesso gli artisti i primi a chiudere un occhio.

Esulti e offese in sala stampa. Il contagio si è allargato. Gira in rete un video dall'interno della sala stampa del Festival di Sanremo. Siamo al momento della proclamazione finale, e quando Bisio annuncia che al terzo posto c'è Il Volo in molti esultano. Già sarebbe poco corretto gioire per un vincitore, il ruolo della stampa e della critica è quello di raccontare e giudicare, non di prendere parte, figuriamoci farlo per un'esclusione. Inqualificabile poi quando si aggiungono offese come «merde», «vaff...», «in galera» che si sentono chiaramente nel video.

La necessità di scusarsi. Il dissenso artistico (non credo di aver mai dato a Il Volo una sufficienza nelle pagelle) non può trascendere e diventare offesa personale. Fa male al sistema musica perché diffonde il contagio. Fa male alla sala stampa che perde credibilità. Le tre vittime parlano di «bullismo» e «insulto, prima che a noi, a tutti i colleghi giornalisti». Rai e Ordine decidano in libertà, ma chi lo ha fatto dovrebbe chiedere scusa.

Sanremo 2019, Michele Monina: “Insulti a Il Volo in sala stampa? In passato anche di peggio”, scrive Gero Giglio il 13 febbraio 2019 su Blitz Quotidiano. Sanremo 2019, Michele Monina: “Io, che ero in sala stampa e ho sentito gli insulti a Il Volo”. Dopo i fatti avvenuti nella sala stampa di Sanremo durante la proclamazioni dei vincitori, in rete è scattato il putiferio, uno “shitstorm” partito dal video di Francesco Facchinetti che, senza usare mezzi termini, ha postato una ripresa dell’interno di quella che dovrebbe essere una santa sanctorum dell’imparzialità e della “critica costruttiva”. Sono volate, e stanno volando, parole grosse per la responsabilità giornalistica in frangenti come questi. Blitz Quotidiano ha parlato con Michele Monina, che a Sanremo non è proprio un novellino, per fare un po’ di chiarezza. Ne è venuta fuori un’intervista rock senza filtri. Michele Monina, autore di oltre 40 libri sul tema musicale e innumerevoli articoli tutti con un’unica vocazione: la musica.

Parlando del putiferio che si è scatenato in sala stampa, come giudichi quello che è avvenuto?

«Sono un veterano ma mi tengo ben lontano da certi giri… tipo sale stampa come quella che si è vista nel video. Uno spettacolo indegno ma, sai che c’è? Non è una notizia».

In che senso?

«Che è sempre così e mi intristisce. Ci sono delle vere e proprie fazioni con gag balletti a scapito di questo o di quell’artista. E ci sono stati eventi ancora più violenti di quello che si è visto nel video. Ti faccio un esempio: quando furono eliminati Nesli e Alice Paba (nell’edizione del 2017 ndr) che io dichiaratamente seguivo, c’è stata un’esultanza anche più violenta dell’altro giorno. Fra l’altro pure immotivata, visto che parliamo di una che era praticamente un’esordiente. Sono gli stessi che poi si mettono lì a leccare il c**o al potentino di turno perché sperano che magari, in futuro, ti paghi il viaggio a Miami, come accadde con Laura Pausini e i Pool Guys di Luca Dondoni & Co…»

Se vuoi magari stempero un po’ i toni della tua dichiarazione.

«No no, puoi usare ogni singola parola perché è esattamente quello che penso e che, fra l’altro, ho anche già scritto. Quindi nessuna news».

Ok. Tu hai la fama di essere un eterno outsider. Perché non sono usciti i nomi? si sono autotutelati?

«Sei serio?»

Beh… sì.

«Perché sì, si sono auto-parati il cazzo a vicenda. C’è gente che durante la settimana di Sanremo diventa visibile e può spendersi in tutte le trasmissioni possibili e quindi BUM eccoli che si trasformano. In sala stampa ci sono personaggi che improvvisamente assurgono al ruolo di capi-popoli che ti fanno passare la voglia di votare. In quella sala stampa ci sono contatti, mail che riguardano persone che, evidentemente contano più di altre. Con loro, certo, l’atteggiamento è ben diverso. Personalmente ho diritto di voto ma in quella roba lì non mi identifico e quindi abdico volontariamente a un mio diritto che ho acquisito non con l’appartenenza a un gruppo ma con il mio lavoro».

Tu li conosci i protagonisti del coretto che cita il risultato dell’espletamento corporale? Hai avuto modo di parlare con loro?

«Quelli di “Merde”? Visto che sedevano nelle prime file della sala stampa per forza di cose, dovevano essere giornalisti professionisti».

Secondo te, quei giornalisti andrebbero sanzionati in qualche modo?

«Certo che sì. Ma non accadrà. Capisci perché io non sono iscritto e non mi iscriverò mai all’ordine dei giornalisti? Perché dopo questo episodio che dire vergognoso è fargli un complimento, nessuno là in alto in questo “Ordine” prenderà alcun tipo di provvedimento. E se lo farà – ma non lo farà – sarà una tiratina di orecchie. Vedrai. Ma poi, ribadisco: quello è solo uno dei tanti episodi che capitano e che mi convincono sempre di più, nonostante le difficoltà, ad aver fatto la scelta giusto nel non far parte di questa risma di persone. Ho quattro figli e mi farebbe comodo il dentista pagato dall’ordine e gli altri benefit. Ma sai che di dico? Quando vado a dormire la sera, almeno non mi sputo in faccia».

Ho visto che hai postato un video dove sei insieme al gruppo il Volo al completo: perché lo hai fatto?

«Non sono mai stato tenero con il Volo. I miei articoli parlano per me. Però in questo caso sentivo di doverlo fare. Almeno come atto riparatore nei loro confronti. È un po’ strano che uno dei pochi non-pubblicisti e non-giornalisti l’abbia fatto, non trovi? Io faccio le mie scelte, non devo niente a nessuno e ci metto pure la faccia. È andata così: ho incontrato tre ragazzi che probabilmente per qualche errore di comunicazione sono apparsi come arroganti, presuntuosi e sopravvalutati. Io ho visto solo un gruppo di ragazzi con i quali ho interagito con molto piacere, a prescindere dal mio gusto personale sulla loro musica. Non mi sembra di aver fatto nulla di eccezionale».

Riguardo alle tue domande a Baglioni, sul suo conflitto d’interessi visto che era direttore artistico di questa edizione e anche della precedente, sei stato contattato da qualcuno che abbia fatto chiarezza?

«Ehm… no. Ma perché avrebbero dovuto farlo?»

Che ne pensi del sistema di voto di quest’anno dove il giudizio popolare, che ha pagato per votare, è stato ribaltato?

«Penso che come il pubblico, i giornalisti debbano spendere i loro ricchi 50cent per dire la loro. Punto. Poi il premio della critica è un’altra cosa. Ma ribaltare in questo modo un parere popolare, fra l’altro di chi ha pagato per esercitarlo, è davvero imbarazzante».

Ultima domanda: se domani ti nominassero direttore artistico di Sanremo con carta bianca, quale sarebbe il tuo primo atto da direttore?

«Sanremo è il festival della musica pop. Solo che ultimamente siamo andati oltre: ora siamo al mainstream, ovvero: se ti discosti da quelle quattro note solite, sei fuori. Se non fai parte del giardinetto, sei fuori. Nel mio piccolo, accanto al festival, quest’anno ho organizzato una proposta tutta al femminile davvero interessante che andava oltre quelle quattro note. Ma i più non possono sapere i nomi di quelle artiste perché, a parte me e una ristretta cerchia di persone che ama davvero la musica, nessuno sa della loro esistenza. Ecco, la prima cosa che farei, sarebbe andare oltre quelle quattro note mainstream. In Italia, di note e di persone che le sanno suonare ce ne sono molte di più. Ci sono, fidati e gli darei quell’opportunità che oggi non hanno!» 

Sanremo 2019, insulti a Il Volo in sala stampa? Ecco la difesa dei giornalisti: l'ultimo sospetto, scrive il 13 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Insulti, ma anche battute e goliardate che estrapolate diventano offese, video decontestualizzati e postati sui social". Così diversi giornalisti della Sala Stampa di Sanremo si sono difesi dopo la diffusione dei video in cui esultano per la sconfitta del Volo e urlano diversi insulti.

Sanremo 2019, sconvolgente video di Mahmood: quando annunciano la vittoria... cosa non si era notato, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Una vittoria contestatissima, quella di Mahmood al Festival di Sanremo col brano Soldi. Una vittoria finita nel mirino per il fatto che il televoto è stato minimizzato e perché c'è chi vede una sorta di "manina" politica dietro al trionfo dell'artista col padre egiziano. E ora, su Twitter, rimbalza un breve video che mostra Mahmood nell'esatto momento in cui viene annunciata la sua vittoria da Claudio Baglioni sul palco dell'Ariston. Come reagisce? Prima guarda preoccupato alla sua destra, dunque non tradisce nessuna emozione, men che meno gioia. Abbozza soltanto un sorriso. Aveva forse già intuito la bufera che da lì a poco si sarebbe scatenata?

Che tempo che fa, Mahmood da Fabio Fazio: il conduttore lo chiama così, clamoroso sospetto politico, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo il trionfo al Festival di Sanremo e dopo una giornata di violentissime polemiche, sia sulla classifica finale sia di stampo politico, ecco che Mahmood è approdato in studio da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Apparizione fugace: l'artista ha interpretato il brano Soldi con cui ha sbancato a Sanremo. Poi si è sottoposto a una velocissima intervista, poco più di un paio di minuti. Un'intervista durante la quale Fazio si rivolgeva a lui chiamandolo Alessandro, il suo nome di battesimo (si chiama infatti Alessandro Mahmoud, nato a Milano, padre egiziano). Una scelta, quella di rivolgersi al cantante chiamandolo Alessandro, che secondo diversi utenti sui social avrebbe una chiara valenza "politica", appunto. Le polemiche infatti riguardano anche il fatto che, secondo alcuni, la giuria lo avrebbe favorito per dare un messaggio pro-integrazione. Ammesso e non concesso che sia così, Fazio, chiamandolo Alessandro ci tiene a sottolineare come Mahmood sia italiano. Ma che fosse italiano era ovvio.

Romolo Buffoni per Leggo il 12 febbraio 2019. Dice il saggio: «I bookmaker non sbagliano mai». Beh, quasi mai. Soprattutto se di mezzo c'è il festival di Sanremo. Della sorprendente vittoria di Mahmood si è detto tutto e il suo contrario. Si è scomodata la politica e si sono infiammati i social. Ma c'è un aspetto assolutamente non secondario da valutare: la canzone Soldi trionfando all'Ariston ne ha fruttati parecchi per chi ci ha scommesso. L'italo-egiziano ha fatto saltare il banco: fino a sabato sera il suo trionfo era quotato 50 volte la posta. Tradotto: chi ha puntato 10 euro su Mahmood ne ha intascati 500. I fortunati vincitori devono ovviamente ringraziare il voto della Giuria d'onore e dei giornalisti presenti al Festival, che ha sovvertito il voto popolare andato a valanga a Ultimo, favoritissimo fin dall'apertura delle scommesse con la quota più bassa in circolazione (2,50/2,75 volte la posta). Secondo l'agenzia Microgame, informa Agipronews, il 23,16% delle giocate erano pro Ultimo. Seguivano Simone Cristicchi (15,34%), Irama (11,48%), Loredana Berte (10,37%), Il Volo (4,36%) e Boomdabash (4,29%). Per Mahmood si è scomodato il 3,98% degli scommettitori probabilmente (e alla fine giustamente) ingolositi da una quota rimasta altissima fino a sabato sera. Snai racconta che al lunedì vigilia della kermesse sanremese la vittoria di Mahmood valeva 25 volte la posta. Dopo la prima esibizione di martedì la quota è schizzata a 50 e così alta è rimasta fino alla finalissima. Il 50% degli scommettitori, secondo Snai, ha puntato sulla coppia Bertè-Cristicchi, con Soldi che ha toccato il 12% grazie soprattutto al live della serata di sabato. Dimostrazione di come l'esibizione finale abbia fatto centro in molti cuori. A 50 anche la quota di Stanleybet i cui quotisti, però, un po' si erano ravveduti visto che martedì la vittoria di Mahmood valeva addirittura 65 volte la posta. La mattina di sabato soltanto Einar, Patty Pravo-Briga, i Negrita, gli Ex-Otago, D'Angelo-Cori e Anna Tatangelo avevano una quota più alta di Mahmood: 100.

Stefano Mannucci per “il Fatto Quotidiano” il 12 febbraio 2019. Questi si affacciano sul Raccordo, quelli sulla Tangenziale. Due cinture metropolitane. Ma una puoi viverla come un abbraccio, l'altra come una stretta soffocante. Roma e Milano, coi ragazzi di periferia che alzano il volume sopra il rombo delle auto, e la certezza che se vuoi avventurarti altrove non potrai farlo a piedi, e con pochi spiccioli in tasca. Le due capitali e un derby per la supremazia della nuova scena musicale: anche se molti campioni del trap, del pop e dell'indie li trovi ovunque, da Genova a Rieti passando per Bologna e Napoli. Ma le due metropoli si guardano allo specchio, in cagnesco, per una contesa socio-antropologica che va oltre le differenze di stile tra gli artefici del Suono di fine decennio. I romani rivendicano con orgoglio la natura di figli della Città Estrema, mentre i milanesi sognano di emanciparsi dall' hinterland, corrono appena possono a Corso Como, si immaginano in un superattico al Bosco Verticale. I coatti e gli zarri, eserciti con strategie opposte. I capitolini si nutrono di indolenza, non gliene frega niente di conquistare i Parioli o l'Aventino: se ne stanno rintanati nei quartieri della cerchia esterna e nelle borgate perché lì trovano carburante per l'anima, guai a sradicarli, vivrebbero come una colpa il trasloco nelle strade chic, nelle loro orecchie risuonerebbe l'eco del rimprovero della loro gente, quella che resta lì, dove sai che sarà sempre casa tua, e gli amici sapranno come farti stare bene. C' è un fondo di neorealismo, negli spiriti dei musicisti romani: è qualcosa che vivono sottopelle, guai a pretendere una metamorfosi. Al massimo si spostano di giorno a San Lorenzo o all' Ostiense, così come vent' anni fa i breaker e i rapper partivano dai capolinea della metro e si radunavano al Corso o a Piazzale Flaminio. Poi di notte a casa con l'ultima corsa, come faceva il Piotta verso Montesacro, e i Cor Veleno, i Colle del Fomento. Ancora oggi è così: punti un dito sulla mappa e vedi che Gemitaiz è della Serpentara, Coez (salernitano, ma da sempre a Roma) apre la finestra e sente il vocìo della Garbatella, Noyz Narcos vaga tra Prenestina e Casilina, e Lady Larry, la stella rosa della galassia dell'Urbe, rappa sulla Collatina. Se abitano nel cuore della città quasi si giustificano: i tre della Dark Polo Gang sono stati bambini tra Monti e Campo de' Fiori, "ma quando ancora c' erano le puttane per le vie, e non ci abitavano i vip", spiegano. Carl Brave e Franco 126 (ieri in duo, oggi solisti) gravitano attorno alla Trastevere di Via Glorioso, i 126 gradini della scalinata dove vivacchiava la loro crew, e risiedeva Sergio Leone. Ma con quella smagatezza, li senti affini alle strade lontane dal Fiume: laggiù dove, come a San Basilio, trovi da tempo più cantautori che rapper. Vedi Fabrizio Moro, Mannarino o l'inquieto Ultimo. Aree di confine, dove se vedi i fuochi in cielo non è una festa ma il segnale che è arrivata una nuova partita di droga. Accade anche poco distante, nel Tufello del freestyle di Rancore o di un trapper riconvertito al punk allusivo come Achille Lauro. Lui sì, se n' è andato, è emigrato a Milano. Lassù, nel capoluogo lombardo, i nuovi idoli non vivono comodamente nelle tane di periferia: premono per uscirne in fretta, vogliono lasciarsi alle spalle quel senso di spiazzamento urbano che li svuota dentro, spingono per affrancarsi dal destino di emarginati. C' è chi lo fa con sensatezza, come Ghali (da Baggio) o Mahmood (dal Gratosoglio), che prima di vincere Sanremo si è consolidato come autore per Mengoni, Elodie, Fabri Fibra. Chi invece con la sfrontatezza di credersi una star adornata di Rolex, come Sferaebbasta. Alcuni sono riusciti a scappare: Fedez da Buccinasco, J-Ax da Cologno, Emis Killa da Vimercate. Pensi ai Club Dogo e rivedi Guè Pequeno a Lambrate e Jake la Furia a Corvetto. Passeggi per la Barona e ripensi a quando Marracash fece scena portando lì un elefante. "Amo Milano", cantava Dargen D' Amico, guardando fuori dalla vetrina di un bar deserto del quartiere Isola, "l'occasione mancata per L' avan-garde, l'isola che non c' è della mia città, che sfoggia la sua magia triste", commentava lui, scherzando sulle Cinque Giornate, che non sono Risorgimento ma il conto di una settimana: "Cinque di operatività e due di aperitività". Ecco, il centro. Ci puoi capitare partendo da lontanissimo, come Salmo da Olbia, o come la misteriosa Myss Keta, che si esibisce in maschera, non vuol far sapere chi sia ma quando prende di mira "Le ragazze di Porta Venezia" sai che lei non abita lì. Anche se forse lo vorrebbe.

Non dite ai radical chic che il vincitore del Festival di Sanremo ha votato Forza Italia, scrive domenica 10 febbraio Carlo Marini su Secolo d’Italia. “Se me lo dicevi prima…”, cantava a un festival di Sanremo Enzo Jannacci. Se glielo dicevano prima ai giurati e ai giornalisti della sala stampa che Mahmood ha votato Forza Italia, probabilmente Ultimo adesso starebbe brindando alla vittoria. Dal web è spuntato, infatti, un documento tanto divertente quanto spiazzante per i retori radical chic. La notizia ha già fatto il giro dei Social e sta facendo illividire dalla rabbia chi aveva già scritto: “La sinistra riparta da Mahmood”. Alle ultime elezioni comunali a Milano, Alessandro ha invitato sulla propria bacheca Facebook a far conoscere un candidato della lista per Parisi sindaco. Daniel Camardo, attuale capogruppo di Forza Italia al Municipio 5. Se infatti il proverbio diceva che “Verba volant, scripta manent”, nell’era digitale ciò che scrivi sui Social rimane per sempre. Così qualche perfido maniaco di google, è andato a ripescare sulla bacheca Facebook del vincitore di Sanremo questo post. L’intervento è datato 11 aprile 2016. Alessandro Mahmoud ha condiviso la pagina del candidato berlusconiano, con questo invito ai suoi fan: «Vi chiedo di mettere mi piace alla pagina di questo mio amico. Daniel Camardo è un giovane con le idee valide». E a conferma della sua adesione convinta, ha aggiunto anche un emblematico hashtag #iostoconcamardo.

A Sanremo una scelta politica. Una presa di posizione politica che non cambia il giudizio artistico sul cantante di origine egiziana, ma che instilla il sospetto che, qualora queste simpatie politiche fossero emerse prima della serata finale, forse le giurie di qualità e la sala stampa si sarebbero orientate in maniera diversa. La legge non scritta del Festival di Sanremo e del mondo dello spettacolo è quella di favorire i “compagni” e di affossare chiunque sia più o meno simpatizzante di partiti di destra o di centrodestra. Non è un caso che il premio della critica sia stato assegnato a Daniele Silvestri, cantautore impegnato politicamente su posizioni di estrema sinistra. E che uno dei più penalizzati sia stato invece Simone Cristicchi, reo di essere semplicemente un artista senza filtri ideologici, capace anche di affrontare un tema tabù come le foibe. Sono peccati che la banda dei radical chic non perdona facilmente.

"Servivo al bar, ma studiavo per vincere a Sanremo". Il trapper trionfatore a sorpresa: «Non mi sento italiano, lo sono. E ho già il nuovo disco pronto», scrive Paolo Giordano, Lunedì 11/02/2019, su Il Giornale. Poi uno dice la sorpresa. Mahmood, chi l'avrebbe detto: è passato da (quasi) zero a cento in poche settimane. A dicembre ha vinto il Sanremo dei Giovani e adesso quello dei Big, quello tradizionale, quello che cambia la carriera. Ed è pure diventato un simbolo perché Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood con due o («Ma per gli amici sono soprattutto Ale»), classe 1992 e fisico minuto, è figlio di padre egiziano e di mamma sarda, è nato in Italia e vissuto nel popolare Gratosoglio a Milano. Per molti è già l'icona dell'integrazione. Per altri, la maggioranza, è semplicemente un italiano. Con Soldi, che ha un ritornello appiccicoso e tendenzialmente irresistibile, ha stravinto soprattutto nella giuria d'onore e nella sala stampa, risultando più basso nel televoto rispetto, a esempio, a Ultimo. E sabato era già il più trasmesso dalle radio. «Sono totalmente incredulo, per me era già un sogno esserci perciò non riesco a capacitarmi di avere addirittura vinto», spiega mentre viaggia a cento all'ora per Milano, obiettivo Che tempo che fa.

Allora, Mahmood, si sente un'icona o no?

«Mi sento soprattutto italiano, anzi solo italiano».

Ma crede che questo retropensiero le abbia portato più voti?

«In realtà spero proprio che non abbia avuto alcuna importanza. Io non sono passato per la politica, non c'è relazione ed è anche giusto così».

Quindi Mahmood chi è?

«Un ragazzo che è parte di una generazione mista. Sin da quando ero a scuola, i miei compagni di classe non erano soltanto italiani. C'erano cinesi, spagnoli, russi e via dicendo: Una miscela che per forza ha generato una nuova idea di convivenza. Ma la politica non c'entra».

Soldi non è un brano politico.

«Tutto è nato da un beat (un ritmo - ndr) che avevo trovato io a casa mia, poi abbiamo fatto la preproduzione con Dario Faini».

Un musicista compositore che si è anche fatto conoscere come Dardust e, su Spotify, vanta più streaming di tanti Big del Festival.

«Proprio lui. Infine con Charlie Charles, che è una delle figure più importanti della trap italiana, abbiamo completato il tutto. È stato un lavoro di squadra».

Mahmood, sa cosa colpisce molti che l'hanno votata? Lei ha 26 anni.

«A rotazione molti ce l'hanno, mica è così significativo».

Ma non hanno partecipato a X Factor e a Sanremo (tra i giovani nel 2016) senza lasciare traccia ma anche senza perdersi d'animo. Molti ventenni al primo stop mollano.

«Non mi sento di giudicare gli altri. Per me però la musica è sempre stata essenziale. Facevo il barista al mattino ma al pomeriggio andavo a lezione di pianoforte».

Caffè e cappuccini?

«Sì, al bar Top 11 in Piazza San Babila. Per tre anni. Capisco che ci si possa perdere per strada e lasciarsi scoraggiare. Ma a me non è successo».

Dal bancone all'Eurovision Song Contest di Tel Aviv, fino alla firma di brani da classifica come il singolo di Mengoni, Hola (I say). Mahmood vuol dire eclettismo.

«Preferisco esprimere passione».

Cos'ha detto sua mamma?

«E chi lo sa, l'ho vista di sfuggita sabato all'Ariston dopo la vittoria e poi sono scappato via. Magari dopo la chiamo. Mi sa che inizia un periodo vorticoso per me».

Tra poco esce il suo primo disco.

«In realtà è il mio primo disco fisico perché ho già pubblicato altri brani e un Ep, del quale il mio disco avrà lo stesso titolo, Gioventù bruciata».

Il Messaggero il 12 febbraio 2019. «Mi fa strano essere chiamato "personaggio del momento", non riesco ancora a realizzare. Sono soddisfatto perché la gente che non mi conosce, magari, pensa sia nato tutto da Sanremo ma in realtà dietro c'è un lavoro di anni in cui ho scritto pezzi per me e per altri e sono molto orgoglioso del lavoro e trovarmi qui mi fa un po’ strano ma era quello che volevo da sempre. L'ho cercato, ci ho lavorato, ho tenuto duro e questa cosa mi dà la speranza che quando uno si impegna davvero i risultati poi arrivano». Lo ha detto ai microfoni di Rtl 102.5 Mahmood interrogato sul suo carattere e sulla possibilità di cambiarlo aggiunge. «Ok ve lo posso dire, rappresenterò l'Italia all'Eurovision Song Contest con Soldi» «. Non vedo l'ora». Mahmood, fresco vincitore del festival di Sanremo con il brano «Soldi», ha sciolto la riserva annunciando oggi sulla sua pagina Facebook che parteciperà alla manifestazione in programma dal 14 al 18 maggio a Tel Aviv. Ad alcuni italiani magari frettolosi nel giudicarlo direbbe che «Prima di tutto, faccio il cantante e cantautore e sono consapevole del fatto che la mia musica possa piacere o non piacere. Io le critiche le accetto tutte, veramente, ma solo se sono costruttive perché così posso imparare anche io, sono ancora agli inizi e devo ancora imparare tanto di questo mestiere e mi servono le critiche costruttive. Quindi agli italiani prego solo di farmi delle critiche che abbiano delle fondamenta e non a caso». Sulla sua decisione di partecipare o meno all'Eurovision rivela che la risposta arriverà a stretto giro: «Ci abbiamo messo la testa ieri sulla questione Eurovision, quindi si tratta di attimi e poi potrò dirvi». Sulla questione legata alle sue origini e a Milano, città dove è nato, e sulla figura paterna di cui parla nel brano vincitore del festival, 'Soldì, Mahmood aggiunge: «Devo molto a Milano, nei miei pezzi, nelle mie descrizioni, essendo nato e cresciuto qui mi ha fatto da culla della musica e mi ha ispirato tanto questa città. La figura del padre? Nel mio mondo interiore l'ho vista sempre come, non so, quello che doveva un attimino occuparsi delle faccende non troppo quelle dedicate all'istruzione ma fare un po’ da 'boss' della famiglia, nel mio caso l'ha fatto mia madre Anna che mi ha fatto sia da madre che da padre. In questi anni ho rivisto la figura del padre anche in mia madre e ho capito cosa dovrebbe fare, dovrebbe occuparsi della casa, dell'istruzione, lei mi ha sempre fatto studiare e mi ha obbligato fino alla quinta liceo. Magari ci sono famiglie che quando il figlio dice di non avere più voglia e preferisce andare a lavorare per guadagnare i primi soldi non gli fanno finire l'istruzione. A me era capitato anche quel momento lì ma per fortuna ho avuto anche un'istruzione abbastanza ferrea a casa e la figura del padre l'ho rivista in mia madre, devo tanto a lei». Su quella parte di Mahmood che può essere stata sfida ma dolore vero il giovane artista di padre egiziano ha detto: «Più che dolore è un peccato non aver vissuto certe cose, ho vissuto un'infanzia e un'adolescenza bellissima e non ho nulla da rimpiangere, ma mi sarebbe piaciuto conoscere meglio certe tradizioni, certi aspetti di una cultura che conosco meno. In Egitto sono stato tipo due volte, una volta ad otto anni. Mi sarebbe piaciuto conoscere di più le radici, magari lo farò in futuro, non mi precludo nulla». Le polemiche, i titoli di alcuni giornali e il caos post vittoria non sembrano però aver rovinato la festa a Mahmood: «Mah è una cosa talmente grande e inaspettata per me che ci vorrebbe molto, molto di più per farmi andare via tutta questa gioia che ho al momento, quindi direi di no, proprio zero» e su cosa ha amato maggiormente e cosa meno della kermesse canora aggiunge: «Una delle cose che senza dubbio che più mi ha dato gioia in questo Festival è stato innanzitutto l'appoggio dell'orchestra perché chiedere all'orchestra di partecipare a un brano non proprio tradizionale per quello che è il festival di Sanremo - potevano benissimo dirmi 'non battiamo le mani, suoniamò - invece hanno voluto partecipare a 'Soldì in maniera totale». Infine, sugli italiani in un periodo in cui si fanno tifoserie su tutto, dalla musica, alla televisione alla sessualità e sul fatto che forse siano più profondi e sensibili di quanto non appaia in realtà, Mahmood ha detto: «Credo di sì ma per me parlare ancora di distinzioni è il vero errore. Sono cresciuto in una generazione con un'apertura mentale talmente vasta che secondo me è proprio nel parlare oggi di queste cose che si creano le distinzioni. Credo più nel fatto che siamo sulla stessa barca, siamo tutti uguali e che abbiamo tutti gli stessi diritti».

M.Mol. per “il Messaggero” l'11 febbraio 2019. L' italiano vero Mahmood ha 27 anni e un accento milanese, anche se la mamma è sarda e il papà egiziano. La prima volta che partecipò in qualche modo a Sanremo, tra le Nuove Proposte, quattro anni fa (quell' edizione c' erano anche Gabbani, Ermal Meta e Irama), portò un pezzo gradevole che si chiamava Dimentica. La canzone è stata presa alla lettera e Alessandro, questo è il suo nome, ha ricominciato il giro da capo, come nel gioco dell'oca. Solo che stavolta è andata bene, anzi di più: come nessuno si aspettava a cominciare da lui, ovviamente. «Lo sai - dice roteando i suoi occhi veloci mi fa quasi paura dirlo: ho vinto il sessantanovesimo Festival di Sanremo».

Non aveva avuto nessun sentore di quello che stava succedendo?

Ho capito qualcosa solo sabato pomeriggio, quando mi hanno detto che Soldi era il brano più suonato in radio».

E adesso cosa cambia?

«Spero di avere la certezza di poter vivere con la mia musica. E, intanto, mi metto al lavoro, ora deve uscire il mio disco, un lavoro che abbiamo pianificato ormai da mesi. Poi voglio fare dei concerti, è la cosa che mi diverte di più».

Lo sa che qualcuno non ha preso bene la sua vittoria?

«Mi fanno sorridere. Non ci faccio caso».

Il Festival della canzone italiana vinto da uno che si chiama Mahmood, a qualcuno è suonato strano, a cominciare da Salvini.

«Ma io sono italiano al cento per cento. Nato a Milano e cresciuto ascoltando De Gregori, Lucio Dalla e Battisti, i preferiti di mia madre».

Le radici sono forti e si sentono: la sua musica ha un sapore orientaleggiante, neppure vago.

«La musica araba mi piace molto, mi ricordo mio padre che l'ascoltava e mi è rimasta nella testa. La ascolto sempre. Fa parte delle contaminazioni che amo dove ci sono tante influenze: il trap, l'indie, i cantautori e anche la musica americana. Io lo chiamo Marocco pop».

In Egitto c' è mai stato?

«Due volte, è un paese che adoro, pieno di fermenti. Sarebbe bello poterci andare un giorno a suonare la mia musica».

La canzone Soldi è autobiografica?

«È una storia di una famiglia non tradizionale, è autobiografica nel senso che prende spunti dalla mia vita».

Lei beve champagne sotto il ramadam, come canta?

«Ma quella è una frase che non va presa alla lettera, la uso per dire predichi bene e razzoli male. Anche i soldi di cui parlo, non sono materiali, servono per raccontare come il denaro possa cambiare i rapporti».

È religioso?

«No, non ho nessuna religione».

Quei versi in arabo che funzione hanno?

«Sono parole che ho sentito nella mia infanzia, e ho voluto metterle per dare più forza a quel ricordo».

Ho letto che con suo padre non ha più rapporti, lei vive ancora con sua madre?

«Sì, da un po' di tempo sono tornato a vivere con lei, ma voglio prendere di nuovo casa da solo».

Il primo marzo esce il disco, poi ci saranno anche concerti?

«Sicuramente, devo mettere in piedi una band. Ce l'avevo, poi ultimamente ho fatto live, secondo me molto fighi, con un tastierista e i synt».

Ha letto le polemiche attorno alla sua vittoria su Ultimo?

«I gusti musicali sono soggettivi, non posso piacere a tutti. Comunque sono agli inizi della mia carriera, le critiche costruttive le accolgo con piacere».

Che ne pensa della reazione rabbiosa di Ultimo, arrivato secondo?

«Al festival c' è molta tensione in questi giorni, bisogna capire un ragazzo di 23 anni deluso, che ha detto la cosa sbagliata al momento sbagliato».

A Sanremo Giovani, un mese e mezzo fa, aveva vinto con Gioventù bruciata.

«In realtà io avevo pensato di portare a Sanremo giovani proprio Soldi, il pezzo che preferisco. Avevo paura di non passare. Ma mi hanno convinto a fare altrimenti. Ed è andata bene».

Alessandro Mahmoud, segno della vergine, è fidanzato, ma non vuole parlare della sua vita privata. Nel 2012 ha partecipato a X Factor 6 (in squadra con Simona Ventura, fuori dopo tre puntate). Ha già firmato pezzi che sono diventati hit della musica italiana, Nero Bali, Elodie, Michele Bravi, Guè Pequeno, nella canzone Luna con Fabri Fibra e in Hola, il duetto di Marco Mengoni con Tom Walker. Ha studiato musica da quando aveva 12 anni. Il primo disco, un ep, che uscirà il primo marzo, si chiama Gioventù bruciata, come la canzone che lo ha portato a vincere Sanremo Giovani. A maggio rappresenterà l'Italia all' Eurovision Song Festival che si svolgerà a Tel Aviv.

Andrea Laffranchi per il Corriere della Sera l'11 febbraio 2019. «Avrei voluto festeggiare assieme a mia mamma, mia zia e mio zio che erano qui e anche con lo staff della casa discografica. Finite le interviste e le foto di rito erano le cinque e mezza e sono crollato». Un' ora di sonno ed era già in piedi. Ci sono stanchezza e stupore (vero, lo si è visto alla proclamazione) negli occhi di Mahmood, all' anagrafe Alessandro Mahmoud, vincitore del Festival di Sanremo.

Il sindaco di Milano Beppe Sala ha twittato: «Con te ha vinto Gratosoglio, Milano e l'Italia...».

«Mi ha invitato a Palazzo Marino e andrò a trovarlo volentieri».

Vive ancora in periferia?

«Sì e non vedo l'ora di tornare a dormire nel mio letto.

Sono uno "comodino"... Rivendico con orgoglio di essere cresciuto a Milano sud, ci sono affezionato».

Allarghiamo a tutta la città: che rapporto ha?

«È la culla della mia musica. L' anno scorso ho anche pubblicato una canzone, "Milano Good Vibes", in cui la racconto come amica e parente, ispirazione e tutto».

Allarghiamo ancora, mamma sarda e papà egiziano: rappresenta una nuova Italia?

«Sono nato a Milano. Sono italiano al 100%. Ogni volta che sento parlare di differenze mi fa strano. Per la mia generazione, sono nato nel 1992, è normale. Sin dalle elementari sono stato abituato ad avere compagni di tante nazionalità diverse. Non parlerei nemmeno di un'Italia che cambia: per me è stata così sin da piccolo».

Matteo Salvini ha twittato: «La canzone italiana più bella? Io avrei scelto Ultimo». Che ne pensa?

«Che il giudizio sulla musica è soggettivo».

Se l'Italia non è nuova socialmente lo è musicalmente: tre under 30 sul palco. Sente il cambiamento?

«Quando è stato annunciato il cast ero felicissimo. Non mi aspettavo che ci potesse essere un festival moderno e all' avanguardia come questo. Di Motta ero appena stato a sentire il concerto a Milano cantando tutte le canzoni sottopalco. È un onore far parte di questa scena. Sono felice che la gente mi veda come diverso e nuovo».

E per sottolinearlo lei definisce la sua musica «morocco-pop». Cos' è?

«Sono cresciuto con mamma che ascoltava i cantautori: Battisti, De Gregori, Carboni e Antonacci erano i suoi preferiti. Nei viaggi in macchina papà metteva le cassette delle cantanti arabe, soprattutto marocchine, come Shirine. Quelle melodie, che sono tornato ad ascoltare dopo anni, sono entrate nella mia musica».

È arrivato a Sanremo dopo aver vinto le selezioni dei Giovani. Baglioni dice che la sua vittoria è una «favola». Le piace?

«È un viaggio di due mesi che a me sembra sia durato un'eternità. È accaduto tutto subito. La vittoria non era certo nei miei pensieri. Sono felice e orgoglioso del fatto che anni di impegno aiutino ad arrivare a un risultato come questo, tassello dopo tassello».

A scuola come andava?

«Ho fatto il linguistico. Lo spagnolo lo parlo ancora bene, ma in inglese non ero una cima. E infatti in quinta sono stato bocciato. Finita la maturità ho iniziato a studiare pianoforte privatamente».

Nel 2012 una fugace apparizione a «X Factor», nel 2016 Sanremo Giovani, quindi il lavoro come autore per Fabri Fibra, Michele Bravi e Elodie, Mengoni. E prima che la musica diventasse un lavoro?

«Ho fatto il barista per 3 anni e mezzo. In zona San Babila. Facevo l'apertura e mi dovevo svegliare alle 4 e mezza ogni mattino. È stata dura ma mi è servita per capire meglio cosa volevo fare nella vita e cosa no».

E la musica andava in parallelo...

«Sì, se mi veniva un'idea per un testo me la appuntavo sul taccuino fra l'ordine di un cappuccino e brioche e l'altro».

Oltre la musica?

«Sono un nerd. Sono un fan dei Pokémon. Non vedo l’ora che esca il nuovo gioco, anche se temo di dover cambiare consolle. E poi ci sono i libri che mi aiutano a costruire l'immaginario descrittivo dei testi delle mie canzoni. Rileggerei all' infinito Principianti di Raymond Carver. E il mio album si chiama Gioventù bruciata come il film che amo per l'estetica e perché il personaggio di James Dean ha una malinconia innata che ritrovo nei miei brani».

«Soldi» è una delle parole più usate nei testi della trap... Lei la utilizza in modo diverso.

«La canzone parla di denaro, ma non in senso materiale. Mostra come i soldi cambino i rapporti all' interno di una famiglia».

Ha riallacciato i rapporti con suo padre?

«No, sono fermi da tempo indeterminato. Se mai dovesse accadere spero che sia per parlare di musica...».

 Mahmood, drammatica confessione sul padre: "Dopo il Festival di Sanremo...", scrive il 13 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "I rapporti con mio padre sono fermi da tempo immemorabile. Non si è fatto vivo ancora. Ma se non dovesse succedere, non fa nulla. E poi, oggi con lui parlerei di musica. Stop". Mahmood, in una intervista a Chi, parla del legame difficile con il papà egiziano che non sente da molto tempo (argomento di due suoi brani, Soldi e Gioventù bruciata). Dopo la vittoria al Festival di Sanremo, il cantante, 26 anni, confessa anche di essere felicemente fidanzato. Ma la fortunata resta segreta: "Sì, sono fidanzato. Ma non aggiungo altro. Dediche d'amore? Quelle si fanno in privato". Leggi anche: "Ok, adesso ve lo posso dire". Mahmood, annuncio italianissimo: la sfida finale del vincitore di Sanremo. E sul Festival: "L'ho vinto, ognuno faccia i ricorsi che vuole", dice riferendosi all'esposto del Codacons. "Il nervosismo gioca brutti scherzi", continua parlando di Ultimo, "siamo giovani, capita. Secondo lei mi offendo se mi chiamano ragazzo? Ne ho sentite di peggio".  

Sanremo, quel coming out di Mahmood: "Ognuno deve dichiararsi quando meglio crede". Mahmood con la sua vittoria accende i riflettori su di sé e sulla sua vita privata, scrive Anna Rossi, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. Mahmood è il vincitore della 69esima edizione del Festival di Sanremo e dietro di sé ha lasciato Ultimo e Il Volo. Neanche il rapper si aspettava questa vittoria, tanto che quando è stato fatto il suo nome era incredulo. E Ultimo non l'ha presa troppo bene, forse si aspettava qualcosa in più. Tanto che durante la conferenza stampa ha sbroccato: "Voi siete così perché avete una settimana di gloria - ha detto ai giornalisti - e mi attaccate gratuitamente. Ma io non ho bisogno di alcun velo, non mi sento ipocrita. Non sono incazzato, sono soltanto amareggiato perché io punto all’eccellenza e non alla normalità". Ma ora andiamo a conoscere meglio Mahmood che ieri si è detto "un ragazzo italiano al cento per cento" nonostante sia figlio di madre sarda e papa egiziano. Il rapper è approdato sul palco dell'Ariston grazie alla vittoria della seconda serata di Sanremo Giovani 2018, aggiudicandosi il Premio della Critica. E nel 2016 aveva partecipato alla sezione Giovani del Festival di Sanremo con il brano Dimentica. I social si sono scatenati con la sua vittoria. E come in tutte le situazioni, c'è chi tifa per lui e chi proprio non apprezza la sua canzone. Poi, sono arrivati anche gli insulti e le offese, ma purtroppo questo fa parte del gioco al massacro della rete. Ma andando a conoscere meglio Mahmood, si scopre che nel lontano 2 agosto del 2016 aveva rilasciato una lunga intervista al sito gay.it. Il rapper parlava della sua musica, della sua carriera e della sua vita privata. Ma fra le domande, ne spunta anche qualcuna riferita alla comunità Lgbt e alla condizione "dei gay in Egitto". E proprio qui, Mahmood aveva forse fatto il suo primo coming out. Forse. "Apprezzo molto gli artisti che hanno avuto il coraggio di dichiararsi in pubblico, ma non giudico minimamente chi ancora non ha avuto la forza - diceva al sito gay.it -. Penso ognuno debba dichiararsi quando meglio crede. Quando pensa che sia il momento più opportuno. Come tutti. I gay in Egitto? A dire il vero qualsiasi disparità la vivo in maniera negativa e, in questo caso, ancor di più. Sono molto legato a quelle terre, pur non essendoci andato moltissime volte. Mi sento così impotente. Posso solo sperare che la situazione migliori, sia in Egitto che in tutti quei Paesi in cui vi è una disparità". Questa intervista del 2016 aveva acceso i riflettori sul rapper che incalzato sul tema poco fa - solo il 1° febbraio scorso - spiegava a Vanityfair: "Ho fatto coming out? No, ho rilasciato un'intervista a un sito gay oriented. Tutto qui. Dichiarare 'sono gay' non porta da nessuna parte, se non a far parlare di sé. Se continuiamo con questi distinguo, l’omosessualità non sarà mai percepita come una cosa normale, quale è".

Sanremo, Mahmood: "È vero, sono fidanzato". Il vincitore della 69esima edizione del Festival di Sanremo ammette di avere il cuore impegnato, scrive Anna Rossi, Mercoledì 13/02/2019, su Il Giornale. Si torna a parlare di Mahmood dopo la sua vittoria al Festival di Sanremo. Si è parlato di televoto, di malumori, di ultimo, del suo presunto coming out e ora ci si inoltra nella sua vita privata. Il cantante vincitore della kermesse non vuole sbilanciarsi più di tanto perché sa che ogni parola o scritta - in questo momento - avrebbe mille interpretazioni. Ma intervistato dal settimanale Chi, non può stare completamente zitto. Mahmood: "Sono fidanzato. Ma non aggiungo altro". Con chi? Non si sa, quello che è certo è che ha il cuore impegnato. Il vincitore dell'ultimo Festival di Sanremo, quindi, vuole tenere la sua relazione lontana dai riflettori ed è ermetico anche quando si tratta della sua famiglia. Con il papà i rapporti sono "fermi da tempo immemorabile". "Non si è fatto vivo ancora - ha rivelato -. Ma se dovesse succedere, non fa nulla. E poi oggi con lui parlerei di musica. Stop". Parole dure che dimostrano che fra i due qualcosa non va. Qualcosa si è rotto. Ma ora Mahmood ha la testa solo per la prossima tappa L'Eurovision Song Contest.

Mahmood: "Mio padre se ne è andato quando avevo 5 anni. La rabbia? L'ho superata. Se sono gay? Specificare vuol dire fare distinzione", scrive il 18/02/2019 l'Huffingtonpost.it.  Dopo le polemiche per la sua vittoria col brano "Soldi" a Sanremo 2019, Mahmood parla della sua infanzia e della vita privata al Corriere della Sera. Da il Corriere della Sera. Mahmood, pseudonimo di Alessandro Mahmoud, è il vincitore della 69esima edizione del Festival di Sanremo con la canzone "Soldi", in cui racconta il contrastato rapporto col padre. Dopo le polemiche legate alla discrepanza di parere tra il televoto e la giuria di qualità che ha dichiarato la sua vittoria a Sanremo il 27enne milanese, con mamma sarda e papà egiziano, sulle pagine del Corriere della Sera parla della sua vita privata e dell'infanzia. Il racconto inizia proprio dalla canzone vincitrice della rassegna musicale. "Soldi" è nata dalla frase in arabo waladi habibi ta'aleena, "figlio mio, amore, vieni qua". Era con quelle parole che papà mi chiamava per tornare a casa quando, bambino, giocavo nel parchetto di Gratosoglio [...] Quando mio padre è andato via di casa avevo cinque anni. Mia madre si preoccupava perché le chiedevo "mamma mi porti al parco?" e non "dov'è papà?" [...] I momenti di rabbia sono venuti dopo e li ho superati. Però, ho scritto "Soldi" perché avevo bisogno di fissare i ricordi di qualcosa che poteva andare meglio.

A chi gli domanda se, come nella canzone, non sappia dove oggi sia suo padre ("Ieri eri qua, ora dove sei, papà?"), il cantante risponde di non saperlo. Nonostante la distanza della figura paterna, dalla commistione tra cultura araba e cultura italiana, Mahmood è riuscito a ricavare ispirazione per la sua musica: Da piccolissimo, ascoltavo la musica di mamma, De Gregori, Dalla, Battisti, e quella araba di papà. Il mio primo ricordo sono io che suono la trombetta Chicco davanti alla tv. A otto anni, già prendevo lezioni di solfeggio, ma i suoni mediorientali li ho recuperati dopo.

Anche in "Gioventù bruciata", Mahmood parla del padre con la frase "violenza chiusa dentro quattro matrimoni". Quattro sono le mogli che ha avuto papà. Ci ho fatto i conti [...] Ma non sto parlando di poligamia. Mamma e papà si sono sposati in chiesa, io ho frequentato l'oratorio, ho fatto battesimo, comunione, cresima. L'Islam non c'entra [...] Io sono per rispettare tutti. E, davanti alla violenza, sono dalla parte della vita.

Mahmood è molto legato a sua madre e racconta: Devo tutto a mamma. All'inizio, mi accompagnava lei dal maestro di musica, partendo da Buccinasco, dove lavorava, e portandomi a Baggio. Ogni giorno, un viaggio. Mi ha fatto da madre e da padre. Una mamma che lo ha aiutato a coltivare la passione innata per la musica, dunque. La musica da bambino era uno sfogo e, crescendo, è diventata lo scopo primario. Finito il liceo, facevo il barista all'alba e al mattino per poter studiare pianoforte il pomeriggio. A un certo punto, mamma aveva un bar dove veniva a mangiare il figlio di Caterina Caselli, mamma voleva che gli dessi un cd, non l'ho fatto.

Il vincitore di Sanremo è cresciuto a Gratosoglio, nella periferia milanese. A quei luoghi confessa di essere profondamente legato. Nella vita, la chiamo Gratosolliwood. Non è una periferia brutta come l'ho vista in certi servizi tv. Bisogna vederla in una bella giornata di sole. Ci sono cresciuto senza paura, ho più paura in piazza Duomo [...] Le periferie sono posti dove tanti giovani crescono bene, tanti che fanno bella musica vengono da posti così [...] Mi comprerò un monolocale. Forse a Gratosoglio, forse altrove, ma voglio far sentire a mamma che ora ce la faccio da solo. Quando gli ricordano che qualcuno, sui social, ha avuto l'idea di commentare "Mahmood è italo egiziano e pure gay, Salvini sarà contento", il trionfatore del Festival della canzone italiana risponde: Io non ho mai detto di essere gay. La mia è una generazione che non rileva differenze se hai la pelle di un certo colore o se ami qualcuno di un sesso o di un altro. Io sono fidanzato, ma troverei poco educata la domanda se ho una fidanzata o un fidanzato. Specificare significa già creare una distinzione. 

Nella periferia di Mahmood: “È il mio mondo, io resto qui”. La scuola, l’oratorio. E poi il bar dove faceva cappuccini. E il tram per Rozzano. Tra i palazzoni di Gratosoglio con il cantante che ha vinto a sorpresa il Festival, scrive Luigi Bolognini il 17 febbraio 2019 su La Repubblica. Alcuni lo fotografano da lontano, tipo paparazzi. Altri si fanno un selfie o con timidezza o senza neppur chiedere, come fosse un diritto, e lui dà anche consigli su come fare lo scatto. I più però lo fermano, lo salutano, si complimentano, lo stringono, lo sbaciucchiano e poi certo, già che c'è, sguainano il cellulare ed eternano questo momento indimenticabile. "Neanche avessi vinto Sanremo", sorride Alessandro. Col dettaglio, ininfluente certo, che lui Sanremo l'ha vinto davvero, che la canzone Soldi è la più ascoltata della settimana e che il disco Gioventù bruciata uscirà in anticipo, venerdì, per le tante richieste. Così adesso Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, non può fare più di tre passi di fila nel suo quartiere. Ma è tutto tranne che un problema: a divo non si atteggia neanche ora che ne avrebbe diritto. Il resto lo fa un carattere mite, con un sorriso malinconico stampato in viso e gli occhi dolci. "Sono e resto la persona semplice e normale di prima. Ma ho capito che qui sono diventato l'eroe per chi vede in me il simbolo del possibile riscatto sociale: anche abitando in un posto come questo si può avere successo, non si è condannati a una vita triste". Traduciamo "un posto come questo". Il Gratosoglio è estrema periferia sud milanese, catene non interrotte di formicai umani, palazzoni popolari da centinaia di appartamenti, cemento che abbonda anche nei parchetti, disagio che va dalla difficoltà di sbarcare il lunario alla disperazione alla fame chimica, il tram - linea 15 - come solo mezzo pubblico a legarti al mondo. Da qui con talento, determinazione, sensibilità, Alessandro ha saputo uscire. O meglio, emergere: di mollare il Gratosoglio non ha la minima intenzione, e non solo per l'affetto, "che c'era anche prima, Sanremo l'ha solo amplificato, benché a livelli impensabili". È che in un paio di chilometri quadri c'è tutto il suo mondo. Con lui lo giriamo partendo dalla scuola elementare Feraboli di via Feraboli, l'occasione per parlare delle sue origini straniere: "Davvero, non ho capito le polemiche intorno a me. Sono nato alla clinica Mangiagalli, dove partoriscono i milanesi, e questa scuola era già multietnica 20 anni fa, in classe avevo cinesi, rumeni, algerini. Milano per me è la città del mondo, io e i miei coetanei non badiamo neppure all'etnia". Colour blinded, dicono in America. Certo, il papà è egiziano, "ma è andato che avevo 6 anni, al Cairo sono stato due volte e ricordo un quartiere poverissimo, coi bimbi scalzi eppure pieni di gioia. Però mamma è sarda e a casa parliamo in sassarese. In più avendo fatto il Linguistico, so anche spagnolo (da Dio), francese (ahia) e inglese (decente). L'arabo poco, ma approfondirò". In quel mentre esce il custode delle scuole e si fa una foto pure lui, e una professoressa si ferma a complimentarsi "per l'ottimo italiano delle tue canzoni". Accanto la chiesa di San Barnaba: pur non praticante, Mahmood è cattolico, battezzato, cresimato, con esperienze nel coro a messa ("l'unico maschietto in mezzo alle donne"). E una signora lo abbraccia stretto: Anna Cervo è stata la sua catechista. "Era fantastico già all'oratorio", sorride commossa. Arrivano dei ragazzi che non perdono l'occasione del selfie, poi iniziano a chiacchierare, "ma tu sei il cugino di Francesco? E di Sabrina?". Lui non può che annuire: "Mamma ha 12 tra fratelli e sorelle, ogni tanto perdo il conto dei cugini, che casino ricordarsi tutti i compleanni". A pochi passi, la fermata del 15. tram lungo e col culo grosso che balla tutto il tempo, "ma queste oscillazioni mi hanno sempre cullato, a volte mi sono appisolato e ho sbagliato fermata". Usato però in direzione sud, a Rozzano, "la chiamavo Rozzangeles perché lì era il divertimento. Con gli amici attraversavamo via dei Missaglia sul ponte coperto zeppo di venditori di cd contrabbandati e cinture D&G tarocche, e al di là avevo il cinema nella multi-sala, il centro commerciale Fiordaliso dove fare lo struscio tra i negozi e un McDonald's in cui buttar giù un Big Mac, un Filet-o-fish o un Crispy McBacon". Per il nord, il centro, Alessandro usava l'auto: "Due anni a un bar di piazza San Babila, sempre il turno di apertura, e all'alba il tram non passa. Facevo cappuccini. Non sapevo montare il latte, ma col tempo ho imparato: a qualunque cosa faccia mi dedico anima e corpo. E i testi di tante canzoni li ho buttati giù sul taccuino delle comande, non ho mai smesso di desiderare di fare il musicista. Crederci sempre arrendersi mai, è il mio motto". Italiano al 100%, Mahmood lo è anche nei diritti. Compresi quelli politici. Impossibile, forse anche irrilevante, sapere chi ha votato, però a votare va, "con convinzione per la pratica democratica, molto meno per chi ho votato. In Italia non è un periodo facile, possiamo farcela se l'Europa ci aiuterà e daremo importanza alla vita degli altri, alla gente". Forse anche per la fiducia che ha verso gli altri non si aspettava polemiche politiche, "per di più di livello così basso". Però sull'iPhone mostra un sms: il numero - in rubrica - è di Matteo Salvini, che ammette altri gusti musicali, ma lo invita a godersi la vittoria. "L'ho ringraziato, ero sicuro che non ci fosse nulla di personale in quel che ha detto". Davvero, di questo italo-italiano colpisce la serenità, che non è lo sforzo estremo di chi deve tenere i piedi per terra per non volare chissà dove, "sono sempre stato così". Per dire, arriva la notizia di un parlamentare (ops, leghista) che vuole obbligare le radio a trasmettere il 33% di musica italiana, e polemizza proprio con lui. La sua reazione? "Molto bene. Così metteranno di più anche le mie canzoni". Un italiano vero, alla Toto Cutugno. Come è stato costretto a canticchiare dalle Iene di Italia Uno che gli hanno fatto un agguato sotto casa. E questo pare sia stato il massimo pericolo che Mahmood ha corso al Gratosoglio da quando ci è nato. "Mai avuto a che fare con razzismo, droga, violenza, giuro. Dove potrei stare meglio?"

Mahmood canticchia: "Lasciatemi cantare, sono un italiano". Il festival di Sanremo ancora trascina con sé alcune polemiche, Mahmmod chiama Ultimo per nome e non "ragazzo", scrive Riccardo Palleschi, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale.  Le Iene sono arrivate anche dal vincitore di Sanremo 2019, Mahmood. Nonostante quanto si è sentito dire in queste settimane sul suo conto, il diretto interessato se n'è fregato e ha cercato di godere al massimo del suo attuale successo. Così, intercettato da Le Iene, ha scherzato sulle polemiche.

Mahmood risponde a Salvini. Il vicepremier Salvini, non appena terminò il Festival, infatti, aveva dichiarato di non apprezzare il pezzo di Mahmood, ma di preferire un altro cantante. Per la precisione Ultimo. E ora arriva la battuta di Mahmood. Nella puntata delle Iene andata in onda ieri sera, infatti, è stato chiesto al cantante che cosa ne pensa dell'opinione del leader della Lega e lui ha replicato: "Ci sta, la musica sono gusti personali". Nessuna risposta al vetriolo dunque, ma l'ormai famoso rapper italo-egiziano, ha intonato una canzone di Toto Cutugno, "L'Italiano" per inscenare il teatrino messo su dagli inviati. "Lasciatemi cantare, con la chitarra in mano. Lasciatemi cantare, sono un italiano", ha canticchiato. Un modo simpatico per sdrammatizzare le polemiche sorte nelle ultime settimane.

Il saluto a Ultimo. Le Iene, infine, hanno invitato il vincitore di Sanremo a mandare un saluto anche al suo collega Ultimo, arrivato secondo al Festival. Ma soprattutto il collega che lo aveva chiamato "il ragazzo" durante la conferenza stampa conclusiva del festival. "Io non dico ragazzo, dico Ultimo. Ciao Ultimo", ha detto Mahmood sorridendo, cercando di non apparire polemico.

ECCO COSA VUOL DIRE LA FRASE IN ARABO NELLA CANZONE “SOLDI” DI MAHMOOD, scrive il 20 febbraio 2019 deejay.it. Dopo essere diventato il primo artista in assoluto a vincere nella stessa edizione: Sanremo Giovani, il premio della critica di Sanremo Giovani e il Festival di Sanremo, Mahmood ha battuto anche tutti i record di streaming su Spotify, dove Soldi svetta da settimane al primo posto della Top 50 Italia. La canzone risulta il singolo italiano più suonato di sempre sul servizio di streaming online, sia nell’arco di 24 ore in ambito global (11 febbraio – 1.676.481 stream) che nell’arco di una settimana di rilevamento (8.223.614 stream – da venerdì 8 febbraio a giovedì 14 febbraio). Inoltre, resta in testa alla classifica FIMI dei singoli e a quella dell’airplay radiofonico. I numeri parlano chiaro: Soldi di Mahmood è la prima vera hit di questo 2019. Il successo della canzone ha incuriosito il pubblico, che si è quindi interessato alla vita di questo ragazzo di 26 anni e al significato del suo brano. Tra le curiosità più cercate c’è il senso di “Waladi waladi habibi ta’aleena”, la frase in arabo inserita da Mahmood nel testo di Soldi. Il significato lo ha spiegato lui stesso in conferenza stampa a Sanremo: “Ho scelto di mettere questa frase perché c’è un legame con il ricordo della mia infanzia. Io non parlo arabo, in casa parlo sardo. Però nei miei ricordi c’è mio padre che lo parla. La frase significa: “Figlio mio, figlio mio, amore, vieni qua”.

Sala «intervista» Mahmood. E se le suona con i leghisti. Il sindaco: «Quote per la musica italiana? Surreale» Morelli: «Nel 2017 lo propose persino Franceschini», scrive Chiara Campo, Giovedì 21/02/2019, su Il Giornale. Il sindaco lo aveva annunciato il giorno dopo il trionfo di Alessandro Mahmood al Festival di Sanremo, «con lui ha vinto Milano e ha vinto il Gratosoglio, lo inviterò a organizzare insieme un evento pubblico». In quelle ore infiammava la polemica sul televoto (a netto favore del secondo arrivato, Ultimo) «ribaltato» dalla giuria popolare e il cantante italo-egiziano veniva assunto dal Pd come simbolo di integrazione, anche se il diretto interessato ha preferito tirarsi subito fuori dalle polemiche politiche e ha dichiarato di sentirsi «italiano al 100%». E si è chiamato fuori anche Matteo Salvini, su Twitter aveva scritto che preferiva la canzone di Ultimo ma ha chiarito che era un giudizio puramente musicale, e ha inviato un sms a Mahmood («goditi il tuo successo»). Chissà che non la ributti in politica proprio Beppe Sala, che ieri ha anticipato di aver sentito il vincitore e «la prossima settimana faremo un evento insieme, la formula dovrebbe essere che io lo intervisto sul palco». L'evento si terrà alla sera, forse al Gratosoglio dove Mahmood è nato e cresciuto ma i dettagli saranno svelati a giorni. E tra musica e politica, il sindaco è partito dalla proposta avanzata dal capogruppo in Comune e deputato della Lega Alessandro Morelli sull'obbligo di trasmettere in radio il 30% di canzoni italiane per attaccare in toto la «mentalità leghista». La proposta, ha esordito, «è surreale, ma mi pare in linea con il modo di pensare dei leghisti, riportarci a dei tempi rispetto ai quali forse loro hanno nostalgia, io nessuna. A me piace la contemporaneità, fatta dello stare insieme, aprirsi agli altri. É anche un errore continuare a scherzare su queste cose, sono sintomo di una mentalità sbagliatissima per Milano, il fatto che sia aperta e internazionale dà vantaggi a tutti. Quando penso al vicepremier Salvini sul muretto che dice cambiamo sindaco di Milano mi viene voglia di resistere ancora di più». Morelli ribatte: «Gli unici tempi di cui ho nostalgie sono quelli nei quali l'allora ministro Pd Franceschini lanciava da Milano la proposta di quote di musica italiana nelle radio, per legge. Sala non ha capito un tubo, la proposta è di tutelare i giovani talenti italiani e far sì che abbiano nuove leve per arrivare sui palchi internazionali. Intorno alla musica lavorano decine di migliaia di persone, sul palco e fuori, che non hanno ferie, malattie o maternità e la loro promozione, come avviene all'estero, è un riconoscimento dell'importante ruolo che svolgono». É «ben contento» che Mahmood si presti a un evento col sindaco, ma «il Sala politico userà il palco per fare una comparsata nelle periferie dove non lo vedono spesso». Oggi Sala incontra il sindaco di Lione Gérard Collomb, ex ministro del governo Macron. Discuteranno di Tav ma anche «sui rapporti italo-francesi e con l'Ue. Milano è credibile e ha il dovere di presentare l'immagine di un'Italia più dialogante che in continua lotta». Sugli insulti razzisti accompagnati da svastiche comparsi sulla casa di una famiglia di Melegnano che ha adottato un senegalese di 22 anni chiede alla magistratura «di far rispettare la legge sull'apologia con estrema durezza».

La volta che Mahmood fu eliminato da X Factor e la Ventura: "Ingiustizia". Mahmood partecipò a X Factor 2012, ma venne eliminato alla terza puntata. Ora la Ventura gli fa i complimenti, scrive Francesca Bernasconi, mercoledì 13/02/2019 su Il Giornale. Era il 2012 quando Mahmood, che allora si faceva chiamare col suo vero nome, Alessandro Mahmoud, venne eliminato dal talent X Factor. Il cantautore si era presentato ai provini per partecipare al talent ma, dopo averli superati, venne eliminato agli Home Visit. Nonostante questo, riuscì a partecipare alla gara, grazie alla vittoria di una wild card che gli permise di rientrare. Nella seconda serata di X Factor 2012 ebbe la meglio su Gaya, Michele e Up3Side e vinse al ballottaggio grazie al voto di Simona Ventura. Ma nel corso della terza serata, finito nuovamente al ballottaggio, perse il duello con Romina, eliminato dai giudici Morgan, Elio e le Storie Tese e Arisa. In quell'occasione, la sua esclusione suscitò parecchie polemiche, prima fra tutte quella di Simona Ventura, che in diretta gridò all'ingiustizia. Mahmood faceva parte della sua squadra, nella categoria Uomini 16-24. Dopo la vittoria al Festival di Sanremo, Simona Ventura ha commentato sui social: "Da qui è partita la tua rivincita! Mai mollare i propri sogni ma perseguirli con sacrificio e dedizione. È vero che vedemmo il tuo talento tempo fa, ma tu non hai mollato MAI! Questo è il segreto! Grande!".

Striscia la Notizia demolisce Achille Lauro: il video, brutale pugno faccia al ragazzino tra il pubblico, scrive il 13 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Continuano le polemiche legate al Festival di Sanremo. A picchiare duro è sempre Striscia la Notizia, che torna a mettere nel mirino Achille Lauro, già attaccato nei giorni della kermesse perché il brano Rolls Royce - secondo il tg satirico - sarebbe stato un inno all'ecstasy. Ma nel servizio trasmesso martedì 12 febbraio Rolls Royce non c'entra. Striscia infatti mostra alcuni video, piuttosto impressionanti, che ritraggono Achille Lauro nel corso di alcuni suoi concerti. In uno insulta un tizio del pubblico: "Non cacare il cazzo che ti ammazzo. Deficiente, ragazzino di merda le buschi". Dunque, altri due estratti sconvolgenti: uno in cui Achille Lauro dal palco sferra un calcio contro uno del pubblico, il secondo in cui sempre il trapper sferra un violentissimo pugno in faccia sempre a qualcuno che era in prima fila nel pubblico. Roba brutale, ingiustificabile. Il tutto in un montaggio in cui vengono continuamente riproposte le parole di Achille Lauro a Che tempo che fa: "Con la mia musica voglio dare un bel messaggio ai giovani". Come no.

Achille Lauro, il Secolo XIX non pubblica la rettifica del Gabibbo. Ecco il testo integrale, scrive il 10 febbraio 2019 Striscia la Notizia il 10 febbraio 2019. Il Gabibbo ha replicato a Il Secolo XIX con una rettifica su Achille Lauro e Sanremo 2019. Rettifica che non è stata pubblicata sul quotidiano. Noi vi mostriamo il testo integrale delle parole del Gabibbo: Carissimi del Secolo XIX, avete dato come voto 5 alle polemiche del Festival, sostenendo che ci saremmo “intorcinati sul doppio senso” della canzone Rolls Royce. Non ci siamo intorcinati per niente: tutto è estremamente chiaro e solo un besugo in malafede o dormiente non può vederlo.

Nella canzone di Achille Lauro vengono citati numerosi artisti che hanno usato e abusato di sostanze stupefacenti. Partiamo dal primo verso: “Sdraiato a terra come i Doors”. Sia il leader Jim Morrison, morto giovanissimo, sia gli altri componenti della band sono passati alla storia per gli eccessi psichedelici. 

Andiamo avanti: “Perdo la testa come Kevin”. Kevin è il nome del protagonista del film Mamma ho perso l’aereo. In questo caso perde la testa, non l’aereo, riducendosi come tutti sanno a una larva per droga. 

“A 27 come Amy”. Amy Winehouse morta a 27 anni dopo un passato da tossicodipendente. 

“Sì come Marilyn Monroe”. Anche lei morta per un’overdose di pasticche. 

“Chitarra in perla Billie Joe”. Il leader dei Green Day che ha confessato di aver fatto largo uso di droghe.

“Suono per terra come Hendrix”. Il famoso chitarrista, morto anche lui giovanissimo dopo aver abusato a lungo di sostanze. 

“Viva Las Vegas come Elvis”. Elvis è Presley, dedito allo sballo da stupefacenti. Las Vegas, invece, è un’altra canzone di Lauro dove vengono citate “MD, special K, lisergico in cale”. 

“È Axl Rose”, leader dei Guns N’ Roses, altro artista che ha abusato a lungo di droghe. 

Più sotto viene citata un’altra band. “Rolling Stones”, gruppo di strafattoni d’annata! 

E ancora: “No, non è un drink, è Paul Gascoigne”. Il calciatore inglese che ha trascorso una vita funestata da alcol e droghe. E poi van Gogh, un altro bruciato. Non manca neppure un riferimento a Miami Vice (il vizio di Miami), nota serie televisiva sul narcotraffico.

Che per il trapper questi siano dei veri modelli ce lo rivelano i seguenti versi: “Voglio una vita così, voglio una fine così”! Insomma Lauro si augura una vita e una morte come quella di molti dei suoi modelli citati nel testo. E veniamo anche al titolo della canzone, che ricorre nel ritornello: Rolls Royce. È così che si chiama una pasticca di ecstasy con impresso il marchio della nota casa automobilistica, che ha sul radiatore la famosa statuetta “Spirit of ecstasy”. 

Niente di intorcinato, tutto molto semplice e coerente: di intorcinato qui ci sono solo i goffi tentativi di far passare Rolls Royce per un’automobile. Altri significati, che non siano quelli legati alla droga, non se ne vedono, se non dopo essersi calati qualcosa di pesante. Per sapere che era una pasticca di ecstasy bastava andare su internet e digitare. Ma per gli oltre 1.400 giornalisti omertosi presenti a Sanremo questa è evidentemente una fatica eccessiva. E quindi tutti a dar corda al pusher che cerca di spacciare un’automobile al posto di una pasticca. All’attento cronista non dovrebbe sfuggire che ormai Sanremo è peggio del boschetto di Rogoredo.

Che poi i conflitti di interesse, come sostenete voi, siano “poco dimostrabili”, è un’altra belinata. Certo, per voi è normale che acceda a uno dei due posti al Festival il giovane Einar, votato da una ristretta giuria dove sedevano Annalisa (sua coach esterno ad Amici) e la salzanissima testimone di nozze Fiorella Mannoia (che ha duettato con lui ad Amici, ha il suo stesso manager, e il suo fidanzato è stato coach musicale di Einar ad Amici). Tutto dimostratissimo, ma non c’è peggior orbo di chi non vuol vedere. La Rai, la più grande azienda culturale italiana con oltre 13 mila dipendenti, servizio pubblico con il canone pagato in bolletta, ultimamente deve appaltare tutto a Baglioni e a Salzano con un contratto che non ha precedenti nella storia del Festival. È la Rai che può offrire una platea gigantesca per la promozione dei tour, sono i cantanti che hanno bisogno della Rai, non il contrario. Ma ci voleva Striscia per tirare fuori la foto del bacio a Formentera tra Salzano e Mario Orfeo, direttore generale della Rai? 

Tranne due o tre, i giornalisti sono impiegati a fare gli estintori o a ballare sugli inciuci. Da cani da guardia a cani da lecco. Sono di manica larga, voto alla sala stampa: 3 - -. E se qualcuno ha qualcosa da ridire, gli spacco la faccia. Il Gabibbo 

Renato Franco per il “Corriere della Sera” l'11 febbraio 2019. Lo Stato Sociale e Renato Pozzetto si sono esibiti sul red carpet dell'Ariston. Fuori e non dentro il teatro. Hanno cantato E la vita, la vita, in sostanza uno spot mascherato perché la canzone è il tema musicale della pubblicità della Nutella. Ferrero è uno degli sponsor più importanti per la Rai e aveva investito parecchi soldi per far entrare questa esibizione sul palco. Si dice però che Ferdinando Salzano, manager di Baglioni e deus ex machina del Festival, abbia posto il veto. Ora però Ferrero chiede un rimborso perché l'accordo non è stato rispettato.

Linda Varlese per huffingtonpost l'11 febbraio 2019. Abuso di posizione dominante, con l'aggravante di minacce, ritorsioni e boicottaggio. È l'ipotesi su cui l'Agcom, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ha aperto un'istruttoria nei confronti di Ticket One, società leader in Italia nei servizi di biglietteria, e CTS Eventim (società tedesca di organizzazione di eventi che controlla la maggior parte dei promoter in Italia come F&P, D&G, Vivo e Vertigo), che detiene il 99,65% di capitale sociale di Ticket One. Secondo quanto si legge in un documento, che Huffpost ha potuto visionare, a denunciare l'abuso sarebbe ZED concerti, promoter locale di eventi live attiva nel nord est e in fase successiva Ticketmaster, società italiana di servizi di biglietteria. La decisione dell'Agcom di avviare un'indagine è stata presa sulla base dei documenti forniti da queste due società, in cui si denunciano presunti abusi di posizione dominante da parte di Ticket One che nel periodo fra il 2013 e il 2017 avrebbe stipulato contratti in esclusiva con i più importanti promoter di musica live attivi in Italia "contenenti clausole contrattuali in forza delle quali Ticket One ha ottenuto il diritto di distribuire in esclusiva la totalità o una rilevante quota dei titoli di accesso ai concerti di musica live organizzati dai promoter", come si legge nel documento dell'Agcom. In altre parole, secondo i documenti presentati da Zed Concerti e riassunti nell'istruttoria dell'Agcom, Ticket One e CTS Eventim avrebbero messo in atto una serie di comportamenti volti ad escludere la società padovana dal mercato degli eventi live in Italia e Ticketmaster dal sistema di biglietteria, fagocitando tutto tramite abusi, minacce di ritorsioni e boicottaggio. Si legge, ad esempio, all'art.17 del documento di Agcom che in data 18 settembre 2018, l'Ad di Vivo Concerti, società che orbita intorno a CTS Eventim, avrebbe minacciato la Zed per attribuirsi l'apertura della distribuzione dei biglietti per un concerto dei Maneskin a Padova e l'intestazione fiscale di questo evento. Come questo, nel documento, ci sono altri esempi di condotta scorretta relativa a concerti di artisti del calibro di Alessandra Amoroso, Caparezza, Fiorella Mannoia, artisti controllati e distribuiti dai promoter controllati da CTS Eventim. Inoltre l'accusante denuncia che Ticket One avrebbe applicato una percentuale ulteriore sui prezzi di prevendita per gli eventi controllati da Zed. Sovrapprezzo che non verrebbe applicato per i live gestiti dai promoter che fanno capo invece a CTS Eventim. Alla luce di questi e molti altri esempi contenuti nell'istruttoria, l'Agcom avrebbe rilevato una possibile violazione del sistema di concorrenza e per questo avrebbe aperto un'indagine istruttoria a carico di Ticket One e CTS Eventim, al fine, se dovesse avere risultato positivo, di "ripristinare e mantenere condizioni concorrenziali sul mercato interessato".

Achille Lauro ricompra i gioielli alla madre: "Io sono il buon esempio". Achille Lauro difende su Facebook la sua posizione e rivela di aver utilizzato i soldi guadagnati con il suo successo musicale per ricomprare i gioielli di famiglia impegnati da sua madre in momenti di grande difficoltà per la sua famiglia, scrive Antonio Mosca, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. Dopo le polemiche alimentate da Striscia la Notizia su un presunto legame tra la sua canzone sanremese Rolls Royce e l'assunzione di sostanze stupefacenti, Achille Lauro decide di aprire il suo cuore ai tanti fan che seguono la sua pagina Instagram, in un lungo post i cui ripercorre delle fasi dolorose del suo passato. Al di sotto di una foto che lo ritrae in uno sgargiante vestito verde acqua, il giovane trapper romano parla della sua vita, soffermandosi su tratti importanti dell'infanzia, vissuta in una famiglia onesta, ma con molti problemi economici. In particolare, ci tiene a sottolineare l'altruismo della madre, donna che accoglieva in casa propria bambini di altre famiglie ''anche quando possibilità non ne aveva''. Una mamma dedita ai figli e alla propria famiglia, al punto da impegnare i gioielli che le erano stati lasciati in eredità dalla propria madre per riuscire a coprire i numerosi debiti contratti. Sforzi e sacrifici ripagati dal grande successo ottenuto da Achille, che grazie anche alla sua partecipazione a Sanremo, è salito alla ribalta nazionalpopolare e ha visto incrementare i suoi bagagli e la sua fama artistica. Infatti, dichiara di aver ricomprato tutti i gioielli che erano stati dati in pegno dalla madre, dando segno della grande generosità che gli era stata insegnata dalla stessa. Tutto ciò serve a ribadire un chiaro concetto: "Non voglio essere un buon esempio, io sono il buon esempio". Forse per scrollarsi di dosso polemiche e critiche piovute come grandine nelle scorse settimane, che lo etichettavano come un promoter dell'assunzione di droghe.

SANREMO E LO SPECCHIO DEL PAESE.

Troppi compagnucci? Per la Rai si vive di "contiguità amicale". Stasera si parte. E la direttrice del primo canale elogia il conflitto d'interessi: un metodo di lavoro, scrive Laura Rio, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Dunque, per la neo direttrice di Raiuno Teresa De Santis la «contiguità» è un valore, anzi un «tesoro», anzi un buon modo per realizzare grandi eventi. Finora questa parola evocava qualcosa di oscuro, di poco chiaro, una mancanza di trasparenza. Invece, da ieri mattina, è diventata un modello di cui vantarsi. Con queste argomentazioni, tra lo stupore generale della sala stampa nella prima conferenza del Festival, la responsabile del primo canale ha voluto infatti chiarire la questione del conflitto di interessi di Baglioni. In poche parole: gran parte dei cantanti in gara e degli ospiti fanno riferimento alla stessa scuderia di promoter cui appartiene anche il presentatore, e cioè la F&P di Ferdinando Salzano e alla medesima etichetta discografica, la Sony. Una situazione identica all'anno scorso, che fotografa il monopolio dell'imprenditoria musicale italiana e su cui in questa edizione sono tornate le polemiche soprattutto per la battaglia che sta portando avanti Striscia la notizia. Bene, la De Santis invece di escludere che esista qualsiasi tipo di conflitto di interessi, ne ha fatto un elogio. «La nostra produzione musicale - ha detto fuori dai denti - vive anche di contiguità, anzi spesso ne deve fare tesoro: attraverso rapporti amicali si possono ottenere artisti che altrimenti non si sarebbero avuti. Il Live Aid non si sarebbe potuto fare, per esempio, senza le amicizie di Bob Geldof». E, poi, ovviamente specifica: «Questo non vuol dire che non ci debba essere una coscienza tale da far sì che venga favorita la qualità. E Baglioni ha una coscienza molto forte e non ha certo bisogno di sovvenzioni economiche né di giochi di potere». In sostanza la direttrice ammette che si lascia all'artista il compito di essere moralmente trasparente, di non favorire gli amici o gli amici degli amici, ma di scegliere in base al valore artistico. Il che, nel caso di Baglioni, è probabile, ma ammettere che un'azienda come la Rai si affidi completamente alla buona volontà è francamente discutibile. E, anche quando si fa notare che esiste una clausola di trasparenza, la direttrice scarica sulle altre direzioni competenti (affari legali e risorse artistiche) il compito di verifica, dicendosi comunque certa che l'azienda vigila e controlla...Comunque stasera il Festival comincia. Si avrà un primo assaggio dei 24 brani in gara. Per la parte spettacolo, oltre al debutto del trio di conduzione Baglioni-Bisio-Raffaella, farà una comparsata anche Pierfrancesco Favino, mattatore dello scorso anno e Claudio Santamaria che sarà protagonista di una gag in ricordo del Quartetto Cetra insieme ai tre conduttori principali. Ospiti musicali Andrea Bocelli, con il figlio Matteo, e Giorgia. Nessun intervento politico. Almeno stasera. Perché, dopo le affermazioni esternate da Baglioni che hanno sollevato una bufera politica, la consegna è quella di tenersi lontano da qualsiasi polemica. Anzi, la conferenza stampa è quasi militarizzata per evitare domande fuori dai temi prettamente festivalieri. Pure Baglioni si trattiene. «Non fatemi domande come quella sui migranti. Tanto mi sono imposto di non rispondere. In effetti, ho capito che devo tenere da parte la mia persona e i miei pensieri perché la cosa più importante è il Festival, che non deve essere oscurato da altri temi. Io devo fare solo il sacerdote». E, visto che Salvini gli aveva twittato: «Canta che ti passa», il presentatore «ubbidisce»: le serate verranno infatti aperte da un suo brano con coreografia annessa come aveva proposto nell'ultimo tour. Tutto questo però «a meno che non accadano cose a mia insaputa». Pure Claudio Bisio si allinea: «Non parlerò di migranti, di Venezuela, di Tav... neppure della Juve - scherza - però farò me stesso e chi mi conosce sa di quali temi tratto». Comunque il mandato è sopire le polemiche, mostrare armonia e amicizia tra il direttore artistico e i vertici Rai, dopo che via stampa sia era consumata una frattura poi ricomposta. Chissà se questa costruzione artificiosa reggerà alla prova del Festival.

Litigi e battute, Sanremo specchio d'Italia. Dopo giorni di polemiche politiche arrivano le canzoni, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 06/02/2019, su Il Giornale.  Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel bene, il cast. Al di là della qualità, ce n'è per tutti i gusti, dal dodicenne che ascolta il rap al sessantenne che preferisce canzoni più tradizionali; dal brano tutto amore e bacetti a quello «impegnato» anche se è difficile stabilire se sia più banale presentare un testo coccoloso o un testo (...) (...) sull'immigrazione (Motta e soprattutto Negrita, con riferimento diretto a Matteo Salvini) e sulle questioni sociali (incesti, carcere, varie ed eventuali). Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel bene, la folla fuori dall'Ariston e lo struscio pomeridiano per «rubare» un selfie con gli artisti, magari con il conduttore Claudio Baglioni, che però dorme nell'albergo che fa corpo con il teatro Ariston, così passa direttamente dalla camera al palco. Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel bene, l'attesa di qualcosa fuori dalle righe: un'esecuzione grandiosa, il monologo (forse giovedì) di Claudio Bisio, le imitazioni di Virginia Raffaele. Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel bene, Andrea Bocelli, ieri ospite con il figlio Matteo della serata d'inaugurazione. La voce italiana più internazionale, il nostro biglietto da visita all'estero. Nel male, la mancanza di ospiti stranieri, è il Festival della canzone italiana ma sul palco del teatro Ariston si sono esibiti anche i Queen o Peter Gabriel. Le star costano e quindi si fa di necessità virtù. Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel male, cosa c'è di più italiano della polemica sul conflitto d'interessi di Baglioni, che avrebbe selezionato troppi artisti rappresentati dal suo stesso agente, Ferdinando Salzano? L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla «contiguità amicale» elogiata dalla direttrice di Raiuno, Teresa De Santis, nel goffo tentativo di sgonfiare il caso, e il giorno seguente rinfacciata dalla stessa De Santis alla cronista (solo per caso del Giornale) che pone domande. Neanche scomode: solo domande. A proposito, c'è una cosa italiana almeno quanto la «contiguità amicale». Sì, è proprio Teresa De Santis, passata dal Manifesto, quotidiano orgogliosamente comunista, alle simpatie leghiste. Ora che è al comando, a Sanremo inanella una o più gaffe al giorno. Da incorniciare la dichiarazione che questo governo è così intelligente da non sentirsi toccato da certe canzoni. L'intelligenza al potere? Be', insomma, a vedere certi ministri non si direbbe. Sanremo, Italia. Baglioni è passato dai pistolotti pro immigrazione al «per carità, noi non facciamo politica, siamo al servizio delle canzoni». Bisio conferma, ma la nuova linea lo indispettisce almeno un po' perché limita il suo raggio d'azione. In teoria, perché qualche battuta scomoda comunque gli scapperà. In ogni caso non è un buon segno che si attenda con timore e tremore politico l'esibizione di un comico, neanche fosse Kissinger. Le tifoserie sono già pronte sul web a commentare negativamente qualunque cosa Bisio dica o faccia. Parlerà di immigrazione? Sarebbe completamente fuori luogo. Non parlerà di immigrazione? Che noia, quel Bisio. Il dibattito comunque è iniziato all'annuncio del cast. Sarà un Festival sovranista, identitario, autarchico? Oppure immigrazionista, politicamente corretto, buonista? E se non fosse niente di tutto ciò? Se fosse «soltanto» un Festival della canzone, una settimana fuori dalla realtà, almeno per alcune ore, ieri troppe? Un modo di dimenticarsi la politica che ha un ruolo così invadente nella vita quotidiana? Anche l'evasione è un atteggiamento italianissimo. Nel bene o nel male? Questa volta decidete voi.

"Aiutini", code, bufale: tutto ciò che non vedete in tv. In teatro il movimento è continuo tra le file, il palco, gli ingressi. Soprattutto in sala stampa..., scrive Alessandro Gnocchi, Giovedì 07/02/2019, su Il Giornale. È tutto un brulicare. Nella galleria del teatro Ariston di Sanremo il pubblico del Festival è in continuo movimento. File di bellissime ragazze (entrate col pass, subito nascosto all'ingresso in sala) sono spostate da destra a sinistra e da sopra a sotto: per esigenze di riprese televisive? In galleria c'è una specie di regista, che distribuisce i posti alle bellissime ragazze in abito da sera e trascina il pubblico negli applausi. Fatto sta che è un continuo alzarsi, scusi, permesso, dopo non passo più, sedersi. A ogni pubblicità ripartono gli spostamenti di massa anche in direzione bar. Dopo quindici canzoni, e ancora nove da ascoltare, in effetti ci vuole qualcosa di forte. Tipo l'equivalente di una scarica di corrente elettrica. Sul palco, un cerimoniere Rai è costantemente nel panico e fa il conto alla rovescia. Mancano tre minuti. Vi prego sedetevi. Mancano due minuti. Rientrare per favore. Manca un minuto. Vi prego sedetevi. Nel frattempo Bisio offre qualche battuta destinata a restare in teatro. A un certo punto fa cantare alla platea Fiori di rosa fiori di pesco e poi: «Alle falde del Kilimangiaro! Paraponziponzipò». Il cerimoniere (mancano trenta secondi) allontana Bisio. È tutto un brulicare. Lassù in galleria si scatena l'entusiasmo (a comando). Uomini col pass fanno partire gli applausi e riempiono i momenti di attesa prolungata con urla. Brava Giorgia. Brava Patty. Bravo Claudio. È un «aiutino», nel gergo del linguaggio televisivo. Niente di strano. È tutto un brulicare. Soprattutto nella sala stampa Ariston Roof. Un antro enorme in cui nascono, crescono e talvolta muoiono le notizie. Le bufale si diffondono come un virus. Passano di bocca in bocca. Si ingigantiscono. Si sgonfiano. Dopo la conferenza stampa, Claudio Baglioni infuriato ha rotto una porta. Anzi. Ha deciso di mollare. Anzi. Non c'è persona più tranquilla di Baglioni. Un fondo di verità, c'è (quasi) sempre. Al Festival dell'Armonia non è nato un piccolo, grande amore tra la direttrice di Raiuno Teresa De Santis e il direttore artistico Claudio Baglioni. Il cantante-conduttore si è sentito scaricato ancora prima di cominciare: il passerotto andrà via. Silenziato in conferenza stampa fino a ieri, Baglioni si è preso la sua rivincita strada facendo, soprattutto nella prima serata. Molte frecciatine erano chiaramente rivolte alla dirigenza Rai. Anche questa notizia ha una sua evoluzione. C'è il massimo accordo tra Rai e Baglioni. C'è qualche screzio tra Rai e Baglioni. La Rai e Baglioni sono ai ferri corti. Dopo gli ascolti di ieri la Rai e Baglioni si amano appassionatamente. I veleni si diffondono nell'aria e atterrano sulle tastiere dei giornalisti. Ma il Festival come è andato? Grande successo per la prima serata. Un successo ma peggio dell'anno scorso. Hanno perso due punti di share, si comincia male. A un certo punto, scorporando di qua e di là, i punti persi diventano addirittura quattro, è una Caporetto. Vero? Falso? La verità sta nel mezzo. Il risultato è buono ma ieri sera si tremava dietro le quinte. Tenere alto lo share è un imperativo categorico. È tutto un brulicare. Nei ristoranti, non è difficile incontrare vecchie volpi del Festival. In sala non ci vanno. Seguono alla tv dalle sale da pranzo. Forte rumore di astici spezzati. Tra i tavoli il tema è unico: il famoso, presunto conflitto d'interessi di Claudio Baglioni, che avrebbe chiamato troppi artisti legati al suo stesso agente Ferdinando Salzano. Si sentono le rosicate fin dalla strada. Qualche brulichio alla rinfusa. Pino Daniele, premio alla carriera. Avrà fatto carriera per non aver mai voluto partecipare al Festival come concorrente? Prima serata, Claudio Bisio nervoso fa un ciaone con la mano per salutare l'ospite Andrea Bocelli; Virginia Raffaele invece ringrazia seriamente la famiglia Casamonica, citata per ridere da Bisio. L'Ariston è presidiato come la Casa Bianca. All'ingresso A ti mandano al varco B, al varco B insinuano che dovresti tornare all'ingresso A, poi la security chiama il passaggio C, una volta arrivati al passaggio C, ti mandano dritti all'ingresso A. Nella prima serata Patty Pravo e Briga sono rimasti quattro minuti in silenzio sul palco perché il pianista ha avuto un bisogno impellente. Abbiamo perso un padre Ralph. Claudio Baglioni si confida: da ragazzo «volevo farmi prete». Adesso invece lavora alla «tramandazione» del Festival: neologismo che la Crusca dovrà valutare. Comunque, quanto è bella Virginia Raffaele? Tantissimo, infatti a Baglioni cade l'occhio nella spaccatura del vestito. E lei glielo fa notare. 

Sanremo 2019, settant’anni di canzoni, non sempre lo specchio del Paese. Le analisi di Jacopo Tomatis in «Storia culturale della canzone italiana», un libro più che mai indispensabile, non solo per capire cosa succede ogni anno all’Ariston, scrive Aldo Grasso il 9 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. «Nel seguire i cambiamenti (o l’immobilismo) della società italiana in rapporto alle canzoni di Sanremo, gli studiosi hanno sovente usato come termine di paragone un’idea di «canzone italiana assoluta», stabile, essenzializzata. Ma è lo stesso Festival di Sanremo che ha «inventato» quell’idea di canzone, ne ha cristallizzato gli elementi formali e tematici e la ha associata stabilmente a una rete di significati, primo fra tutti proprio la sua italianità, l’idea che la canzone possa contenere lo spirito nazionale e che possa quindi “rispecchiare” qualcosa che succede nella società». Così Jacopo Tomatis in Storia culturale della canzone italiana (è appena uscito da il Saggiatore), un libro più che mai indispensabile di questi tempi: non solo per capire cosa succede ogni anno sul palco di Sanremo, ma soprattutto per ripercorre le vicissitudini della musica del nostro Paese negli ultimi settant’anni. Tomatis ci offre un’analisi inedita e necessaria della canzone italiana, in tutti i suoi aspetti (interpreti, manifestazioni, politiche editoriali…). Parlare di musica significa aggiungere un tassello molto importante alla storia culturale. Per esempio, dovremmo smetterla di dire che Sanremo è lo specchio del Paese: la canzone non «rispecchia» la società in cui esiste. Casomai, esiste in stretto rapporto con la cultura in cui viene creata e fruita, e contribuisce essa stessa a modificare quella cultura. «L’incapacità di immaginare il futuro — scrive Tomatis — è anche l’incapacità di superare i vecchi paradigmi. Alla fine, anche nel nostro approcciarci alla musica pop, tendiamo a leggere i fenomeni che ci paiono “nuovi” attraverso lenti già abbondantemente usurate: la non commercialità come forma di valore artistico, l’autenticità, l’autorialità, persino il panico morale e la convinzione che la nuova musica non potrà mai essere meglio della vecchia musica».

Sanremo 2019 è davvero lo specchio del nostro Paese. Gli insulti a Bisio ce lo confermano, scrive su Il Fatto Quotidiano l'8 Febbraio 2019 Giorgio Simonelli, Docente di Storia della televisione e di Giornalismo televisivo. Tutto bello (o quasi) ieri sera a Sanremo. Bello, degno di un musical il balletto iniziale sulle note di Viva l’Inghilterra; bella l’idea di far mimare a Bisio le norme del regolamento; bello il gioco di errori e conflitti generati dal “fiore” della canzone di Endrigo. Persino il rischiosissimo duetto verbale e canoro tra Virginia e Ornella Vanoni è filato abbastanza liscio. Ma se devo scegliere il meglio, voto una piccola cosa, spersa tra le righe del festival: la lettura da parte di Bisio di alcuni messaggi che gli sono arrivati dai social. Qualcuno ingenuo e tenero, come quello del sacerdote che lo invitava ad andare a messa, altri, la maggioranza, aggressivi, violenti che lo accusano delle più grandi turpitudini come di essere interista (proprio lui, notoriamente milanista) o di non denunciare il commercio di organi. Ecco! Se, come molti hanno sempre sostenuto, Sanremo è uno specchio del Paese per i testi delle sue canzoni, per il look dei cantanti, per il clima che crea sul palco, la lettura di questi messaggi ne fa uno specchio ancor più fedele. Senza interpretazioni e mediazioni, queste parole in libertà, sgrammaticate, prive di ogni logica e di ogni relazione con il contesto, rendono lo spirito del nostro tempo meglio dei testi dei comici invitati a fare satira. Visto che la serata ha tante note positive, ci permettiamo di farle le pulci, di cercare il pelo nell’uovo. Che si trova nell’illuminazione. Tutte quelle luci sparate dall’alto sul palco, quei fari che disegnano un grande occhio e che lanciano getti luminosi potenti, invadenti finiscono per oscurare invece che illuminare la scena e non valorizzano affatto il lavoro di un bravo regista come Duccio Forzano.

Sanremo specchio del Paese? Con l’aria che tira forse c’è da allarmarsi, scrive il 4 Febbraio 2019 su Articolo 21 Carlo Muscatello. Un tempo si diceva che il Festival di Sanremo è lo specchio del Paese. Con l’aria che tira forse c’è allora da allarmarsi, alla vigilia dell’edizione di quest’anno. La sessantanovesima, dal 5 al 9 febbraio al Teatro Ariston della città dei fiori, diretta televisiva su Raiuno, debordante su tutte le altre reti, e le radio, e i giornali, e il web…È cominciata con le minacce sovraniste a Claudio Baglioni, confermato patron dopo il successo dell’anno scorso, reo di aver speso parole di umanità e buon senso sulla tragedia dei migranti. Lui, che per anni ha organizzato il festival O’Scià in quella Lampedusa che all’inizio era solo l’isola delle sue vacanze, si è visto attaccare dalla direttrice di Raiuno Teresa De Santis, nominata in quota Lega, dopo una presentazione del Festival nella quale aveva risposto alle domande dei giornalisti. Paradosso dei paradossi, la signora che l’ha redarguito e minacciato di epurazione tanti anni fa seguiva il Festival di Sanremo per il Manifesto, quotidiano comunista. Evidentemente ha cambiato idea. Capita. Altra polemica della vigilia, sempre sul divo Claudio. Considerato che oltre a presentare la rassegna, quest’anno assieme a Virginia Raffaele e Claudio Bisio, è anche il direttore artistico, cioè quello che alla fine, magari assieme al suo staff, sceglie cantanti e canzoni in gara, gli è piovuta addosso l’infamante accusa di essere portatore (sano) di conflitto d’interessi. Perché? Perché la società che cura i suoi tour, la Friends&Partners, è la stessa a cui fanno capo diversi artisti in gara: Il Volo, Nek, Achille Lauro, Renga, Nino D’Angelo. E qualora non bastasse, alla stessa società sono legati vari ospiti annunciati al Festival. “Striscia la notizia” nei giorni scorsi ha aggiunto un altro carico da novanta, intervistando Gianni Morandi, amico e collega di Baglioni, con cui ha condiviso anni fa anche un tour: l’eterno ragazzo, quand’era stato a sua volta chiamato a presentare Sanremo, aveva declinato l’offerta di essere pure direttore artistico, proprio per “evitare imbarazzi” nella scelta o nell’esclusione di questo o quel collega. Al netto delle inevitabili polemiche, senza le quali Sanremo non è mai stato Sanremo, va riconosciuto a Baglioni il merito di aver messo assieme anche quest’anno un cast rappresentativo della musica italiana contemporanea. Pescando dalla tradizione e dal rap, dalla canzone d’autore e dal rock, senza dimenticare i nuovi idoli emersi dai “talent”. E magari azzardando coraggiosi e inediti duetti fra vecchio e nuovo. I nomi ormai si sanno da qualche settimana. Alcuni non sono noti al grande pubblico. Federica Carta e Shade, Patty Pravo e Briga, Negrita, Daniele Silvestri, Ex Otago, Achille Lauro, Arisa, Francesco Renga, Boomdabash, Enrico Nigiotti, Nino D’Angelo e Livio Cori, Paola Turci, Simone Cristicchi, Zen Circus, Anna Tatangelo, Loredana Bertè, Irama, Ultimo, Nek, Motta, Il Volo, Ghemon. Completano la lista Mahmood e Einar, entrambi “nuovi italiani”, vincitori di Sanremo Giovani che per la prima volta è stato anticipato e staccato rispetto al Festival. C’è già un favorito: Ultimo, vincitore proprio del Sanremo Giovani dello scorso anno. Ma c’è sempre tempo per ribaltare i pronostici. Tutta roba che, fra l’altro, lascia sempre il tempo che trova. Meglio aspettare la prossima polemica, che di certo deflagrerà nei giorni sanremesi. Basta aspettare.

Sanremo 2019, Mariagiovanna Maglie silura la giuria d'onore: "Hanno fatto vincere Maometto", scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo il trionfo di Mahmood al Festival di Sanremo cresce la polemica sulla scelta soprattutto delle giurie di esperti e giornalisti di affidare il primo posto al rapper italo-egiziano. Il dubbio è che Mahmood abbia potuto vincere non tanto per la qualità della sua canzone, quanto per la sua storia personale, come scrive la giornalista Mariagiovanna Maglie su Twitter. Madre italiana della Sardegna, padre egiziano, Mahmood è nato a Milano ed è rapidamente diventato la nuova bandierina della sinistra contrapposta a Matteo Salvini. La Maglie, possibile conduttrice di una striscia informativa su Raiuno, scrive chiaro e tondo su Twitter: "Un vincitore molto annunciato. Si chiama Maometto, la frasetta in arabo c'è, c'è anche il Ramadan e il narghilè, e il meticciato è assicurato. La canzone importa poco. Avete guardato le facce della giuria d'onore?". C'è chi accusa la giornalista di aver fatto un commento razzista, ma a stretto giro è lei stessa a dover spiegare il significato delle parole: "Meticciato: combinazione di elementi linguistici o culturali di diversa provenienza o natura. In questo caso privilegiato sulla qualità di una canzone. Per il resto, il razzismo è nella testa di chi legge e vorrebbe impedire il pensiero critico".

Sanremo, il giallo sul televoto dietro il trionfo di Mahmood: il golpe della giuria, il ribaltone, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo la vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo è scoppiata la polemica sulle procedure di voto che hanno portato il rapper italo-egiziano a trionfare nella 69esima edizione in finale contro Ultimo e il Volo. Nell'ultima parte della trasmissione ci sono stati pochi e fondamentali minuti per dare la possibilità ai telespettatori di esprimere il televoto, con nuovi codici assegnati da un notaio ai tre finalisti. Un elemento di novità che ha in parte disorientato il pubblico, qualcuno si è lamentato sui social, ma le operazioni comunque procedono e sul palco dell'Ariston arriva il momento della proclamazione del vincitore. Quando Claudio Baglioni, Virginia Raffaele e Claudio Bisio svelano che a vincere il Festival è stato Mahmood però nasce un giallo, che per tutta la notte scatenerà grandi polemiche per un possibile equivoco. La regia Rai ha mostrato le percentuali di voti incassati dai finalisti: Mahmood al 14%, Ultimo il 47% e Il Volo il 39%. Poco dopo però i numeri cambiano: Mahmood vince con il 38,9%, Ultimo arriva secondo con il 35,6% e il Volo terzi con il 25,5%. Il sospetto che qualcuno abbia ribaltato il risultato per ottenerne uno più gradito serpeggia sui social. Finché non vengono svelate le percentuali di voto arrivate dalla Giuria d'onore e dalla giuria della sala stampa: Mahmooh ha trionfato con il 63,7%, Ultimo ha ottenuto appena il 24,7% e il Volo l'11,6%. A spingere alla vittoria il rapper italo-egiziano è stata quindi non solo la stampa, ma anche la giuria seduta in platea all'Ariston, piena zeppa di personaggi dello spettacolo ben noti al pubblico. Ben noti soprattutto per il proprio orientamento politico, dal regista Ferzan Ozpetek alla conduttrice Serena Dandini, passando per il giornalista Beppe Severgnini, Camila Raznovic, Claudia Pandolfi e Joe Bastianich e infine il presidente Mauro Pagani. Una manina in fondo c'era, ed era mancina.

Sanremo 2019, la reazione di Salvini per la vittoria di Mahmood: il sospetto, chi l'ha fatto vincere, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. La vittoria dell'italo-egiziano Mahmood con Soldi al 69esimo Festival di Sanremo ha ribaltato ogni pronostico, cogliendo di sorpresa non solo lo stesso cantante, incredulo alla consegna del trofeo sul palco dell'Ariston, ma anche chi meno si aspettava che a vincere il festival della canzone italiana fosse un ragazzo del 1992 con un papà egiziano. Come per esempio il vicepremier Matteo Salvini, che dalla sua pagina Facebook non ha nascosto una certa perplessità per l'esito della votazione incrociata, tra televoto, giudizi della sala stampa sanremese e naturalmente la giuria. Il ministro leghista ha commentato la vittoria di Mahmood con un eloquente: "Mahmood..... mah.... La canzone italiana più bella?!? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite??". Il favorito sin dall'inizio della gara canora è stato infatti Ultimo, che in sala stampa ha incassato solo fischi quando ha accusato i giornalisti di "avergliela tirata". Ma si sa, chi entra papa in conclave, ne esce cardinale, e poi in fondo bastava guardare come fosse composta la giura d'onore per farsi venire qualche sospetto che il risultato sarebbe stato quanto più antipatico per il convitato di pietra di questo Sanremo, cioè proprio Salvini. Oltre alla giuria demoscopica e quella dei giornalisti, a decidere il vincitore di Sanremo sono stati i giurati presieduti dal critico musicale Mauro Pagani: Ferzan Ozpetek, Camila Raznovic, Claudia Pandolfi, Elena Sofia Ricci, Beppe Severgnini, Serena Dandini e Joe Bastianich. Il quadretto che ne esce è da Festa dell'Unità, una giuria orientata in modo plateale a sinistra, che quando si è vista arrivare in finale il terzetto con Ultimo, il Volo e Mahmood probabilmente non credeva ai suoi occhi. Non ci sarebbe stata occasione migliore per far torto al ministro dell'Interno, regalando la vittoria a un giovane italiano di Milano, ma figlio di un uomo immigrato in Italia. Una storia personale che ha mandato in brodo di giuggiole i compagni giurati, ridotti ormai il potere di decidere qualcosa in Italia soltanto al Festival di Sanremo.

Marcella Bella vuota il sacco: "Il Festival di Sanremo? Nel 2007 mi hanno umiliato perché mi ero candidata con An", scrive il 21 Luglio 2017 Libero Quotidiano. Marcella Bella attacca Sanremo. "Al Festival del 2007, quando andai con Gianni e presentammo Forever, la giuria mi trattò malissimo… L’anno prima mi ero candidata alle Europee per An nella mia Sicilia e me la fecero pagare. Era una giuria di sinistroidi, per modo di dire, tutti comunisti con il Rolex". La cantante, tornata al successo con un singolo scritto da Mario Biondi, in un'intervista al settimanale Oggi, in edicola da domani. Alla domanda se tornerà a Sanremo dice: "Ho tenuto fuori dall’album una canzone per proporla, chissà. Certo, dipende dagli orientamenti che avrà il direttore artistico: se è uno che vuole solo giovani dai talent, sono fritta". A Oggi Marcella Bella parla anche della rivalità con la Rettore: "Lei mi punzecchiò a Sanremo nel 1986, io le risposi per le rime») e con la Berté («Le ho sempre voluto bene, lei a volte mi ama, a volte mi odia, non sa nemmeno lei il perché".

Festival Sanremo, Gorbaciov vent’anni fa la cantò alla politica, scrive il 7 Febbraio 2019 Tonino Manzi su First on line. A conferma che Sanremo non è solo canzonette, nel 1999 sul palco del teatro Ariston salì il Premio Nobel per la pace Mikhail Gorbaciov che il giorno dopo tenne una conferenza stampa: ecco come andarono le cose nel racconto di chi condusse l’incontro. Dalla prima battuta del Premio Nobel per la pace Mikhail Gorbaciov, appena entrato per la conferenza nel Roof Ariston, il giorno dopo la sua partecipazione alla terza serata del Festival condotto da Fabio Fazio, ci rendemmo subito conto che tutto sarebbe stato molto informale. Nella breve sosta nell’area del “photocall”, l’ex Presidente dell’Urss salutò i quasi cento fotografi con una battuta “Quando continuate con tutti questi flash sembra che stiate sparando con dei kalashnikov”. Rivolto alla platea dei giornalisti, gremita come non mai, aggiunse: “Siete così tanti e mi viene da pensare cosa vorranno chiedermi” (agli accreditati degli Spettacoli e del Costume si erano aggiunti, per l’occasione, diverse decine di inviati delle pagine Esteri dei principali quotidiani). Dopo la risposta al saluto iniziale della Rai, portato dallo storico Capo Ufficio Stampa, Bepi Nava, Gorbaciov passò a commentare la serata del festival. Sottolineò di avere molto gradito che durante la serata avesse cantato anche la gente comune e definì impressionante il brano dell’opera pop “Notre Dame de Paris”, proposto da Riccardo Cocciante (che è tornato quest’anno al Festival). A proposito della sua presenza sul palco, insieme con la moglie Raissa, Gorbaciov tenne subito a sottolineare di avere parlato, in definitiva, della sua passione, la politica, pur avendo preso parte ad un festival di canzoni. “Questa –specificò – è un’allusione per indirizzare le vostre domande”. A proposito di Sanremo, che non aveva ancora avuto modo di visitare, disse di avere trovato una città molto verde, con un mare invitante “nel quale forse è possibile fare il bagno adesso, anche se nessuno ha saputo dirmi i gradi di temperatura dell’acqua. Una persona mi ha risposto: mica siamo tedeschi, perché dovremmo fare il bagno adesso? È che voi italiani – commentò – siete viziati dal sole e dal caldo”. Si passò quindi alle domande (si era convenuto che l’incontro sarebbe dovuto durare 45-50 minuti). La prima di queste riguardò l’affondo sui politici della sera prima, “che lavorano –aveva detto sul palco- solo per farsi eleggere”. “Non ho voluto dire via i politici, ma ho messo l’accento – chiarì – su un problema più ampio. La politica, e anche i giornalisti, bada più ai congressi, alle discussioni di linea. Bisogna trovare un modo per cui la gente possa decidere del proprio destino. Creiamo occasioni di maggiore partecipazione della gente alla politica. Permettetemi un gioco di parole: c’è bisogno della democratizzazione della democrazia”. E per restare al Festival gli fu chiesto del suo rapporto con la musica. “È una passione trasmessa da mia madre, però canto meglio quando bevo un poco. Sono molto legato alla lirica sovietica, alle canzoni patriottiche della guerra per averla vissuta. Preferisco le romanze russe ed ucraine e le canzoni della Moldavia per la loro delicatezza. Non mi piace il rumore, specie quando fa perdere la musicalità e le parole. Questo non significa, però, il rifiuto della musica moderna”. Si tornò, quindi, alla politica. Gli fu chiesto se avesse rimpianti: “Le cose che avrei voluto fare e non ho fatto sono moltissime. Non ho rimpianti. Ho avuto modo di fare – aggiunse Gorbaciov- tante riforme. Come sapete, non esiste un riformatore felice. Mi resta il dispiacere di non aver potuto vedere una Urss moderna e vedere i popoli che la comprendevano vivere una perestrojka realizzata. Uno dei rimpianti più diffusi tra la gente è quello –aggiunse- di non avere trovato una persona con cui condividere la vita. Io, invece, sono fortunato con mia moglie e sono felice”. Purtroppo, Raissa Gorbaciova sarebbe morta sette mesi dopo. Erano già trascorsi trentacinque minuti di conferenza stampa e si arrivò alla sesta domanda: “Dove ha sbagliato il comunismo, dove hanno sbagliato i comunisti e dove stanno sbagliando coloro che governano, oggi, da una parte e dall’altra?”. Con il Capo Ufficio Stampa della Rai ci guardammo preoccupati per il poco tempo, ancora, a disposizione. Ma l’ex Presidente dell’Urss, dopo avere ringraziato il collega della domanda, in poco più di sette minuti (compresa la traduzione) tenne una lezione di storia contemporanea. Citando un suo libro che aveva appena pubblicato, dal titolo “A proposito del passato e del futuro”, affermò di essersi posto la stessa domanda del perché fosse stato sconfitto quel modello socialista di comunismo dell’Urss. “Paradossalmente – dichiarò Gorbaciov – la prima risposta l’aveva data addirittura Lenin, appena quattro anni dopo la rivoluzione, quando ebbe a scrivere che avevano commesso un errore, non avendo considerato il problema di come coniugare l’interesse personale dell’individuo con la costruzione socialista di una società. E arrivò alla conclusione che si dovesse trovare il modo di conciliare questi due principi. Questa – aggiunse l’ex Presidente dell’Urss – passò alla storia come la Nuova teoria economica. Lenin poi morì e la successiva lotta per il potere portò Stalin, un capo malato. E diventammo uno stato totalitario con tutto quello che ne consegue, con le vittime e il controllo delle menti umane. I regimi totalitari, però, anche quando risolvono i problemi interni, non riescono a sopravvivere. L’economia totalitaria di fronte alle sfide del progresso tecnico-scientifico non ha retto la sfida ed è stata sconfitta. Il disfacimento dell’Urss – proseguì – è stato visto come la vittoria del liberalismo dell’occidente nella guerra fredda. Si è trattato di propaganda! Il problema del momento attuale non è la vittoria di una ideologia rispetto ad un’altra. Tutti stiamo cercando risposte a domande importanti. E mi chiedo cosa ci si può aspettare da una situazione che vede il 20% del mondo sviluppato attingere all’80 % delle risorse globali? E per questo che mi sono permesso, ieri dal palco del Teatro Ariston, di affermare di essere d’accordo con Giovanni Paolo II che auspica un mondo completamente diverso”. La politica e i rapporti internazionali avevano preso, ormai, il sopravvento e l’incontro stampa, nonostante gli impegni del Premio Nobel, poteva continuare. Le domande successive riguardarono il futuro e le prospettive per la Russia di allora; le dure reazioni di Rifondazione comunista alla presenza dell’ex Segretario generale del PCUS al Festival; i rapporti con l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Massimo D’Alema; l’appello promosso dall’Unità per la liberazione del leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan; il ventilato intervento della Nato nel Kossovo. E si parlò, anche, del tentativo di golpe in Unione Sovietica, di tre anni prima, nell’agosto del 1991. Mentre Gorbaciov e la sua famiglia si trovavano in Crimea, una parte del suo governo e dei suoi più stretti collaboratori tentarono un putsch per prendere il controllo della nazione. L’ex Presidente dell’Urss, prese l’occasione per raccontare, ai giornalisti presenti al Roof Ariston, di quando, nei giorni immediatamente successivi al tentato golpe, l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Giulio Andreotti, di ritorno in Italia dalla visita in Cina, decise di invertire la rotta per incontrarlo a Mosca. “Eravamo solo noi con le rispettive consorti e non c’era nessun altro, quando la signora Andreotti – raccontò Gorbaciov- rivolta a mia moglie chiese come fosse stato possibile non vedere il traditore vicino. E Raissa rispose: mi risulta che sia lei, sia suo marito siate credenti e allora le chiedo come abbia fatto Cristo a non vedere Giuda al suo fianco?”. In una precedente domanda riguardante la sua successiva sconfitta politica, Gorbaciov aveva sottolineato di ritenerla, comunque, una vittoria “perché – affermò – non mi sono discostato dalla democrazia, non ho permesso la guerra civile e il trionfo della violenza”. Dopo dodici domande (ad altre quindici non fu possibile rispondere per mancanza di tempo) e trascorsa più di un’ora e mezza, a fronte dei quarantacinque minuti concordati, si chiudeva un incontro che nulla avrebbe avuto a che fare con una manifestazione se fosse stata fatta di “solo canzonette”. Perché Sanremo è Sanremo.

Sanremo, esclusa la canzone "sovranista" degli ex New Trolls. Claudio Baglioni è sempre più nella bufera per le sue parole sull'immigrazione e sulle scelte del governo per contrastarla. Spunta il caso degli ex New Trolls, scrive Luca Romano, Sabato 12/01/2019, su Il Giornale. Claudio Baglioni è sempre più nella bufera per le sue parole sull'immigrazione e sulle scelte del governo per contrastarla. Il direttore artistico del Festival di fatto ha posizionato questo suo secondo Sanremo sul binario buonista. A fargli da sponda anche le parole di Claudio Bisio che di fatto ha sottolineato la sua intenzione di recitare un monologo proprio sull'accoglienza. Ma c'è da fare un passo indietro rispetto a questa vicenda. Come sottolinea la Verità, qualche mese fa lo stesso Baglioni ha di fatto escluso dalla competizione della kermesse una canzone di Nico Di Palo e Gianni Belleno, gli ex New Trolls. Una canzone dal titolo "Porte aperte" che nel testo però segnala la paura degli italiani: "Noi siamo qui a ricordare / queste verità di un’unione fatta di parole e di ipocrisie le nostre porte aperte al mondo / e il terremoto che le spazza via. E la paura poi ci assale / nelle vie delle città, non ci permette più di camminare / con l’amata libertà / sono troppi gli occhi sconosciuti". Parole queste che di fatto andrebbero contro la linea buonista del direttore artistico. E così la canzone di fatto è stata esclusa dalla kermesse. Solo un caso oppure è stata ritenuta "fuori linea" rispetto alla predica dell'accoglienza che sarà protagonista sul palco dell'Ariston?

Renato Franco per il Corriere della Sera l'11 febbraio 2019.

«Ci sarebbe da fare tanto lavoro e mi piacerebbe perfino farlo. Ma ma non ne ho la minima idea, perché il troppo storpia, anche se è bello e faticoso».

Così sembra lasciare la porta aperta.

«Ho tanto bisogno di ombra, mi ritirerò in una zona poco illuminata per riaccendere i riflettori solo quando sarà il momento di tornare al mio percorso individuale».

Così sembra chiudere la porta.

Il dilemma di Claudio Baglioni - fare o non fare un terzo Sanremo - in realtà sembra avere già una risposta. Perché al di là delle dichiarazioni di facciata («dipende da lui») il rapporto tra la nuova Rai1 targata Teresa De Santis (gradita alla Lega) e il gruppo artistico (Baglioni & Co.) è stato complesso, con il vicedirettore Claudio Fasulo a far da sarto e cucire relazioni. Difficile che l'atmosfera cambi, ora la Rai è questa e Baglioni ha fatto fin troppo da parafulmine quest' anno: «Mi sono volontariamente isolato dalle cose extrafestival, la tensione sarebbe andata a danno di tutta la macchina. Ci si deve spersonalizzare, mettere da parte il protagonismo: ho creato una zona di silenzio per poter far lavorare tutti nel modo migliore». Il tempo di bilanci si porta dietro qualche suggerimento. Baglioni si pente della scelta di 24 canzoni in gara. Erano sembrate troppe, per un duplice motivo: sacrificavano la parte di spettacolo puramente televisivo e allungavano i tempi delle serate. Il direttore artistico ammette: «Non riconfermerei il numero di 24 artisti in gara. Ne farei 20». Un altro tema è quello delle giurie di qualità, quella della Sala Stampa (i giornalisti accreditati) e quella d' Onore (da Joe Bastianich a Beppe Severgnini): il loro peso è aumentato (valgono il 50%) e hanno espresso giudizi diversi rispetto al televoto da casa. «Se il festival vuole davvero essere una manifestazione popolare, potrebbe essere giudicato solo dal televoto. O il risultato finale viene deciso da giurie ristrette di addetti ai lavori, certificati come tali, o questa mescolanza con il televoto rischia di essere discutibile. Si crea la situazione per cui pochi pensano in un mondo, altri in un altro, ma si bilanciano. È lo specchio della società». Élite o popolo, secondo uno schema di giudizio ormai diffuso. Mahmood merita più di una parola: «La previsione più incredibile si è avverata: da zero a tutta, da Sanremo Giovani alla vittoria finale. Avrei voluto essere nel suo cuore. Mi ricorda quando per la prima volta ebbi la sensazione che qualcosa era accaduto nella mia vita: fu quando Questo piccolo grande amore entrò in classifica. È una condizione stranissima quella della notorietà: ti conoscono persone che non conosci, fa uno strano effetto». Qualche numero. Sono stati 10 milioni e 622 mila gli spettatori della finale con il 56,5% di share. Rispetto all' anno scorso quasi 1 milione e mezzo di spettatori in meno - non pochi - migrati nel frattempo verso altre piattaforme. In questo senso è il secondo peggior dato degli ultimi 10 anni (peggio solo Fazio nel 2014), mentre in termini di share è il quarto miglior risultato delle ultime 10 edizioni. Confortante però il target dei giovani: su tutta la platea dei ragazzi, lo share è stato del 54,7%, il valore più alto dal 1988. Quindi? Flop o successo? Nessuno dei due, sicuramente un buon risultato. Se è stato il Festival del cambiamento sia per le scelte, sia per il podio di giovanissimi, lo spettacolo televisivo è stato sotto le aspettative perché con due numeri uno come Claudio Biso e Virginia Raffaele la resa (comica) non è stata all'altezza. Bisio conferma le impressioni: «Ho un piccolo rammarico, non essere riuscito a fare più cose insieme a Virginia: siamo entrambi dei talenti, ma non sempre pur avendo ingredienti di prima qualità si riescono a trovare le dosi giuste».

Ecco Baglioni, il nuovo leader morale della sinistra, scrive Alessandro Gnocchi l'11 gennaio su Nicola Porro. La Rai è sempre al centro di grandissime polemiche. Claudio Baglioni, conduttore del prossimo Sanremo, l’evento degli eventi, ha detto, nel corso della conferenza stampa di presentazione, le consuete parole sugli immigrati, che possiamo riassumere così: viva l’immigrazione, accoglienza a tutto spiano, Salvini cattivone. Baglioni è intelligente, difficile imbastisca un comizio anche sul palco dell’Ariston. Le canzonette avranno il massimo dello spazio. Ma qualche frecciatina al governo possiamo aspettarcela, soprattutto dal co-conduttore Claudio Bisio, che ha già annunciato di voler parlare di attualità. E qui si apre la solita, inevitabile polemica. La tv di Stato non dovrebbe produrre trasmissioni a senso unico e prive di contraddittorio. Ma lo fa, eccome. E lo farà finché sarà un carrozzone pubblico dominato dai partiti. Ogni volta la stessa storia: programma sbilanciato o volto sgradito; mancato rinnovo della trasmissione; epurazione; indignazione; polemica. E poi si riparte da capo. Avete mai visto un talk di destra? No. Solo Virus di Nicola Porro, che ci ospita gentilmente sul suo sito. Abbiamo visto la fine che ha fatto: chiuso, senza troppe spiegazioni. La sinistra considera la Rai di sua proprietà e l’ha così riempita di amici e di amici degli amici che Viale Mazzini riesce a essere di sinistra anche quando governa la destra. Vedremo cosa accadrà con i giallo-verdi, alle loro prime nomine. La privatizzazione tanto auspicata da numerosi abbonati (obbligatoriamente) non la vedremo fino a quando viale Mazzini sarà la dependance dei partiti. Quindi non la vedremo mai. Infine un’ultima osservazione. Dalla lettura dei giornali di oggi (Repubblica, Corriere, Fatto) emerge chiaramente che Baglioni, l’autore di Questo piccolo grande amore, è… il nuovo leader morale della sinistra. Proprio lui, accusato un tempo di essere fascista solo perché disimpegnato. Anche Matteo Renzi e Maria Elena Boschi hanno esaltato le parole di Baglioni. C’è da restare basiti di fronte a chi non riesce a capire che in Italia può entrare solo chi ha le carte in regola. Altrimenti si incentivano le partenze, e anche il rischio di una tragedia nel mezzo del Mediterraneo.

Non è tutto qui. «Importare» manodopera senza tutele è disastroso. Per la manodopera senza tutele, cioè per i migranti al soldo dei caporali. E anche per la manodopera che le tutele le avrebbe ma viene lasciata a casa perché non conviene più chiamarla. E voilà. A colpi di buonismo, i sostenitori dell’accoglienza indiscriminata hanno ottenuto un «grande» traguardo: reintrodurre di fatto la schiavitù. Ottimo risultato, bravi. Naturalmente è impossibile (o quasi) che questa posizione trovi spazio sul palco di Sanremo. Alessandro Gnocchi, 11 gennaio 2019

Baglioni, la sinistra un tempo si vergognava di ascoltarlo. Oggi gli farebbe un monumento, scrive sabato 12 gennaio Francesco Severini su Secolo d’Italia. Claudio Baglioni e i migranti. Claudio Baglioni capitano dei “buonisti”. Claudio Baglioni aedo degli anti-Salvini. Idolo e icona di una sinistra che si attacca ad ogni respiro, ad ogni sillaba disillusa pur di fare “ammuina” contro il governo. Baglioni è oggi una star progressista. E’, anche, il potenziale perseguitato dalla Rai gialloverde che (forse) vorrebbe cacciarlo (Teresa De Santis, direttrice di Rai1, ci avrebbe almeno pensato) . Oggi o si sta con Baglioni o si sta contro. Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui la sinistra Claudio Baglioni non lo sopportava. Un anno fa, dopo lo strepitoso successo di Sanremo, il primo a conduzione del cantautore romano, fu la ex moglie, Paola Massari, a ricordarlo in un post di fuoco su Facebook al grido di “lasciate stare Baglioni”: “Eh no – scriveva – cari polverosi pennaioli, coevi ingloriosi dei gloriosi anni 70. Portabandiera dei detrattori, d’un colpo folgorati e redenti. Quelli per i quali la dignità del sentimento si riduceva a banale sentimentalismo. Quelli che, o si trombava nelle stanze fumose delle aule occupate, o si era mentecatti romantici. Quelli per cui interpretare la vita senza l’ausilio di uno slogan preso in prestito dalla eco della piazza, relegava la reputazione al marchio di una mosceria giuggiolona e disimpegnata.  Non se la caveranno così quei campioni dell’impegno politico confuso con la materia inclassificabile dell’arte che vi fece ridurre Baglioni ad un cazzone inadeguato al suo tempo e alla sua stessa intelligenza. Non è con un’autoassoluzione improvvisata che si possono buttare in caciara anni di ostilità estesa a buona parte della stampa, che tradì e offese, osteggiandola, un’anima di raro spessore”.

Baglioni e gli eskimi in redazione. La signora Massari ce l’aveva con il conformismo politico degli eskimi in redazione: “Non è con questo tono pacificatore spolverato di paraculaggine – scrive ancora su Fb – che tutto si archivia in barba alla memoria. Fu puro bullismo ideologico. L’esercizio di un vizio atavico e asservito alla pochezza. Estraneo al pensiero libero. Li ricordo tutti, uno per uno, i giornalisti che infierivano impietosi, mentre nel contempo esibivano uno spudorato pregiudizio favorevole riservato agli eletti sdoganati da un battesimo politico, quando affermavano serenamente e pubblicamente cose del tipo: “Del disco di De Gregori parlerò bene pur senza averlo ascoltato”, mentre quello di Baglioni veniva stroncato a scatola chiusa”. Sempre un anno fa fu Il Dubbio, in un articolo a firma di Daniele Zaccvaria, a ricordare l’ostilità della sinistra nei confronti di Baglioni: “Gli altri parlavano di rivoluzioni, di liberazioni, di pace e di locomotive, di giustizia e di libertà, e lui cantava soave «passerotto non andare via». Non ci mise molto a finire nella lista nera: vacuo, commerciale, inconsistente come una “maglietta fina”, quasi certamente di destra, magari anche fascista, di sicuro sospetto. Comunque impresentabile nelle consorterie della canzone d’autore: erano gli anni 70 e bastava poco per diventare un nemico del popolo”.

E se fosse solo un gioco per alzare l’audience? Oggi è tutto archiviato, tutto dimenticato. Baglioni è supervezzeggiato sulle bacheche social degli antisalviniani. A meno che – il dubbio è avanzato da Marco Molendini sul Messaggero – dietro tutta questa polemica sui migranti e l’Italia incattivita non sia tutto un gioco per aumentare l’audience.  “Un siparietto così ben congegnato da alimentare il sospetto di premeditazione. Adesso (Baglioni, ndr) può starne sicuro, qualsiasi starnuto potrà trasformarsi in un tuono, grazie anche all’imminenza delle elezioni europee (del resto, il Festival ha una posizione strategica in un mese, febbraio, che cade ogni volta in campagna elettorale, per di più in un Paese dove si vota con alta frequenza). Una bella polizza di assicurazione i cui benefici andranno anche a casa Rai, sotto forma di Auditel”. Intanto Matteo Salvini ha fatto sapere che a Sanremo non andrà: “A me Baglioni piace, ma a Sanremo quest’anno non ci andrò. Mio figlio -ironizza Salvini- mi dice che ascolto musica vecchia, Battisti, De André, Vasco e Baglioni. A me piace quando cantano, poi ogni cantante ha diritto di pensarla come vuole”. Tuttavia “siccome è pagato dai cittadini italiani, da una rete pubblica, per una iniziativa pubblica, se evitasse di usare il microfono e il palco di Sanremo per fare comizi, gli italiani gliene saranno grati”.

Sanremo, Iva Zanicchi: "Ospite? Devi essere di sinistra". Iva Zanicchi si sfoga ai microfoni di "Un giorno da pecora". Al centro dell'intervista su Radio Uno c'è il Festival di Sanremo. Ha il sogno di tornare all'Ariston, scrive Franco Grilli, Giovedì 01/02/2018, su "Il Giornale".  Iva Zanicchi si sfoga ai microfoni di "Un giorno da pecora". Al centro dell'intervista su Radio Uno c'è il Festival di Sanremo. La cantante di fatto sa che non verrà chiamata come ospite e di fatto punta alla partecipazione alla kermesse del 2019. Ma nel suo intervento c'è un tono polemico proprio sul mancato invito come ospite all'Ariston: "No, ma che ospite, non ho questa presunzione. Per esser ospiti a Sanremo bisogna esser un po' di sinistra, io non lo sono e non sarò mai ospite. Vado come concorrente". La Zanicchi di fatto è sempre stata una protagonista della musica italiana e di certo ha il sogno di tornare ancora una volta a Sanremo. "Ho una canzone già pronta, bellissima. Se ci va la Vanoni...io sono nata a Sanremo, lì ho avuto dei grandi successi e sono riconoscente a questa manifestazione". Il suo ritorno potrebbe coincidere, come lei stessa ha affermato con i 50 anni di "Zingara" nel 2019. Infine sui giurati afferma: "La Maionchi mi diverte, Gigi D'Alessio è popolarissimo e poi Morgan: sicuramente ci litigherò". Poi su Morgan corregge il tiro: "Scherzo, mi piace, è un creativo, un poeta, mi piace molto".

Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 4 febbraio 2019. «Mi può richiamare tra tre minuti, ché sto preparando le inalazioni a mio marito con 40 di febbre?». In questa richiesta sta tutta la cifra umana di Iva Zanicchi, l'anti-diva per eccellenza, che si muove con disinvoltura tra i salotti tv e la cucina di casa. Viene quasi naturale intervistarla ora, a ridosso dell'inizio del Festival di Sanremo, dato che lei è l' artista vivente che ne ha vinti di più, ben 3.

Iva Zanicchi, ci tiene a difendere questo record di vittorie?

«Fino a un certo punto. Alcune cantanti mi tallonano, tipo la Oxa e la Cinquetti, con 2 vittorie. Ma è dura che arrivi un altro successo per loro. Comunque conservo solo i ricordi, non i premi, dal momento che mi sono stati tutti rubati. Peccato, avevano un grosso valore sentimentale».

50 anni fa lei vinceva a Sanremo, insieme a Bobby Solo, con Zingara. Oggi, per via del politicamente corretto, sarebbe ancora possibile vincere il Festival con una canzone intitolata così?

«Spero di sì, ma magari la sinistra cambierebbe titolo e attacco del pezzo in un "Prendi questa mano, rom". Che poi, metricamente, suona anche male. Io preferisco non ascoltare questi buonisti, che si ritengono gli unici duri e puri. L' idea che, se non sei di sinistra, sei contro gli immigrati o le altre culture, a me dà molto fastidio. E infatti sto portando avanti uno spettacolo chiamato Una vita da zingara. D' altronde, quando incisi Zingara, visitai anche dei campi di zingari e rimasi affascinata dalla loro ospitalità. Certo, conosciamo tutti i problemi legati a quel mondo: sono nomadi, non hanno una residenza, ma se si comportassero anche bene».

I suoi ultimi Sanremo le hanno portato qualche amarezza. Nel 2003 arrivò ultima con Fossi un tango, nel 2009 Ti voglio senza amore fu eliminata. Da allora ha scelto di non partecipare più?

«Nel 2003 la canzone era bellissima, mi presentai sul palco col caschetto, le unghie laccate di rosso, ero così perfetta che la gente non mi riconobbe (ride). Il Festival di 10 anni fa è stato invece per me dolorosissimo. Prima della mia esibizione, andò sul palco Benigni che fece un monologo in cui calcò la mano contro di me dandomi di fatto della donna di strada. Quel siparietto fu architettato dall' allora direttore artistico e dal di lui impresario, e accettato anche dall' allora direttore di Rai 1. Poi Benigni mi chiamò per chiedere scusa a me e alla famiglia. Ma evidentemente pagai il fatto di essere diventata europarlamentare con Forza Italia. Fossi stata di sinistra, magari quel Festival lo avrei vinto. In ogni caso a Sanremo, dopo quell' esperienza scioccante, non mi sono più riproposta, anche se mi piacerebbe tornarci».

Potevano chiamarla quest' anno per festeggiare i 50 anni di Zingara...

«Se Baglioni mi avesse chiamato, sarebbe stata una cosa carina. Ma non ci avrà pensato e non avrà ritenuto fosse il caso».

Le frasi sui migranti le sono piaciute? Si rischia un Sanremo politicizzato...

«Guardi, il Festival è politicizzato ormai da anni, forse solo ai tempi di Baudo non lo era. Ma la cultura è da sempre in mano alla sinistra. Detto questo, ognuno è libero di esprimersi come vuole. Anche se, in una conferenza stampa in cui bisogna parlare di canzone italiana, io avrei evitato di fare riferimento alla politica».

A breve si voterà in Europa. Se glielo chiedessero, si candiderebbe ancora?

«I partiti non fanno altro che chiedermelo. Ma io ho già dato in politica (come europarlamentare dal 2008 al 2014, ndr). È stata un'esperienza molto formativa di cui rivendico un'intuizione. Nel 2009 lanciai in aula l'allarme che l'Italia fosse stata lasciata sola a gestire la questione immigrazione. Ci avevo visto lungo. Non a caso mi chiamavano l'Aquila di Ligonchio.».

Come giudica le ultime dichiarazioni filo-immigrazione di Berlusconi?

«Di Silvio ho sempre apprezzato l'umanità. È naturale provare pietà per dei bambini su una nave in alto mare. Ma allo stesso tempo do ragione a Salvini che vuole regolarizzare il fenomeno e pretende che l'Europa se ne faccia carico».

Matteo le piace come politico e come uomo?

«È un lavoratore indefesso che parla in modo semplice e schietto. Magari non è un grande affabulatore come Berlusconi, ma la gente lo capisce subito. Quanto al fascino, l'uomo legato al potere piace a prescindere. Piaceva anche Andreotti...».

Striscia la accusa di essersi rifatta...

«Mi sono rifatta solo il naso 40 anni fa, come ho detto più volte. Il resto no. In tv il miracolo lo fanno le luci: con le luci sbagliate sembri un cesso, con quelle giuste pari una 40enne».

A proposito di età, quanto è importante per lei il sesso a quasi 80 anni?

«A quest' età più che altro è importante andare a letto con la borsa dell'acqua calda (ride). A 80 anni il sesso non lo si fa quasi più, però io me ne sento 60 e quindi ho ancora delle cartucce da sparare...».

Sanremo, Rocco Papaleo: "Belen mi rivolse la parola perché nel copione". Rocco Papaleo si lascia andare ad una rivelazione davvero inedita sul Festival di Sanremo. Scatta la frecciatina per Belen, scrive Luca Romano, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Rocco Papaleo si lascia andare ad una rivelazione davvero inedita sul Festival di Sanremo. Il conduttore del dopo-Festival di fatto ha raccontato, nel corso della presentazione della kermesse che parte questa sera, un retroscena particolare e che riguarda l'edizione del 2012. In quell'anno sul palco dell'Ariston, Papaleo era affiancato da Belen Rodriguez e da Elisabetta Canalis. Ed è proprio alla showgirl argentina che ha deciso di mandare una frecciatina: "Belen mi rivolse la parola sul palco perché era da copione". Nella sala stampa, dopo queste parole, è calato il gelo. Anna Foglietta, a fatica con una risata, ha provato a celare l'imbarazzo. Poi lo stesso Papaleo ha parlato del dopoFestival: "Avere Anna Foglietta qui con me è un privilegio: lavoriamo insieme in questo cinema italiano in crisi, la sua presenza mi dà un senso di beatitudine, mi sento a casa". Poi è il turno di Anna Foglietta, anche lei al timone del dopoFestival: "Vorremmo creare un risultato quantomeno sorprendente, e cercheremo di dire delle cose, non solo di farvele ascoltare, e questo mi sta particolarmente a cuore". Infine l'attrice conclude: "Il ritmo è alto e incalzante - chiude Foglietta - siamo il luogo delle promesse mantenute".

Guardare Sanremo mi è servito a capire la sinistra, scrive il 12 Febbraio 2018 Francescomaria Tedesco, Filosofo del diritto e della politica, su "Il Fatto Quotidiano". Essere di sinistra significa illudersi che su certi temi ci sia un consenso universale e puntualmente scoprire di essere in minoranza. Tipo Diodato/Roy Paci tu pensi che vincano e arrivano ottavi. L’amara scoperta della minoranza diventa via via però consapevolezza, e a un certo punto persino accettazione e poi compiacimento. Fino al grado zero della minoranza: uno solo. Ma lì scatta l’accusa di tafazzismo. Forse non molti ricordano che Tafazzi non è solo colui che si dà da solo le bottigliate sui testicoli ma, dentro uno schema di comicità a tempi progressivamente ridotti, rappresenta di questa il momento archetipico, basico: dallo sketch ai pochi secondi di un Totò Merumeni che si flagella i cosiddetti. Naturalmente ci sono poi i temi scolastici di Meta e Moro. Ermal Meta l’anno scorso ha presentato una canzone contro la violenza verso le donne, quest’anno una sul terrorismo, l’anno prossimo concorrerà con una cosa sulla fame nel mondo? Il lato wild della coppia è Fabrizio Moro, che aveva dimostrato simpatie grilline e antipatie napolitane (nel senso che aveva inveito contro l’allora presidente della Repubblica a una kermesse dei Cinque Stelle). La canzone è bella ma un po’ scontata, per non dire che il titolo (e il ritornello) è una tipica preterizione: “Non mi avete fatto niente” lo dici solo quando in realtà ti hanno fatto davvero male e devi fare training autogeno. Il terrorismo ha colpito fortemente l’Europa e il suo immaginario, ha contribuito a rafforzare il senso di insicurezza (la cosiddetta, a ragione vituperata insicurezza ‘percepita’), e soprattutto ha rotto definitivamente la flebilissima diga che a sinistra impediva ancora di fare apertamente certe cose, come vantarsi di aver fermato gli sbarchi dimenticandosi di dire che ciò ha fatto sì che la gente muoia non in mare ma a terra, o che sia detenuta in condizioni disumane nei lager libici. “Non ci avete fatto niente”? Insomma. Se Minniti ha potuto fare quello che ha fatto, è anche perché ha potuto giustificarlo in nome della sicurezza e della difesa dal terrorismo e, versione inedita delle ragioni per erigere i nuovi muri della fortezza Europa, perché aveva previsto che l’immigrazione avrebbe esasperato gli animi e prodotto qualche Traini. “Era già tutto previsto/fino al punto che sapevo/che oggi tu mi avresti detto/quelle cose che mi dici/che non siamo più felici/che io sono troppo buono/che per te ci vuole un uomo”, cantava Cocciante. Un uomo vero, un ministro tutto d’un pezzo, uno che va a dire a politico.eu che lui, calabrese, ha trattato coi capi libici dicendogli che dalle sue parti i patti e gli affari si siglano con il sangue. E poi gli operai durante l’esibizione dei ragazzi di Sanremo Young. Da qualche tempo la forza lavoro si può solo mettere in scena, parodiare, perché – si dice – gli sfruttati non ci sono più, stanno tutti bene, e i partiti che hanno atterrato il lavoro intitolano le kermesse officine, fabbriche. Piena post-Storia, mentre là fuori la Storia infuria tragicamente e mio fratello è figlio unico “perché è convinto che esistono ancora/gli sfruttati malpagati e frustrati”. E così Lo Stato sociale diventa il nome di un gruppo. Divertenti, scanzonati, piacciono tanto ai post-operaisti. Sinisteritas come jouissance e desiderio, liberazione dal lavoro: “Per un mondo diverso/Libertà e tempo perso”. “Perché lo fai?” Già, perché? Sarà che mi diverto? Però poi va a finire che questo post-modernismo snobistico (molotov e salotti aristocratici, come racconta Toni Negri) finisce che rievoca di nuovo, ancora, la Storia, quella con la faccia truce, la peggiore Realpolitik, Gentiloni e la Merkel. Acheronta movebo. Il prossimo singolo dello Stato sociale si intitolerà “Ci salveranno i poteri forti”?

QUANDO SANREMO E’ SANREMO!

Il libro nero del Festival di Sanremo di Romano Lupi Riccardo Mandelli edito da Odoya, 2016. Il libro nero del Festival di Sanremo: La storia del Festival di Sanremo non è scritta soltanto dalla "grande evasione" di tv, sorrisi e canzoni, scrive “Unilibro”. E tantomeno da quello che, davanti agli occhi di tutti, accade sul palcoscenico. Esiste, infatti, una storia segreta che attraversa tutto il dopoguerra italiano e le cui premesse nascono da una sorta di "progetto Sanremo" ideato alla fine dell'Ottocento: un "paradiso terrestre massonico" dove il gioco d'azzardo è il termine medio tra spionaggio internazionale e grandi giochi politici. Il Festival è l'ultima tappa di un percorso dove la manipolazione sociale assume i morbidi e insinuanti contorni della musica nazional-popolare. Il legame con il casinò è molto forte. Non è un caso che la più importante kermesse canora del nostro paese sia nata e si sia sviluppata in stretto collegamento con una delle quattro case da gioco italiane, tra i rapporti indicibili delle istituzioni con la criminalità organizzata, i servizi segreti e l'industria discografica. Gli scandali emersi nel corso degli anni presentano risvolti molto più inquietanti rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare. Dalle ambigue figure dei primi "patron" festivalieri come Pier Bussetti, Achille Cajafa ed Ezio Radaelli, con i loro tragici destini, alla misteriosa morte di Luigi Tenco; dal ruolo del Vaticano nell'industria del gioco e dell'intrattenimento ai Festival truccati; dalle tangenti di Adriano Aragozzini fino alle polemiche sulle amicizie in odore di mafia del direttore artistico Tony Renis. La storia d'Italia non è mai banale ed è sempre capace di stupire, anche quando "sono solo canzonette". 

“Il libro nero del Festival di Sanremo”, in uscita l’opera di Romano Lupi e Riccardo Mandelli. In questo libro compare un punto interrogativo: "Perché Sanremo è Sanremo?" Scrive il 14 novembre 2016 “Riviera 24”. Accanto al ritornello accattivante scritto da Bardotti-Caruso che lanciava la nuova edizione del festival presentata da “re Baudo”, in questo libro compare un punto interrogativo: “Perché Sanremo è Sanremo?” “Sanremo, scrivono e circostanziano bene gli autori, è (a) Sanremo perché doveva fare da paravento o nobile corollario al casinò della città. Prima che Sanremo fosse Sanremo, svariati giochi di potere prima e durante il fascismo avevano creato una stretta relazione tra eventi e gioco d’azzardo. Fu così che nel Secondo dopoguerra, da un’idea di Amilcare Rambaldi, commerciante di fiori massone della loggia Mazzini, e il suo confratello Angeli Nizza, che occupava la posizione di ufficio stampa del casinò, si sviluppò un abbozzo di programma che avrebbe riunito gli interessi di Piero Busseti (gestore della sala da gioco) e della Rai. Era il 1951. La prima vincitrice fu Nilla Pizzi. Fu praticamente obbligata a giocare alla roulette e restò stupefatta di fronte a quel maldestro tentativo di farne immediatamente la testimonial del gioco d’azzardo. Le persone sedute alla roulette le sembrarono infatti “ipnotizzate”, “stregate dalla pallina che girava” e se ne andò offesa. La mafia legata dal gioco (Nitto Santapaola e Joe Adonis per citare due nomi illustri) ebbe a che fare ancora per decenni con l’organizzazione del festival, ma già dal 1955 i dischi che la competizione faceva vendere giustificavano di per sé la pena di organizzare l’evento. Le canzoni del festival sfondarono addirittura i confini nazionali. Erano particolarmente apprezzate in URSS dove circolavano in edizioni illegali incise sulle radiografie ossee…Questo non contribuì a rendere limpida l’organizzazione e la gestione della competizione, che iniziava ad assumere i connotati delle edizioni che conosciamo.  In questa inchiesta completissima si dimostra come gli interessi in gioco fossero tanti e tali che spesso i risultati non fossero frutto di una votazione onesta. Per esempio gli autori raccontano che Pupo spese 75 milioni in schedine del Totocalcio per pilotare il voto del pubblico. Le reti Mediaset, che ne avevano tutto l’interesse, provarono a smascherare i brogli e Striscia la Notizia se ne uscì ben due volte con il nome del vincitore a un paio di giorni dalla votazione…Questo sarebbe un peccato veniale se non avesse portato, certo in un quadro di insieme più complesso, al suicidio di ben due concorrenti: Luigi Tenco e Mia Martini…Un’inchiesta dura e che non risparmia nessuno dei grandi partiti politici e che parte dalla convinzione che Guy Debord, nel suo libro culto La società dello spettacolo ci avesse visto giusto. Interessantissima anche la storia dei controfestival con i quali Dario Fo e Franca Rame ebbero molto a che spartire. Anzi, si può dire che la prima manifestazione alternativa (1969) fu una loro idea. Insomma: un vero e proprio libro nero sulla falsariga di quello che un tempo si chiamava controinformazione, passata di moda a favore della più adatta ai tempi disinformazione”. Romano Lupi, nato a Sanremo, è giornalista pubblicista dal 2005 e scrittore. Ha al suo attivo diverse collaborazioni con giornali e riviste culturali. Tra i suoi libri: Sanremando tra cronaca e storia (con Franco D’Imporzano); Futbolstrojka. Il calcio sovietico negli anni della Perestrojka (con Mario Alessandro Curletto); Il calcio sotto le bombe. Storia del Liguria nel campionato di guerra del ’44; Jašin. Vita di un portiere (con Mario Alessandro Curletto). Per Odoya ha già pubblicato: Vittò. Giuseppe Vittorio Guglielmo (2016). Riccardo Mandelli è storico e scrittore. Tra i suoi saggi ricordiamo: L’ultimo sultano. Come l’Impero ottomano morì a Sanremo; Al casinò con Mussolini. Gioco d’azzardo, massoneria ed esoterismo intorno all’ombra di Matteotti; Decreti sporchi. La lobby del gioco d’azzardo e il delitto Matteotti.

Balordi, miliardari e misteri Ecco il libro nero del Festival. Ricostruiti gli scabrosi retroscena della kermesse musicale inventata per valorizzare e portare clienti al Casinò, scrive Umberto Piancatelli, Martedì 22/11/2016, su "Il Giornale".  Perché Sanremo è Sanremo? Non è soltanto la sigla del Festival della Canzone ma, aggiungendo un interrogativo, è anche il mistero che hanno cercato di svelare Romano Lupi e Riccardo Mandelli con Il libro nero del Festival di Sanremo (Odoya). Il lavoro dei due autori liguri ripercorre la storia della rassegna canora, partendo dagli inizi del 900 da quando si costruisce il primo Casinò italiano, che diventa subito un centro di spionaggio, ricatto, finanziamento occulto e riciclaggio. L'intenzione dei primi gestori, come Lurati, è quella di far diventare la casa da gioco un punto nevralgico per attirare magnati e miliardari da tutto il mondo, scippando lo scettro alla vicina Costa Azzurra. Come scrivono gli autori: «l'Italia avrebbe dovuto assumere il primo posto come paese del divertimento, del gioco, dello spettacolo e dell'assenza di pensieri tormentosi. Il regno dell'illusione. La formula paradiso, replicata in tutto il mondo fino a oggi con i necessari adattamenti, sembrava sul punto di trovare proprio qui da noi la massima espressione». Dove circola una montagna di denaro, ovviamente, i traffici illeciti proliferano ovunque. L'editore musicale Suvini e Zerboni per far lievitare i propri profitti si dedica ad un giro di scommesse raccolte tra una rappresentazione e l'altra. Trame occulte influenzano la vita nazionale e quella del mondo intero e al centro si trova il tempio dell'azzardo. Giochi di potere, anche durante il fascismo, creano una stretta relazione tra spettacoli e gioco d'azzardo. Sono gli anni in cui l'edificio del Casinò è frequentato dai fratelli De Filippo, insaziabili giocatori d'azzardo, e si organizza un Festival di Musica Partenopea che nella sua struttura è da considerare il progenitore dell'attuale kermesse canora. Il primo ad avere l'idea di un Festival della Canzone Italiana è Amilcare Rambaldi, commerciante di fiori, che aveva rischiato la fucilazione. Per concretizzare l'intuizione di Rambaldi, il giornalista Angelo Nizza «cominciò così a lavorarsi il nuovo gestore del casinò, Piero Busseti, e alla fine riuscì a convincerlo che l'idea di un Festival della Canzone non era poi malvagia. Quindi Nizza attivò i suoi amici della sede Rai di Torino, primo tra tutti Nunzio Filogamo». Alla terza edizione, nel 1953, la manifestazione canora era ormai un successo consolidato. In questa festa dello show business con sempre più frequenza si parla di droga, lavorata da famose case farmaceutiche, anche se «il traffico di sostanze stupefacenti esisteva già negli anni Venti, e il nostro Paese ne era un nodo fondamentale» e del mercato dell'illecito che ruota dentro e intorno al Casinò. Entrano in scena personaggi loschi, faccendieri, la Gladio, Lucky Luciano, Angelo La Barbera, Salvatore Greco, Giuseppe Bono, Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta e Joe Adonis, potente mafioso italo-americano della famiglia Genovese. Durante il suo soggiorno obbligato nelle Marche, secondo quanto riportato nel libro, «secondo un biscazziere che lo conosceva bene erano intanto passati a salutarlo Dori Ghezzi, Ombretta Colli, Lauretta Masiero, Johnny Dorelli». A gestire il Casinò ritroviamo Rinaldo Masseroni, già presidente dell'Inter, e con lui Achille Cajafa, soprannominato vero dittatore della canzone. Si fa sempre più pressante il dubbio che una vittoria del Festival sia frutto di manovre sottobanco. Il racconto ci riporta alla mente i brogli denunciati a gran voce da Claudio Villa, l'era dei patron Ravera e Radaelli, le loro guerre contro le case discografiche, le ammissioni alla gara (si dice) vendute a suon di milioni, le irregolarità amministrative e altri reati connessi. Arriviamo alla triste pagina della morte di Luigi Tenco dopo l'esclusione della sua Ciao amore ciao, con Gianni Ravera che farfugliò in stato confusionale: «Bastava che me lo dicesse e sarebbe passato in finale». Leggendo le documentate pagine di Lupi e Mandelli si arriva al Festival del 1975 vinto da Gilda con Ragazza del Sud, pupilla di Napoleone Cavaliere, patron della manifestazione, in cui il posto di un notaio fu ricoperto da un figurante cinematografico. Quindi è l'era di Adriano Aragozzini, condannato e carcerato per tangenti pagate ad amministratori e politici locali per ottenere l'organizzazione. Fece scalpore la presa di posizione di Gino Paoli che scese in campo per difenderlo. Lungo la cavalcata musical-scandalistica di 300 pagine appare anche il nome di Lele Mora, chiamato a riorganizzare le sorti balneari di Sanremo. Insomma Il libro nero del Festival di Sanremo è un testo che tenta di colmare il vuoto lasciato da quella informazione che non indaga più a fondo e non va oltre le patinate apparenze.

SANREMO. ROBA LORO.

Rosita Celentano è un esempio. Della familiy system che da nord a sud ha caratterizzato per tante generazioni la porta d'accesso al mondo del lavoro. Con quel cognome Rosita di certo non ha avuto problemi a fare carriera. E lo ha ammesso senza problemi il 15 febbraio 2013 sul palco dell'Ariston. Chiamata da Fabio Fazio con i suoi compagni di ventura di quel Sanremo 1989, la figlia del "Molleggiato" ha confessato: "Quella volta ho presentato Sanremo solo perchè mi chiamavo Celentano. Non sapevo fare nulla. Sono convinta che mi hanno chiamato solo per il cognome". A Sanremo ieri sera è stata una serata amarcord. Soprattutto per i "figli di...". Insieme a Rosita sul palco c'erano anche Giammarco Tognazzi, Paola Dominguin e Danny Quinn. Insieme presentarono il Festival del 1989. La sincerità della Celentano la dice lunga sui meccanismi rodati per arrivare in Rai. Basta avere un cognome già noto, il resto viene da sè. Puoi anche non aver fatto nulla, ma ti ritrovi solo per il cognome a presentare lo spettacolo più importante della tv italiana. Perchè Sanremo è Sanremo. E perchè Rosita è Celentano.

Joan Lui è convinto di predicare meglio dei preti. Ma nel ruolo di profeta salva Italia ne vogliamo solo uno, due sono troppi: o Monti o Celentano, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera” in riferimento al Sanremo 2012. Dopo ieri sera ho scelto definitivamente. Ogni anno il Festival di Sanremo ci mette di fronte a un tragico dilemma: ma davvero questo baraccone è la misura dello stato di salute della nazione? E se così fosse, non dovremmo preoccuparci seriamente? C'è stato un tempo in cui effettivamente il Festival è stato specchio del costume nazionale, con le sue novità, le sue piccole trasgressioni, persino le sue tragedie. Ma tutto ha un tempo e questo (troppo iellato) non è più il tempo di Sanremo o di Celentano, se vogliamo rinascere. Monti o Celentano? Se davvero il nostro premier vuole compiere il titanico sforzo di cambiare gli italiani («l'Italia è sfatta», con quel che segue), forse, simbolicamente, dovrebbe partire proprio dal Festival, da uno dei più brutti Festival della storia. Via l'Olimpiade del 2020, ma via, con altrettanta saggezza, anche Sanremo, usiamo meglio i soldi del canone. O Monti o Celentano. O le prediche del Preside o quelle del Re degli Ignoranti contro Avvenire e Famiglia Cristiana. Non mi preoccupa Adriano, mi preoccupano piuttosto quelli che sono disposti a prenderlo sul serio. E temo non siano pochi. Ah, il viscoso narcisismo dei salvatori della patria! Ah, il trash dell'apocalissi bellica! Cita il Vangelo e bastona la Chiesa, parla di politica per celebrare l'antipolitica: dalla fine del mondo si salva solo Joan Lui. Parla di un Paradiso in cui c'è posto solo per cristiani e musulmani. E gli ebrei? Il trio Celentano-Morandi-Pupo assomiglia a un imbarazzante delirio. A bene vedere il Festival è solo una festa del vuoto, del niente, della caduta del tempo e non si capisce, se non all'interno di uno spirito autodistruttivo, come possano essersi accreditati 1.157 giornalisti (compresi gli inviati della tv bulgara, di quella croata, di quella slovena, di quella spagnola, insomma paesi con rating peggiore del nostro), come d'improvviso, ogni rete generalista abbassi la saracinesca (assurdo: durante il Festival il periodo di garanzia vale solo per la Rai), come ogni spettatore venga convertito in un postulante di qualcosa che non esiste più. Sanremo è il Festival dello sguardo all'indietro (anni 70?), dove «il figlio del ciabattino di Monghidoro» si trasforma in presentatore, è il Festival delle vecchie zie dove tutti ci troviamo un po' più stupidi proprio nel momento in cui crediamo di avere uno sguardo più furbo e intelligente di Sanremo (più spiritosi di Luca e Paolo quando cantano il de profundis della satira di sinistra), è il Festival della consolazione dove Celentano concelebra la resistenza al nuovo. Per restituire un futuro all'Italia possiamo ancora dare spazio a un campionario di polemiche, incidenti, freak show, casi umani, amenità, pessime canzoni e varia umanità con l'alibi che sono cose che fanno discutere e parlare? Penso proprio di no. P.S. Mentre scrivevo questo pezzo mi sono arrivati gli insulti in diretta da Sanremo. Ma non ho altro da aggiungere.

Al contrario. Onore a Roberto Benigni avversario ma senza odio, scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale” in riferimento al Sanremo 2011. Roberto Benigni non è mai stato trattato particolarmente bene dalla destra, così come dal nostro Giornale. Gli è stato rimproverato, anche su queste pagine, di sbertucciare solo una certa parte politica, di essere pagato eccessivamente per le sue comparsate, di essere un regista sopravvalutato. È stato attaccato perché troppo di sinistra, troppo snob, troppo furbo. Oggi, però, a Benigni va reso onore e rispetto. Al netto di qualsiasi legittimo dissenso dalla «linea politica» dell’attore toscano, la sua interpretazione al Festival di Sanremo è a prova di critica: leggera e calibrata nella parte comica, emozionante e formativa nella parte drammatica. L’affondo satirico era acuminato ma elegante, la lezione di storia originale e coinvolgente. Seppure non sempre sia facile accorgersene, e ancor più difficile riconoscerlo, ci sono volte in cui il tuo avversario può essere dalla parte giusta. Mercoledì sera, su quel palco, Benigni lo era. Ha saputo portare una serata che rischiava di cadere nella retorica e nel kitsch a un livello più alto. Che non è il livello della Poesia, della Bellezza, della Verità, come il mattino dopo in molti hanno voluto spiegarci. Ma semplicemente della Leggerezza. Leggero nell’ironia, leggero nella serietà, leggero anche nelle emozioni. Benigni ha dimostrato che si può fare un grande spettacolo senza scendere troppo in basso o salire troppo in alto. Che si può far ridere anche senza cedere al volgare, o dare scandalo, o assumere i toni del profeta o atteggiarsi a predicatore. Benigni ha dato una lezione a un’immensa platea di italiani, ma ha anche rifilato una lezione di stile a Beppe Grillo, sempre troppo volgare, a Sabina Guzzanti, sempre troppo astiosa, a Roberto Saviano, sempre troppo atteggiato. Benigni voleva semplicemente avvicinare gli italiani alle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità. E l’ha fatto benissimo. Attorno a sé e alla sua personalissima interpretazione dell’inno di Mameli, sussurrato in «fa» maggiore, una quarta sotto, ha stretto a coorte tutti coloro che lo stavano ascoltando. Lo hanno applaudito l’intero teatro Ariston che gli ha tributato la standing ovation, più di 18 milioni di telespettatori che lo hanno seguito per 40 minuti, i vertici Rai per una volta al completo, Gianni Morandi che vorrebbe portarlo in tutte le scuole d’Italia, l’Osservatore Romano e il Vaticano che dopo Porta Pia non avevano mai parlato così bene di un «patriota», persino l’ultimo discendente di Goffredo Mameli, Nino, che ha 76 anni ed è un maestro di musica in pensione, e poi ministri di destra come La Russa e Giorgia Meloni e leader di sinistra come Bersani e Vendola, persino famosi giocatori di calcio che, come Buffon, lo hanno ringraziato per aver spiegato che a essere schiava di Roma non è l’Italia, ma la Vittoria (anche se sintatticamente il soggetto è «Dio», non «Vittoria» che è un complemento oggetto, mentre «schiava» è un complemento predicativo dell’oggetto), e infine direttori d’orchestra, attori, parlamentari dell’intero arco costituzionale, giusto con qualche scranno vuoto nella parte dell’emiciclo riservato alla Lega. Per tutti la prova del comico-professore è stata impeccabile e culturalmente edificante. Sul campo scivoloso della satira Benigni ha insegnato che si può essere anti berlusconiani senza bava alla bocca. I berlusconiani possono per una volta dimostrare di non essere anti benigniani con il veleno preventivo nella penna. Mentre sul terreno impervio della filologia ha provato che si può tenere una lezione intellettualmente impegnativa senza essere per forza noiosi. Certo, non mancherà chi farà notare che il Risorgimento “secondo Benigni” è «semplicistico», che gli eroi non erano tutti senza macchia e senza paura, che anche attorno a Re, patrioti e ministri si aggirava qualche «escort», che oltre a giovani «pronti alla morte» ci sono stati anche migliaia di briganti sterminati dall’esercito sabaudo, che la fedina penale e morale di tanti Padri della Patria non è pulitissima e che verso la Chiesa non si è usata troppa cortesia. Ma se si parla a qualche milione di spettatori, alle dieci di sera, a Sanremo, e si ha solo mezz’oretta di tempo, non si può andare troppo per il sottile. Roberto Benigni continuerà, per molti, a essere un avversario sul fronte della politica. E in molti continueranno a non vedere i suoi film. Ma perché non riconoscergli la bravura nell’aver interpretato con leggerezza e semplicità un giovane patriota di 150 anni fa? L’ideologia, e persino un’idea che non ci piace, si possono condannare. La passione no. Non ce n’è bisogno. Onore al compagno Benigni.

Sanremo: da Grillo a Benigni, tutto ciò che ha creato scandalo al Festival, scrive Simone Rossi su “Digital Sat”. Sanremo e la politica rappresentano un binomio solido, se si pensa che all'epoca del secondo festival, nel 1952, 'Papaveri e papere' fu considerata un brano a rischio perchè alludeva al potere dei papaveri dell'allora Dc. Negli anni la polemica a sfondo politico, quasi sempre legata agli interventi dei comici, è diventata un ingrediente praticamente fisso del festival. Nel 2013 però c'è una doppia novità: l'attacco preventivo di Berlusconi e del Pdl con l'accusa a Fabio Fazio e a Luciana Littizzetto di rappresentare la sinistra e quindi un pericolo per la par condicio e addirittura la sfida degli ascolti, visto che proprio nei giorni del festival su Rai2 andranno in onda le conferenze stampa dei tre principali soggetti politici. E pensare che nel 2004 Adriano Celentano, arrivato all'Ariston in soccorso del suo amico Tony Renis (direttore artistico di un'edizione boicottata delle major del disco) disse: « Io non dico mica che non si deve fare la politica. Vespa ha fatto 'Porta a Porta Speciale Sanremo' e come l'ha fatto lui, i politici ci stanno bene. Perchè il Festival e i politici devono restare due cose distinte». Nel frattempo aveva anche criticato il collegamento con Nassiriya, in Iraq, dove era stata compiuta una strage di Carabinieri. Proprio Celentano che nel 2012 ha creato un caso che ha quasi provocato un commissariamento del festival per il suo compenso (poi devoluto in beneficenza) ma soprattutto per le critiche violente alla stampa cattolica. A proposito di religione, è stato Roberto Benigni nel 1980 a creare scandalo per aver rivolto al papa di allora l'epiteto 'Wojtilaccio'. Già che c'era aveva fatto inorridire i benpensanti baciando la conduttrice Olimpia Carlisi. Nei decenni successivi Benigni è diventato un protagonista assoluto anche di Sanremo, suscitando sempre clamore. Nel 2002 il premio Oscar, in uno degli interventi più emozionanti della storia del festival, presenta una sua versione in chiave politica del Giudizio Universale e si lancia in battute sugli organi sessuali di Baudo, Berlusconi, Di Pietro, Fassino. Nel 2009 sparge battute su Berlusconi ma non risparmia Veltroni, Mina e Iva Zanicchi e, soprattutto, in difesa dell'amore omosessuale (oltraggiato da un brano di Povia), chiude il suo intervento con la lettera dal carcere di Oscar Wilde. Nel 2011 fa riscoprire il patriottismo all'Italia con la sua lettura dell'Inno di Mameli. Una delle edizioni più turbolente è stata quella del 1989: Beppe Grillo distrugge il festival, attacchi feroci ai cantanti, ai giornalisti e soprattutto all'allora leader della Dc De Mita e al direttore generale della Rai Biagio Agnes. Non fu risparmiato Claudio Martelli per la vicenda di Malindi. La conclusione di Grillo, allora solo un comico, fu: «io vi faccio ridere e poi mi fanno un c ...o così a me». Il trio Solenghi-Marchesini-Lopez si beccò gli strali del mondo cattolico per la parodia del Vangelo e la lettera di San Remo e presentò una parodia dei figli di Andreotti che non mise di buonumore il politico. Nel 2006, anno di scambi al vetriolo tra Pippo Baudo e Fabrizio Del Noce, allora direttore di Rai1, furono Padoa Schioppa e Prodi a criticare i compensi dei conduttori del festival, guadagnandosi la risposta piccata di Baudo. Tornando indietro nel tempo, nel 1999, l'anno di Fazio conduttore e dell'intervento di Gorbaciov, Teo Teocoli si presentò sul palco in mutande imitando Gabriele Albertini, nel 1992 toccò l'apice la piccola epopea di Cavallo Pazzo, che riuscì a entrare in teatro guadagnandosi il primo posto nella lista dei most wanted del festival. Nel 1969 Dario Fo e Franca Rame organizzarono un contro festival che avrebbe dovuto fomentare la contestazione ma gli effetti furono blandi. Proprio in questi giorni è circolata la foto di Nichi Vendola che, nel 1995, insieme ad alcuni politici e a un gruppo eterogeneo chiamato la Riserva Indiana, accompagnò l'esibizione di Sabina Guzzanti. Altri tempi rispetto alla sfida degli ascolti di quest'anno.

Cara Nazione... Risponde il vice direttore Marcello Mancini. Firenze, 17 dicembre 2013 - GENTILE DIRETTORE, contestare un comico non si può, non è concepibile, non ha senso. Persino alle corti di re, il comico aveva licenza di ridicolizzare il sovrano, quindi zittire Crozza è stato un atto indegno e illiberale, tanto più che poi s’è visto, bastava aspettare un minuto e la sua esibizione, da bravo professionista quale è, sarebbe subito rientrata nella par condicio. Infatti nessuno dei leader in campo è stato risparmiato. Ma tant’è, siamo un Paese coi nervi a fior di pelle. G. S. Benedetti, Capannori

Risponde il vice direttore Marcello Mancini. CARO signor Benedetti, è molto difficile non interpretare ogni minuto di una trasmissione super vista come Sanremo, che va in onda nel periodo più stretto della campagna elettorale, anche solo dandole il valore di messaggio subliminale. A noi è sembrato che la prima puntata - semplicemente attraverso gli ospiti - abbia dettato l’agenda politica. Per dire: il matrimonio gay e la cittadinanza agli stranieri. Pensiamo lo abbia fatto molto più - e con meno clamore - di quanto sia riuscita a trasmettere l’esibizione di Crozza. Insomma, non c’è bisogno di gonfiare con ingredienti politici una gara di canzonette, perché a dieci giorni dal voto, in un Paese come il nostro, tutto può venire considerato un’intrusione. Molte delle polemiche cucite addosso a questo festival sono pretestuose, magari anche giustificate, ma servono a poco perché non spostano voti. Ma ogni anno è così: alla fine servono per aumentare l’audience e decretare il successo della manifestazione. A conti fatti, l’unico a rimetterci è stato il povero Crozza che, anestetizzato preventivamente, ha lasciato in camerino le battute migliori. E non ha fatto ridere.

Sfiorando di poco l'avvertimento del 2013 sulla par condicio, anche Bisio nel suo intervento al Festival di Sanremo, dice la sua sui politici italiani: "Finchè ci sono loro in questo Paese non cambierà mai, dicono una cosa e ne fanno un'altra, non mantengono le promesse, sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili, mandiamoli tutti a casa". Claudio Bisio arriva per la prima volta a Sanremo e propone un monologo 'politico'. "Non parlavo degli eletti, ma degli elettori, stavo parlando di noi, degli italiani, perchè siamo noi i mandanti, noi che li abbiamo votati. Se li guardate bene è impressionante come ci assomigliano, sono come noi italiani, precisi sputati". Probabilmente più a suo agio nei panni di conduttore o di attore, come dimostrato dal successo a Zelig e soprattutto con Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord, comincia con una partenza davvero soft. Lasciando intendere le costrizioni imposte alla creatività dalla par condicio, scodella una serie di battutine di riscaldamento. Giusto per non provocare delusioni prepara il terreno ricordando quanto sia difficile arrivare ai livelli quasi ultraterreni raggiunti da Roberto Benigni sul palco dell’Ariston. Punta, dunque, sulle false partenze, chiedendo l’applauso e lo critica in quanto ‘promiscuo’: meglio fare una distinzione tra uomini e donne. Niente Divina Commedia per lui ma piuttosto solo Topolino, particolarmente interessante per la psicologia dei personaggi. Nonna Papera ha l’autorità di dar da mangiare alle galline e alle mucche, Clarabella e Orazio insolita coppia che non riesce ad avere figli, lo strano mix di Qui Quo e Qua in cui al secondo toccano solo le preposizioni o le congiunzioni. Lo stacco arriva quando si riferisce a ‘loro’ e poi nega di aver parlato dei politici, piuttosto parla degli italiani che li hanno votati e ammonisce: ‘Se guardate i politici è impressionante come ci somigliano: c’è l’imbroglione, il servitore di due padroni, quelli che cambiano casacca alla velocità dei ‘razzi’, il professore universitario che sa tutto lui, quelli che vanno al Family Day e hanno due famiglie‘. Tra il dire e il fare per molti italiani ci sta di mezzo la chiacchiera: ‘Io sono cattolico ma a modo mio…se divorzi sono Casini.. sei comunista e devi mangiare i bambini, tirar su il muro di Berlino, vedere film delle Corea del nord’. Ma i luoghi comuni sono anche nella gente normale tra cui si nascondono quegli elettori ‘impresentabili’ capaci di essere negozianti e ‘lamentarsi del governo ladro senza aver mai rilasciato uno scontrino‘. Peggio ancora è chi vende il proprio voto per un po’ di soldi, forse sostituire l’elettorato italiano con quello danese potrebbe essere una soluzione: finalmente si potrebbe vedere il nuovo premier dall’aria normalissima che dice cose normalissime e va in tv due e tre volte l’anno. E un Bisio non strabiliante chiude così il suo intervento, sulle note de L’Italiano.

Il Festival di Sanremo, ovvero l’evento mediatico per eccellenza, snobbato, odiato ma seguito da tutti, anche quest’anno è un centro nevralgico di polemiche. Il duo Fazio-Littizzetto e l’imitazione di Berlusconi da parte di Crozza hanno dato subito il là alle ipotesi politiche: il Festival è sempre più di sinistra? Sembra pensarla così anche Anna Oxa che, esclusa, accusa il festival di essere un coacervo di comunisti: la cantante sottolinea come “Cotugno, Al Bano e Ricchi e Poveri sono al Festival perché spinti dalla Russia”. La teoria è che, visti i diritti televisivi acquistati da Mosca, “La Russia conosce questi artisti e dice ho quei diritti e voglio questi artisti che conosco…”. Politica o meno, gli ascolti sono vertiginosi, i più alti dal 2005. Siamo certi che qualcuno vedrà lo share come un possibile sondaggio politico a favore del PD, scambiando la democrazia partecipativa per democrazia catodica. E non sarebbe la prima volta.

Ma la questione vien da lontano. Sanremo 2011 vira a sinistra, Luca e Paolo all'attacco: predica su Ruby & Silvio, scrive Laura Rio  su “Il Giornale” rispetto ancora al Sanremo 2011. Già l’aveva fatto Saviano. Luca e Paolo, in apertura di Sanremo, l’hanno ripetuto. Che c’è di più divertente di prendere per i fondelli il Giornale e i suoi presunti «dossier»? Le due iene si sono esibite in un omaggio canoro ( sulle note della morandiana Ti supererò ) ai due più «grandi comici del momento »: Fini e Berlusconi, mettendoci dentro le olgettine, le Minetti, le arcorine, Fede, Ghedini, la Santanchè, la Casa di Montecarlo e ovviamente anche il nostro quotidiano, nell’accezione dei portatori di «macchina del fango». «Ti sputtanerò - cantano i due conduttori che lavorano a Mediaset ­ ti sputtanerò, al Giornale andrò... con in mano foto dove tu sei con un trans... poi consegnerò le intercettazioni e alle prossime elezioni sputtanato sei». Finendo il grazioso brano con: «Ma il 6 aprile in tribunale ci vai tu....» Tu, ovviamente, è il Premier. Insomma dove siamo? Al Festival di Morandi o nel salotto super radical chic di Fazio e Saviano? Perché questa kermesse si sta sempre più trasformando in un incontro della creme del pensiero di sinistra. L’ultimo ospite arruolato è Roberto Benigni. Contrariamente alle prime indiscrezioni, l’attore ha accettato di salire sul palco dell’Ariston giovedì, durante la serata che celebra i 150 anni dell’unità d’Italia. A fare? A interpretare a modo suo l’inno di Mameli, a raccontarne la creazione e il significato. Ma voi ci credete che il premio Oscar riuscirà a frenare la lingua e a non fare riferimenti al Premier, alle intercettazioni, al bunga bunga, al caso Ruby e al rinvio a giudizio? Figuriamoci, nonostante le rassicurazioni della dirigenza Rai e degli organizzatori, difficile credere che si atterrà al momento istituzional­canoro della celebrazione nazionale. Ma soprattutto, Benigni, per declamare il nostro inno nazionale si poterà a casa un bel gruzzolo: tra i 200 e i 250 mila euro. Guarda un po’, quella stessa cifra che avrebbe dovuto guadagnare per la partecipazione alla trasmissione Vieni via con me di Fazio­Saviano del novembre scorso. In quell’occasione, dopo una furibonda lotta sul compenso e sul contenuto del suo intervento,l’attore decise di andarci gratis. Ora i soldi arrivano. E subito scatenano una polemica politica. Ad aprire il fuoco è la Lega Nord. Il senatore Cesarino Monti commenta: «Il patriota Benigni con la sua morale di 30 minuti prende il 60 per cento in più dell’indennità di carica di un anno di un parlamentare italiano. Dove sono i moralisti? Dove sono quelli che pagano il canone? Dove sono i ricercatori, i cassintegrati, i precari e coloro che vivono con 1.200 euro al mese?». Certo ogni apparizione dell’attore procura ascolti altissimi e di conseguenza anche un ritorno economico pubblicitario che, con tutto il rispetto, nessun deputato si sogna. E il compenso sarebbe pure in linea con i cachet delle star, se non si dovesse fare i conti con la difficile crisi economica della Tv di Stato. Ma questo montagna di soldi offusca l’intervento del comico. Nei cui confronti, tra l’altro, la dirigenza Rai sembra essere un Giano bifronte: se va da Fazio è uno scandalo, se va a Sanremo no. Perché? Semplicemente per­ché quando bisogna raccattare ascolti tutti i paletti cadono. Giovedì c’è Annozero che rischia di portar via la scena a Sanremo. E allora meglio acchiappare spettatori anche rischiando di avere alla fine ben due trasmissioni in contemporanea contro il Premier. Tra l’altro Santoro ha già fatto sapere che giovedì farà parlare Emma, la cantante in gara al Festival che domenica scorsa ha partecipato alla manifestazione delle donne. Ma Sanremo non resta indietro: tra Vecchioni che inneggia alla protesta studentesca e i La Crus atei che cantano l’apologia del tradimento, eccovi servito il Vieni via con me ... in Riviera.

Ospiti e super ospiti all'insegna del cosiddetto 'politicamente corretto', neanche si trattasse dell'edizione invernale del Festival dell'Unità. Tra gli ospiti del Festival della canzone italiana, giunto alla edizione numero 63, primeggiano infatti gli artisti cari alla sinistra. E difficilmente poteva accadere il contrario, visto che la scelta è stata data in appalto al duo Fabio Fazio-Luciana Littizzetto. Avremo così, lautamente ricompensati con parte del nostro canone, l'ex premier dame di Francia Carla Bruni (potrebbe essere però l'occasione buona per chiederle qualcosa sulla latitanza dorata di Cesare Battisti), Claudio Bisio, Neri Marcorè, Serena Dandini e perfino, ma non si capisce bene a che titolo, Marco Alemanno, il compagno di Lucio Dalla. Sanremo 2013, quel 'comunista' di Toto Cutugno canta in russo e ha nostalgia dell'Urss. “Io quando li sento, mi commuovono sempre. Ho una nostalgia per una Russia … per l’Unione sovietica del passato…” “Toto, non è serata! Me lo aspetto da Lucianina ma tu…”. Eccaallà, sul finire (si fa per dire, anche se è mezzanotte) di una serata già pesante per la contestazione a Crozza e le polemiche scoppiate sul suo pezzo, Toto Cutugno sale sul palco per cantare L’Italiano con l’annunciata Armata Russa/Rossa. A parte Angelo Obinze Ogbonna, chiamato a simboleggiare dei ‘nuovi italiani’, che lo chiama ‘Totò’, e la Littizzetto che si tuffa tra le fila dei soldati canterini (e quando le ricapita!), scorre tutto sulle ali della nostalgia, dei trent’anni trascorsi dal debutto del pezzo. Fa anche effetto sentire quei vocioni - simulacro di un esercito che ha fatto tremare l’occidente - cantare “Buongiorno Italia, Buongiorno Maria .. Io sono un italiano vero” e il tutto ha l’entusiasmo dello spazio elettorale autogestito per gli italiani all’estero. Per capirci, eh. Poi il ‘guizzo’ che non ti aspetti da Toto Cutugno: la ‘nostalgia per un’Unione Sovietica che non c’è più. Qualcuno nel foyer è svenuto…. Personalmente non capisco mai se Cutugno scherza e men che meno stasera. Diciamo che la serata è proprio quella giusta per sentire nostalgia dell’Unione Sovietica, eh. Fazio ringrazia. Ciliegina sulla torta di una serata che gli è completamente sfuggita di mano. Fischia il vento, infuria la bufera…Però, a ben guardare al Festival ci sono precedenti illustri. Siamo al Sanremo 1987: conduce Pippo Baudo che si fa paladino della Perestroika e ospita nella serata finale Alla Pugacheva, dall’Unione Sovietica. Un segno di disgelo nel Festival del Prima Repubblica, che in quell’edizione vide all’Ariston Europe, Duran Duran, Nick Kamen, Frankie Goes To Hollywood, Spandau Ballet, Style Council, Patsy Kensit con gli Eighth Wonder, Whitney Houston, Bob Geldof, Paul Simon, The Smiths e Pet Shop Boys (e scusate se è poco). Ma con la Pugaceva spuntarono sul palco anche falce e martello. Altri tempi. Toto, hai fatto secondo (anche stavolta…).

Crozza guida l'Armata Rossa di Sanremo. Fazio: "Maurizio ospite all'esordio. Farà quello che vorrà". Col comico, i giurati radical chic e i reduci del Concertone ci sarà davvero anche il coro (ex) sovietico. Surreale, scrive Laura Rio su “Il Giornale”. Questa volta gli americani non ci potranno salvare. L'invasione sovietica è alle porte. I comunisti caleranno oltre le Alpi marciando sulle note del Coro dell'Armata Rossa. E in riviera si riuniranno con l'esercito dei comunisti nostrani guidati dal generale Fabio Fazio e dalla sua partner «trotskista» Lucianina Littizzetto. Scherzi a parte, ci vuole molta ironia per affrontare questo Sanremo. Pare proprio che il presentatore se le vada a cercare. Accusato, dalla destra e da Berlusconi, di aver messo in piedi un Festival tutto orientato a sinistra a pochi giorni dalle elezioni, lui che fa? Apre il Festival con il Coro dell'Armata rossa, quello vero, non è una finta: è l'orchestra erede di quella creata nel 1928 sotto Stalin. Certo, i musicisti russi arrivano solo per accompagnare Toto Cutugno e intonano L'italiano (pezzo sanremese tra i più noti all'estero) quasi meglio dei canti popolari sovietici, però come non ergerli spiritosamente a simbolo di questo Festival? Insomma, pure Maurizio Crozza potrebbe ricamarci sopra un bello sketch. Perché Crozza, altro campione «sinistro», è il primo della lunga lista degli ospiti invitati dal presentatore a portare fiori di color rosso sul palco dell'Ariston (compensati ça va sans dire da personaggi meno schierati). Insomma, Crozza guiderà l'Armata rossa. Nel «Paese delle meraviglie» accade anche questo. È lo stesso Fazio con un tweet a confermare la presenza del comico, spifferata nei giorni scorsi. «Abbiamo deciso: Crozza la prima sera! Cosa farà? Quello che vuole», è il cinguettio. Dunque carta bianca. Di per sé, comunque, Crozza potrebbe risultare più equilibrato del padrone di casa: le sue spassosissime imitazioni prendono di mira politici da destra a manca, da Berlusconi a Bersani passando per Monti e arrivando a Ingroia. Mentre Fazio, in serata collegato con Ballarò, minaccia: «La politica è una parte importante della vita, come l'aria che si respira. Perciò, a una settimana dalle elezioni, pur nel rispetto delle regole, la politica entrerà anche a Sanremo». Prontissimo al caso l'esercito dell'Armata rossa. Prendete le invettive di quella «squadrista» di Anna Oxa che ha veementemente accusato Fazio e compagni di aver messo in piedi un Festival che «sembra un sottoprodotto del concerto del Primo Maggio». In effetti tra i 14 artisti in gara, un bel po' si sono esibiti nel ritrovo annuale organizzato dai sindacati: per esempio Simone Cristicchi, Daniele Silvestri, Elio e le Storie tese, gli Almamegretta, Max Gazzè e i Marta sui tubi. Tutti ben contenti di militare nell'area politica «giusta» e di contribuire alla lotta contro il nemico pubblico numero uno, Berlusconi, ovviamente. E pensate a Silvestri che si presenta con un brano intitolato A bocca chiusa che è il racconto di una giornata passata in un corteo, perché lui vuole dare «un contesto poetico alla decisione di scendere in piazza».

Ma i «compagni più affidabili», Fazio li ha schierati in giuria, quella che avrà un potere enorme sulla decisione finale dei vincitori: il suo giudizio peserà infatti per il 50 per cento nella serata finale (l'altra metà sarà decisa dal televoto). Bene, in questa giuria, campeggiano nomi che provengono dai salotti buoni della sinistra e dalle amicizie strette di Fazio; alcuni, però, non si capisce bene a quale titolo. Accanto a esperti certificati come l'arpista Cecilia Chailly e il maestro Nicola Piovani (che lavora spesso con Fazio), si trovano presentatori come Serena Dandini: la sua presenza pare più un favore a un'amica che si trova momentaneamente disoccupata dopo il flop a La7. Carlo Verdone, grande appassionato di rock, resta uno dei pochi super partes. Come la moglie di Pavarotti Nicoletta Mantovani. Poi ci sono il Dj Coccoluto, l'etoile Eleonora Abbagnato, gli scrittori alla moda Paolo Giordano e Stefano Bartezzaghi. Coro dell'Armata Rossa, attacca a suonare!

Sto seguendo il festival di Sanremo, scrive Pino Nicotri su “Blitz Quotidiano”. Che nonostante tutto mi è sempre parso un buon modo per capire il Belpaese e tastarne il polso dei suoi cittadini, cioè di noi italiani. Da “Vola Colomba” di Nilla Pizzi e “Volare” di Domenico Modugno anni ’50, al “Paese dei cachi” di Elio e le Storie Tese anni ’90 a “Vorrei avere il becco” e “Luca era gay” di Povia nuovo millennio, le canzoni del festival sono sempre state termometro, barometro e ritratto dell’ Italia reale, quella sotto le punte dell’iceberg dei soliti noti e anche sotto la superficie dell’acqua.

E che dire del 2008. «Sanremo a misura di Prodi: tutti dentro se di sinistra». Il Secolo d'Italia, in un articolo richiamato in prima pagina, critica il Festival 208 sottolineando i casi di alcune esclusioni eccellenti dalla prossima gara canora come quelle di Povia e Francesco Baccini. «È una storia che si ripete ogni anno, specie se a condurre la kermesse è Pippo Baudo che, solo a parole lancia gli appelli per superare le divisioni, almeno quando si parla di canzoni», scrive il il quotidiano di An nel pezzo in cui vengono raccolti gli sfoghi e le accuse politiche degli esclusi. «Spulciando tra la lista dei cantanti ammessi, si capisce che molti, al di lá dei discorsi sul livello qualitativo, hanno il patentino richiesto», prosegue il Secolo citando Michele Zarrillo, «che ha scritto una canzone contro Berlusconi» e il cui testo del brano di quest'anno «sembra più che altro un intervento congressuale di Diliberto»; Max Gazzè, che «è arrivato a fare la sua prima tappa del tour cantando al Villaggio globale di Roma in una serata con compagni dei centri sociali»; Sergio Cammariere, che «vanta una certa militanza». Poi c'è Loredana Bertè, «orgogliosamente comunista», mentre «un altro allineato è Federico Zampaglione, anche lui dichiaratamente di sinistra». «Superfluo - prosegue il Secolo- soffermarsi su Eugenio Bennato, così come scontata è la collocazione di Frankie Hi Nrg, che non a caso a Sanremo porta Rivoluzione». Infine, paradosso per il Secolo, «persino i cantanti non di sinistra porteranno tematiche dal sapore prodian-progressista. Forse proprio per evitare l'esclusione a priori». Come Anna Tatangelo, che canterà dei gay.

Bene. Mi chiedo come sia possibile che ci si scagli ormai a ogni pié sospinto contro gli sprechi e i privilegi del Parlamento, per non dire della politica più in generale, quando poi si applaudono con entusiasmo gli evidenti sprechi del festival in scena ogni sera a Sanremo. Ci si compiace che per meno di cinque secondi di banale lettura dei risultati di ogni canzone si faccia arrivare un personaggio che, più o meno famoso che sia, intanto viene pagato, e mica poco. E se è donna arriva indossando un abito che, a parte la pacchianeria frequente e l’eleganza rara, non è mai sobrio, è sempre ridondante, roboante, rutilante ed eccessivo sia nell’estetica che di conseguenza anche nei costi. Abiti che oltretutto indossati una sera poi non si usano mai più. Sì, certo, buona l’idea di far presentare a ogni concorrente due canzoni per far scegliere ai telespettatori quale delle due deve restare in gara, stile, mi pare, “Grande fratello” o “L’isola dei famosi”. Ma davvero queste canzoncine anemiche, a curva piatta, difficilmente distinguibili l’una dall’altra, meritano la trovata del “ne ascolti due e ne scegli una”? Due canzoni per ogni concorrente non significa forse raddoppiare tempi e costi? Sì, certo, di Festival di Sanremo ce n’è uno e dura solo pochi giorni, il Parlamento e la politica invece ci sono tutti i santi giorni e non in una località sola, non solo a Roma, come invece il Festival solo a Sanremo. Ma di iniziative simili a questo festival l’ Italia è piena e l’andazzo non è molto diverso: quando si tratta di spettacolo, canzoni, sfilate ed elezioni di miss, il Belpaese non va per il sottile e applaude sempre, non bada a spese. Guardando questo festival si ha l’impressione che somigli al mondo della politica non solo per gli sprechi. Le parole delle canzoni sono troppo spesso voli pindarici pretenziosi e che quindi finiscono col somigliare con il vaniloquio di troppi politici. Anche i volti di chi canta, spesso ripresi in primo piano per creare pathos ed effetti coinvolgenti, si deformano e si contorcono per spremere espressioni che vorrebbero essere intense, ma non vanno mai oltre l’insignificante se non patetico. Ricordano troppo spesso le faccine del Grillo comiziante e urlatore. Se questi sono i “big” e i “ggiovani” non mi pare ci sia da stare allegri. L’impressione della somiglianza alla politica viene anche dal ricorso a mostri sacri del passato per far digerire il presente sorvolando sulla sua mediocrità o, peggio ancora, crisi prolungata. I nostri leader politici, ormai uno più deludente e a ruota libera dell’altro, si paragonano modestamente a De Gasperi, Togliatti, Papa Giovanni, Mandela. A Sanremo hanno scelto di coprirsi con Domenico Modugno, celebrato con un film rimembrato sul palco dal suo bravo interprete fratello del bravissimo Fiorello. Il problema però è che di Modugno e affini nella serra canterina di Sanremo non se ne vede neppure l’ombra. Sappiamo tutto di quanto spendono o intascano gli onorevoli e affini, dei quali giustamente vogliamo online anche le virgole. Perché non mettere online anche i compensi dei Fazio, Litizzetto e ospiti vari? Così magari abbiamo anche modo di capire se questa edizione che vorrebbe passare per risparmiosa lo è davvero o, sotto la maschera familiar buonista dei “due come noi” Fazio e Littizzetto, offende anch’essa con i suoi costi e sprechi gli esodati e i pensionati. Distrarsi e divertirsi va bene. E’ necessario e fa bene alla salute. Ma lasciarsi ingannare no, non va bene. Non è necessario e non fa neppure bene alla salute. Forse con i nostri vizi siamo troppo indulgenti, i vizi cioè della famosa “società civile”.

Berlusconi assicura che Crozza a Sanremo non gli fa paura, scrive Mario Ajello su “Il Messaggero”. Ma davvero? Ai berluscones sta facendo invece una paura pazza. E comunque è l’intero show festivaliero, a cominciare dal contenuto delle canzoni che saranno presentate sul palco, che agli occhi dei collaboratori del Cavaliere viene ritenuto, preventivamente, troppo sbilanciato a sinistra. C’è chi nell’entourage di Silvio - che si vanta di essere un grande chansonnier, e in realtà come ugola non è male - sta studiando i testi di ogni canzone e ogni tanto ci trova dentro una brutta sorpresa. Esempio: il motivo «A bocca chiusa» di Daniele Silvestri - che è comunista con due emme: communista! - è un inno alla bellezza dello stare in corteo «perchè partecipazione è libertà ma è pure resistenza / e non ho scudi per proteggermi nè armi per difendermi / nè caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi». Parole così, si ragiona nelle stanze di Palazzo Grazioli, non sono in qualche modo sediziose? In Elio e le storie tese, la canzone è Dannati forever, i berluscones apprezzano il tono anti-politico, ma loro si mettono fuori dal mucchio del «tu, tu, tu, tutti insieme all’inferno, anche il governo». E Simone Cristicchi, comunista anche lui? Ne «La prima volta (che sono morto)» ricorda suo nonno Rinaldo che nel 1941 partecipò alla disastrosa campagna di Russia, voluta dal Duce che Berlusconi ha appena lodato. Però Cristicchi nel prossimo disco pubblicherà anche una canzone sull’orrore delle foibe creato dai comunisti titini. Dunque, a casa Berlusconi, questa settimana si tiferà contro il bravo artista, ma nel dopo-festival verrà riabilitato e magari vestito d’azzurro.

A Sanremo va in onda la prova generale della sinistra al governo. La Littizzetto attacca il maschilismo occidentale e si scorda le violenze dell'Islam: è il trionfo del regime che ci aspetta, scrive Giuliano Ferrara  su “Il Giornale”. La poetessa Sylvia Plath, che conosceva l'umanità e se ne doleva, scriveva che «ogni donna ama un fascista». La Littizzetto, che usa l'umanità per divertirsi al botteghino delle idee facili, al primo buffetto («Se non ora, quando?») va dal magistrato a denunciare quello stronzo che l'ha toccata. Io odio la violenza sulle donne, non sono disposto a perdonarla per alcun motivo, e per questo non ho mai capito come la sinistra internazionale radical chic abbia potuto trovare in fondo elegante e amabile («Che peccato, che peccato quella storiaccia nell'albergo») quel tipo di predatorio, di rapace del sesso, che è il loro idolo nascosto Dominique Strauss Kahn, mentre ha dannato gli scherzi da cherubino e le malandrinate cochon del dolce e gentile Silvio Berlusconi. Non ho mai capito come possano le varie Littizzetto accogliere senza il vaglio della loro identità universalistica il particolarismo islamico, la religione civile fondata sull'esclusione della donna dai diritti non familiari, e sulla divinizzazione del potere brutale del capo famiglia sulla sua compagna o sulle sue compagne di sesso femminile, eppoi darsi allegramente alla denuncia del maschilismo occidentale. Odio quella violenza, ma anche per le ragioni ora ricordate sento che la campagna sul femminicidio, come quella sui matrimoni gay, come quella sull'omofobia, come ieri quella sul diritto di avere figli o sul diritto di morire, è solo parte di un gigantesco movimento nella direzione del banale universale che anche in Italia, dove il fondo cristiano-cattolico aveva fino adesso funzionato da revulsivo, sta per trionfare definitivamente. Sanremo è stata la prova generale del regime politicamente e ideologicamente corretto che ci aspetta. Con l'eccezione del grandissimo Tony Renis e del suo amico Celentano quando ancora era Celentano (ricorderete la danza provocatoria all'insegna del motto sovversivo da clan a clan: «Anch'io ho amici criminali»), il Festival della città dei fiori è sempre stato una cerimonia di cementificazione edificante delle coscienze, un andare a letto sicuri di essere nel giusto di stato, garantito da mamma Rai. Ieri il giusto erano i mutandoni delle ballerine, l'innocenza canora di Non-ho-l'età, e altre bellurie di vario genere; oggi è l'amore gay, con il matrimonio per traguardo, e la elezione delle donne a idolo della piazza mediatica, ma solo se vittime virtuali, solo in un simbolo dei buoni sentimenti e dell'edificazione progressista. Ma il mondo è più complicato. Il poeta scrittore e artista maledetto Jean Genet scriveva che «violenza e vita sono pressappoco sinonimi», ciascuno di noi sa che l'amore non sopporta il controllo di legalità dei chierichetti della religione di massa del contemporaneo, quelli che stanno sempre a celebrare una strana e insincera messa cantata all'insegna del bene sociale, ma hanno scarsa dimestichezza con i concetti di bene e di male morale. L'amore potrà essere indotto a dire tutti i suoi nomi, anche quelli più risibili che le leggi matrimoniali di nuovo conio consentiranno ai coniugi omosessuali, ma sarà sempre bene attento a nascondere la sua realtà. Ma come si fa dopo le omelie banalizzanti di Fazio & Littizzetto, dopo la prevedibile distruzione di ogni ironia e di ogni civiltà che si annuncia nel testo di una legge Bersani contro l'omofobia, a continuare, non dico ad amare in libertà, non importa il sesso dei contraenti il patto d'amore, ma anche solo a leggere Madame Bovary o Anna Karenina? Come si fa a far traslucere il mondo di stupidità ipercorretta e poi pretendere di formarsi categorie adulte, intelligenti, per afferrarlo, per capirlo, per viverci? Una donna non si tocca nemmeno con un fiore. Non bastava il proverbiale e aristocratico e forse patriarcale riconoscimento dello status femminile assoluto? No, ci voleva il piccolo tribunale di piazza mediatico, ci voleva la prolusione della bontà socializzata e venduta come un pannolino. Questo ci voleva per edificare il regime prossimo venturo.

Crozza contestato crolla: voleva fuggire dal palco. La rabbia nei camerini, scrive “Libero Quotidiano”. Il pubblico del Festival lo attacca, il comico non regge: il viso contrito, la salivazione azzerata. I rumors: avvilito e provato. La saliva che non c'è più. Gli occhi sbarrati, il viso contratto in un'espressione di sconcerto, rabbia e un pizzico di disperazione. La tentazione di andarsene, di lasciar perdere. Un calvario, per Maurizio Crozza, sul palco dell'Ariston. Voleva andarsene sì, non è soltanto una sensazione. Se non ha troncato sul nascere la "copertina" del Festival di Sanremo è stato soltanto per l'intervento di Fabio Fazio, il "paciere", il democristiano del piccolo schermo che - bisogna ammetterlo - con perizia e sensibilità è riuscito a mantenere il controllo della situazione. I fischi, i "buu", i "basta con la politica", il "pirla" avevano mandato in tilt Crozza. Era evidente, era sotto gli occhi di tutti, almeno di quella mezza Italia che lo ha guardato. Era in diretta su Rai1. Secondo i rumors trapelati dai camerini dell'Ariston, Crozza dopo la performance contestata è apparso avvilito, triste, provato. Non se lo aspettava. Immaginava che il pubblico aspettasse prima di applaudire o fischiare il suo monologo. Crozza attacca sempre tutti, destra, sinistra e centro. Ma nel Festival più politico degli ultimi anni, in un Sanremo da record per il numero di polemiche preventive, quell'apertura del comico ligure con l'imitazione di un Cavaliere spregiudicato e che afferma "voglio rovinare il Paese" è stata un pugno nello stomaco. Un colpo di spada, non di fioretto. Sì, è vero, poi sarebbero arrivate anche le imitazioni necessarie per riequilibrare la par-condicio. Sì, è vero, tutti lo sapevano e lo immaginavano. Ma è altrettanto vero che, considerando le premesse, Crozza non poteva non attendersi il dissenso. E il dissenso, puntuale e superiore alle attese, è arrivato. Crozza voleva troncare la performance. Se Fazio non l'avesse fermato se ne sarebbe andato. Il buon Fazio, tra abbracci e pacche sulle spalle, al termine del monologo ha cercato di sminuire il tutto: "Si tratta sempre di quelle due, tre persone". Peccato che i contestatori incalliti - presenti anche con Celentano lo scorso anno - secondo chi era in platea erano molti di più. Un gruppo di venti persone che la politica al Festiva di Sanremo (costo del biglietto in platea: 168 euro, ndr) non la vuole davvero. I contestatori sono stati allontanati dalle forze dell'ordine. Troppo? Probabilmente sì, ma questo è un altro discorso. Il punto è il crollo di Crozza. In tilt sul palco, balbettante nelle repliche al pubblico, scosso dai tic, poi livido e sconsolato nei camerini. Dopo la contestazione, la sua esibizione ha deluso le attese: le imitazioni, di solito vicine all'eccellenza, erano fuori giri, le voci imprecise, i tempi sbagliati. La faccia del comico diceva tutto. Da chi pur legittimamente vuole sfidare la politica in campagna elettorale, da chi vuole farlo in diretta su Rai1 e rivolgendosi al teatro dell'Ariston, ci si aspetta di più. Un comico, un animale da palco, non può non reggere la contestazione. Non può perdere la saliva, pensare di andarsene e steccare i personaggi. Martedì sera, sul palco dell'Ariston, abbiamo assistito al crollo di Crozza.

Si chiama Letterio Munafò, da 40 anni è presidente degli agenti della Carige Assicurazioni, nonché vicepresidente del Lecce Calcio, scrive “Blitz Quotidiano”. Martedì sera era in platea all’Ariston insieme alla moglie e a una coppia di amici per assistere alla prima serata del Festival di Sanremo ed è sua la voce che si è udita in sala quando Maurizio Crozza, vestendo i panni di Silvio Berlusconi, ha intonato Formidable, testi e musiche di Bonaiuti, Verdini, Cosentino e Aznavour. E’ lui uno dei contestatori che ha gridato: “No politica a Sanremo!”. Ed è sempre lui ad ammetterlo ai microfoni dell’Ansa mentre passeggia con sua moglie lungo corso Matteotti, a pochi metri dal teatro Ariston: ‘‘Non eravamo solo in due a contestare – dice – c’era tanta altra gente insieme a me”. Poi precisa: ”Io non sono un contestatore, sono una persona venuta a vedere il festival della canzone italiana e invece mi sono trovato per tre quarti d’ora a sentire il signor Crozza a parlare di questioni politiche. In questo momento – aggiunge – non ne abbiamo bisogno, le cose stanno andando in un modo disastroso dal punto di vista politico ed economico”. E quando i cornisti gli chiedono se quella di ieri sera fosse una contestazione organizzata, risponde: ”Io organizzato? Io sono venuto con mia moglie, un amico e sua moglie. Fate presente al presidente della Rai che non c’era nessuna organizzazione – replica – Si informino chi è Letterio Munafò, d’altro canto io ho dato i miei documenti”, chiosa l’assicuratore che ha acquistato i biglietti per assistere a tutte le serate del festival. ”Non sono stato accompagnato fuori, sono rimasto seduto – racconta – Si è presentato un signore della Polizia e ho consegnato un documento, perché è giusto così. Poi informatevi su chi sono e cosa faccio”. E informandocisi, si scopre che Munafò, 65 anni, esponente di primo piano nel ramo assicurativo e finanziario, ex presidente del FC Canazza Legnano, già eletto nel 2007 alla carica di consigliere comunale a Legnano, era candidato alle amministrative 2012 nella lista del Popolo delle Libertà. Di recente è approdato alla vicepresidenza del Lecce Calcio. Il suo messaggio è chiaro: “Basta politica al festival, perché la gente si è stancata. La gente viene al festival per vedere la canzone italiana e assistere a uno spettacolo, che deve essere al di sopra di tutte le parti”.

Con 168 euro si può assaporare il piacere di «mandare all'aria» il palinsesto del festival di Sanremo, scrive Nino Luca su “Il Corriere della Sera”. Tanto è costato il posto della «rossa» poltrona a Letterio Munafò. Lillo (per gli amici) ammette di aver già comprato il biglietto per sé e per la sua gentile consorte anche per le serate di mercoledì, giovedì, venerdì e sabato. Insomma lui a Sanremo ci sarà tutte le sere, «ospite fisso». Fabio Fazio è avvertito. A maggior ragione adesso che le forze dell'ordine lo hanno già identificato, subito dopo aver contestato Maurizio Crozza che imitava Berlusconi. «For me, formidable» di Charles Aznavour interpretato dal Berlusconi-Crozza gli ha fatto perdere le staffe: «Vai a casa», gli ha urlato dal mezzo della sala. E si è scatenato il putiferio. Nato a Lecce da genitori siciliani, vicepresidente del Lecce calcio, presidente degli agenti italiani delle assicurazioni, Lillo Munafò, 65 anni, appare fiero su internet in una foto che lo ritrae con il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Già, perché è stato anche consigliere pidiellino a Legnano. Il suo programma politico? In tre punti: al primo posto la famiglia. Al secondo la sicurezza e poi lo sport. Programma che non è bastato nel 2012 a farlo rieleggere.

Signor Lillo cosa è successo con Crozza?

«Il discorso di Crozza è stato violento. Se avesse iniziato criticando gli altri avrei fatto la stessa cosa. Si poteva chiamare Crozza o con un altro nome, io ero andato a Sanremo per la canzone italiana e invece mi sono ritrovato a "Tribuna politica". Volevo essere trattato da italiano e invece sono stato trattato come un rappresentante del popolo più stupido del mondo. E invece siamo i più intelligenti. Ora Crozza rimane un bravo comico, anzi bravissimo ma è troppo politicizzato».

Ma non lo ha contestato quando imitava Bersani...

«Il discorso (la gag, ndr) che lui ha presentato si sapeva già dai giornali, Fazio e la Littizzetto lo sapevano... Quindi io ho fischiato l'intervento politico. L'avrei fatto anche se avesse iniziato con Bersani. Invece è partito con Berlusconi e quella canzone per dieci minuti. Quindi gli abbiamo urlato "basta". Poi mi hanno chiesto i documenti e dopo ancora sono tornato al mio posto. Fino a quando non ho deciso, io, di andarmene».

Lei è stato consigliere al comune di Legnano, eletto nelle file del Pdl?

«Sì, lo sono stato e con questo? Non fatene un discorso politico. Sono stato anche assessore con i socialisti se è per questo ma ora ho chiuso con la politica. A Sanremo hanno portato l'Armata rossa, i due presentatori sappiamo da dove arrivano... mancava solo la falce e il martello. Con le elezioni tra dieci giorni, lei pensa che sia stata una cosa giusta? Lo scriva: io non sono un contestatore. Lo dica al presidente della Rai».

È vero che la sua più grande rabbia è la mancata elezione nel 2012?

«Ma sta scherzando? Lei sta dicendo delle stupidate nel vero senso della parola. Io ho fatto politica per fare del bene altrui. Davo lo mio stipendio ai poveri. Pagavo tasse e tutto il resto».

La polizia ha identificato altre due persone, sono sue amiche?

«Assolutamente no, eravamo una cinquantina a protestare. Ed io ero solo con mia moglie».

...che ha detto che il suo è stato un bis: lo scorso anno lei ha contestato anche Celentano.

«Io non ho contestato nessuno. Dico solo che il Festival di Sanremo è il festival della canzone».

Fazio dopo la pubblicità ha detto «già li conosciamo». Si riferiva proprio ai suoi fischi al Molleggiato?

«No, con Fazio ci siamo conosciuti a Courmayeur a sciare. Lui era ospite di Carlo Conti a Capodanno. Ci siamo anche salutati».

Guardi che sua moglie ha confermato ai giornali locali che con Celentano lei contestava.

«Mia moglie è qui accanto a me e non ha confermato niente».

In sala all'Ariston si è sentito di tutto: «Vai a casa, sei ridicolo». Addirittura un «pirla», è stato lei?

«Eh, ma sa... le voci erano tante. Eravamo in cinquanta a contestare. Io gli ho solo detto di andarsene via».

Cosa pensa di Berlusconi?

«Cosa penso? Penso che sia un candidato come gli altri. E di tutto il resto mi interessa poco perché voi volete strumentalizzarmi. Vi conosco, non dico altro».

Quanto le è costato il biglietto di Sanremo?

«È costato 168 euro. Li ho presi per me e per mia moglie, fino alla serata di sabato. Perché me lo chiede?»

Per capire se tornerà a teatro... Quindi promette di non fischiare più?

«Non farò più nulla perché io nella vita... vengo da una famiglia di grande umiltà, mio padre era operaio, mio figlio è l'avvocato numero uno per quanto riguarda la sanità, l'altro è imprenditore insieme a me. Quindi ho una bella famiglia, non perfetta ma bella. E io farei una contestazione organizzata? Si informino prima di parlare, tipo il presidente della Rai, di chi è il signor Munafò!»

Ma Sanremo a quale sinistra appartiene? Sanremo e la canea antisemita dei comunisti italiani. Il coordinatore Esteri Pdci invita a boicottare il Festival. Il motivo? La presenza all'Ariston di due artisti israeliani: una top-model (pacifista) e un cantante pop, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Niente israeliani, niente ebrei a Sanremo! Boicottiamo Israele. È in sintesi l’appello dei Comunisti italiani che appoggiano Ingroia. Indecenza. Ignoranza. Intolleranza. Quante altre parole possono venire in mente leggendo la nota del partito dell’ex ministro della Giustizia (!) Oliviero Diliberto, co-fondatore con Ingroia, De Magistris e Di Pietro della Lista Rivoluzione Civile che a questo punto meriterebbe di esser chiamata Rivoluzione Incivile. Che vergogna dare copertura a chi protesta per la partecipazione (reale o presunta) a Sanremo di uomini e donne di spettacolo, e artisti di calibro mondiale, che hanno l’unica “pecca” di essere israeliani. Anzi, ebrei. Maurizio Musolino, coordinatore Esteri e membro della Direzione del Pdci, scrive infatti che “ancora una volta il carrozzone del Festival di Sanremo diventa vetrina privilegiata per Israele”, Fabio Fazio “ha pensato bene di far fare alla modella israeliana Bar Refaeli il contro altare alla simpatica e brava Littizzetto… ma non paghi di ciò a metà serata sale sul palco dell’Ariston Asaf Avidal, cantante sempre israeliano, figlio di diplomatici… Una canzone, piccolo bis e via il gioco è fatto, tanto più che sembra che nelle prossime serate si esibirà anche l’ottimo direttore d’orchestra Daniel Barenboim”. Ora, qual è il problema? Musolino riconosce che Bar Refaeli è stata anche criticata in patria per un tweet pacifista di equidistanza tra Israele e Gaza nel pieno della guerra. E proprio questa sarebbe la furba operazione pro-Israele: la presenza della controversa modella (l’unica cosa sulla quale tutti concordano è la sua bellezza) “serve ad avvalorare una presunta pluralità e l’idea di un Paese democratico dove tutto e tutti sono ammessi”, e quindi “negli occhi e nella mente dei dieci milioni di italiani che seguiranno il Festival resterà l’idea di Israele come stato ‘normale’”. Seguono le solite accuse a Israele per crimini, apartheid, angherie. Il Pdci invoca la par condicio e rilancia la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani. E adesso ditemi se questo non è antisemitismo. Musolino omette (o non sa) che Barenboim ha infranto il blocco israeliano a Gaza tenendo un concerto nella Striscia su invito delle Ong palestinesi e dell’Onu, e ha pubblicamente dichiarato, fra l’altro: “Il mondo intero deve accettare la creazione di una Palestina indipendente, penso che il blocco sia un enorme sbaglio”. La popolazione di Gaza “chiede una migliore qualità della vita, e se tu glielo impedisci diventano automaticamente nemici. Mi ha colpito che, nonostante tutto, siano riusciti a costruire 12 università in un territorio così piccolo”. Barenboim parla di “occupazione israeliana”. Ma allora, se questo grande direttore d’orchestra e divulgatore di musica, e la splendida Refaeli, vengono invitati a San Remo, l’obiezione non può essere politica. Risiede esclusivamente nel loro essere israeliani e ebrei, in quanto tali da boicottare (anzi, a maggior ragione se di larghe vedute e quindi capaci di generare ammirazione per il coraggio delle loro posizioni). Qui risiede il virus dell’antisemitismo. Un orrore, un obbrobrio, che va denunciato. E complimenti per la bella compagnia di magistrati militanti e moralisti che tollerano l’intollerabile.

NON SONO TUTTI ...SANREMO.

La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica. I cantautori e i primi anni Novanta nel libro di Stefano Savella «Povera patria» (Arcana) - RadioLibri.it - speaker Gianluca Testani, producer Marta Milione - CorriereTv 9 febbraio 2017. «La primavera intanto tarda ad arrivare», così cantava Franco Battiato in Povera patria nel 1991. Il brano dà il titolo al libro di Stefano Savella edito da Arcana che nel sottotitolo recita «La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica» (pagine 240, e 17,50), che analizza l’incidenza della politica, e del malaffare, nell’ispirazione dei cantautori. Finite le «notti magiche» di Italia 90, il nostro Paese nel 1991 entrata in una nuova stagione. La situazione politico e istituzionale, le inchieste della magistratura e gli attentati di mafia incendiano il clima nell’opinione pubblica. Il mondo della musica non resta a guardare: cantautori, gruppi rock e giovani promesse si schierano contro la corruzione e il malgoverno, e i loro brani diventano la colonna sonora dell’ondata di sdegno popolare. Povera patria di Stefano Savella è al centro della nuova puntata della web radio letteraria RadioLibri.it, qui in anteprima per «la Lettura», che ripercorre i brani analizzati nel libro: dall’Andreotti di Francesco Baccini, a Ti amo Ciarrapico di Elio e le Storie Teste, fino a Millennio di Eugenio Finardi. E ancora Adelante adelante di Francesco De Gregori e «la fine della baldoria» cantata da Francesco Guccini in Nostra signora dell’ipocrisia. E poi Bennato, Litfiba, Modena City Ramblers e infine Pierangelo Bertoli ed Enzo Jannacci sul palco del Festival di Sanremo.

POVERA PATRIA. Stefano Savella. La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica. Arcana edizioni - pp. 240 - 17,50 euro. Italia, 1991. Le «notti magiche» sono finite da un pezzo, e il paese attende l’inizio di una nuova stagione, di una primavera che, come canta Franco Battiato, «tarda ad arrivare». Il caos politico e istituzionale, le inchieste della magistratura e gli attentati di mafia incendiano il clima nell’opinione pubblica, e in tanti si preparano a raccogliere il testimone della protesta che monta nella società civile. Il mondo della musica non resta a guardare. Cantautori affermati, gruppi rock e giovani promesse si schierano contro la corruzione e il malgoverno; e i loro brani diventano la colonna sonora dell’ondata di sdegno popolare contro la politica. I palazzi romani, la Tangentopoli milanese, le autobombe di Palermo entrano di prepotenza nei concerti, nelle kermesse di partito, al Festival di Sanremo. Sono canzoni che parlano di ladri e connivenze, di manette ed esplosioni. Qualcuna avrà successo, altre verranno presto dimenticate, talvolta anzi rinnegate. E oggi, in qualche caso, riadattate: la Prima Repubblica è morta, ma la Seconda non sta poi tanto meglio. Un lavoro di eccezionale profondità analizza la coscienza sociale della canzone(tta) italiana. 

Stefano Savella. Nato nel 1982, è redattore editoriale freelance, pubblicista e blogger. Si occupa di questioni politiche europee su Votofinish.eu ed è direttore della rivista web «PugliaLibre. Libri a km zero». Suoi articoli sono apparsi su «Lo Straniero» e «Nazione Indiana». Nel 2013 ha pubblicato il suo primo libro, Soffri ma sogni. Le disfide di Pietro Mennea da Barletta (Stilo Editrice).

Festival di Sanremo, le dieci (e più) «canzoni sociali» sul palco dell'Ariston. Sanremo è il palco della canzone italiana dove hanno trovato spazio anche temi sociali: da «Ragazze madri» di Dalla nel 1971 che ripete in «Si può dare di più» in trio con Tozzi e Ruggeri, da «Blu» di Irene Fornaciari a Simone Cristicchi con «Ti regalerò una rosa». Eccole, scrive Silvia Morosi il 5 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera".

Sogni e ferite del Paese. Gridare, anzi, cantare il proprio dissenso. L’Ariston non è stato solo il palcoscenico della bella canzone italiana, ma anche il luogo dove, dalla prima edizione del 1951, hanno trovato spazio tra rime, ritornelli e musica i sogni e le ferite del Paese. L’amore è stato di gran lunga il tema-bandiera della kermesse, ma non sono mancati accenni a problemi più attuali del momento: se in «Vola colomba», vincitrice nel 1952, Nilla Pizzi ricordava con un tono gentile — dopo gli eccessi nazionalisti del fascismo — i problemi di Trieste, contesa in quegli anni da Italia e Jugoslavia, Adriano Celentano denunciò le disastrose speculazioni edilizie degli anni Sessanta ne «Il ragazzo della via Gluck». E, in anni più recenti, l’attenzione è passata a temi come droga, aborto, immigrazione, mafia, pena di morte, senza tralasciare malattia mentale e bullismo. Quello che era nato come un evento di pura evasione, si è presto trasformato in un fenomeno di costume che ha accompagnato l’evoluzione di un Paese in costante cambiamento. Facendo riflettere e anche, qualche volta, creando scandalo tra il pubblico.

Disagio mentale…Mi chiamo Antonio e sto sul tetto. Cara Margherita sono vent’anni che ti aspetto. I matti siamo noi quando nessuno ci capisce. Quando pure il tuo migliore amico ti tradisce. Ti lascio questa lettera, adesso devo andare...Simone Cristicchi, «Ti regalerò una rosa» (2007)

Aborto…Per lui poi comprerò sacchetti di pop corn, potrà spargerli in macchina. Per lui non fumerò, a quattro zampe andrò. E lo aiuterò a crescere. Lui vive in te, si muove in te. Con mani cucciole è in te, respira in te. Gioca e non sa che tu vuoi buttarlo via...Nek, «In Te» (1993)

Criminalità... Minchia signor tenente lo so che parlo col comandante Ma quanto tempo dovrà passare. Che a star seduto su una volante la voce in radio ci fa tremare. Che di coraggio ne abbiamo tanto. Ma qui diventa sempre più dura quanto ci tocca fare i conti con il coraggio della paura...Giorgio Faletti, «Minchia signor tenente» (1994)

Violenza...Ricordo quegli occhi pieni di vita e il tuo sorriso ferito dai pugni in faccia. Ricordo la notte con poche luci, ma almeno là fuori non c’erano i lupi. Ricordo il primo giorno di scuola, 29 bambini e la maestra Margherita: tutti mi chiedevano in coro come mai avessi un occhio nero...Ermal Meta, «Vietato Morire» (2017)

Migranti...Dimmi dove si nasconde la promessa dignità Questo cielo non risponde, io anche da qua vedo barche sassi e stelle... C’è un bambino sulla spiaggia lasciato dal blu e una donna in riva al mare, mentre il sole va giù, che con la mano saluta i sogni che passano...Irene Fornaciari, «Blu» (2016)

Pena di morte...Il mondo non passa da qui... C’è lo stesso cielo che domani avrà una croce e un gesto di pietà. Io sono qui e la mia anima non è solo un numero appoggiato su di me: è una luce bianca andata dove sa, tra le stelle e un gesto di pietà, oltre il cielo dove c’è pietà...Enrico Ruggeri e Andrea Mirò «Nessuno tocchi Caino» (2003)

Solidarietà... Perché la guerra la carestia non sono scene viste in tv e non puoi dire lascia che sia perché ne avresti un po’ colpa anche tu. Si può dare di più perché è dentro di noi si può dare di più senza essere eroi. Come fare non so non lo sai neanche tu ma di certo si può...dare di più...G. Morandi, E. Ruggeri, U. Tozzi «Si può dare di più» (1987)

Droga... Con questi occhi un po’ fanciulli e un po’ marinai per una dose di veleno che poi dentro di te non basta mai. Con le tue mani da violino, perché lo fai tu che sei rosa di giardino dentro di me come un gattino sopra un tetto di guai dimmi perché, perché lo fai...Marco Masini «Perché lo fai» (1991)

Droga...Per Elisa vuoi vedere che perderai anche me 

Per Elisa non sai più distinguere che giorno è e poi, 

non è nemmeno bella 

Per Elisa paghi sempre tu e non ti lamenti

per lei ti metti in coda per le spese 

e il guaio è che non te ne accorgi 

Con Elisa guardi le vetrine 

e non ti stanchi lei ti lascia e ti riprende come 

e quando vuole lei riesce solo a farti male 

Vivere vivere vivere non è più vivere 

lei ti ha plagiato, ti ha preso anche la dignità 

Fingere fingere fingere 

non sai più fingere senza di lei, 

senza di lei ti manca l’aria 

Senza Elisa, non esci neanche a prendere il giornale 

con me riesci solo a dire due parole ma noi, 

un tempo ci amavamo 

Alice, «Per Elisa» (1981) Musica di Franco Battiato, Giusto Pio e della stessa Alice

Mafia... Ci sono stati uomini che hanno scritto pagine, appunti di una vita dal valore inestimabile. Insostituibili perché hanno denunciato il più corrotto dei sistemi troppo spesso ignorato. Uomini o angeli mandati sulla terra per combattere una guerra di faide e di famiglie...Fabrizio Moro «Pensa» (2007)

Ragazze madri...Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare, parlava un’altra lingua però sapeva amare. E quel giorno lui prese mia madre sopra un bel prato, l’ora più dolce prima di essere ammazzato. Così lei restò sola nella stanza, la stanza sul porto, con l’unico vestito ogni giorno più corto....Lucio Dalla, «4 marzo 1943», «Gesù bambino» (1971)

Abusivismo...Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi; tanta voglia di ricominciare abusiva. Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate; il visagista delle dive è truccatissimo. Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto: Italia si' Italia no Italia bum, la strage impunita. Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita. Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè: c'e' un commando che ci aspetta per assassinarci un po'. Commando sì commando no, commando omicida. Commando pam commando papapapapam, ma se c'è la partita...Elio e Le Storie Tese, «La terra dei cachi» (1996)

Emigrazione...Quando Martin vedete solo per la città, forse voi penserete dove girando và. Solo, senza una meta… Solo… ma c’è un perché: Aveva una casetta piccolina in Canadà, con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà, e tutte le ragazze che passavano di là dicevano: «Che bella la casetta in Canadà!»...Gino Latilla, «Casetta in Canadà» (1957)

Salari e operai...«Chi non lavora non fa l’amor!»

Questo mi ha detto ieri mia moglie! 

«Chi non lavora non fa l’amore!»

Questo mi ha detto ieri mia moglie! 

A casa stanco, ieri ritornai, mi son seduto … niente c’era in tavola. 

Arrabbiata lei mi grida che ho scioperato due giorni su tre… 

Coi soldi che le do non ce la fa più e ha deciso che, lei fa lo sciopero contro di me! Chi non lavora non fa l’amore! Questo mi ha detto ieri mia moglie! 

Allora andai a lavorare mentre eran tutti a scioperare! 

Adriano Celentano e Claudia Mori, «Chi non lavora non fa l'amore» (1970)

Italia Unita...Dio del ciel, se fossi una colomba, vorrei volar laggiù, dov’è il mio amor che, inginocchiata, a San Giusto prega con l’animo mesto: “Fa che il mio amore torni…ma torni presto!…” Vola colomba bianca vola…diglielo tu che tornerò… dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!… Fummo felici, uniti…e ci han divisi… Ci sorrideva il sole, il cielo e il mar, noi lasciavamo il cantiere, lieti del nostro lavoro, e il campanon… din… don… ci faceva il coro. Vola colomba bianca vola… diglielo tu che tornerò… dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!… Tutte le sere m’addormento triste e, nei miei sogni, piango e invoco te… pur el mi “vecio” ti sogna, pensa alle pene sofferte… piange e nasconde il viso tra le coperte… Vola colomba bianca vola…diglielo tu che tornerò… dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!… Dio del ciel!…diglielo tu!…Nilla Pizzi, «Vola colomba» (1952)

Ambiente...Se un giorno un’altra vita arriverà 

Mi sono già promessa di non viverla in città e quindi 

Di ogni giorno prendo il buono 

Tanto a cosa serve a un uomo 

Svegliarsi e dire che oggi non andrà 

È troppo presuntuosa la previsione di una verità...Arisa, «Guardando il cielo» (2016)

La devastazione del territorio...Questa è la storia 

Di uno di noi

Anche lui nato per caso in via Gluck 

In una casa, fuori città 

Gente tranquilla, che lavorava 

Là dove c'era l'erba ora c'è 

Una città E quella casa 

In mezzo al verde ormai 

Dove sarà 

Questo ragazzo della via Gluck 

Si divertiva a giocare con me 

Ma un giorno disse 

Vado in città 

E lo diceva mentre piangeva

Io gli domando amico 

Non sei contento 

Vai finalmente a stare in città 

Là troverai le cose che non hai avuto qui 

Potrai lavarti in casa senza andar 

Giù nel cortile...Adriano Celentano, «Il ragazzo della via Gluck» (1966)

Per chi suona la campana del Festival di Sanremo? La retrotopia di un’élite di successo, scrive il 12/02/2018 Michele Mezza su huffingtonpost.it. Sarebbe interessante controllare in dettaglio i dati di ascolto, e gradimento, della serata finale del Festival di Sanremo a Macerata, dove nella stessa giornata era programmata la contestata manifestazione contro il fascismo e il razzismo, o a Frattamaggiore, in provincia di Napoli, dove un gioiellerie ha ucciso un rapinatore. In generale gli indici mostrano un seguito plebiscitario, con punte che sono arrivate sabato sera al 63%, proprio attorno al monologo di Favino sull'immigrazione. Ma nonostante queste cifre non possiamo sfuggire a una sensazione di disagio e di freddezza. Più il festival modulava questo suo messaggio di tolleranza e d'inclusione, distribuito da Fiorello alla Mannoia, al duo Meta-Moro che hanno vinto la gara, a Barbarossa, con un uniformità d'ispirazione che vanta pochi precedenti in uno spettacolo così nazional-popolare, come avrebbe detto Pippo Baudo, e più mi sembra di notare una certa difficoltà a dare ragione di questa ispirazione unitaria. La sensazione è quella di un Festival contropelo, che si è mosso in maniera separata e distonica rispetto all'opinione pubblica. Talmente separata e distonica che ha dovuto rintracciare nella propria memoria, in un ossessivo richiamo al passato, nella ricerca delle radici dei grandi personaggi invitati, la contestualizzazione di questa scelta. Zygmunt Bauman nel suo ultimo saggio, pubblicato postumo, parla di retrotopia, come di una singolare forma di "speranza del passato" in cui un ceto intellettuale si rifugia per sfuggire all'ostilità del presente. Ancora meglio, il grande sociologo scomparso recentemente definisce la nostalgia come "una storia d'amore con il passato". Ed è quanto ho visto andare in scena a Sanremo. In maniera curiosamente uniforme. Nemmeno in stagioni dove la pressione culturale era fortemente segnata da un senso comune riformatore e progressista, Sanremo si era mostrato così compatto nell'identificarsi con un indirizzo chiaro ed evidente. Ricordiamo ancora lo stridente silenzio che accolse inizialmente Celentano con il suo brano controcorrente "Chi non lavora non fa l'amore" nel pieno dell'autunno caldo che arroventava le fabbriche italiane. Fiorello, Gino Paoli, Sting, James Taylor, Stefania Sandrelli, Virginia Raffaelli, Roberto Vecchioni: la sequenza degli ospiti, tutti perfettamente coerenti e funzionali con la sceneggiatura emotiva, era identificabile con un unico fil rouge: una storia d'amore con il passato. Una forte e languida nostalgia di un mondo e di una cultura che oggi appare del tutto desueta: la dolce e scanzonata ansia di progresso e di buonismo che caratterizza i ricordi degli anni '60 e '70. Forse inconsciamente una figura come Baglioni, che non si è mai segnalato come un testimonial dell'impegno culturale e della propensione a sinistra, si è scoperto impresario di questa storia d'amore con il passato, quasi fosse rimasto accerchiato dal sortilegio di un numero ancora troppo evocativo come quello del 68° festival della canzone italiana, a 50 anni esatti dal '68. Il manifesto ideologico è stato proprio il monologo di Favino, un lancinante brano tratto dall'opera teatrale "La notte poco prima della foresta" del drammaturgo Bernard-Marie Koltès che parla dell'esclusione di migranti e stranieri. Una pagina davvero di alta qualità emotiva, e d'impareggiabile interpretazione da parte di un attore che non poteva certo dissimulare la sua limpida adesione a quel messaggio di cruda denuncia della ferocia che si consuma contro chiunque si trovi a essere colpito mentre fugge al suo destino di disperazione.

Ma quanta Italia era in quelle vibranti parole? Davvero in quei momenti il festival ha parlato al Paese?

Nel momento in cui la tv generalista, il servizio pubblico, celebrava una delle sempre più rare occasioni di ricomposizione dell'immaginario nazionale, in cui più di metà degli spettatori erano sulla stessa piazze virtuale, e stavano creando le premesse di un unico gigantesco social tele network, unificando i mille frammenti della personalizzazione televisivo, che oggi crea infinite nicchie di autoidentificazione, si avvertiva l'attrito fra elite e popolo. Da una parte, sul palcoscenico e in platea, un ceto di successo, transnazionale, che vive la propria cultura progressista come uno status, come un cult, dall'altra parte una agorà nazionale di milioni di inquilini di un condominio sociale disorientato e sgomento, che si rifugia nella paura rancorosa per avere un ruolo. In mezzo canzoni e battute che rimangono sospese, vaganti, senza presa, su un seguito che rimane a guardare. Contemporaneamente l'Italia di Macerata, perplessa e disagiata, o di Frattamaggiore, impaurita e astiosa, non appaiono consenzienti, sintonizzate, compatite. Sanremo è stata, inconsapevolmente, la metafora della sinistra, o meglio della politica italiana, che non trova un popolo a cui parlare. La comparsa in sala di Salvini, che beffardamente si è accovacciato in sesta fila, osservando un modo che forse lo disprezza, sicuramente non considera esibibile in pubblico la sua vicinanza, è stato il segno di un rovesciamento delle funzioni. La tv non è più la macchina del consenso, e neanche il megafono del potere, ma, paradossalmente, il foyer di un vecchio teatro dove s'irrompe per annunciare che la festa è da un'altra parte. Singolare che non vi siano state polemiche, che nessuno abbia neanche denunciato messaggi elettorali subliminali in favore del centrosinistra. Anzi, sembra che Salvini si sia sfregato le mani, a constatare come oggi "inclusione" sia parola d'ordine da borghesia della comunicazione, lontano da ogni base popolare. La sua presenza proprio sabato, l'ultima serata, in sesta fila, è sembrata quella di chi prende le misure della moquette prima di occupare l'ufficio. Il 5 marzo vedremo quanto lontani siano gli indici d'ascolto dai voti.

Guardare Sanremo mi è servito a capire la sinistra, scrive il 12 febbraio 2018 Francescomaria Tedesco, Filosofo del diritto e della politica, su "Il Fatto Quotidiano". Essere di sinistra significa illudersi che su certi temi ci sia un consenso universale e puntualmente scoprire di essere in minoranza. Tipo Diodato/Roy Paci tu pensi che vincano e arrivano ottavi. L’amara scoperta della minoranza diventa via via però consapevolezza, e a un certo punto persino accettazione e poi compiacimento. Fino al grado zero della minoranza: uno solo. Ma lì scatta l’accusa di tafazzismo. Forse non molti ricordano che Tafazzi non è solo colui che si dà da solo le bottigliate sui testicoli ma, dentro uno schema di comicità a tempi progressivamente ridotti, rappresenta di questa il momento archetipico, basico: dallo sketch ai pochi secondi di un Totò Merumeni che si flagella i cosiddetti. Naturalmente ci sono poi i temi scolastici di Meta e Moro. Ermal Meta l’anno scorso ha presentato una canzone contro la violenza verso le donne, quest’anno una sul terrorismo, l’anno prossimo concorrerà con una cosa sulla fame nel mondo? Il lato wild della coppia è Fabrizio Moro, che aveva dimostrato simpatie grilline e antipatie napolitane (nel senso che aveva inveito contro l’allora presidente della Repubblica a una kermesse dei Cinque Stelle). La canzone è bella ma un po’ scontata, per non dire che il titolo (e il ritornello) è una tipica preterizione: “Non mi avete fatto niente” lo dici solo quando in realtà ti hanno fatto davvero male e devi fare training autogeno. Il terrorismo ha colpito fortemente l’Europa e il suo immaginario, ha contribuito a rafforzare il senso di insicurezza (la cosiddetta, a ragione vituperata insicurezza ‘percepita’), e soprattutto ha rotto definitivamente la flebilissima diga che a sinistra impediva ancora di fare apertamente certe cose, come vantarsi di aver fermato gli sbarchi dimenticandosi di dire che ciò ha fatto sì che la gente muoia non in mare ma a terra, o che sia detenuta in condizioni disumane nei lager libici. “Non ci avete fatto niente”? Insomma. Se Minniti ha potuto fare quello che ha fatto, è anche perché ha potuto giustificarlo in nome della sicurezza e della difesa dal terrorismo e, versione inedita delle ragioni per erigere i nuovi muri della fortezza Europa, perché aveva previsto che l’immigrazione avrebbe esasperato gli animi e prodotto qualche Traini. “Era già tutto previsto/fino al punto che sapevo/che oggi tu mi avresti detto/quelle cose che mi dici/che non siamo più felici/che io sono troppo buono/che per te ci vuole un uomo”, cantava Cocciante. Un uomo vero, un ministro tutto d’un pezzo, uno che va a dire a politico.eu che lui, calabrese, ha trattato coi capi libici dicendogli che dalle sue parti i patti e gli affari si siglano con il sangue. E poi gli operai durante l’esibizione dei ragazzi di Sanremo Young. Da qualche tempo la forza lavoro si può solo mettere in scena, parodiare, perché – si dice – gli sfruttati non ci sono più, stanno tutti bene, e i partiti che hanno atterrato il lavoro intitolano le kermesse ‘officine’, ‘fabbriche’. Piena post-Storia, mentre là fuori la Storia infuria tragicamente e mio fratello è figlio unico“perché è convinto che esistono ancora/gli sfruttati malpagati e frustrati”. E così Lo Stato sociale diventa il nome di un gruppo. Divertenti, scanzonati, piacciono tanto ai post-operaisti. Sinisteritas come jouissance e desiderio, liberazione dal lavoro: “Per un mondo diverso/Libertà e tempo perso”. “Perché lo fai?” Già, perché? Sarà che mi diverto? Però poi va a finire che questo post-modernismo snobistico (molotov e salotti aristocratici, come racconta Toni Negri) finisce che rievoca di nuovo, ancora, la Storia, quella con la faccia truce, la peggiore Realpolitik, Gentiloni e la Merkel. Acheronta movebo. Il prossimo singolo dello Stato sociale si intitolerà “Ci salveranno i poteri forti”?

Sanremo, Iva Zanicchi: "Ospite? Devi essere di sinistra". Iva Zanicchi si sfoga ai microfoni di "Un giorno da pecora". Al centro dell'intervista su Radio Uno c'è il Festival di Sanremo. Ha il sogno di tornare all'Ariston, scrive Franco Grilli, Giovedì 01/02/2018, su "Il Giornale". Iva Zanicchi si sfoga ai microfoni di "Un giorno da pecora". Al centro dell'intervista su Radio Uno c'è il Festival di Sanremo. La cantante di fatto sa che non verrà chiamata come ospite e di fatto punta alla partecipazione alla kermesse del 2019. Ma nel suo intervento c'è un tono polemico proprio sul mancato invito come ospite all'Ariston: "No, ma che ospite, non ho questa presunzione. Per esser ospiti a Sanremo bisogna esser un po' di sinistra, io non lo sono e non sarò mai ospite. Vado come concorrente". La Zanicchi di fatto è sempre stata una protagonista della musica italiana e di certo ha il sogno di tornare ancora una volta a Sanremo. "Ho una canzone già pronta, bellissima. Se ci va la Vanoni...io sono nata a Sanremo, lì ho avuto dei grandi successi e sono riconoscente a questa manifestazione". Il suo ritorno potrebbe coincidere, come lei stessa ha affermato con i 50 anni di "Zingara" nel 2019. Infine sui giurati afferma: "La Maionchi mi diverte, Gigi D'Alessio è popolarissimo e poi Morgan: sicuramente ci litigherò". Poi su Morgan corregge il tiro: "Scherzo, mi piace, è un creativo, un poeta, mi piace molto".

Pierfrancesco Favino e Fabio Fazio, Franco Bechis: "Una nuova Norimberga contro i buonisti che hanno rovinato l'Italia", scrive il 13 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". "Credo non ci sia danno fatto a questo paese superiore a quello provocato dalla sfilza di testimonial politici e meno del politically correct", esordisce Franco Bechis in un commento su Il Tempo. Commento con il quale mette nel mirino Fabio Fazio e Pierfrancesco Favino, il secondo dopo il monologo al Festival di Sanremo sull'immigrazione. Si parte da Fazio, citato come capofila dell'esercito del politicamente corretto. Dunque si arriva all'attore: "Con questi slogan cuciti in fretta per presentarsi al meglio e dire la cosina giusta al mondo hanno fatto la loro fortuna showman (giustamente sabato sera si è esibito nel genere Pierfrancesco Favino a Sanremo)". Insomma, Favino secondo Bechis ora è iscritto di diritto al partito del "politically correct". Dunque, aggiunge: "Ci vorrebbe una sorta di nuovo processo di Norimberga per mettere alla sbarra i re dei politically correct giudicando a fondo il male che hanno fatto a questo Paese che senza eccessi sapere convivere civilmente con ogni suo male e ogni sua diversità fino a quando non sono arrivati loro". Processo di Norimberga al quale, tra gli imputati, figurerebbero Favino e Fazio (tra gli altri...).

A Sanremo vince la predica sugli immigrati. Il monologo di Favino oscura Baglioni e i cantanti E sulle Foibe solo due parole-contentino, scrive Carlo Antini l'11 Febbraio 2018 su Il Tempo”. A Sanremo vince il pistolotto politically correct sui migranti. Prima dell'ingresso della Mannoia, Favino oscura i cantanti in gara col suo monologo lacrimoso tratto da «La notte poco prima delle foreste». Poi per fingere equilibrio arrivano anche due parole -contentino sulla Giornata delle Foibe. Il Festival è finito solo da poche ore ma già si parla di Baglioni bis. Ognuno fa il suo. E arriva pure il super sponsor: Adriano Celentano. Il «Molleggiato» tira la volata: «Finalmente un Festival. I cantanti possono ritornare a non essere più i valletti dei grandi ospiti. Un'impresa non facile che solo a un "Passerotto" come te poteva riuscire. Oltre che un grande cantante, hai dimostrato di essere un grande organizzatore e direttore artistico. La Rai non potrà più fare a meno dite. Della tua bravura, del tuo gusto e della tua classe». Passerotto-Baglioni-Zed gongola ma vuole farsi corteggiare manco fosse la Hunziker. «Tutti mi fanno tanti complimenti ma il corteggiamento per il 2019 non è cominciato. E mi dispiace perché un po' di corte fa sempre piacere anche agli uomini». L' accoppiamento viene evocato nel secondo indizio disseminato dal direttore di Raiuno...

Stiamo tutti bene di Mirkoeilcane tratta un tema molto importante dal punto di vista sociale. Ecco l'esibizione nella gara delle Nuove Proposte, scrive il 7 febbraio 2018 Federica Cacio su optimaitalia.com. Selezionato durante gli scorsi mesi, Mirkoeilcane è riuscito a strappare un posto tra le Nuove Proposte del Festival nel corso dell’evento Sarà Sanremo, tenutosi lo scorso 15 dicembre in diretta su Rai 1. Eclettico già dal nome d’arte, Mirko Mancini porta sul palco dell’Ariston l’attualità italiana di cui abbiamo bisogno. Stiamo tutti bene è una canzone che tratta il tema dell’immigrazione via mare, in particolare dal punto di vista (il più ingenuo) di un bambino. Stiamo tutti bene, infatti, è il racconto di un viaggio via mare, dall’Africa fino al nostro Paese, visto con gli occhi ingenui di un bambino che si chiama Mario. Il brano è nato da una chiacchierata con un ragazzo che gli ha raccontato la sua storia ed il suo viaggio. Il tema trattato nella canzone è stato alleggerito e reso più orecchiabile agli ascoltatori, inserendo anche un pizzico di ironia. Il brano presentato da Mirkoeilcane è quindi tratto da una storia vera, di un bambino che “vede scorrere gli eventi davanti a sé ed evoca l’innocenza di uno sguardo”. Uno sguardo che, però, non ha gli strumenti né il passato necessari per capire, ma comincia a comprendere qual’è la cruda realtà che gli viene mostrata. Il brano di Mirkoeilcane a Sanremo 2018 non è passato certo inosservato: Stiamo tutti bene ha la grande capacità di smuovere gli animi e la riflessione del pubblico e della critica, e lodevole è la volontà di presentare una canzone così rischiosa, ma importante sul palco più illuminato d’Italia. Durante il Festival di Sanremo, Mirkoeilcane pubblicherà anche un album di inediti, dal titolo Secondo me. Il disco uscirà questo venerdì 9 febbraio, serata in cui verrà annunciato il vincitore della gara delle Nuove Proposte del Festival. Il progetto discografico di Mirkoeilcane conterrà undici brani, tra cui anche Stiamo tutti bene, e sarà disponibile nella versione fisica in tutti i negozi di dischi e nei digital store.

Sanremo da 10 ma scivola sugli immigrati. Proprio il 10 febbraio, finale del 68º Festival di Sanremo, si celebra il giorno del ricordo dell’esodo di altri profughi istriani, fiumani, dalmati, tutti italiani in fuga dalle violenze di Tito a guerra finita. Favino e Michelle Hunziker, per fortuna, lo hanno ricordato, anche se in pochi secondi, scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 12/02/2018, su "Il Giornale". Emozionante il monologo di Pierfrancesco Favino al Festival di Sanremo, che racconta con passione i sogni, la rabbia, le paure di un migrante. L’interpretazione con le lacrime agli occhi non può che toccarti il cuore. Soprattutto quando il testo del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltes parla del generale che spara nel mucchio in mezzo alla foresta. Dall’inferno di Sarajevo a quello di Mosul ho visto sparare veramente sui profughi, a donne e bambini con la bandiera bianca, che scappavano per salvarsi dalla guerra. Ma proprio il 10 febbraio, finale del 68º Festival di Sanremo, si celebra il giorno del ricordo dell’esodo di altri profughi istriani, fiumani, dalmati, tutti italiani in fuga dalle violenze di Tito a guerra finita. Favino e Michelle Hunziker, per fortuna, lo hanno ricordato, anche se in pochi secondi. «Oggi è il giorno per non dimenticare le migliaia di italiani vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra» ha detto l’attore sul palco dell’Ariston. «È doveroso il nostro ricordo» ha aggiunto Hunziker «perché questa pagina tragica del dopoguerra fa parte a pieno titolo della storia nazionale». Due frasi sentite, ma pur sempre due frasi di una manciata di secondi. Davanti ad oltre 12 milioni di italiani forse sarebbe stato giusto fare uno sforzo in più dedicando un monologo oppure una parte della lunga e toccante interpretazione di Favino ai profughi di ieri. Italiani, non stranieri, pure per non dimenticare quelli di oggi che scappano veramente dalle guerre. E non indistintamente tutti i migranti, compresi gli economici che sono la stragrande maggioranza, portati sul palco di Sanremo da canzoni in lizza e da ospiti che puntano a far passare la linea dei talebani dell’accoglienza. Quelli delle porte aperte a tutti in nome di un finto buonismo, che sfilano a Macerata contro il razzismo ed inneggiano alle foibe. Un ritornello aberrante di una minoranza di antagonisti si è detto, ma il «dittatore» artistico, Claudio Baglioni, avrebbe potuto spulciare sui social il 10 febbraio trovando uno scritto illuminante. «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. Non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane e spazio che sono già scarsi». Non sono frasi dei mangia migranti di oggi, ma le righe pubblicate dall’Unità nel 1946 nei confronti dei 350mila esuli italiani in fuga dalle foibe. Per almeno mezzo secolo questo dramma è stato volutamente dimenticato o addirittura nascosto. Oggi che se ne parla alzando i veli imposti per motivi politici c’è ancora chi inneggia alle foibe fra i talebani dell’accoglienza eredi dei comunisti che nel 1946 rifiutavano qualsiasi solidarietà ai profughi italiani. Possibile che con tutti i soldi a carico del contribuente che paga il canone, investiti per il Festival, a nessuno sia venuto in mente di dedicare qualcosa di più di due frasi al 10 febbraio? Un giusto riconoscimento dei martiri delle foibe, ancora oggi vilipesi, una «medaglia» per la 68ª edizione di Sanremo ed un doveroso ricordo, dopo decenni di dimenticanza, non solo dei migranti di oggi, ma dei profughi italiani di ieri.

Pierfrancesco Favino: "Il mio monologo a Sanremo non parlava di immigrati", scrive il 12 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Dopo il monologo dell'ultima serata al Festival di Sanremo su immigrazione e dintorni, Pierfrancesco Favino è stato accusato da più parti di aver in qualche modo fatto politica dal palco dell'Ariston, introducendo un tema delicatissimo in piena campagna elettorale. Nulla da eccepire sulla drammaticità e la bellezza dell'intervento, resta però il sospetto che, forse, quel monologo non fosse tra i più inattaccabili (tanto è vero che, in primis Maurizio Gasparri, lo hanno attaccato. Eccome). Favino, da par suo, si difende in un'intervista al Corriere della Sera. Quando gli chiedono se si è trattato di un testo politico, lui ha risposto: "Io non faccio politica, o meglio la faccio nella scelta delle cose che faccio. Ma sempre partendo dal presupposto che non sto sul piedistallo con le corna di alloro in testa per dare lezioni". Quando gli vengono fatte presente le lamentele di Matteo Salvini, Favino risponde: "In realtà quel testo non parla di migranti, ma di estraneità, del sentirsi straniero in un Paese". Qualche dubbio sul fatto che non parlasse di migranti, però, resta eccome...

Sanremo 2018, Salvini: “Un sacco di canzoni sugli immigrati. Magari il prossimo anno si ricorderanno dei terremotati”, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 febbraio 2018. “Ieri è finito Sanremo e ha vinto la coppia anti terrorismo Meta e Moro e c’erano un sacco di canzoni che parlavano degli immigrati che scappano, che arrivano, che fuggono. Magari l’anno prossimo ce ne sarà una che parla dei terremotati, che sono italiani e dimenticati”. Lo ha detto il segretario della Lega Matteo Salvini in un video messaggio postato su Facebook. Per Salvini “i terremotati fanno meno notizia e sono meno musicali probabilmente, ma ci sono decine e decine di italiani che dopo quasi due anni sono ancora senza casa, senza lavoro, senza niente, ma forse sono meno importanti. Meglio occuparsi di chi sbarca piuttosto che di chi è nato qui e combatte qui. Fa niente, viva Sanremo”, conclude.

Rossella Barattolo. Chi è la compagna di Claudio Baglioni? La grande sensibilità sul tema immigrazione. Chi è Rossella Barattolo, la compagna di Claudio Baglioni? Al Festival di Sanremo non è stata ancora vista, ma potrebbe mostrarsi in platea all'Ariston per la finale, scrive il 9 febbraio 2018 Anna Montesano su "Il Sussidiario". Rossella Barattolo sarà al Festival di Sanremo 2018 entro domani oppure no? I fans della donna e del compagno Claudio Baglioni se lo chiedono e in attesa di una risposta scopriamo meglio chi è l’amore del direttore artistico della sessantottesima edizione della kermesse canora. Come sottolinea Donna Glamour, Rossella Barattolo è una donna schiva e poco dedita ai riflettori delle star, come il compagno, ma sottotraccia svolge il suo importante ruolo nel sociale. Nel massimo riserbo, la donna si è sempre occupata da impegni lavorativi e sociali. Il suo cuore l’ha portata ad avere una grande sensibilità ai problemi di sbarchi e immigrazione. E da questo punto di vista fino al 2013 è stata presidentessa della Fondazione ‘Scià, una ONLUS con lo scopo di informare sul problema dell’immigrazione clandestina che afflige Lampedusa. (Agg. Massimo Balsamo)

Michelle Hunziker ha parlato dei suoi cari sul palcoscenico del Teatro Ariston del Festival di Sanremo 2018 chi invece è rimasto freddo e professionale è Claudio Baglioni. Nessuno ha visto la compagna del direttore artistico della kermesse della musica italiana, Rossella Barattolo. Nonostante tutti sanno che questi è davvero molto riservato per quanto riguarda la sua vita personale. I fan di Claudio Baglioni però si aspettano di vederlo prima della fine del Festival di Sanremo 2018 farle una dedica con una delle sue splendide canzoni. Difficile capire quello che vorrà fare Claudio Baglioni che nella sua carriera, nonostante i tanti testi d'amore, ha sempre dimostrato di voler dividere con attenzione quello che riguarda il mondo professionale, lasciando a casa la sua vita e i suoi affetti. Siccome però al Festival di Sanremo tutti provano grandi emozioni e le condividono con il pubblico non è da escludere che prima del termine dell'avventura anche lui si lasci andare. Il pubblico di certo se lo augura. (agg. di Matteo Fantozzi)

Rossella Barattolo è la compagna da anni di Claudio Baglioni. I due, oltre a dividere la vita privata, lavorano anche l’uno accanto all’altra. Dopo essere diventata la sua compagna di vita, infatti, Rossella Barattolo è anche la manager del direttore artistico del Festival di Sanremo 2018. La sua presenza nella città ligure, dunque, appare piuttosto scontata se non fosse che, finora, nessuno l’ha mai vista. Se nelle precedenti edizioni di Sanremo, la moglie di Carlo Conti è sempre stata presente al Teatro Ariston per tuta la durata del Festival, gli addetti ai lavori si sarebbero aspettati la stessa cosa anche dalla compagna di Baglioni. La Barattolo, però, sta mantenendo un basso profilo lasciando la scena al compagno, grande protagonista di Sanremo 2018. Rossella Barattolo, però, potrebbe palesarsi all’Ariston perla finalissima del 10 febbraio quando Claudio Baglioni si congederà da pubblico di Sanremo avendo portato a casa un grande successo (aggiornamento di Stella Dibenedetto).

Sappiamo che la compagna di Claudio Baglioni, Rossella Barattolo, è al Festival di Sanremo 2018 per sostenere il direttore artistico. I due però hanno dimostrato sempre di essere molto riservati, tanto che in queste prime due serate non l'abbiamo ancora vista in sala e non perché non ci sia. Mentre Michelle Hunziker ha baciato Tomaso Trussardi e abbiamo visto anche sua figlia Aurora, Claudio Baglioni ha deciso di lasciare la vita privata fuori dal lavoro. Sarà interessante capire se in queste altre tre serate del Festival di Sanremo 2018 ci sarà modo di vederla inquadrata o se il direttore artistico deciderà di dedicarle un momento emozionante e magari una canzone. Di certo però sappiamo come Claudio Baglioni sia in realtà un uomo molto romantico ma anche timido a prescindere dal lavoro che svolge ormai da anni. Supererà questo ostacolo oppure continuerà a fare il professionista come sempre fatto? (agg. di Matteo Fantozzi)

Claudio Baglioni è il grande protagonista di questo Festival di Sanremo 2018. Al suo fianco, pronta a supportarlo in tutte le sue avventure televisive e non, c'è la sua compagna, Rossella Barattolo. I riflettori si accendono inevitabilmente anche sulla donna che da tanti anni è al suo fianco (da ben 30), che in un'intervista si è descritta così: "Io sono un'estroversa estrema; mentre quando ho incontrato Claudio, lui era un libro chiuso; un introverso, nonostante la sua fama, quando si trattava della sua vita privata. Questo ci ha permesso, in modo naturale e inconscio, a costruire il nostro rapporto, ha bilanciato la nostra diversità diventando la nostra forza. (…)  Ho trovato in lui quell'uomo tranquillo, sereno e pieno di pace da difendere e proteggere".

Rossella Barattolo è la compagna di Claudio Baglioni, cantante impegnato in queste serate alla conduzione del Festival di Sanremo, scopriamo qualcosa di più riguardo la compagna. Nata a Taranto il 18 aprile 1958, ha trascorso l'infanzia all'estero, tra il Regno Unito e gli Usa, dove ha poi studiato marketing. La carriera è iniziata nel settore petrolifero, dove ricopre un ruolo manageriale in azienda. Rossella incontra Claudio Baglioni per la prima volta nel 1987, lui era reduce dalla rottura con la prima moglie Paola Massari, madre del figlio Giovanni, ufficializzata solamente con il divorzio del 2008. All'inizio degli anni '90 arriva la convivenza con la Barattolo che racconta: "Conviviamo dal 1994. Sarò la persona più felice del mondo quando sposerò Claudio". Un matrimonio mai avvenuto, tanto che molti fan pensano sia stato celebrato di nascosto.

La coppia non ha figli, questo il pensiero di Rossella sul fatto di non averli avuti: "Mi dispiace tanto che non abbiamo avuto figli insieme Non sono mai arrivati, per sfortuna. Abbiamo insistito ma, ad un certo punto, ho gettato la spugna, altrimenti saremmo finiti in un tunnel e avremmo vissuto la nostra relazione soltanto per questo". Tra i due c'è stata anche una crisi agli inizi degli anni 90' che portò alla separazione per sei mesi. In quel periodo Baglioni scrisse per lei una delle canzoni più popolari del cantante, Mille giorni di te e di me. La Barattolo racconta un aneddoto sul brano: "Quando ci siamo rimessi assieme, Claudio mi ha chiesto di ascoltare una canzone. Si chiamava Mille Giorni perché parlava dei nostri tre anni assieme. Nell'album Oltre, c'è ancora un'altra canzone che si chiama Signora delle ore scure, ed è la descrizione di come mi ha vissuta, come mi vedeva. È una poesia di grande bellezza".

Quando la sinistra odiava Baglioni, scrive Daniele Zaccaria il 6 Febbraio 2018, su "Il Dubbio". Dalla “maglietta fina” alla direzione artistica del festival di Sanremo. La luminosa carriera di un autore snobbato dalla critica, adorato dal grande pubblico e oggi celebrato da (quasi) tutti. Gli altri parlavano di rivoluzioni, di liberazioni, di pace e di locomotive, di giustizia e di libertà, e lui cantava soave «passerotto non andare via». Non ci mise molto a finire nella lista nera: vacuo, commerciale, inconsistente come una “maglietta fina”, quasi certamente di destra, magari anche fascista, di sicuro sospetto. Comunque impresentabile nelle consorterie della canzone d’autore: erano gli anni 70 e bastava poco per diventare un nemico del popolo. Non aveva la gravità di De André, l’istrionismo surreale di Dalla, l’impegno sociale di Guccini, ma neanche l’ermetismo poetizzante di De Gregori o la vena erudita di Battiato. Persino Battisti, con quall’aura nera da “cantante missino” e il suo individualismo anarchico suscitava più rispetto. Lui, Baglioni Claudio, classe ‘51 romano di Montesacro non aveva nulla di tutto questo, ma più di tutti gli altri ha incarnato il destino della canzone italiana, unendo almeno tre generazioni di fan. In oltre quarant’anni di carriera ha venduto milioni di dischi e non si è mai curato del malanimo degli altri, della critica snob; l’unica scornata con i suoi avversari è avvenuta fuori tempo massimo, nel 1988 quando viene fischiato al concerto di Torino per Amnesty International, ma fu una contestazione patetica, animata da reduci spaesati e residuali ( più triste e fuori tempo di loro solo Antonio Ricci, il creatore di Striscia la notizia che appena pochi giorni fa ha definito Baglioni «un cantante insopportabile, amato dai fascisti con il cervello intoppato dal botulino» ). Nel frattempo le sue melodie si erano già insinuate negli anfratti della memoria collettiva, cantate a squarciagola da orde di ragazzine sui pulman delle gite scolastiche, sputate dai juke box sulle spiagge, sussurrate dagli innamorati: E tu come stai, Sabato pomeriggio, Amore Bello, Lampada Osram e soprattutto Questo piccolo grande amore, il singolo più venduto nella storia della musica italiana e proclamato nel 1985 “canzone del secolo” proprio sul palco del festival di Sanremo, lo stesso che da stasera lo vedrà come gran cerimoniere. Con quella poetica da storie di vita quotidiana, fatta di avventure estive, di amori non corrisposti di muretti e motorini, Baglioni continuava a irritare i puristi, talmente accecati dal pregiudizio da non accorgersi che i testi del cantautore romano erano molto meno sciatti e banali di quanto loro andavano scrivendo con il pilota automatico. Il passaggio tra gli anni 70 e 80 intanto è trionfale, con la tournée Ale-oo porta centinaia di migliaia di giovani ai suoi concerti e con l’album La vita è adesso straccia tutti i record di vendite. Dopo quel successo, come spesso accade, arriva la crisi, creativa e personale, che lo porta a un silenzio di cinque anni. Baglioni è finito, Baglioni è depresso Baglioni non ha più niente da dire, giubilano i detrattori. E invece Baglioni ripresenta nel 1990 con Oltre, un album bellissimo, il migliore della sua carriera, con un suono internazionale e la partecipazione di artisti come Paco De Lucia, Didier Lockwood, Youssou N’Dour, Pino Daniele. Un disco che “suona benissimo” e spiazza la critica costretta rimangiarsi la bile con cui aveva celebrato il suo prematuro funerale artistico. Anche l’album successivo Io sono qui è un successo di pubblico e di critica. I tempi sono maturi perché Baglioni rompa il suo soffitto di cristallo. Ci pensa Fabio Fazio, che nel 1997 lo porta in Tv a condurre con lui Anima mia, la trasmissione cult di Rai3 che rivisita in chiave ironica la musica pop degli anni 70. Quel pubblico “di sinistra” che fino a qualche anno prima ne parlava facendo la fine bouche lo rivaluta improvvisamente, quei cenacoli che storcevano il naso ogni volta che le radio sbrodolavano le sue melodie ora scoprono uno splendido 45enne, colto, spiritoso, e, incredibile ma vero, anche progressista e sensibile ai diritti sociali e civili. Per loro dev’essere stato un vero cortocircuito sentirlo gorgheggiare El pueblo unido jamas sera vencido assieme agli Intillimani. Ma come, Baglioni non era di destra? No, non lo è mai stato. E chi lo conosce non si è certo stupito del concerto che nel 2006 ha tenuto a Lampedusa per sostenere l’accoglienza ai migranti per i quali ha scritto il brano Noi qui, evento che ha replicato più volte nel corso degli anni. Nell’ultima parte della sua produzione c’è stato un sobrio ritorno al classico con canzoni meno sperimentali e ritornelli più orecchiabili, lavori più che dignitosi con alcuni pezzi capaci ancora di lasciare il segno e arrangiamenti sempre di livello. La consacrazione del festival è in fondo l’approdo naturale di una carriera fantastica, trascorsa a pensare, scrivere e suonare canzoni, con lui Sanremo torna nel suo elemento naturale, la musica. Con buona pace di quello squadrista di Antonio Ricci.

11 febbraio 2017. Francesco Gabbani vince Sanremo. Gran rimonta di Francesco Gabbani, che sera dopo sera, risale la vetta fino al numero uno con la sua Occidentali's karma: è lui il vincitore del Sanremone di Conti e Maria. All'ultimo sorpassa Fiorella Mannoia (seconda) ed Ermal Meta (terzo). 

Sanremo, Gigi D'Alessio furioso: "Al Festival mi hanno usato". Gigi D'Alessio, in una lunga intervista a Chi, ha espresso tutto il suo disappunto in merito alla sua eliminazione dal Festival di Sanremo. "Come avrebbero potuto fare 11 milioni di spettatori senza di noi?" Scrive Anna Rossi, Martedì 14/02/2017, su "Il Giornale". "A Sanremo non è stato fatto fuori Gigi D'Alessio, è stata fatta fuori una categoria di cantanti. Qual è la motivazione, quella di far vincere i giovani? Va bene, allora noi serviamo da esca perché il programma senza di noi non li fa 11 milioni di telespettatori". Gigi D'Alessio si sfoga con il settimanale Chi e parla della sua esperienza al Festival di Sanremo. Dopo la sua eliminazione e quella di Al Bano è subito scoppiata la polemica. Il cantante napoletano non ha "digerito" le scelte della guria e a più riprese ha espresso il suo disappunto. "Fiorella Mannoia è partita già protetta perché, a quel punto, chi salvavi? - dice Gigi D'Alessio al settimanale Chi -. La giuria di qualità è normale che salvi la Mannoia perché fa figo. Fiorella è un’artista meravigliosa, ma è normale che se fra i giurati c’è Paolo Genovese, il regista di 'Perfetti sconosciuti' e la colonna sonora è di Fiorella Mannoia, vorrà dire che gli piacerà, no? Allora le cose che a 20 anni non capivi, a 50 le capisci e non è che posso ingoiare tutto, ho deciso che se devo mandare affanculo qualcuno lo faccio. Non sono rimasto contento nei confronti del sistema Sanremo". PUBBLICITÀ Ed ha invece da poco rivelato il nome della persona che ha accanto Fiorella Mannoia: dopo anni di gossip e indiscrezioni, svelata la love story con Carlo Di Francesco, professore di "Amici", suo professore e arrangiatore. Una storia iniziata 10 anni fa ma svelata solo ora, lui ha 26 anni meno di lei (62 Fiorella, 36 Carlo). In un'intervista a "Vanity Fair" la cantante ha detto: "Lui c’è ancora. Siamo aperti, non chiusi. Per questo forse non ci stanchiamo. Ognuno è libero di aderire alle proprie passioni. Non sei mai solo e infelice, quando ne hai". Gigi D'Alessio è ancora furioso per la sua eliminazione dal Festival di Sanremo e, senza peli sulla lingua, dà la sua versione dei fatti al settimanale diretto da Alfonso Signorini. Con un'intervista, in edicola da mercoledì 15 febbraio, il cantante napoletano esprime tutta la sua rabbia e parla anche della presunta intervista, che gli avrebbero fatto in passato, nella quale avrebbe dichiarato di essere costretto a cantare per ancora 15 anni per risollevare le proprie finanze dopo una serie di investimenti sbagliati. "Io non ho fatto nessun intervista - aggiunge -. La gente pensa che mi sono svegliato a dire 'devo cantare 15 anni perché mi servono i soldi', ma non è così e purtroppo non ho potuto fermare questo flusso. È una storia che risale a quattro anni fa e molti sanno come stanno le cose. Qualcuno ha detto che sono andato a Sanremo per fare cassa, ma perché ci pagano? Allora avrei dovuto fare il Superospite. Io ho solo detto che sono stato portato per mano in un investimento sbagliato, intorno a noi c’è sempre qualcuno pronto a fregarti. Ma ora non è che canto perché ho bisogno di soldi, canto perché a 50 anni cosa dovrei fare, mettermi su una spiaggia a prendere il sole?".

Sanremo 2017, Maria De Filippi: "La giuria di qualità ci deve mettere la faccia", scrive “Libero Quotidiano" il 13 febbraio 2017. Il Festival di Sanremo è finito, non le polemiche. Una, in particolare, quella relativa alla giuria di qualità, perché secondo molti alcuni di questi giurati non avevano nulla a che spartire con la qualità musicale: per esempio e su tutti Greta Menchi, ma anche Giorgia Surina e Violante Placido. Ad attaccare la Giuria di qualità ci ha pensato Gigi D'Alessio: "Se avessi saputo certi nomi me ne sarei rimasto a casa", ha dichiarato. E se questo non sorprende (è stato infatti eliminato rapidissimamente), sorprende di più il fatto che una volta terminato il Festival sia proprio Maria De Filippi ad attaccare la stessa giuria: "Devono metterci la faccia", ha affermato. E ancora: "Abbiamo sempre detto che il televoto era appannaggio delle bimbeminchia, allora vediamo cosa votano i giurati di qualità che Carlo ha nominato, uno per uno, durante le serate". Maria, insomma, invoca lo stop al voto di qualità "segreto", e aggiunge: "Che mettano la faccia non solo in televisione ma dicano anche per chi hanno votato. Sono esperti? Vediamo come operano in campo musicale?". Il messaggio è arrivato, forte e chiaro. Le accuse di plagio contro i brani presentati al Festival di Sanremo fioccano ogni anno copiose. E il 2017 non poteva essere da meno, con una decina di casi segnalati a più riprese sui social per altrettante canzoni che hanno gareggiato all'Ariston. Ce ne sarebbe una però, secondo rockit.it, che sembra convincere più delle altre. Su Youtube, l'utente Fabio Giliberti ha pubblicato un video in cui mette a confronto il brano Che sia benedetta di Fiorella Mannoia con Un mondo più vero, interpretata nel 2014 da Michele Bravi. Già al primo ascolto dei ritornelli, la somiglianza sembra clamorosa. Messi poi in sovrapposizione, i due brani appaiono uguali sia per arrangiamento che per melodia.

Il Festival di Sanremo gay con Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro. Il 67° Festival della musica italiana che si terrà a Sanremo dal 7 all’11 febbraio si appresta ad essere il festival più gay di sempre. Condotto da Carlo Conti e Maria De Filippi, ideatrice del “Trono Gay” e nota sostenitrice della causa LGBT, il festival avrà infatti come super ospiti tre “big” della propaganda gay come Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro. I tre cantanti negli ultimi tempi hanno infatti fatto parlare di sé più, conquistando le copertine di riviste e quotidiani, per le proprie dichiarazioni sul tema dell’omosessualità che per le proprie prestazioni canore. Dopo i cartelloni gay e i braccialetti arcobaleno delle passate edizioni prepariamoci dunque ad un altro Festival in cui si salirà sul palco la “bellezza” e la “normalità” omosessuale attraverso tre icone del mondo LGBT come Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro.

Adinolfi contro la "Gaystapo" sanremese: "Non voglio pagare il canone per l'utero in affitto di Tiziano Ferro". Il giornalista, leader del Popolo della Famiglia, accusa Carlo Conti di utilizzare la tv pubblica per promuovere l'ideologia gender: tra gli ospiti su cui punta il dito Tiziano Ferro e Ricky Martin, scrive Maria Elena Pistuddi il 18 gennaio 2017. Non bastava la polemica sui feti che cantano ad agitare le notti di Carlo Conti, anche quest'anno conduttore e direttore artistico del Festival della canzone italiana. A rendere il clima "sanremese" più frizzante del solito ci ha pensato il giornalista, leader del Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi, che si è scagliato contro il conduttore toscano, reo secondo lui di considerare la kermesse una sorta di "Momento di propaganda gay". Il conduttore del quotidiano "La Croce", non nuovo a questo tipo di accuse, già l’11 gennaio scorso, dopo la conferenza stampa del Festival di Sanremo 2017, aveva espresso il suo disappunto sulla presenza al festival di artisti come Tiziano Ferro e Ricky Martin. Il suo intervento a gamba tesa su Carlo Conti recava il titolo "A Sanremo il gotha dei locatori di uteri". Adinoldi aveva poi argomentao: "Al festival di Sanremo del 2015 pagammo come famiglie italiane il supercachet da ospite straniero a tal Conchita Wurst, tizio poi sparito completamente dai radar e sfido chiunque a citarmi il titolo di una "sua" canzone. L’unico motivo per cui fu invitato fu il suo essere icona gender, uomo con la barba in abito da donna". Poi proseguiva: "Il festival 2016 ci regalò l’accoppiata omo-etero di testimonial dell’utero in affitto: Elton John e Nicole Kidman furono i due superospiti stranieri che prosciugarono il budget, sempre gentilmente pagato dalle famiglie italiane, di un’edizione che passò alla storia per l’obbligatorio nastrino arcobaleno distribuito dai dirigenti Rai ai cantanti a sostegno della lobby lgbt, in pieno dibattito sulla legge sulle unioni gay". Nel suo lungo post-accusa, Adinolfi si sofferma sugli ospiti della prossima edizione della kermesse canora e spara a zero. "Ora si torna al teatro Ariston e il supercachet come famiglie italiane dobbiamo pagarlo a Tiziano Ferro che deve comprarsi un figlio da un’americana che lo partorirà, a Ricky Martin che se ne è già comprati un paio, a Mika che almeno nel suo one man show su Raidue candidamente ammetteva “sono omosessuale, non posso diventare padre”. Il post si chiudeva con una minaccia velata: "Propagandare in Italia la pratica dell’utero in affitto, anche solo pubblicizzarla, è reato passibile di due anni di carcere e un milione di euro di multa. Caro Carlo, tienilo come promemoria". Le accuse sono proseguite nel corso di un'intervista rilasciata a Radio Cusano. Dove il giornalista ha parlato, sempre riferendosi a Sanremo, di "Gaystapo". In questo contesto di polemiche sui gusti sessuali dei futuri ospiti del Festival della canzone italiana si inserisce il coming out di Michele Bravi, vincitore di X Factor nel 2013 e in gara tra i big, che ha affidato a una intervista a "Vanity Fair" il racconto del suo primo amore con un uomo. Con la premessa che non "bisogno di fare coming out perché nessun giovane si stupisce che mi sia innamorato di un ragazzo, e penso che nessuno dei miei coetanei si tirerebbe indietro se gli capitasse di provare un’emozione per una persona dello stesso sesso”. Bravi nella lunga intervista parla di una bellissima storia d'amore con un ragazzo che fa il regista e la definisce "perfetta e bellissima" anche se "ti mancano le regole del gioco e quando le impari spesso è troppo tardi". Parole dolcissime e cariche di significato che si spera non finiscano per innescare nuove polemiche. Sanremo, d'altronde, a questo ci ha abituato. 

Mika: prima dell'esibizione del 9 febbraio 2017 a Sanremo che sconfina nel musical, in cui dialoga con l’orchestra giocando a interpretarne in fraseggi, l’artista anglo-libanese lancia il suo messaggio arcobaleno, a favore delle diversità. “Se qualcuno non vuole accettare tutti i colori del mondo e pensa che un colore è migliore e deve avere più diritti di un altro o che un arcobaleno è pericoloso perché rappresenta tutti i colori… Beh, peggio per lui. Questo qualcuno lo lasciamo senza musica”, sottolinea, suggellando un festival che si conferma gay-friendly anche quest’anno.

Mi dimetto da frocio! Scrive Nino Spirlì, Giovedì 9 febbraio 2017, su "Il Giornale".  E basta! Si chiude, seppur con dispiacere, un capitolo durato – gloriosamente – 35 anni. Da quella prima volta in caserma, nel cuore delle nebbie delle Langhe, fino a qualche ora fa. Ma, veramente, giuro!, ne ho piene le balle di questa catasta di “frocetti” che sta subissando, se non l’Umanità intera, almeno la nostra Identità. Son troppi e troppo esagerati. Esasperano tutto: dall’immagine esteriore alla qualità della propria anima. Si sono talmente spinti oltre ogni plausibile confine, che non sanno più da dove siano partiti e perché. Facce di gomma, culi di silicone, sguardi da gatti infuriati. Spiumati più di un’oca da cuscino, ma muscolosi quanto e più di Rambo e Rocky shakerati insieme, seppur bigolodipendenti; oppure bugiardamente barbuti e pur sempre con la mente calamitata da ogni patta incrociata nella metro; argentini nei guizzi vocali come sigaraie da tabarin e apparecchiati come troie da saloon, anche fra i banchetti del mercatino rionale. Scemi e ignoranti, imitano le dee, ma non ne conoscono il nome e le virtù. Gusci vuoti di vite buttate. Eppur presenti in ogni dove: dagli altari, infettati dalle foie di frustrati altrimenti senza futuro, fino alle cattedre delle scuole, minati dalle false teorie su un genere che spezza la Natura e forza la Società. Presenti, e celebrati da altrettanti ignoranti “padroni di casa”, nei salotti mediatici e nelle piazze dell’Arte, dove la Chiamata perde il contatto col Divino e diventa un bercio stridulo di pretesa attenzione. Travestiti da manager d’industria, funzionari statali, mercanti, artigiani… In uniforme, in camice, in tuta… Froci per convenienza, per moda, per carrierismo, per curiosità, per assuefazione, per rabbia. Per ignavia. Sfrontati, arroganti, pretenziosi, volgari, razzisti ed eterofobi. Garantiti dal Potere, che li teme. Ingrassati dalla politica, che ne patisce i ricatti. Coccolati da vecchie puttane ingioiellate e ripulite dalla fede al dito; tutelati da leggi zoppe quanto il gatto e la volpe di collodiana memoria; accontentati nei sacramenti e nelle onorificenze. Padroni di un mondo che cambia dignità come fosse una mutanda pisciata di notte, pontificano e dispongono. Vomitano nuovi dogmi che la strada patisce ed accetta, preoccupata di non farsi crocifiggere, da una stampa impastata con inchiostro a sette colori e banalità, su quella cosa che non è cosa e che molti chiamano teoria del gender. Ma che, poi, tacciono quando, invece, dovrebbero denunciare i martirii patiti da quelli come noi che muoiono, massacrati nei paesi islamici, nei paesi a regime comunista, in mezza africa, negli abissi dell’estremo oriente. Ecco, io non ci sto ad ingrossare le fila di questi frocetti da commedia americana! Volevo essere ricchione alla vecchia maniera, io! E, dunque, mi ritiro! Volevo, sì, essere ricchione senza “matrimonio”; senza figli da consegnare al pubblico ludibrio, in un mondo che non è ancora pronto a cotanta provocazione; senza l’assurda pretesa di cancellare la bellezza della Santità del Padre e della Madre, non solo fra le calde mura domestiche, ma anche su un rigoroso certificato di nascita; senza la pietosa bugia che siamo tutti un po’ omosessuali, in fondo. Perché non è così! No, mondo! Non ci sto più! Mi fermo. Mi sposto in un angolo. E non sono più frocio. Non consumo più, né atti, né sentimenti. Per rispetto. A me, ad un Lui, ad una Lei. Al Cielo e alla Terra. Tornerò quando l’ultimo dei mentitori avrà ritrovato il buco dal quale è uscito e si sarà dileguato in quell’abisso dal quale qualcuno, scaltro e malfattore, lo ha convinto ad uscire per interpretare la commedia. La tragica commedia della morte della Dignità Umana. Fra me e me. 

"Bastiamo io e Maria De Filippi", scrive il 6 febbraio 2017 “la Repubblica”. L'assenza della figura delle vallette a Sanremo è stata spiegata così da Carlo Conti, al timone del festival per il terzo anno consecutivo. In molti si sono mostrati perplessi di fronte all'eliminazione di questa figura storica dall'edizione 2017 dell'appuntamento musicale più atteso e discusso in Itala. Le hanno sempre chiamate vallette, ma nel corso degli anni sono diventate qualcosa di più. Accanto a storici conduttori del Festival di Sanremo come Mike Bongiorno, che ha presentato la manifestazione undici volte, o Pippo Baudo, che detiene il record con tredici edizioni, ci sono sempre state loro: le signore del teatro Ariston. Modelli di fascino e bellezza della loro epoca, da semplici e graziose comparse si sono col tempo trasformate in vere e proprio spalle fino a ottenere ruoli di co-conduzione. Gli esempi più recenti sono quelli di Antonella Clerici, Gabriella Carlucci e Luciana Littizzetto, ma non deve essere dimenticata nemmeno Gabriella Farinon, pioniera della conduzione al femminile. (In alcuni anni il volto femminile della valletta è mancato perchè a condurre era una donna, ovvero a presentare era un uomo ed una donna, come quest'anno). Ecco alcune delle più famose figure femminili che, dal 1951 ad oggi, hanno conquistato il palco dell'Ariston:

Marisa Allasio, Nicoletta Orsomando, Sanremo 1957

Enza Sampò, Sanremo 1960

Giuliana Calandra, Sanremo 1961

Laura Efrikian, Sanremo 1962

Giuliana Lojodice, Sanremo 1964

Gabriella Farinon, Sanremo 1969

Ira Furstemberg, Sanremo 1970

Sabina Ciuffini, Sanremo 1975

Maria Giovanna Elmi, Sanremo 1977

Anna Maria Rizzoli, Sanremo 1979

Eleonora Vallone, Sanremo 1981

Gabriella Carlucci, Sanremo 1988

Edwige Fenech, Sanremo 1991

Milly Carlucci, Brigitte Nielsen e Alba Parietti, Sanremo 1992

Lorella Cuccarini, Sanremo 1993

Anna Oxa, Sanremo 1994

Anna Falchi, Claudia Koll, Sanremo 1995

Sabrina Ferilli, Valeria Mazza, Sanremo 1996 

Valeria Marini, Sanremo 1997

Eva Herzigová e Veronica Pivetti, Sanremo 1998

Laetitia Casta, Sanremo 1999

Inés Sastre, Sanremo 2000

Megan Gale, Sanremo 2001

Manuela Arcuri e Vittoria Belvedere, Sanremo 2002

Serena Autieri e Claudia Gerini, Sanremo 2003

Paola Cortellesi, Sanremo 2004

Antonella Clerici, Federica Felini, Sanremo 2005 

Ilary Blasi e Victoria Cabello, Sanremo 2006

Michelle Hunziker, Sanremo 2007

Bianca Guaccero ed Andrea Osvárt, Sanremo 2008

Belén Rodríguez ed Elisabetta Canalis, Sanremo 2009

Ivana Mrazova, Sanremo 2012 

Luciana Littizzetto, Sanremo 2013/2014

Rocio, Arisa, Emma, Sanremo 2014/2015 

Madalina Ghenea, Virginia Raffaele, Sanremo 2015/2016

Festival di Sanremo: da Baudo a Conti, i conduttori e i cachet da record. Il più pagato in assoluto è stato Gianni Morandi, seguito da Bonolis. Tra le donne domina invece Michelle Hunziker, scrive Francesco Canino il 7 febbraio 2017 su Panorama. Con il suo terzo Sanremo consecutivo, Carlo Contista per entrare nella storia del Festival della canzone italiana. Sfogliare i nomi dei conduttori della «kermesse canora», tanto per rispolverare una fraseologia di quelle abusate (ma efficaci), significa fare un tuffo nell'enciclopedia della televisione italiana, partendo dal «cari amici vicini e lontani» di Nunzio Filogamo al «tutti cantano Sanremo» ideato da Conti. In mezzo ci sono 67 edizioni e una carrellata pazzesca di volti della tivù, tra meteore e giganti del piccolo schermo. Ecco tutte le curiosità sui conduttori e i cachet festivalieri. L'inossidabile reuccio del Festival di Sanremo per ora resta Pippo Baudo, imbattibile condottiero di stagioni festivaliere che hanno fatto la storia, dalle epiche incursioni di "Cavallo pazzo" all'intuizione delle "vallette" - la bionda e la mora, tra coppie improbabili e altre cult - passando per momenti indimenticabili, come l'annuncio in diretta della morte di Claudio Villa, esattamente trent'anni fa. Baudo detiene ogni record, con ben 13 edizioni condotte, la prima nel '68, di cui cinque consecutive: lo tallona il grandissimo Mike Bongiorno, a quota 11, di cui cinque una in fila all'altra dal '63 al '68. Il terzo posto sul podio resta per ora occupato da Nunzio Filogamo, primissimo conduttore del primissimo Festival, quando ancora andava in onda (in radio) dal teatro del Casinò: ha presentato i primi quattro, dal 1951 al 1954, sempre in solitaria, mentre per la sua quinta conduzione fu affiancato da Marisa Allasio, Fiorella Mari e Nicoletta Orsomando. Dal bianco e nero all'hd, balza in quarta posizione Fabio Fazio, quattro volte padrone di casa all'Ariston - le ultime due in coppia con Luciana Littizzetto - dove quest'anno farà il tris Carlo Conti, affiancando così in classifica Claudio Cecchetto e Gabrilla Fariron, storica annunciatrice Rai. Sono molti i conduttori che hanno fatto il bis e lasciato il segno con ascolti record. È impossibile dunque non citare i due grandiosi Sanremo condotti da Paolo Bonolis - già si parla di lui per il 2018 - e ancora Gianni Morandi nel biennio 2011/2012, mentre Antonella Clerici (attesa giovedì sera come ospite) lo ha presentato prima come valletta al fianco di Bonolis, poi in solitaria nel 2010. Nessun tema collaterale al Festival appassiona e scatena critiche come la questione cachet. In maniera geniale, Maria De Filippi se n'è tirata fuori, rinunciando al compenso per la sua partecipazione e spegnendo ogni polemica sul nascere. Conti percepirà invece 650 mila euro (ma all'interno di un contratto quadro, ha specificato la Rai), ben lontani dal milione e 500 mila euro di Gianni Morandi, che ha polverizzato ogni record. A quota 1 milione invece Paolo Bonolis (nel 2009), Giorgio Panariello (nel 2006) e Michelle Hunziker (nel 2007), che surclassò l'allora padrone di casa Pippo Baudo, fermo a quota 800 mila euro.

Sanremo: il Festival del privilegio. Biglietti di Stato gratis a magistrati e politici, curia e forze dell'ordine. L'immancabile manuale Cencelli della distribuzione. Il sindaco: "Me li chiedono tutti, in strada o al telefono", scrive Marco Preve il 5 febbraio 2017 su "La Repubblica". Sanremo. Indovinello: dove si possono trovare, tutti assieme, un politico, un magistrato e un alto ufficiale delle forze dell’ordine? No, non è la stanza interrogatori di un carcere. La risposta giusta è il teatro Ariston durante il Festival di Sanremo. Ma se volete essere più precisi è: “al Festival con biglietti gratis”. Nell’Italia che si indigna per privilegi più o meno grandi, per regali consapevoli o all’insaputa, continua ad esistere un luogo in cui tutti i poteri possono godere gratuitamente di prerogative vietate ai normali cittadini: le poltroncine di velluto rosso dell’Ariston. È sui soffici sedili – resi ancor più confortevoli dalla gratuità e dal quel senso di autorevolezza che qualcuno ricava dall'essere omaggiato - che l'implacabile pm o l'inflessibile giudice condividono la vicinanza con il consigliere o l'assessore regionale dei quali deplorano, nel resto dell'anno, l'abitudine a scialacquare fondi pubblici in vini, cravatte ed anche concerti. È nel fragoroso applauso che accoglie il bravo presentatore che sciolgono le reciproche diffidenze il deputato e il comandante dei carabinieri o della guardia di finanza, il presidente della società partecipata e il questore. "Una vera e propria franchigia medievale" commenta, dietro la garanzia dell'anonimato un magistrato che ha conosciuto i meccanismi di ripartizione dei biglietti tra le toghe pur senza prendervi parte. Un Festival del privilegio la cui principale "vittima" – oltre al buon gusto, naturalmente – sembra essere il sindaco di Sanremo. L'unico, assieme al Prefetto e al presidente della Regione, ai quali andrebbe riconosciuto il ruolo istituzionale all'Ariston. "È davvero uno dei compiti più impegnativi e maggiormente soggetto a malintesi, proteste, malumori. Tutti chiedono biglietti, per strada oppure in maniera più riservata a seconda del ruolo" spiega Alberto Biancheri, attuale primo cittadino di Sanremo. Come se ne esce? Con una rigida applicazione dei criteri ormai consolidati. Va anche detto che con l'avvento del predecessore di Biancheri, Maurizio Zoccarato, la distribuzione passò dall'ufficio turismo, che nei decenni era diventato un vero e proprio regno indipendente, direttamente al gabinetto del sindaco. Anche quest'anno Biancheri si è ritrovato a dover decidere a chi destinare i circa 200 biglietti a serata. Unici ad aver rinunciato ai loro tagliandi sono stati i consiglieri comunali del M5s. "Per il resto distribuiamo a 360 gradi – spiega Biancheri – a politici, polizia, carabinieri, finanza, procura, tribunale, vigili del fuoco, capitaneria, ma anche volontari di associazioni, e poi non vedenti oppure disabili. Poi ci sono i biglietti per ospiti importanti, ambasciatori o diplomatici e infine scelte particolari. Quest'anno ho deciso di dare due biglietti a una coppia che su Facebook ci ha scritto che ha sempre avuto il sogno di venire a vedere il Festival". Biancheri svicola, ma in Comune si racconta anche di telefonate arrivate dalla Curia per avere il classico "paio di biglietti". E poi ci sono, prima di tutti e più di tutti, i politici. Deputati e senatori del territorio e fin qui è poca cosa. Poi inizia la grande abbuffata. Due biglietti a testa per: gli assessori e tutti i consiglieri del Comune di Sanremo (M5s esclusi); presidenti e amministratori di società partecipate. Poi si passa alla Regione Liguria dove non possono mancare non solo i biglietti per gli assessori e per numerosi consiglieri (anche in questo caso il M5s sembra essere escluso), ma anche per i presidenti di commissione. Tra gli habitué istituzionali c'è anche il presidente della Camera di Commercio di Imperia. E poi iniziano i doppioni. I comandi delle forze dell'ordine sono provinciali quindi a Imperia: Questore, comandante dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Ma si possono lasciare senza biglietto anche le compagnie e i commissariati sanremesi? Evidentemente no. Fino a pochi anni fa lo stesso discorso valeva per la magistratura. Ma da quando gli uffici giudiziari sono stati accorpati i biglietti omaggio vanno solo a Imperia, equamente suddivisi fra Tribunale e Procura. Per altro, e sembra essere un'usanza solo sanremese, il teatro Ariston garantisce, non solo durante il Festival, ma per tutto l'anno, palchi riservati a magistrati, polizia, carabinieri, finanza e qualche altro fortunato. Insolito? "Diciamo che da un lato ci sono gli obblighi nei confronti delle autorità e dall'altro ci sono le consuetudini" glissa elegantemente Walter Vacchino direttore dell'Ariston e membro della famiglia che ne è proprietaria da sempre. Ma se quella di Vacchino è la libera scelta di un imprenditore privato, la concessione in massa, da parte della Rai, di biglietti del Festival ai vari rappresentanti del potere di Stato è l'opzione unilaterale effettuata con quelli che alla fin fine sono sempre soldi pubblici. Per quel che riguarda poi l'opportunità dei beneficiati di accettare le regalie, è ancora un altro discorso, che meriterebbe fiumi di parole.

Dai compensi alle mazzette: su Sanremo è sempre il caos. Indagato lo scenografo. Il legale: "Nessun avviso". L'ultima polemica è stata per il cachet di Carlo Conti, scrive Laura Rio, Giovedì 2/02/2017, su "Il Giornale". Lo scenografo indagato. Il compenso esagerato. Le interviste inventate. Le polemiche che montano. Ci manca solo l’operaio che minaccia di buttarsi dal tetto dell’Ariston, e il Festival è al completo. Sì perché ogni anno, immancabilmente, nel delirio che accompagna la kermesse canora, accade di tutto. Tra notizie corrette e altre montate ad arte, è corsa ad alzare il tiro. Comunque, è di ieri l’indiscrezione, pubblicata dal quotidiano La Verità, che lo scenografo che realizza gli allestimenti del Festival, Riccardo Bocchini, sarebbe indagato in un’inchiesta relativa a tangenti nell’assegnazione di appalti in Rai. L’inchiesta che risale al 2015 (e che all’epoca era stata ampiamente resa nota) riguarda diverse produzioni della tv pubblica e ha coinvolto funzionari, dirigenti, direttori della fotografia. I reati contestati sono di associazione a delinquere, appropriazione indebita, turbativa d’asta, corruzione e concussione. Ma il diretto interessato, Bocchini, tramite il suo avvocato ha fatto sapere che «non ha ricevuto alcun avviso di garanzia», «non è stato mai ufficialmente informato di essere coinvolto in indagini» e «non ha commesso alcun illecito nei confronti della Rai». L’avvocato John R. Paladini sostiene che gli articoli de La Verità «contengono notizie distorte e diffamanti riferite al mio assistito al quale sono stati ingiustamente attribuiti fatti e circostanze del tutto inveritieri». A raccontare delle mazzette sono stati due imprenditori arrestati che sostengono di aver elargito a Bocchini compensi per ottenere assegnazioni di appalti di forniture, tra cui luci, impianti audio e telecamere. Insomma, se il fatto venisse accertato, sarebbe un grave danno per Sanremo e per la Rai. Anche perché Bocchini, che non è un dipendente della tv pubblica, ma lavora con incarichi, è un professionista che firma trasmissioni importanti, alcune condotte da Carlo Conti: non solo per la terza volta Sanremo, ma anche L’eredità, Affari tuoi, I migliori anni, Tale e quale show, Ballando con le stelle. Un uomo di fiducia che si aggiudicava molte onerose commesse. In Rai tengono a sottolineare che tutti i dirigenti o autori coinvolti in quell’inchiesta non lavorano più per la televisione pubblica, se ne sono andati o sono stati allontanati. E che il medesimo Bocchini avrebbe assicurato di essere estraneo alla vicenda. Si vedrà: la magistratura farà sapere se è o meno indagato. Il solito deputato Pd Anzaldi si chiede come mai si continui a dare così tanti appalti all’esterno e come mai non è ancora stato sostituito il responsabile Anticorruzione andato via da settimane. Non si placa poi la polemica per il compenso sul cachet del conduttore, che secondo altre indiscrezioni, ammonta a 650.000 euro. Per alcuni, tra cui Salvini e Brunetta (che ha presentato un’interrogazione), una vergogna «se si pensa come se la passano male molti italiani», per altri come Fiorello un compenso adeguato per chi fa guadagnare la Rai e si è costruito la carriera con fatica e duro lavoro. Carlo Conti si difende un po’ maldestramente dicendo che una parte del compenso la darà in beneficenza, ma bisogna ricordare che prende meno dei suoi predecessori (Bonolis arrivò al milione di euro, Morandi a 800 mila). Insomma, polemiche da Festival: l’anno scorso tenne banco il tormentone su Elton John e il possibile arrivo in coppia con il marito, tre anni fa fece scalpore lo sbarco «politico» di Beppe Grillo, nel 2013 venne fischiato Maurizio Crozza che imitava Berlusconi, in ogni edizione qualcuno si indigna per il cachet dei presentatori, e ad anni alterni si intrufolano in teatro persone che protestano per qualche cosa, per non parlare di quella volta che Pippo Baudo salvò un uomo che si voleva buttare giù dalla galleria. E si può andare indietro fino al suicidio di Tenco. Insomma, tutto già visto. Sanremo, specchio dell’odio del Paese.

Strategie di Comunicazione. Ecco le tecniche segrete usate dagli artisti per promuoversi sui media, far parlare di loro giornali e tv ed aumentare le vendite delle loro opere, scrive il 26 gennaio 2017 Michele Rampino Fondatore di ComunicatiStampa.net. (Questo articolo ha un puro scopo didattico riguardo le tecniche Pr usate dagli artisti per promuoversi e non vuole essere un giudizio sui comportamenti e sulla vita degli artisti menzionati). In questo articolo scoprirai la tecniche di pubbliche relazioni segrete che i cosiddetti “Vip” usano per promuoversi sui media, far parlare tutti di loro per rimanere sulla cresta dell’onda, e far decollare le vendite delle loro opere. Lo scorso dicembre, quasi sotto Natale, verso sera, stavo rientrando a casa in auto e stavo ascoltando il giornale radio quando all’improvviso una notizia cattura la mia attenzione: Tiziano Ferro dichiara di vivere negli Usa perché dice di volere un figlio con l’utero preso in affitto da una donna. Ora, se segui un po’ le cronache saprai che Tiziano Ferro ha dichiarato la propria omosessualità già da qualche anno ormai e, da uomo o donna di mondo quale sei, sicuramente questa cosa non ti fa più né caldo e né freddo. Saprai però che l’argomento “utero in affitto” è un tema molto caldo, che fa molto discutere sia nel nostro paese che nel resto del mondo (sono molti infatti coloro che si domandano e dibattono sul fatto se sia etico e giusto “creare” un figlio in provetta per poi farlo crescere in un utero affittato da una terza donna per la gestazione, rivendicandone infine la paternità alla nascita). Ascoltata la notizia comincio a riflettere sul fatto che, qualche giorno prima, mi pareva di aver ascoltato proprio un nuovo brano di Tiziano Ferro in radio e dato che sono del mestiere ecco che mi si accende una lampadina: “Vuoi vedere che…”.

Arrivato a casa parcheggio, prendo il cellulare, vado su Spotify (per chi non lo sapesse è un’app per ascoltare musica) per verificare il profilo di Tiziano Ferro e…bingo! Scopro che il suo ultimo album è uscito il 2 dicembre 2016, cioè solo una ventina di giorni prima della diffusione della notizia sull’utero in affitto. Sai cosa vuol dire questo?

Vuol dire che ci sono buone probabilità che la notizia controversa sul bambino da creare con l’utero in affitto è stata diffusa ad arte proprio per innescare delle polemiche e far parlare i media dell’artista. Ora, già mi pare di vedere i tuoi dubbi e le tue perplessità al riguardo ma seguimi per qualche altro minuto e ti spiegherò tutto con calma.

Rientrato a casa sono andato subito a verificare su Google i dettagli sulla notizia. Dato che l’argomento è dibattuto scopro che la dichiarazione di Tiziano Ferro, come previsto, ha creato un mare di polemiche e migliaia di articoli, oltre ad aver fatto imbestialire i “difensori della famiglia tradizionale”, con proteste, opinioni ed interviste contrastanti sui vari giornali, tv, radio e siti web. Scopro inoltre che la notizia ha avuto origine da una intervista su Vanity Fair uscita il 20 dicembre 2016, cioè solo 18 giorni dopo l’uscita dell’album. Cerco le notizie pubblicate con le parole chiave “figlio Tiziano Ferro” e mi escono fuori, dal 20 dicembre 2016 ad oggi 25 gennaio 2017, giorno in cui scrivo, ben 9.140 risultati, tra post, contenuti e notizie che online parlano dell’argomento, di cui ben 2.050 notizie pubblicate su testate giornalistiche presenti su Google News. Ti è tutto più chiaro ora? Se non lo è ti basta unire i puntini: Tiziano Ferro ha un album in uscita da promuovere, a distanza di soli 18 giorni fa uscire una intervista su Vanity Fair in cui fa delle dichiarazioni abbastanza controverse sul fatto di volere un figlio con l’utero in affitto, rispetto alle quali le reazioni erano facilmente prevedibili e….boom! Migliaia e migliaia di articoli, servizi radio e tv e post su internet che parlano di Tiziano Ferro. Facendo ricerche su Ferro scopro un’altra chicca che lo riguarda: il 6 gennaio 2017 il cantante diffonde la notizia, tramite Sky, che “si vuole sposare”, ed eccoti servito un altro bello argomento “hot” in grado di far discutere i media e far parlare mezzo paese di lui e delle sue scelte. Sono ben 4.640 gli articoli creati dal 6 al 25 gennaio, di cui ben 816 notizie presenti su Google News: un numero minore di articoli rispetto alla precedente notizia, perché ormai l’argomento “matrimonio gay” non fa più notizia come in precedenza visto che è diventata quasi una cosa comune, ma comunque un numero sempre importante, che ha continuato a tenere alta l’attenzione sull’artista. Se sei scettico sul fatto che siano tutte apparizioni mediatiche studiate ad arte per far parlare dell’artista, un particolare che dovrebbe farti riflettere è questo: Tiziano Ferro è single, per sua stessa dichiarazione. A che pro quindi la dichiarazione sullo sposarsi se non ha nemmeno un compagno?

Una dichiarazione anomala se ci rifletti bene, giustificata a rigor di logica da un solo obiettivo: parlare e far parlare di lui, ben sapendo che la cosa avrebbe tenuto accesi i riflettori sulla sua persona, guarda caso in un periodo in cui è appena uscito il disco. Se poi cerchi ancora notizie su Ferro vedrai altre notizie di gossip di una sua eventuale partecipazione a Sanremo come co-conduttore: in realtà è stato confermato che parteciperà come super ospite, altro evento che gli darà visibilità e che sta facendo e farà parlare di lui ancora per un po’. Insomma, a ben guardare pare proprio una scaletta ben studiata di dichiarazioni ed eventi lanciati ad arte per tenere sempre ben in vista l’artista nel periodo di promozione del disco. E attenzione: non sto mettendo in dubbio la veridicità delle cose dette da Tiziano Ferro. Sarà senza dubbio tutto vero quanto da lui affermato e senz’altro ci crederà al fatto di volere un figlio e di volersi sposare. Quello che sto dicendo è che ha detto e fatto cose, sulla cui veridicità ripeto non pongo dubbi, ben sapendo che avrebbero fatto parlare i media e fatto discutere di lui le persone di mezzo mondo (perché Ferro è molto famoso anche all’estero) con una scaletta di dichiarazioni e presenze ben studiata e precisa, in un periodo in cui ha bisogno di visibilità per la promozione dell’album.

Gli addetti stampa, i Pr, gli artisti più famosi e tutti gli addetti del settore conoscono molto bene queste tecniche di comunicazione. o pubbliche relazioni se preferisci, e concordano strategicamente con gli stessi artisti cosa dire e quando dirlo, con lo scopo di metterli sotto i riflettori e portarli all’attenzione del grande pubblico. Chi lavora in un ufficio stampa o nelle Pr in genere ha il preciso compito di stimolare i giornali, le tv ed il web a parlare del proprio cliente, perché nell’ambiente tutti sanno bene che più si parla sui media dell’artista e più aumentano le vendite. Questo perché la visibilità ottenuta sui media equivale ad una enorme pubblicità gratuita su centinaia di siti web, giornali, tv e radio e solitamente più è grande la polemica e più spazio le viene dedicata. E più visibilità e apparizioni sui media ottengono gli artisti e più diventano famosi, e più diventano famosi più vendite delle loro opere ottengono. Il principio della visibilità è lo stesso che fa impennare le vendite di libri e dischi alla notizia della morte di un’artista (e anche delle opere d’arte, ma qui entra in gioco anche la speculazione di quanti sperano in un valore futuro maggiore delle opere): le vendite aumentano semplicemente perché tutti i media stanno parlando di quell’artista e grazie all’ enorme visibilità molti vengono stuzzicati nella curiosità e sono portati a comprare qualcosa dell’artista di cui tutti parlano, un cd o un libro o anche solo il download di una canzone, per saperne qualcosa in più di più di lui e per conoscerlo meglio. Ricapitolando:

Più visibilità sui media = più notorietà = più vendite. Chiaro il concetto? La prossima volta che ti capita di vedere polemiche che coinvolgono artisti o professionisti facci caso, quasi sempre c’è di mezzo un’opera, un libro, un film o un album appena usciti da promuovere. Questo accade perché nell’animo umano alberga una profonda curiosità, che ci porta ad esempio a fermarci per strada per vedere due che si azzuffano. La stessa curiosità che ti fa fermare il dito durante lo zapping Tv per vedere 2 tizi che litigano o discutono animatamente. Ecco perché quasi sempre sui media trovi polemiche su tutto: le liti e le polemiche alzano gli ascolti perché attirano attenzione e sono capaci di distoglierti dalle tue cose, mettendo sotto i riflettori i protagonisti della zuffa. Calcola poi che dalle polemiche hanno tutti da guadagnarci: le tv ed i giornali producono “intrattenimento” guadagnando in cambio attenzione, visualizzazioni e click per le loro pubblicità, i lettori e gli spettatori si divertono dando sfogo alla loro curiosità ed i protagonisti della polemica ottengono pubblicità gratuita per sè e le loro opere.

Guarda caso digitando la parola “cantante” in Google News oggi vuoi sapere cosa mi compare? Tutti stanno parlando di un cantante turco che dichiara di essere il padre di Adele. Guardacaso…Che sia vero o meno i giornali di mezzo mondo stanno parlando di questo sconosciuto cantante turco, e puoi scommetterci la testa che da domani le sue quotazioni, vendite e cachet subiranno un’impennata. Capito ora come funziona il circo mediatico? Spero ora ti sia tutto più chiaro su come fanno i cosiddetti “Vip” a promuoversi gratuitamente sui giornali ed in tv. Se anche tu vuoi promuoverti sui media e vuoi che i giornali parlino di te devi lanciare una notizia che “strategicamente” sia impattante e che ti faccia uscire dall’anonimato, innalzandoti dal solito chiacchiericcio e torpore quotidiano. Devi fare, scrivere o dire qualcosa di importante che faccia saltare i giornalisti sulla sedia e farli venir voglia di contattarti per scrivere un pezzo su di te. Come già ti suggerivo in questo precedente articolo sulle alcune strategie di Pr che potrebbero esserti utili. Se credi però di essere un artista “puro” e non ti va di promuoverti con queste tecniche ti dico solo una cosa: purtroppo oggi funziona così. Non basta solo la bravura. Oltre al talento se vuoi sfondare devi saperti promuovere nel modo giusto perché hai bisogno di visibilità. E devi essere bravo a farti vedere e notare dai media, dal pubblico e dalle persone che contano. Il mondo è pieno di artisti famosi, bravissimi a pubblicizzarsi ed a mettersi in luce, ma magari molto meno talentuosi rispetto ad altri meno famosi. Oggi ti ho preso ad esempio Ferro ma se vai a ben vedere quasi tutti sono famosi perché sanno padroneggiare queste tecniche e sono bravi a far parlare i media di loro.

Il mondo è pieno di artisti anonimi molto più bravi dei cosiddetti “Vip” ma che purtroppo nessuno conosce perché non hanno saputo e non sanno pubblicizzarsi nel giusto modo. Il mondo è pieno di talenti anonimi, che continuano a sperare nel buio delle loro camere, ma che non sanno come fare a sfondare ed avere il tanto sognato successo.

La carica degli indipendenti: "Noi non ci Sanremo". Incidono dischi. Fanno tournée. Riempiono club, teatri lirici, palazzi dello sport. Ma il Festival della canzone italiana li ignora. Ecco chi sono e come vivono i protagonisti della nuova scena musicale, tra rock, pop e canzone d'autore, scrive Emanuele Coen il 30 gennaio 2017. Una band rock con strumenti elettrici per la prima volta al Teatro San Carlo, a Napoli, tempio della musica lirica. Dentro tutto esaurito, fuori in centinaia senza biglietto. Stessa scena qualche giorno dopo davanti a Castel Sant’Elmo. Nella città partenopea sono i Foja a raccogliere i maggiori consensi dal vivo, mentre Calcutta, 27enne cantautore cresciuto a Latina, dopo 110 concerti ha dovuto fare il bis a Roma per accontentare i fan della hit “Oroscopo”, già disco d’oro. E intanto la band pop italiana rivelazione dello scorso anno, i romani Thegiornalisti, dopo aver suonato in tutta Italia sono pronti a esibirsi, a maggio, nei palazzetti dello sport nella capitale e a Milano. Da Catania a Torino le band rock, i gruppi pop, i rapper e i cantautori della nuova musica italiana riempiono club, centri sociali e palasport. Hanno nomi strani e autoironici - Lo Stato Sociale, I Cani, Brunori Sas, Pop X, Iosonouncane - e mescolano stili, sonorità e linguaggi molto diversi tra loro. Ma condividono un punto forte: sono usciti allo scoperto e riescono a infiltrarsi nei palinsesti delle radio commerciali, vendono dischi e t-shirt, fanno capolino in tv, milioni di visualizzazioni su YouTube e il pieno di streaming su Spotify. Senza essere stati lanciati da una major o da un talent show. Eppure per il Festival di Sanremo (7-11 febbraio su Rai1) restano perfetti sconosciuti, invisibili, tanto che il padre della scena musicale “indie” italiana, Giordano Sangiorgi, patron dello storico Meeting degli indipendenti (meiweb.it) a Faenza, vicino a Ravenna, ha rivolto un appello al direttore artistico Carlo Conti. «Compia un atto di grande innovazione e inviti gli artisti indipendenti che stanno costruendo la nuova scena musicale italiana come ospiti al prossimo Sanremo, rompendo così quegli equilibri da manuale Cencelli. Il mio è un suggerimento, non una critica», ha detto. Da vent’anni il Mei è palcoscenico per le band emergenti e osservatorio per la stampa specializzata: per la prossima edizione (29 settembre - 1 ottobre) sono attesi decine di giornalisti e 400 gruppi, che si alterneranno su trenta palchi per tre giorni no-stop, tra conferenze, live show, premiazioni. «La vitalità della nuova musica italiana segna la vittoria del modello produttivo indipendente che oggi si ritrova al Mei», continua Sangiorgi: «Se negli ultimi vent’anni ci fossero state solo le grandi case discografiche e i talent show, non avremmo mai conosciuto tanti artisti di valore che oggi hanno successo, investendo un centesimo dei soldi spesi negli spettacoli televisivi». Universi distanti, fino all’altro ieri inconciliabili: da un lato l’indie dall’altro il mainstream, la cultura di massa. Un tempo bastava che una band del circuito indipendente firmasse un contratto con una major per giocarsi per sempre la fiducia dei fan. Per accorgersi che l’aria è cambiata bisogna scavare un po’ e fare due chiacchiere con i protagonisti della nuova onda musicale tricolore. Motta, 30 anni, canta, suona chitarra, basso, batteria e tastiere, scrive testi. Cresciuto a Pisa, ora abita a Roma e macina un concerto dietro l’altro, al Mei 2016 lo hanno premiato come miglior artista emergente, ha incassato il Premio Tenco per la miglior opera prima con l’album “La fine dei vent’anni” (Sugar) prodotto dal cantautore Riccardo Sinigallia, uno dei più apprezzati discografici italiani. Un racconto tra pop e canzone d’autore sulla scoperta dell’età adulta, affresco ironico e disincantato sul rapporto tra le generazioni. «Mio padre era un comunista / e adesso colleziona cose strane / dice che le amicizie e la rivolta sono vere / solo per chi ha paura e rimane», canta nel brano “Mio padre era un comunista”. «A me la parola indipendente non piace, non ne vedo l’utilità. E non credo che le grandi etichette condizionino le scelte degli artisti», dice Motta. «Negli ultimi anni molte cose sono cambiate. Ora, per fortuna, tanti ragazzi scrivono in italiano, c’è un bel lavoro sui testi. All’inizio, dieci anni fa, anche io scrivevo le mie canzoni in inglese, ma né io né il pubblico capivamo le parole. L’altra grande novità è la voglia di mettere da parte la vergogna e raccontare la propria fragilità». I frammenti autobiografici si accavallano anche nei testi di un altro cantautore: Cosmo. Nome d’arte di Marco Jacopo Bianchi, 34 anni, che dopo aver lasciato la cattedra di italiano e storia in un istituto professionale della sua città, Ivrea, da quasi un anno gira la Penisola per promuovere l’album “L’ultima festa”, che è anche il titolo della canzone che ha totalizzato oltre un milione di streaming su Spotify. Sonorità elettroniche, lunghe fughe strumentali che riecheggiano le vibrazioni dei Subsonica, piemontesi come lui, tanta voglia di divertirsi e far ballare il pubblico ma anche un filo sottile di malinconia che attraversa brani come “Regata 70”. «Nei cassetti in ogni stanza / nei carrelli della Standa / in una Fiat Regata bianca, perché / Era lì, proprio lì a metà degli anni ’80. / E non so dov’è che l’ho perduto. Era un sogno, un miracolo, un errore. / Un destino che non voglio rinnegare. / Eri tu, travestita da mia madre», canta Cosmo, che concluderà il tour di quasi 100 date con un concerto a Ivrea il 24 febbraio, in occasione del Carnevale. Per la copertina del disco ha scelto una foto in bianco e nero che ritrae sua madre Barbara a 16 anni, nel 1977, mentre il booklet del cd e l’interno del vinile contengono vecchie immagini di famiglia. «Sono un vulcano con un sottofondo di malinconia. Per me il riferimento al passato non è uno spunto nostalgico ma un modo per guardarmi dentro», sottolinea il cantautore, che tra i suoi riferimenti musicali cita Brian Eno e il compositore americano Steve Reich, padre del minimalismo. Cosmo è distante anni luce dal Teatro Ariston: «A me non interessa andare a Sanremo, non serve nel mio percorso. Ma non perché sono indie, sporco e cattivo: secondo me è un evento musicale vecchio stampo, che andrebbe cambiato radicalmente». Vista con le lenti di ieri, la realtà di oggi risulta terribilmente sfocata. Certo, le etichette indipendenti esistono ancora e producono i nuovi cantautori. Quelle di vent’anni fa si chiamavano Consorzio Produttori Indipendenti, Materiali Sonori, Vox Pop, Mescal (quella di Afterhours, Subsonica, Carmen Consoli). Sono sopravvissute in poche, ma negli ultimi anni ne sono nate tante altre che adesso innovano la musica italiana: Bomba Dischi e 42 Records a Roma, Garrincha Dischi a Bologna, Woodworm ad Arezzo, Full Heads a Napoli. L’approccio della nuova generazione di cantautori, tuttavia, è profondamente diverso da quello degli anni Novanta. All’epoca andavano fieri della loro diversità rispetto alla musica pop trasmessa dalle radio commerciali, oggi Calcutta intitola il suo album “Mainstream” e ingarbuglia le carte. «Quando il disco è uscito non pensavo di arrivare così lontano, il titolo l’ho scelto perché suonava bene, così come il mio nome Calcutta. Se l’avessi saputo prima il disco l’avrei chiamato, che so, “L’alba dei ciliegi”», scherza Edoardo D’Erme, che oggi abita a Bologna e spopola con canzoni come “Gaetano” («E ho fatto una svastica in centro a Bologna / Ma era solo per litigare / Non volevo far festa e mi serviva un pretesto») e “Frosinone” (Non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà / Ti chiedo scusa se non è lo stesso di tanti anni fa / Leggo il giornale e c’è Papa Francesco / E il Frosinone in Serie A»). Un’ironia che piace ai fan, spiazza, ma non convince i detrattori, piuttosto numerosi. Ad esempio Manuel Agnelli, leader degli Afterhours e giudice del talent show XFactor, in una recente intervista al Fatto Quotidiano ha sparato a zero contro i nuovi cantautori. «L’emblema della debolezza di questa generazione è la sua incapacità di spazzarci via. Aspettavo da anni qualcuno che ci riuscisse: “Spazzateci via invece di criticarci - mi dicevo - spazzateci via con la forza che avete, cambiate le cose, non lasciateci spazio, soffocateci, cancellateci”». Secca la replica di Calcutta: «Non voglio spazzare via Manuel Agnelli, semplicemente perché non lo conosco. Sono felice che faccia concerti a 50 anni, ma voglio percepirmi in un mondo abbastanza grande da poterci ignorare reciprocamente», dice il cantautore: «Non ho mai ascoltato gli Afterhours, non fanno parte del mio background. Quando andavo a scuola, Afterhours e Marlene Kuntz erano sinonimo di omologazione. Io ero diverso: ascoltavo musica internazionale, francese, africana». Sul conflitto tra generazioni, le differenze tra passato e presente, dice la sua anche Dario Sansone, 35 anni, frontman dei Foja, alla vigilia del nuovo tour. «Ho sempre ascoltato storie di musicisti napoletani degli anni Ottanta che in apparenza si stimavano ma in realtà non si sopportavano. Oggi, appena avuto un po’ di bene, abbiamo provato a condividerlo con tutti. Quando facciamo un concerto ci sono almeno dieci ospiti», spiega Sansone, musicista ma anche disegnatore e regista di film d’animazione. I Foja hanno appena pubblicato l’album “O treno che va” con la canzone “Cagnasse tutto”, energica miscela di rock, folk e canzone d’autore napoletana, ospiti alcuni big che guardano con interesse alla scena musicale emergente: Ghigo Renzulli, Edoardo Bennato e Daniele Sepe. Il quartier generale del gruppo si trova a Palazzo Pandola, in piazza del Gesù Nuovo a Napoli, dove fu girato il film “Matrimonio all’italiana” di Vittorio De Sica. In questo edificio settecentesco si trova una vera factory creativa: al primo piano la giovane casa discografica Full Heads, punto di riferimento per i nuovi musicisti partenopei, al secondo la Mad Entertainment, studio di animazioni digitali che ha prodotto il film “L’arte della felicità” di Alessandro Rak. Il regista ha realizzato anche il videoclip di “’O sciore e ’o viento” (un milione e mezzo di visualizzazioni su YouTube) dei Foja. «Sembra che l’indie oggi stia diventando il nuovo mainstream. Penso che Calcutta sia un cantore del suo tempo: lui, Thegiornalisti e The Zen Circus vanno ospiti in tv a “Quelli che il calcio”. Semplicemente perché oggi c’è un nuovo pubblico. Dieci anni fa ai nostri concerti venivano 100 persone, oggi seimila», prosegue Sansone. Se oggi i talent show apparentemente sembrano l’unica via per raggiungere il successo e i discografici fanno a gara per reclutare i personaggi che si distinguono in tv, l’altra musica si fa strada in mille modi per conquistare quel nuovo pubblico. Egreen, nome d’arte di Nicholas Fantini, si è affidato alla piattaforma di crowdfunding Musicraiser. Nato a Bogotà 32 anni fa da padre italiano e madre colombiana, oggi il rapper abita a Busto Arsizio e gira l’Italia con i suoi concerti. Sul web ha raccolto dai seguaci quasi 70mila euro, cifra record per l’Italia, con cui ha prodotto il suo secondo disco ufficiale “Beats & Hate”, andato letteralmente a ruba. Tra gli emergenti di grande talento c’è chi riscopre le origini come il cantautore napoletano Giovanni Block, che nel secondo album “S.P.O.T (senza perdere ’o tiempo)” abbraccia il vernacolo della sua città (Napoli) e fa pensare a Pino Daniele, come nella canzone “Adda venì Baffone”, e c’è chi resta invece nel solco del rock come la triestina Chiara Vidonis al debutto con “Tutto il resto non so dove”, undici brani tutti scritti da lei. E chi infine, come il romano Lucio Leoni, nel suo primo album “Lorem Ipsum” unisce teatro e canzone popolare, rock, improvvisazione strumentale e rap metropolitano. Come nella canzone “A me mi”, una sorta di manifesto generazionale sempre in bilico tra commedia e tragedia. «La mia generazione è incompresa, la mia generazione è morta, la mia generazione è stanca, la mia generazione è finita / Perché, dati Istat alla mano, è compresa nella forchetta temporale che porta dal boom economico immaginario degli anni Ottanta fino alla crisi economica devastante e questa volta reale, degli anni Dieci». Lucio Leoni ci scherza su ma, almeno dal punto di vista musicale, la sua generazione è più viva che mai.

I misteri (svelati) di Ruggeri: «Sanremo? Qualcosa di pilotato». Il cantautore si racconta nel libro «Sono stato più cattivo»: «A 60 anni sono più libero. La cocaina è un ricordo triste: mi drogavo perché avevo i soldi», scrive Pasquale Elia il 5 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera”. Fintanto che era solo una canzone, La giostra della memoria è rimasta ferma lì con tutto il suo carico di aneddoti più o meno sorprendenti. Ma quando poi Enrico Ruggeri ha deciso di metterla in moto, allora ha iniziato a girare macinando ricordi che solo ora possono essere svelati sperando che la loro lontananza nel tempo non irriti nessuno. «Mettere per iscritto la mia vita è stato un percorso molto duro, con momenti di autentico dolore», scrive Ruggeri nell’ultimo capitolo di Sono stato più cattivo, la sua autobiografia di 240 pagine che esce oggi per la Mondadori. «Non mi sono mai aperto veramente con nessuno, fino al momento in cui ho scritto questo libro».

C’è un motivo per cui ha scelto di farlo solo adesso?

«Perché ho compiuto 60 anni e perché probabilmente mi sento meno impacciato nel raccontare di persone che non vivono più in questo mondo e di altre che non vivono più nel mio mondo».

E allora via libera alla giostra della memoria, che smuovendo l’aria spazza via quel velo di polvere che si è posato su decine di amori; sul rapporto difficile con il papà depresso; sulle rogne politiche; sui contrasti con le femministe; sulle grane giudiziarie per via di uno spinello; sui retroscena di una Rai che con lui non si è comportata proprio come una mamma; sulla voglia di sfuggire al conformismo della contestazione degli anni 70; sul sogno di sfondare nella musica seguendo la strada (più scomoda) del punk anziché quella (più comoda) del pop. Peschiamo a casaccio nel mucchio di episodi: nel 1993 con «Mistero» vinse Sanremo e di diritto partecipò all’Eurofestival. È da tempo che circola la voce secondo cui la Rai ha sempre tramato per non aggiudicarsi la manifestazione europea, altrimenti per regolamento avrebbe dovuto ospitare l’edizione successiva...

«Non è per nulla una leggenda. Andai in Irlanda per la gara e la funzionaria che mi accompagnava mi disse: “Sono qui per evitare che lei arrivi primo”. La Rai non voleva spendere tutti quei quattrini per organizzare l’evento di cui forse non le importava granché, visto che da noi non faceva grandi ascolti in tv».

Nel 2003 torna a Sanremo in coppia con la sua attuale compagna Andrea Mirò e nell’autobiografia svela un inquietante retroscena.

«Però vero. Una nota signora dello spettacolo convinse tutta la giuria di qualità a darci zero per aprire la strada del podio a un suo amico».

Il nome?

«Non lo faccio nemmeno nel libro, ma basta andare a spulciare le cronache di allora per scoprire di chi si tratta».

Non ha timore di gettare discredito su un monumento nazionale come il Festival?

«Ma io non parlo di frode, piuttosto faccio intendere che magari c’è qualcosa di pilotato. Basta comporre le giurie in un certo modo o far chiudere il televoto a una certa ora e il gioco è fatto. E non credo che esista nemmeno il sistema perfetto per evitare dubbi sull’esito della gara. D’altronde Sanremo fa girare milioni di interessi e qualcuno quel benedetto trofeo se lo deve pur portare a casa».

Malgrado l’età più matura, non sembra disposto a concedere molto spazio alla diplomazia. Pentito di questo suo carattere?

«Sono fatto così... Quando mi ribellavo alle mode politiche dell’epoca era perché non sopportavo le imposizioni e perché ero convinto che bisognasse scandalizzare il sistema».

A restare scandalizzato invece fu lei quando nel ‘76 al Palalido di Milano fu tra i testimoni degli assalti degli autonomi a Lou Reed e a Francesco De Gregori.

«La musica non dovrebbe essere toccata. E in quelle occasioni ho assistito al trionfo dell’ottusità: ma come si poteva accusare Lou Reed di nazismo o De Gregori di essere un borghese?».

Lei è stato spesso accostato alla destra.

«Solo perché mi rifiutavo di far parte di un certo establishment che governava Milano».

A lei piaceva anche provocare: scrisse un brano contro le femministe...

«Avevo 19 anni e quello sberleffo mi divertiva».

Ha avuto molti rapporti, da Mariangela D’Abbraccio a Loredana Bertè. Però c’è stata una donna, non così famosa, che l’ha fatta soffrire, a cui ha dedicato «Contessa» ai tempi dei Decibel.

«Quando si scrivono certi brani è come cadere in uno stato di trance: liberi la mente e cerchi di girare alla larga dalla didascalia, nemico principale delle canzoni».

Peraltro circolava un’interpretazione sbagliata di «Contessa».

«Era stato letto come un pezzo legato al mondo di Renato Zero. Niente di vero, ma l’accostamento mi piaceva e non feci nessuna smentita».

Nel suo archivio di guai non mancano le droghe.

«Per colpa di uno spinello finii sotto processo, ma poi fortunatamente fui assolto. Quella storia adesso fa ridere, ma era un’Italia diversa».

E la cocaina?

«In quel caso la faccenda poteva diventare più seria: avevo un mucchio di soldi da spendere e quella polvere era parte integrante della vita sociale di Milano. Ma un giorno decisi di smettere e non l’ho mai più toccata. La cosa che ricordo con più tristezza di quel periodo è che si creava complicità con persone di cui, in uno stato di lucidità, non sarei mai stato amico».

VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.

Brogli a Sanremo, parte la denuncia. Michelangelo Giordano, cantautore 36enne calabrese approdato a Milano in cerca di gloria, si è ritrovato con una lettera di esclusione in mano, scrive Martino Villosio su “Il Tempo”. L'appuntamento è per il 13 aprile 2015, tribunale civile di Imperia. È lì che andrà in scena la prima "puntata" di un dopo Festival al vetriolo. Una querelle diversa da quelle costruite ogni anno per insapidire le tradizionali settimane sanremesi, perché stavolta di mezzo c'è una causa per danni, e le accuse - la cui eventuale fondatezza toccherà ai giudici riscontrare - di un giovane cantautore calabrese. Si chiama Michelangelo Giordano, ha 36 anni e nel suo curriculum rivendica alcuni guizzi pregevoli, come la vittoria del premio "Una canzone per Amnesty 2013", oltre ad un mentore del calibro di Mogol che lo avrebbe notato durante un seminario di musica organizzato dalla scuola di musica fondata dallo stesso paroliere (il CET) incoraggiandolo a trasferirsi dalla Calabria a Milano. Il concorso Giordano, lo scorso settembre 2014, decide di iscriversi alla manifestazione "Area Sanremo 2014", promossa con bando pubblico e gestita dalla società "Sanremo Promotion" controllata dal comune ligure. Il concorso, che ha aperto le porte della partecipazione al Festival della canzone italiana 2015 ai suoi due vincitori, prevedeva nella sua prima fase la selezione di 40 finalisti da parte di un'apposita commissione di valutazione, composta dalla storica voce dei Pooh Roby Facchinetti (presidente), dalla cantante Giusy Ferreri e dal produttore e rapper Dargen D'Amico. A novembre, Giordano si è esibito davanti a quella giuria eseguendo il brano "Chi bussa alla porta", tema impegnato (il panico e la sofferenza di chi è vulnerabile ai suoi attacchi), parole e musica scritte da lui. Al termine, come riportano i suoi avvocati Marzia Eoli e Luca Fucini nell'atto di citazione presentato ad Imperia contro la Sanremo Promotion, i giudizi della commissione sarebbero stati "entusiasti", sia per "l'originalità del brano prescelto" che per la musica e il testo. Un giudizio positivo che troverà riscontro, evidenziano ancora gli avvocati, nella scheda di valutazione di Giordano al quale Roby Facchinetti attribuirà addirittura quattro dieci su quattro. La doccia fredda Cinque giorni dopo, però, l'artista riceve da Sanremo Promotion la comunicazione del mancato superamento della fase eliminatoria. Chiede di poter visionare la propria scheda di valutazione, e davanti ai giudizi "più che lusinghieri" (scrivono i suoi due avvocati) che la inchiostrano rimane ancora più sconcertato. Decide così di fare un accesso agli atti, per confrontare la sua scheda con quelle dei 40 finalisti, per conoscere i criteri di valutazione adottati e per visionare i verbali della commissione contenenti questi ultimi. Punteggi più alti Dalle schede, recita ancora l'atto di citazione, emerge che "alcuni candidati ammessi alla successiva fase finale riportano giudizi espressi, sia con punteggi numerici e sia con il giudizio complessivo, di gran lunga inferiori a quelli riportati da Giordano". Nella scheda di valutazione, in effetti, il cantautore ha un 9,17 (media finale dei punteggi ottenuti per le singole componenti dell'audizione e cioè voce, presenza scenica, performance e brano) e un 9 (giudizio complessivo espresso dai commissari). Altri quattro concorrenti selezionati al suo posto tra i 40 finalisti, portati come esempio nella citazione, hanno tutti voti inferiori al 9, oscillanti tra l'8,80 e l'8,50. "Perché", si chiede l'artista, "sono stato scartato dopo essere stato valutato così positivamente?". Il verbale Nel verbale stilato dalla commissione e che data a prima dell'inizio delle selezioni, in realtà, si dice che "al termine di ogni audizione la commissione compilerà una scheda dell'esibizione. La commissione stabilisce che le valutazioni contenute nelle suddette schede non determineranno la classifica finale dei candidati e quindi non saranno in alcun modo vincolanti in ordine alla scelta dei finalisti". Quelle valutazioni formulate dai giurati andrebbero considerate alla stregua di consigli utili ai giovani concorrenti per individuare i propri punti forti e quelli da perfezionare. Per gli avvocati di Giordano, invece, le cose non starebbero così. Le schede di cui si parla nel verbale sono definite "dell'esibizione" e non "di valutazione", dicono. Nel bando di concorso che disciplina "Area Sanremo 2014", riportano inoltre nella citazione, all'articolo 6 si legge che "la commissione di valutazione adotterà le proprie decisioni in seduta segreta secondo i criteri che saranno resi noti ai candidati prima dell'inizio delle selezioni mediante pubblicazione sul sito internet www.area-sanremo.it". Il bando e i criteri delineati nel sito, sostengono gli avvocati di Giordano, sarebbero pertanto l'unica "legge di gara" individuabile e le schede di valutazione "l'unico elemento di giudizio in cui la commissione ha espresso un punteggio numerico per ogni parametro ispirato ai criteri fissati sul sito internet". "Siamo di fronte a una selezione con bando pubblico", afferma Giordano al telefono da Sesto San Giovanni, "un parametro di valutazione trasparente doveva esistere e i punteggi delle schede di valutazione sono l'unico che si possa individuare in questo concorso". Gli avvocati del cantautore chiedono alla Sanremo Promotion 250.000 euro, puntando su un risarcimento per "perdita di chance" dal momento che il loro assistito, escluso dalla selezione finale malgrado l'alto punteggio ottenuto, non ha potuto esibirsi davanti ai rappresentanti delle principali case discografiche multinazionali e ai manager musicali ammessi all'ascolto dei 40 finalisti. Chiedono anche il ristoro dei 3.860 euro che l'artista, al pari degli altri 3876 concorrenti, ha dovuto spendere per poter partecipare alla selezione. Inclusi, riportano ancora gli avvocati, i soldi versati per la partecipazione ad un corso di formazione per gli iscritti, obbligatoria per poter accedere alle selezioni vere e proprie, con vitto, alloggio e viaggio a carico dei cantanti. Il comune di Sanremo, da noi contattato, non ha inteso per il momento commentare la vicenda. Abbiamo fatto pervenire una richiesta di replica anche a Sanremo Promotion, posta in liquidazione a febbraio dopo il voto a maggioranza del consiglio comunale cittadino, senza però venire ricontattati.

Denis Fantina, la star di Amici rifiutato al talent The Voice di Rai 2, scrive “Libero Quotidiano”. Il talent The Voice quest'anno è diventato l'ultima spiaggia di tanti cantanti quasi dimenticati. Dopo Chiara Iezzi di Paola e Chiara, nell'ultima puntata del talent in onda su Rai 2 si è presentato Denis Fantina, vincitore della prima edizione di Saranno Famosi, oggi conosciuto come Amici, ben 15 anni fa. I giudici però lo hanno bocciato clamorosamente. Denis ha cantato il brano di Marco Mengoni "Credimi ancora" e, una volta capito chi fosse, i giudici hanno cercato di giustificarsi. Il primo ad arrampicarsi sugli specchi è stato il giudice Francesco Facchinetti: “Per quanto riguarda il team Fach eravamo quasi sul pulsante, hai fatto trenta e non hai fatto trentuno”. Cerca di metterci una pezza anche Piero Pelù: “Io non mi sono girato perché tu hai portato questo pezzo di Mengoni e lo hai cantato con un piglio metallaro ma se tu ti fossi buttato più sul versante heavy metal ti avrei votato. Complimenti perché hai cantato da Dio”. Un'amara consolazione, senz'altro.

Le Blind Audition di The Voice 3 sono terminate, scrive "Panorama”. Il 25 marzo 2015 i quattro coach hanno infatti completato le loro squadre, che comprendono 16 talenti per team, e dal prossimo mercoledì si passa dunque alla seconda fase del talent show, ovvero le Battle: accoppiati due a due dal proprio giudice, i cantanti dovranno scontarsi per rimanere in gara cantando la stessa canzone. In queste puntate, l’eliminato avrà la possibilità di essere ripescato da un altro giudice. È il momento di osare e di fare il grande salto, è l’ultima chance per molti degli aspiranti cantanti, visto che i quattro team sono quasi chiusi. Nella lunga carrellata di talenti che si sono esibiti ieri sera, ce n’è uno già noto: alle audizioni al buio si è presentato anche Dennis Fantina, vincitore di Saranno Famosi, cioè la prima edizione di Amici. “Quando vinci credi che il tuo mondo cambi totalmente, invece non è così – racconta nell’rvm di presentazione – Oggi collaboro con un bar, si fa fatica, meno male che mia moglie lavora. Dopo il programma ho fatto album e concerti, poi il fermento è venuto meno. Voglio masticare nuovamente musica: della mia voce mi fido molto, dell’emozione no. Me la gioco e vediamo cosa accade”. Così sale sul palco e canta Credimi ancora di Marco Mengoni – e su Twitter Fiorello sottolinea la scelta sbagliata del brano - ma nessuno dei giudici si gira. Il primo a riconoscerlo è Francesco Facchinetti, poi a ruota gli altri. Quando torna nel backstage Fantina è visibilmente contrariato e intanto i giudici commentano la sua esibizione. “Se canta Zarrillo, spacca”, azzarda Facchinetti e J-Ax replica ironico: “Ma nessuno vuole che canti Zarrillo, nemmeno Zarrillo”. Francesco e Roby Facchinetti - ribattezzato “il sommo maestro, l’eccelso cantore”, per via delle perifrasi ardite, dal conduttore Federico Russo – sono i primi a chiudere il team scegliendo Giulia Pugliese. Dunque il cantante dei Pooh non può più schiacciare il “pirellone”, come aveva erroneamente ribattezzato il pulsante che consente alla sedia di girarsi. Il #teamFach è al completo. “Abbiamo iniziato col botto, cioè con la tua caduta, e finiamo alla grande”, commenta Francesco. In totale, padre e figlio portano alla Battle dieci donne e sei uomini: “Abbiamo trovato quello che cercavamo”. Noemi e Piero Pelù hanno un solo cantante da scegliere, J-Ax invece ancora due. Tocca a Noemi tagliare il traguardo per seconda e chiudere il team dei fiori d’acciaio – così lo chiama perché, spiega, delicato ma al tempo stesso solido – e scommette su Giuseppe Izzo. “Quest’anno il team Noemi spacca. Non mi sono focalizzata su un solo tipo di voce: ho timbri unici e super pop, è molto eterogeneo”. Contenta e soddisfatta. Restano tre posti a disposizione e Pierluca Tevere ipoteca l’accesso alle Battle conquistando Piero Pelù, che pigia il pulsante poi s’infila sotto il tendone che nasconde il cantante a tutto il pubblico. “Stavo svenendo quando ho visto la testa di Piero”, commenta Pierluca. “Mi aspettavo una donna, è stato un piacevolissimo shock. Il team Diablo ha una grandissima varietà di timbri e di personalità”, commenta il coach. Il quindicesimo posto nel team J-Ax se lo aggiudica invece Edoardo Esposito, in arte Edo Sparks, poi il rapper la tira per le lunghe, fa esibire quattro diversi aspiranti cantanti ma non trova quella che definisce “una voce killer”. Alla fine punta su Maurizio Di Cesare, cagliaritano di 22 anni, che lo conquista e chiude la Blind Audition. “Questa è la voce che volevo: mi fa perdere la testa. Ora il team loser 2.0 è chiuso: mi sono lasciato guidare da istinto ed emozione, ho tentato di cercare cose non precise o intonate, ma stilose”.

The Voice, Dennis Fantina fuori: “Hai cantato la canzone sbagliata”. E lui su Facebook: “Il brano non l’ho scelto io”, scrive Michele Monina su “Il Fatto Quotidiano”. L'eliminazione dell'ex vincitore di Amici non è certo un caso di Stato ma fa un po' specie che si escluda un professionista accampando scuse ridicole. Così come fa specie che i giudici, specie Noemi, la cui carriera è tutta da costruire, e Francesco Facchinetti, si lascino andare a commenti lapidari non si capisce bene da che altezza. Ci risiamo. Ieri sera si sono chiuse le Blind audition di The Voice, terza stagione, e come era già capitato in passato con la cantante dei Jalisse, eliminata alla cieca, i cinque baldi giudici hanno seccato Dennis Fantina, primo vincitore di Amici di Maria De Filippi, una vita fa. E esattamente come è capitato con colei che ha reso Fiumi di parole uno dei peggiori incubi della nostra giovinezza, via a scuse e supercazzole per giustificare l’aver escluso incautamente un professionista dalla futura competizione televisiva. Ora, partiamo da un presupposto fondamentale, The Voice è un programma tv. Niente a che fare con la musica. Nessun cantante di successo è uscito da li, neanche altrove. Chi ne esce rafforzato, molto, è il giudice, che in Italia, come altrove, vede spesso una carriera morta di colpo rinata. Ma di musica, niente. Dennis è stato sputato sul palco a giochi praticamente fatti. Pochi i posti disponibili rimasti, e quindi selezioni più ardue. I giudici, mentre cantava, ne hanno decantato le doti, ma nessuno si è girato. Bye bey Dennis. La canzone non è adatta, hanno detto, aprendo un piccolo caso. Perché, anche qui, ci si pone una domanda: chi decide le canzoni da proporre? Spesso gli autori stessi. Quindi, decidono di giocare un volto conosciuto a giochi fatti, gli scelgono la canzone e tanti saluti. Chiara di Paola e Chiara, per dire, la cui presenza sicuramente è più interessante rispetto a quella d Dennis, un po’ usurato dal tempo, è stata messa in condizione di passare a scatola chiusa, tra le prime a esibirsi. Non che l’eliminazione di Dennis sia un caso di Stato, chiaro. Ma fa un po’ specie che si escluda un professionista accampando scuse ridicole. Così come fa specie che i giudici, specie Noemi, la cui carriera è tutta da costruire, e Francesco Facchinetti, si lascino andare a commenti lapidari non si capisce bene da che altezza. Diciamolo, The Voice, che l’anno scorso ha avuto un po’ di successo non certo per la voce di Suor Cristina, ma per il famoso abito che fa la monaca, è il talent con meno talento tra quanti si vedono in giro. E quando un talento c’è, spesso, viene lasciato scappare, per pura opportunità televisiva. Non è un caso che Laura Pausini si sia guardata bene dal venire a fare il giudice in Italia, andando prima in Messico e poi, ora, in Spagna. Ora le squadre sono chiuse, c’è una trans, qualche caso umano, Chiara Iezzi e poco altro di interessante. C’è j-Ax coi suoi stucchevoli Axforismi, Noemi con la sua boria, i due Facchinetti che mettono in scena un quadretto familiare tutto da dimostrare e Piero Pelù, l’unico che sembra affrontare la cosa con un minimo di cuore. Poi c’è la gara, ma fortunatamente non lascerà traccia dietro di sè.

POVIA ED I MORALIZZATORI.

Saccenti e cattivi. Ecco a voi i sinistroidi.

I moralizzatori della rete prendono di mira Povia. Ovviamente sono quasi tutti utenti fake, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Giuseppe Povia come Red Ronnie. Amaro destino per artisti o personaggi pubblici che non fanno del “politicamente corretto” la loro ragione di vita. Guai a dire qualsiasi cosa che non strizzi l’occhio al pensiero unico e dominante della kultura, ossia al pensiero, se così si può chiamare, della sinistra. Anche un innocente post come “L’Italia va gestito da italiani”, in riferimento alla nomina del ministro italo-congolese Kyenge la “nera”, può scatenare una reazione turbolenta da parte degli evangelizzatori giustizieri della rete. Era già successo a Red Ronnie quando aveva osato andar contro il guru Giuliano Pisapia in piena campagna elettorale per le amministrative di Milano, ora la medesima sorte è riservata a Povia, reo di avere espresso un semplice parere su facebook. La fan page di Povia non è invasa come quella di Red Ronnie ai tempi, ma il cantante riceve quotidianamente messaggi di insulti o disprezzo, a volta dal contenuto palesemente diffamatorio, altre con minacce od inviti a “suicidarsi”. Povia, pazientemente e pacatamente, risponde a tutti. Anche agli utenti con nome e foto palesemente fittizi. Inutile dire che i leoni da tastiera si sottraggono regolarmente alla discussione, preferendo la “toccata e fuga” di insulti.

Da qui l'intervento tramite facebook di Antonio Giangrande in favore di Povia. «Sig. Povia, lei conosce Antonio Giangrande? Basta mettere il suo nome su Google e vedere le pagine web che parlano di me e poi, cliccare su libri. Li si vedranno i titoli di tutti i saggi che ho scritto, ciascuno di 800 pagine circa. Dimostro in fatti, quello che lei, traduce nei suoi testi. Libri che ho scritto dopo 20 anni di ricerche. Sono censurato, come lei, perché scomodo. Le devo dire, però, caro compagno di viaggio, orgogliosi di essere diversi, che a quelli come noi liberi e non omologati alla cultura sinistroide, non rimane che raccontare con i propri libri e con le proprie canzoni la realtà contemporanea ai posteri ed agli stranieri, perché in Italiopolitania, Italiopoli degli italioti, siamo un seme che mai attecchirà.»

«Antonio, grazie, pubblicalo sulla mia bacheca quello che hai scritto, che mi fai sentire meno solo e guardati questi video sennò non capisci bene. Ci vediamo in live Giuse.»

"Chi comanda il mondo": il web si schiera pro e contro sulla canzone di Povia, scrive di Don Ferruccio Bortolotto su “Riviera 24”. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Domanda, denuncia vie di soluzione ed un’aggressiva quanto risanatrice profezia sono nel ritmo della canzone di Povia «Chi comanda il mondo». Ho guardato e riguardato il video, che mi è stato inviato da un amico, con la matita in mano per fermare sulla carta i frammenti della visione del cantautore, che come pugni rompono i muri di pietra degli occhi e della testa. «La musica può arrivare dove le parole non possono» - canta Povia – ed è vero: le sue percussioni e la sua voce scavano un solco che non può lasciare indifferenti. In questo caso la musica riesce a diventare un imperativo ascoltato dalla nostra volontà intorpidita e saccheggiata di dolore e di potere. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Cerco un silenzio che non sia quello che precede ed accompagna il sonno, ma quello di chi con attenzione veglia custodendo il fuoco di un desiderio profondo che tutti abbiamo nel cuore: la voglia di sapere.  Non difendere questo desiderio è acconsentire alla tirannia.

Povia e Assotutela: botte da orbi sul web. L'artista accusato di "istigare l'odio razziale" nel suo ultimo brano "Chi comanda il mondo?", scrive Chiara Rai su “Il Tempo”. Il cantautore Giuseppe Povia e il presidente di Assotutela Michel Emi Maritato danno spettacolo su Facebook. Ad accendere la miccia non è stato l'artista: l'ultima canzone di Povia ha mandato su tutte le furie Maritato il quale non digerisce le parole contenute nell'ultimo brano dell'artista a tal punto da minacciarlo di denuncia per istigazione alla violenza e all'odio razziale. Queste accuse pesanti come macigni sorgono, secondo Maritato, da alcuni passaggi che conterrebbero messaggi subliminali che alimenterebbero l'antisemitismo. Così, sicuro della sua veste di paladino della causa, il presidente di Assotutela non risparmia commenti al vitriolo: "Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia - esordisce Maritato - in questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall'Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina. Il nuovo brano ‘Chi comanda il mondo?’ contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo". E poi minaccia: "Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali - conclude -  stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all'odio razziale, mi meraviglio della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento". In pratica la tesi di Assotutela è questa: dato che Povia sarebbe in decadenza, l'unica forma di promozione è lanciare un pezzo shock per alimentare le polemiche e dunque vendere più dischi. Ma la risposta del cantautore non si è fatta attendere. Povia non ci sta e le canta al presidente Maritato: "Addirittura una denuncia? Invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte". E poi l'artista spiega meglio: "La canzone 'Chi comanda il mondo?' è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto". Povia, rivolgendosi poi direttamente ad AssoTutela commenta: "Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure". Il cantautore infine conclude con un invito invito al dialogo: "Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone: 'siamo divisi dai simboli, noi singoli' ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci". Ma la questione non sembra chiusa qui, a quanto pare le spiegazioni sembrano non essere sufficienti. Soltanto la conclusione del continuo tam tam di messaggi sul social network potranno dirci chi dei due avrà la meglio sull'altro.

Testo - Chi comanda il mondo? – Povia

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

C’è una dittatura di illusionisti finti

economisti equilibristi

terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti

che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti

gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia

fino a portarci all’apatia

creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa

media, oggetti, nomi, colori, simboli

la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli

dormiamo bene sotto le coperte

siamo servi di queste sorridenti merde

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e www.nuovecanzoni.com disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene

La libertà e la lotta contro l’ingiustizia

non sono né di destra né di sinistra

la musica può arrivare nell’essenziale

dove non arrivano le parole da sole

gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati

da Maastricht a Lisbona

siamo tutti indignati perché questi trattati

annullano ogni costituzione

quì bisogna dare un bel colpo di scopa

e spazzare via ogni stato da quest’Europa

se ogni stato uscisse dall’Euro davvero

magari ogni debito andrebbe a zero

perché per tutti c’è un punto d’arrivo

nessuno lascerà questo mondo da vivo

vogliamo una terra sana, sana

meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

Fate la nanna bambini volati nei cieli 

Povia e il coraggio di dire di no: meglio una moneta sovrana che puttana, scrive Gloria Sabatini su “Il Secolo d’Italia”. Chi comanda il mondo? Chi comanda il mondo? È la domanda ossessiva che dà il titolo all’ultimo album di Giuseppe Povia, che, piglio naif e linguaggio scomodo, apre uno squarcio di luce potente sull’attualità mettendo in musica il suo gigantesco no al dominio planetario della grande finanza, di «illusionisti e finti economisti». C’è una dittatura – canta Povia – un dittatura senza volto, fatta di balle e finte illusioni che vorrebbe un popolo inebetito. «Silenzio / fate la nanna bambini / verranno tempi migliori / Chi comanda il mondo? / C’è una dittatura, c’è una dittatura / Non puoi immaginare quanto fa paura / Chi comanda il mondo? / Oltre che il potere /  vuole il tuo dolore / e dovrai soffrire / e sarai costretto ad obbedire…», è l’incipit del brano che farà discutere e solleverà lo sdegno delle anime belle del progressismo planetario, quelle sempre pronte a gridare allo scandalo e al complotto. «C’è una dittatura di illusionisti finti economisti equilibristi, terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti…Ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia fino a portarci all’apatia». La dichiarazione di guerra all’eurocrazia non potrebbe essere più esplicita: «Gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati da Maastricht a Lisbona, siamo tutti indignati perché questi trattati annullano ogni costituzione». Povia conferma la sua verve provocatoria e anti-ideologica quando canta che «la libertà è la lotta contro l’ingiustizia non sono né di destra né di sinistra, la musica può arrivare nell’essenziale dove non arrivano le parole da sole». Un passo avanti a molti politologi e opinionisti. E per finire un appello contro i grand commis di oggi e di ieri: «Qui bisogna dare un bel colpo di scopa e spazzare via ogni Stato da quest’Europa. Se ogni Stato uscisse dall’euro davvero magari ogni debito andrebbe a zero. Vogliamo una terra sana sana, meglio una moneta sovrana che una moneta puttana».

Messo in croce dal web. L’autore de I bambini fanno oh e di Luca era gay non è nuovo ad attacchi e isterie online. Qualche giorno fa Michel Emi Maritato, presidente di Assotutela, ha ingaggiato un derby a distanza dalla sua bacheca Facebook accusando Povia di contenuti antisemiti e arrivando a minacciare denunce «per istigazione alla violenza e all’odio razziale». «In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina».  A dir poco squallida la tesi di Assotutela secondo la quale l’artista   avrebbe lanciato il pezzo shock per  vendere più dischi e risalire dalla “decadenza”. «Addirittura una denuncia – risponde elegantemente Povia – invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte. La canzone Chi comanda il mondo? è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto». Dov’è lo scandalo? «Se vi riferite alla frase “messo sulla croce in Israele”, vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo, che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell’attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi». Geniale.

Povia e la denuncia per Chi Comanda il Mondo?: il Dott. Maritato fa chiarezza su “New Notizie”. Da due giorni circola inarrestabile sul web la notizia secondo la quale Povia rischierebbe di essere denunciato per il suo ultimo brano Chi comanda il mondo?: a detta di diverse fonti sul web, la denuncia potrebbe partire dall’Associazione per la tutela del cittadino AssoTutela, presieduta da Michel Emi Maritato. Ma facciamo una breve cronistoria di quanto accaduto. Il 5 Marzo Povia pubblica sul proprio canale YouTube il brano Chi comanda il mondo?, brano di denuncia che tende a sottolineare le dinamiche di potere – a volte occulte – che governerebbero il mondo e costringerebbero l’umanità ad una sorta di schiavitù. Passa circa una settimana (e giungono alcune decine di migliaia di views per il video, che vi proponiamo in coda) e si diffonde la notizia secondo la quale AssoTutela sarebbe pronta a sporgere denuncia contro il cantante per le tematiche proposte (vedremo che, in realtà, non è esattamente così). Pronta, quindi, giunge la replica di Povia attraverso Facebook. Dal canto nostro, abbiamo avuto modo di sentire telefonicamente il Dottor Michel Emi Maritato che, disponibilissimo, ci ha spiegato la propria personale posizione: “Per Povia ho una grande stima e mi ritengo un suo fan. Condivido le tematiche espresse nel brano; dal canto mio sono un signoraggista, lavoro quotidianamente per combattere contro l’usura bancaria e gli abusi di Equitalia. Ciò che non condivido è un certo tipo di simbologia esoterica, presente all’interno del video. Una simbologia che sottende una lotta al potere ebraico e che rappresenta una scelta quantomeno poco felice in un momento come quello attuale, con l’incombenza della minaccia dell’Isis”. “Il messaggio poteva passare anche senza determinate immagini, in maniera più delicata”. Circa la denuncia, quindi, il Dottor Maritato ha detto: “La denuncia è al vaglio dei legali. Saremmo comunque felici se Povia accettasse un confronto e spiegasse le sue posizioni, magari attraverso i nostri mezzi di comunicazione”. Per poi concludere: “Povia è una grande arista. Un artista anticonformista che con le sue scelte rischia di essere tagliato dai circuiti mainstream. Chi ha confezionato il videoclip, d’altro canto, ha inserito dei simboli che possono incitare all’odio razziale. Ciò magari è stato fatto senza che Povia ne fosse consapevole, ma rimane il fatto che una determinata simbologia si sarebbe potuta evitare”.

AssoTutela contro Povia per il brano ''Chi comanda il mondo'', scrive “Il Mamilio”. Al centro della vicenda il brano ''Chi comanda il mondo''. “Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia”. Lo dichiara in una nota il presidente di AssoTutela Michel Emi Maritato. “In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi ci manca la genialata di Giuseppe Povia benzina sul fuoco. Il nuovo brano Chi comanda il mondo contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo. Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali, stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all’odio razziale, mi meraviglio – conclude Maritato nel comunicato – della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento''. La reazione di Povia, direttamente dal suo profilo Facebook, non  si è fatta attendere: ''La canzone "Chi comanda il mondo" - scrive - è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto. Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme''. ''Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella - continua il cantante -  avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure. Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo,  stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone:  "Siamo divisi dai simboli, noi singoli"  ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci''.

Per la canzone mi dicono: “VENDUTO!! GUADAGNI SOLDI!!” (Leggete dai..non è possibile), scrive Povia sul suo Blog Lunedì, 09 Marzo 2015. Il video della canzone “Chi comanda il mondo” è stato visto in meno di 4 giorni da oltre 40 mila persone senza pubblicità. SONO SOLO LO VOLETE CAPIRE? SOLO! SENZA PUBBLICITA’. Solo con il vostro PASSAPAROLA e vi dico G R A Z I E! Anzi devo ringraziare anche rispettivamente i creatori di Facebook e Youtube che mi permettono di diffondere un minimo la mia musica e ciò che penso. La canzone l’ho prodotta di tasca mia e il video mi è stato concesso da Marco Carlucci, uno dei più grandi registi social-underground che ci sono nel panorama italiano. Neanche lui è un venduto, sennò non avremmo trovato intesa su certi argomenti che toccano la finanza. Lui è lo stesso che mi fece i video di “Luca era gay” e  “La Verità” realizzati soprattutto per ammirazione artistica e intellettuale nei miei confronti. Abbiamo pensato che poteva nascere un video da quest’altra canzone, punto.  Come andava andava. Senza aspettative. (Parlo di “chi comanda il mondo”). VENDUTO? IO? Dai..vi prego.. Non voglio dire parolacce o insulti perchè non servono in questo caso ma vorrei chiarire che non solo non sono un venduto e non lo sono mai stato davvero, ma non guadagno soldi su questo brano per il seguente ed elementare motivo: Non l’ho caricato sui portali a pagamento, E’ GRATIS, lo potete ascoltare e vedere quando e come volete. Lo ripeto QUANDO E COME VOLETE. Scommetto che ce lo avete già sull’I-pod in mp3 vero? E’ GRATIS. E sarei VENDUTO? E DOVE LI GUADAGNEREI I SOLDI SENTIAMO? Bene, la notizia vera però è questa: SONO IN VENDITA!!!  SONO IN VENDITA, CERTO CHE SI! Ma non ho bisogno di qualcuno che mi produca solo un disco, ho bisogno che sposi il mio pensiero, la mia spiritualità, il mio carattere la mia arte e il mio combattere questo ANTISISTEMA che sta degenerando tutte le nuove generazioni vendendo una “Libertà” fatta di troppa devastazione, troppo eccesso di droga, sesso e amore venduto come quello che si vede sui siti porno gratuiti. IO SONO IN VENDITA! MA NON SONO VENDUTO, MAI! AVREI PARTECIPATO ALL’ISOLA DEI FAMOSI, UN PROGRAMMA PER IDIOTI. Non ce l’ho con chi ci partecipa ma con chi lo guarda. Non è l’abbondanza il problema, ma chi se la beve. e si, ho detto che combatto contro L’ANTISISTEMA, avete capito bene! Il problema è proprio L’ANTISISTEMA! Quello che ci fa sentire in colpa se esprimiamo il nostro normalissimo pensiero. Insultate i vostri idoli! Insultate coloro che vi dicono ciò che volete sentirvi dire. Quelli che girano intorno al problema ma non lo centrano come si deve, perchè si cagano addosso. Quelli che rinnegano i loro testi, le loro canzoni, le loro dichiarazioni. Quelli che parlano di un'umiltà che non ha nessuno in questo mondo e che fanno i finti umili. Insultate quelli che vogliono farvi credere che non si vendono ma che invece in quest’ambiente di cani e cagnette in calore tutti messi a pecora, ci sguazzano e ci si ritrovano proprio bene. Quelli sono i veri VENDUTI e voi i loro COMPLICI PERFETTI. Io sono solo, artisticamente solo e non piango: MI CI GIOVO, ME NE VANTO, GODO! SONO LIBERO.

Povia ad Affari: "Il concerto del Primo Maggio? Non ci vado solo perché fa figo". Intervista di Giovanni Bogani Martedì, 11 aprile 2006. Il piccione di Povia? Abitava su un tetto, nel centro di Firenze. Quello che ha ispirato la canzone che ha vinto a Sanremo, quello che si accontentava delle briciole, quello che volava basso, perché il segreto è volare basso. Stava su un tetto fiorentino. “E neanche lo sopportavo”, dice lui, fiorentino per amore, da cinque anni: per amore della sua donna Teresa, che gli ha dato da poco una figlia. “Ogni mattina, a mezzogiorno, io appena sveglio, e questo piccione a tubare, ad amoreggiare e a rumoreggiare, con tutti i suoi rumorini da piccione. E io, piano piano, mi sono chiesto se non avesse ragione lui, con il suo amore così semplice, in qualche modo così assoluto. E ho cominciato a scrivere una canzone su di lui”. Povia, nelle strade medievali di Firenze, tra i vicoli intorno a Ponte Vecchio, ha vissuto anni di bohème. E in questi anni, ha maturato il suo talento. Ha coltivato i suoi sogni, tra un turno e l’altro del suo lavoro di cameriere. Lo incontriamo in un bar. E ci facciamo raccontare i suoi anni anonimi. Quando ancora il successo era un miraggio lontano, da afferrare, semmai, o forse da non raggiungere mai.

Povia, quali erano i luoghi della tua Firenze?

“Piazza Santo Spirito, dove mi ritrovavo con il mio amico Simone Cristicchi, che aveva anche lui una fidanzata a Firenze; il Porto di Mare e l’Eskimo, due locali dove si fa musica dal vivo, ai quali sono molto legato. E piazza della Passera: lì, al caffè degli Artigiani, un piccolo caffè frequentato da turisti americani, nel mezzo del cuore della Firenze antica, ho lavorato per due anni”.

Hai lavorato a lungo come cameriere?

“In tutto, diciotto anni. Di qua e di là, a Milano, a Porto azzurro all’isola d’Elba, e poi a Firenze”.

Che cosa si impara?

“La pazienza, prima di tutto. E poi si impara a riconoscere le brave persone. E anche gli altri, quelli che brave persone non sono”.

Ci sono stati momenti in cui hai pensato di smettere, di mollare tutto?

“Praticamente, in continuazione. Pensavo sempre: basta, adesso smetto. In questo mondo, nessuno ti apre le porte. Stavo male, mi sentivo a mio agio solo con la mia fidanzata…”.

Quando l’hai conosciuta, Teresa?

“L’ho conosciuta in modo classico, in una discoteca all’isola d’Elba. Dodici anni fa. Teresa è di Firenze; ci siamo visti per sette anni attraversando l’Italia da una parte all’altra. Poi, cinque anni fa, sono venuto ad abitare qui”.

E ora chi sei?

“Uno che non si considera un artista, ma uno che vorrebbe scrivere canzoni per tutti. Per comunicare alla gente. Uno che vorrebbe essere semplice, e chiaro, e dare emozioni. Insomma, vorrei essere ‘pop’. E non sono né di destra né di sinistra. Ho cantato per il papa, ma non per vestirmi di una bandiera. Perché ci credo io, e basta”.

Insomma, tu non ti schieri. Ma la religione è importante per te. Da quando?

“Da quando ero depresso, praticamente disperato. Non riuscivo a sfondare con la musica, passavo da un lavoro di cameriere all’altro, non avevo neanche una città di cui potessi dire: è casa mia….E poi, nella sala di aspetto di una stazione, do un euro a un frate cappuccino che chiedeva, con molta discrezione, dei soldi. Lui mi dice: siediti. Come, siediti? Mi sono seduto, perché ho visto che aveva un volto intenso, serio, che aveva qualcosa da dire. Abbiamo parlato. E questo frate cappuccino mi ha cambiato la vita”.

Come è la tua vita adesso?

“Semplicissima. Sto con la mia donna, Teresa, con mia figlia Emma, che ha 15 mesi e comincia a ‘gattonare’. E vado a fare la spesa al supermercato, come tutti”.

E’ più bello scrivere le canzoni o cantarle?

“Per me, scriverle. Mi ci vogliono cinque minuti per avere un’idea, e mesi per finire una canzone. E nel mezzo, c’è il lavoro più bello del mondo. Dare vita a una melodia, a un’armonia, a delle parole. Creare qualcosa che prima non esisteva. A volte mi stupisco ancora, di questo miracolo che accade ogni volta”.

Una curiosità. Ma dove abitava il piccione della canzone con cui hai vinto Sanremo?

“Di fronte alla mansarda dove vivevo io, a Firenze. Mi svegliavo, e vedevo tutti i giorni questo piccione che tubava. Non lo sopportavo: io non amo i piccioni, per niente! Ma poi ho capito che aveva la sua ragione di vita, che aveva il suo diritto alla felicità, all’amore. E che, a suo modo, sui tetti di fronte a casa mia, lui  viveva l’amore in un modo assoluto”.

Quale canzone stai scrivendo?

“Una canzone sull’amicizia. Che sarà più bella di tutte quelle che ho scritto fino ad ora. Ma una canzone non si fa in cinque minuti. Ci vogliono mesi. In cinque minuti ti viene un’idea, un titolo, un ritornello. Il resto è lavoro, è fatica”.

Concerti? Farai quello del Primo Maggio?

“No. Ma non perché ho suonato per il Papa, e non faccio il Primo Maggio. Non lo faccio perché molti suonano in quel concerto per atteggiamento, e non per convinzione. Ci vanno perché fa figo”.

«Preferisco rinunciare sia a consensi, sia a compensi - spiega Povia in un video pubblicato sul suo profilo Facebook il 10 marzo 2015 - Perché tanto so che se dico di sì a uno, poi gli altri se la prendono e storcono il naso. Tanto sempre è andata così. Nel 2005 stavo partecipando con i”I Bambini fanno oh” al concerto del Primo maggio a Roma, ma poi mi dissero: se vieni da noi, poi non devi mai andare con gli altri. Allora risposi: no, grazie. E da lì il mio percorso è quello che conoscete, senza mai nessun appoggio politico o discografico e sempre pieno, pieno di critiche e di insulti che non tarderanno ad arrivare».

POVIA: SE CANTASSI "LUCA E’ TORNATO GAY" DIREBBERO CHE HO SCRITTO UNA CANZONE BELLISSIMA. Intervista di Davide Maggio. Con le sue canzoni ha fatto parlare spesso di sè negli ultimi anni. Prima “I bambini fanno oh” poi “Luca era Gay”, passando per “Vorrei avere il becco”, Giuseppe Povia è un cantautore che sa come colpire l’opinione pubblica. In occasione del suo impegno a I Migliori Anni,  abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui e ne è uscita fuori l’immagine di un cantautore con le idee chiare, che crede molto nel suo lavoro, consapevole del fatto che le critiche siano parte del gioco. L’importante, dice, è essere intellettualmente onesti.

Stai ricevendo consensi di pubblico a I Migliori Anni. Essere popolare ti lusinga o ti infastidisce perché allontana la tua immagine da quella del cantautore di nicchia?

«Quando hai qualcosa da dire devi essere popolare, perché a più persone arrivi e più puoi aiutare, altrimenti è inutile che fai arte, inutile che fai musica. Ci sono invece personaggi di nicchia che vogliono rimanere nella nicchia… ma se la raccontano. Io guardo fissa la telecamera perché la gente deve riconoscere in me uno che canta delle canzoni che possono aiutare a vivere meglio. La musica può cambiare tantissime cose. I bambini fanno oh ha aiutato dei bambini a uscire dal coma».

In Italia esistono dei cantautori di serie A e di serie B?

«Sono gli addetti ai lavori che ti accreditano o screditano. Ogni artista ha un consenso da una parte e poco consenso dall’altra. Io, per esempio, vengo attaccato da varie fazioni per le tematiche che tocco, da altre invece vengo acclamato. E’ chiaro però che mi sento cantautore a 360 gradi e non posso parlare solo d’amore. De Gregori fu attaccato dalla critica velatamente perché lo accusarono di aver offeso le persone obese con La Donna Cannone, oppure De Andrè fu criticato perché istigava alla prostituzione con Bocca di Rosa. Non mi sto paragonando a loro, dico solo che la strada che seguo nella musica è quella del cantautore. Se scrivo “Luca era gay” o “La verità”, ispirata alla storia di Eluana Englaro, ci sono dei motivi che vanno oltre la furbizia per far parlare di me. Ma poi chi non è furbo in questo ambiente? (ride) E meglio esserlo su argomenti intellettualmente onesti che per le movenze o per i vestiti»

Conosci Pierdavide Carone?

«Si, l’ho sentito a Sanremo dove ha portato un pezzo che mi piaceva con Dalla e poi ha cantato “Di Notte”, una canzone che andava su parecchie radio. So che è un autore giovane e gli autori giovani servono in Italia. E poi è uno dei pochi che scrive pure per gli altri e non solo per sé».

Il tuo rapporto con i talent, dunque?

«Non ce l’ho con i talent. Da una parte è positivo perché parla di musica e dall’altra parte è deleterio perchè  su 40 persone che partecipano non ce la possono fare tutti. Se hai una squadra di persone che ti stanno dietro e che fanno un progetto per te come è stato fatto per la Amoroso, Giusy Ferreri o Marco Mengoni può funzionare. Se fai il primo singolo che magari non va tanto bene e ti abbandonano, vai in crisi psicologica».

Sottolinei spesso l’importanza del cantautorato.

«I cantautori, dal dopoguerra in poi, hanno fatto la storia della musica italiana attraverso filosofie di pensiero e emozioni nuove. Attraverso le loro canzoni hanno parlato di satira, di politica e di tante tematiche sociali. La figura del cantautore dovrebbe tornare a essere qualificata perché negli ultimi dieci anni è stata un po’ sorpassata.  Oggi si tende più ad omologare la musica a un unico genere, a un unico suono. Io ho la sensazione di sentire sempre la stessa canzone cantata da cantanti diversi. Il suono deve essere quello, altrimenti radiofonicamente sei penalizzato. Voglio togliermi dalla testa la parola radiofonico».

Hai inaugurato anche una scuola per cantautori.

«Sì, la scuola è il CMM di Grosseto che è aperta dal 1994 e si occupa di musica a 360 gradi. Al suo interno ho aperto la sezione cantautori che non ha la presunzione di insegnare a scrivere le canzoni, perché le emozioni non si insegnano da nessuna parte. Arrivano molti ragazzi giovani che hanno del talento insegno loro quello che Giancarlo Bigazzi, che per tre anni è stato il mio maestro, ha insegnato a me».

Nel tuo inedito, Siamo Italiani, presentato a I Migliori Anni, avresti potuto essere più cattivo con la nostra descrizione. C’è una strofa che avresti voluto inserire ma poi hai preferito tagliare?

«A essere cattivi ci pensano agli altri, io sono il buonista. Dicono che “siamo italiani è populista”.  Populista è un termine nobile, a parte che finisce per ista. Dovrebbe essere populesimo che è ancora più bello. E’ un termine patriottico, popolare e poi in questo caso è un termine che parla al cuore degli italiani. “Siamo italiani” è una canzone che parla dei nostri pregi e dei difetti. Siamo uno stivale al centro del mondo e tutti ci vogliono mettere i piedi dentro, anche se ci criticano».

Una strofa della tua canzone dice: “siamo italiani, ed è ora di cambiare questa storia. ci meritiamo di vivere in un mondo che abbiamo inventato noi”.

«Gli italiani sono positivi, sono quelli che si rialzano. Non è una canzone cattiva, ma positiva. Sono tutti bravi  a fare gli oratori, ma alla fine l’ipocrisia non paga. Se uno riesce a dire le cose che pensa veramente fa più bella figura anche se ci si brucia una parte di pubblico. Quindi “siamo italiani… su le mani”».

Su le mani, perché?

«Qualcuno intende su le mani perché ci stanno puntando una pistola, invece qualcun altro intende su le mani perché possiamo conquistare pure il cielo. E questo è vero».

Già deciso per chi votare?

«Non ancora, non c’è una faccia nuova. Mi piaceva molto Renzi, l’ho conosciuto e avrà tempo per farsi strada. Non è che io sia politicamente disilluso, perché un pensiero ce l’ho, che è quello che va a favore di famiglia, di ricerca, sanità, strutture, di cultura, però alla fine dentro un partito ci sono tre leader che litigano… ti sembra una cosa un po’ una comica e la prendi a ridere. Probabilmente, credo che non andrò a votare perché non mi sento stimolato».

Luca era gay è del 2009.  A cantarla oggi le polemiche sarebbero state le stesse di allora?

«Si, certo. Se cantassi: “Luca non sta più con lei ed è tornato gay” tutti direbbero che ho scritto una canzone bellissima. Io ho cantato “Luca era gay e adesso sta con lei” e sono stato accusato di aver detto che un gay è malato. Io ho rispetto per la parola malattia che credo sia una parola con cui nessuno voglia avere a che fare: nella canzone c’è una strofa che dice “Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia, nessuna guarigione”. Parlavo della storia di una persona che se non si trova in una condizione può cambiare perché – al di là del fatto che la storia sia vera – è vero che si può.  Non ho cantato la parte che avrebbero voluto sentire quelli che fanno i finti paladini difensori. Ho raccontato una storia e non pensavo che succedesse tanto casino. La racconterò tutta la vita. Ad avercene di “Luca era gay”, anche perché è una canzone intellettualmente onesta».

Cosa ne pensi delle adozioni gay?

«Secondo me, un bambino dovrebbe avere una figura paterna e una materna. Questa è pedagogia. Poi da una parte ci sarà la gente che ritiene che sia meglio affidare i bambini a una coppia omosessuale che si vuole bene piuttosto che abbandonarli in un bidone o affidarli ad una casa famiglia. Secondo il mio pensiero personale, e quindi condivisibile o meno, nelle case famiglia lavorano persone preparate e che conoscono i bambini e poi ci sono tantissime coppie eterosessuali in attesa inutilmente che gli venga affidato un bambino».

A differenza che in quello della musica, nel mondo del calcio, l’omosessualità è ancora un argomento tabù.

«Si arriverà anche nel calcio a parlarne. perché il mondo sta andando in quella direzione. Bisogna riuscire ad accettare una persona nella condizione in cui sta bene. Io sono stato scambiato per quello che ce l’ha con i gay, e se fosse così  lo direi. Mi hanno dato dell’ omofobo e adesso quando faccio i concerti spiego cosa significa davvero omofobia. Io non ho paura degli omosessuali. Credo che nessuno ne abbia. Omofobia è un termine politicamente inventato negli ultimi anni. Forse il nuovo termine è “poviafobia.” A Firenze (dove vive, ndDM) non ho nessun problema a entrare in un locale gay, ma in quel momento sento di esser guardato male e allora chi è che discrimina?»

Al posto di Morgan a XFactor o al posto di Grazia Di Michele ad Amici?

«Morgan è uno che giudica e ha il suo carattere, è un cantautore e non ha mai scritto una canzone che ha scalato le classifiche. E’ molto stimato perché ha una grande cultura. Vorrei avere la cultura di Morgan e il buon senso di Grazia Di Michele».

Parliamo di televisione, qual è il programma che proprio non riesci a guardare?

«La pubblicità (ride). Non lo so, non c’è un programma. A parte il calcio, la televisione non la guardo tanto. Guardo Violetta, a cui mi ha fatto appassionare mia figlia Emma. E’ la storia di una ragazzina che canta. Quando verrà in Italia, le ho promesso che la porterò al concerto».

Vasco Rossi o Ligabue?

«Io son cresciuto con Vasco Rossi, con i suoi testi, con il suo stile di vita. Sono stato due anni in comunità perché ho fatto delle cavolate ai tempi in cui avevo venti, ventidue anni. Vasco l’ho ascoltato perché le sue canzoni mi davano la speranza di vivere in una condizione migliore. Cosa che poi è accaduta. Ligabue è molto più preciso. Ha dei testi ultimamente molto più forti..Scrive cose tipo “l’amore conta – conosci un altro modo per fregar la morte” che è una cosa che avrei volto scrivere io».

Devi scegliere un cantante con cui fare un tour. Chi sceglieresti?

«Non sopporto i duetti e queste operazioni discografiche. Forse con Baglioni, ma a cantare i suoi pezzi. Se dovessi  fargli da corista, allora sì».

Il prossimo brano che interpreterai a I Migliori Anni?

«Tanta voglia di lei dei Pooh. E’ la prima canzone che ho cantato…e non è detto che la canti bene».

Sei nella condizione di poter invitare a cena fuori una tua collega de I Migliori Anni, chi scegli?

«Alexia. Non che ci sia qualcosa, per carità (ride). E’ una ragazza intelligente, piacevole, con la quale puoi parlare di tantissime cose.  Ha un cervello, è mamma e a me piacciono le donne mature di testa».

Guarderesti Italia’s Got Talent se non fossi impegnato con I Migliori Anni?

«A me di solito piacciono i programmi di cose inedite. Gli darei un’occhiata per curiosità, ma poi non so».

Hai mai detto in un’intervista qualcosa di cui poi ti sei pentito?

«Si, ma alla fine bisogna dire quello che si pensa. Certo, un cantautore o un personaggio di spettacolo deve stare attento a pesare le parole. Qualunque cosa io dica vengo sempre catalogato in una casella politica. Non mi piace che ogni volta alcuni giornalisti facciano il gioco della collocazione politica dell’editore».

Quando uscirà il tuo disco?

«Esce il 19 novembre che è il giorno del mio compleanno e si chiamerà Cantautore. E poi nel 2014 porterò in giro per i teatri uno spettacolo. Parlerà di tutto, d’amore, di politica, di ironia, di satira, tematiche sociali. Sono 90 minuti di chitarra e voce per rilanciare il concetto del cantautore, far capire, più a me stesso che alla gente, che una canzone resta in piedi anche se è solo chitarra e voce. Una volta fatto questo si può riarrangiarla come vuoi. Oggi invece si fa un po’ il contrario».

Guarderai Sanremo?

«Si. Fazio, bisogna rendergliene merito, ha fatto un Sanremo rischioso, secondo i suoi gusti e con un cast apparentemente di nicchia Con un cast così il rischio è che anche questo Sanremo sarà costruito più sul contorno che  sulla musica. Sono curioso di sentire la canzone di Marco Mengoni che mi piace un sacco. Secondo me potrebbe vincere. E’ uno, che non so come faccia, ma canta come Freddy Mercury».

Hai un look ben distinguibile, all’apparenza sembri uno di quelli che non ci pensa tanto e invece…

«L’abito fa il monaco (ride). Non mi vesto mai in maniera distratta. Sabato scorso ai Miglior Anni ero vestito di bianco, che dà sempre l’idea di pulito… e poi bianco fuori un po’ sporco dentro. Quando mi vesto di nero, metto una collana che fa luce, mi piacciono gli accessori, i capelli lunghi e lo scegliere le scarpe intonate».

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.

Eppure Che Guevara organizzò il primo campo di concentramento per gay, scrive Enrico Oliari su “Quelsi”. Il medico argentino che condusse la rivoluzione cubana organizzò i lager per i dissidenti e gli omosessuali. Questi ultimi furono da lui perseguitati in quanto tali: il “Che” non fu secondo nemmeno ai nazisti. Ecco un ritratto che Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, ha descritto del rivoluzionario. Con la fuga del dittatore Fulgencio Batista e la vittoria di Fidel Castro, nel 1959, il Comandante militare della rivoluzione, Ernesto “Che” Guevara, ricevette l’incarico provvisorio di Procuratore militare. Suo compito è far fuori le resistenze alla rivoluzione. Lasciamo subito la parola a Massimo Caprara (*), ex segretario particolare di Palmiro Togliatti: “Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: ai religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, agli omosessuali, perfino ad adolescenti e bambini”. Nel 1960 il procuratore militare Guevara illustra a Fidel e applica un “Piano generale del carcere”, definendone anche la specializzazione. Tra questi, ci sono quelli dedicati agli omosessuali in quanto tali, soprattutto attori, ballerini, artisti, anche se hanno partecipato alla rivoluzione. Pochi mesi dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale”, ossia di lavoro forzato. È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Poi, sempre quand’era ministro di Castro, approntò e riempì fino all’orlo quattro lager: oltre a Guanaha, dove trovarono la morte migliaia di avversari, quello di Arco Iris, di Nueva Vida (che spiritoso, il “Che”) e di Capitolo, nella zona di Palos, destinato ai bambini sotto ai dieci anni, figli degli oppositori a loro volta incarcerati e uccisi, per essere “rieducati” ai principi del comunismo. È sempre Guevara a decidere della vita e della morte; può graziare e condannare senza processo. “Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino – prosegue Caprara, sottolinenado che Guevara sarebbe legato al giuramento d’Ippocrate – fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e “pericolosi” incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle “quadrillas” di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri”. Sono solo alcune delle sevizie da lui progettate, scrupolosamente applicate ai dissidenti e agli omosessuali. Il “Che” guiderà la stagione dei “terrorismo rosso” fino al 1962, quando l’incarico sarà assunto da altri, tra cui il fratello di Fidel, Raoul Castro. Sulla base del piano del carcere guevarista e delle sue indicazioni riguardo l’atroce trattamento, nacquero le Umap, Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione (vedi il dossier di Massimo Consoli in queste pagine), destinati in particolare agli omosessuali. Degli anni successivi, Caprara scrive: “Sono così organizzate le case di detenzione “Kilo 5,5″ a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite “tostadoras”, ossia tostapane, per il calore che emanano. La prigione “Kilo 7″ è frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di 40 prigionieri. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate “tapiades”, nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere “Tres Racios de Oriente” include celle soffocanti larghe appena un metro, alte 1.8 e lunghe 10 metri, chiamate “gavetas”. La prigione di Santiago “Nueva Vida” ospita 500 adolescenti da rieducare. Quella “Palos”, bambini di dieci anni; quella “Nueva Carceral de la Habana del Est” ospita omosessuali dichiarati o sospettati (in base a semplici delazioni, ndr). Ne parla il film su Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”, di Julian Schnabel uscito nel 2000″. Anni dopo alcuni dissidenti scappati negli Usa descriveranno le condizioni allucinanti riservate ai “corrigendi”, costretti a vivere in celle di 6 metri per 5 con 22 brandine sovrapposte, in tutto 42 persone in una cella. Il “Che” lavora con strategia rivolta al futuro Stato dittatoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, della Sicurezza dello Stato, parecchie migliaia di persone hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Il “Che”, soprannominato “il macellaio del carcere-mattatoio di “La Cabana”, si opporrà sempre con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei “criminali di guerra” (in realtà semplici oppositori politici) che pure veniva richiesta da diversi comunisti cubani. Fidel lo ringrazia pubblicamente con calore per la sua opera repressiva, generalizzando ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori. Secondo Amnesty International, più di 100.000 cubani sono stati nei campi di lavoro; sono state assassinate da parte del regime circa 17.000 mila persone (accertate), più dei desaparecidos del regime cileno di Pinochet, più o meno equivalente a quelli dei militari argentini. La figura del “Che” ricorda da vicino quella del dottor Mengele, il medico nazista che seviziava i prigionieri col pretesto degli esperimenti scientifici.

L’IPOCRISIA SU MIA MARTINI. 

Fake news, il veleno che piegò Mia Martini, scrive Domenica 14 maggio 2017 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Ventidue anni fa, di questi giorni, moriva la cantante Mia Martini. Una morte misteriosa, al culmine di una vita privata e di un percorso artistico segnati dalla maldicenza: dicevano portasse iella, non volevano mai pronunciare il suo nome. Proviamo a leggere questa vergognosa storia con gli occhi di adesso. Mia Martini è stata prima vittima di due fake news (dicevano portasse male per un tragico incidente in cui persero la vita due musicisti della sua band e per il crollo di un telone che copriva il palco su cui doveva esibirsi) e poi di bullismo. Un bullismo feroce, consapevole e adulto: quello di certi suoi colleghi, di certi impresari, di certi giornalisti. Mia è vissuta per anni nella post verità, nel regno delle bufale e delle cattiverie. E non c’erano nemmeno gli algoritmi dei social media a rilanciarle. Di fake news e bullismo si può morire, è bene saperlo. Ieri come oggi. Sono veleni iniettati per privare la vittima di ogni difesa. In ebraico c’è un’espressione forte per indicare la maldicenza, lashon hara (malalingua). È considerata una colpa gravissima, che Dio non tollera: «Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo» (Levitico 19:16). Nelle nostre società laiche e illuminate, il reato ha sostituito il peccato. Ma il rito tribale e persecutorio della maldicenza è sempre lo stesso, amplificato oggi dal «popolo del web».

Boncompagni fu tra quelli che misero in circolazione la voce che Mia Martini portasse sfortuna, determinandone un lungo periodo di lontananza dalla musica. In un'intervista a Epoca del 5 marzo 1989 la stessa Mia Martini ricordava: «La delusione più cocente me la diede Gianni Boncompagni, un amico per l’appunto. Una volta fui ospite a Discoring, lui era il presentatore. Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla troupe: ragazzi, attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out». In un'altra intervista con Enzo Tortora la Martini definì Boncompagni "detestabile".

VI SCONGIURO. Lo strano caso di Mia Martini cantante «portasfortuna». Epoca 05/03/1989. Mia Martini. La cantante che è la sorella di Loredana Berté, è stata a lungo perseguitata dalla fama di jettatrice una diceria che l’ha costretta a interrompere la carriera per sei anni. E’ tornata alla ribalta a Sanremo con la canzone “Almeno tu nell’Universo”. "Jettatrice", Menagramo”, “portajella”. Il pregiudizio, l'ignoranza e la malafede hanno schiacciato per anni la vita Domenica Berté, in arte Mia Martini. Nel mondo scaramantico e superficiale della canzone, quella fama significa isolamento, difficoltà di ogni genere. Ma adesso, prendendo tutti in contropiede, la cantante è tornata alla ribalta, partecipando al Festival di Sanremo con un brano, “ALMENO TU NELL’UNIVERSO”, composto per lei da Maurizio Fabrizio e Bruno Lauzi. Tutto come se niente fosse? Non proprio. Anche se Mia Martini, quarantadue anni di Bagnara Calabra, non lo ammette apertamente, il suo calvario è stato lungo e sofferto. «Tutto è cominciato nel 1970», racconta. «Allora cominciavo ad avere i miei primi successi. Fausto Taddeu, un impresario soprannominato “Ciccio Piper” perché frequentava il famoso locale romano, mi propose una esclusiva a vita. Era un tipo assolutamente inaffidabile e rifiutai. E dopo qualche giorno, di ritorno da un concerto in Sicilia, il pulmino su cui viaggiavo con il mio gruppo fu coinvolto in un incidente. Due ragazzi persero la vita. “Ciccio Piper” ne approfittò subito per appiccicarmi l’etichetta di “porta jella”» Da allora l’aneddotica si fece sterminata. Mostra della Canzone, 1973. All’Hotel De Bains di Venezia, dove alloggia Mia Martini, scoppia un incendio. I colleghi e gli addetti ai lavori non lo dicono, ma tutti pensano che la colpa sia dell’effetto Martini. A dieci anni di distanza, un altro incidente stradale. Sull’autostrada MilanoBrescia, la vettura su cui viaggia la cantante è coinvolta in un tamponamento a catena. Muore l’impresario Pierluigi Premoli, Mia Martini rimane ferita. «All’inizio ridevo di questa fama», afferma la cantante. “Poi mi accorsi che non soltanto i nemici e gli invidiosi, ma anche le persone che amavo si lasciavano condizionare da questa mia “fama”. La delusione più cocente me la diede Gianni Boncompagni, un amico per l’appunto. Una volta fui ospite a DISCORING, lui era il regista. Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla troupe: ragazzi attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out. Chiesi ai responsabili della mia casa discografica di allora, di intervenire. Se ne guardarono bene, giustificandosi col fatto di dovere mantenere buoni rapporti con la Rai». Il fardello si fece via via sempre più pesante. «Finché ero una cantante di successo», racconta Mia Martini, «mi sembrava soltanto un gioco fastidioso. Ci scherzavo su. Se capitavo in un casinò e c’era qualcuno che mi stava antipatico, mi mettevo dietro a lui per farlo innervosire. Così vince il tuo avversario, gli dicevo. Poi la cosa divenne sempre più seria». Fatalità? Complotto? «Forse tutte e due», risponde Mia Martini. «Ho riflettuto a lungo su queste vicende e sono arrivata alla conclusione che fatalmente ci fu un complotto». Ma non basta. Anche la vita si accanì con Mia Martini. Il rapporto quasi decennale con il cantautore Ivano Fossati andò in pezzi. La rescissione del contratto con la Ricordi le costò 200 milioni. E ancora pettegolezzi, ancora polemiche. Mia Martini non resse. Sei anni fa il ritiro dalle scena. Pur essendo considerata una delle migliori interpreti della musica leggera italiana, con alle spalle successi come “Piccolo uomo” e riconoscimenti internazionali, la sorella di Loredana Berté si trasferì in campagna, a Calvi dell’Umbria dove vive tutt’oggi. Cosa l’ha spinta, adesso a rituffarsi nella mischia? «E’ cambiato il mondo della canzone e sono cambiata anch’io», spiega. «Oggi tutto è più veloce ha il ritmo di uno spot pubblicitario. Spero che non ci sia più tempo per certe bassezze. Poi mi ero stancata di cantare per pochi amici. E Sanremo era il palcoscenico ideale per dire sono tornata». Un nuovo album quasi pronto titolo “Martini Mia”, canzoni scritte per lei da Dario Baldan Bembo, Enzo Gragnaniello, Maurizio Fabrizio. Una composta da lei stessa con un titolo più che allusivo “Spegni la testa”, Una nuova casa discografica, la Fonit Cetra. E ancora la sigla della serie “Amori”, fra poco in onda su Canale 5. Mia Martini ricomincia sul serio. Qualche timore? «Ho adoperato questi anni per crescere», commenta serena la cantante «spero che gli altri abbiano fatto altrettanto». Sopra Mia Martini oggi. In alto come era nel 1975 a 27 anni. La cantante che è la sorella di Loredana Berté, è stata a lungo perseguitata dalla fama di jettatrice una diceria che l’ha costretta a interrompere la carriera per sei anni. E’ tornata alla ribalta a Sanremo con la canzone “Almeno tu nell’Universo”.

Chiambretti intercetta l’auricolare di Ambra e sente la voce di Boncompagni, scrive il 16/04/2017 "La Stampa”. Una delle leggende più celebri della televisione italiana è senza dubbio quella dell’auricolare che Ambra Angiolini indossava durante la conduzione del programma di Canale 5 Non è la Rai. Il mito vuole che l’autore Gianni Boncompagni utilizzasse un collegamento radio per suggerire ogni parola ad Ambra, così un giovane Piero Chiambretti ha provato a svelare l’arcano.

Io sono mia, lo strazio di Marino Bartoletti: "Cosa sono stato costretto a fare quando Mia Martini si suicidò", scrive il 13 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Marino Bartoletti, in occasione della fiction Rai Io sono Mia, ricorda in un post su Facebook la figura di Mia Martini. Parla del mitico Sanremo del 1989, i successi, i tonfi. E poi il suo tono diventa drammatico. Il ricordo di Marino si sposta al 12 maggio 1995, il giorno in cui Mimì, sorella di Loredana Bertè, si tolse la vita: "Ero in diretta a Quelli che il calcio", scrive il giornalista, "quella maledetta domenica di maggio del 1995 quando dovetti annunciare che Mimì era stata trovata morta. E davanti a me c’era proprio Bruno Lauzi, chiamato come tifoso della Sampdoria, che non disse nulla per tutta la trasmissione e che solo alla fine si alzò e sussurrò: 'Ciao Mia. Ti saluta questo piccolo uomo'. Non chiedetemi come sto. Diciamo che avrei voglia di piangere. Per tanti motivi". 

Io sono Mia, Rita Dalla Chiesa furibonda: "Prima la hai massacrata, ora applaudi?", Scrive il 13 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Rita Dalla Chiesa ha scritto un post dedicato ai "più giovani" su Mia Martina e Io sono Mia in onda su Raiuno. "Non era una fiction", scrive la Dalla Chiesa. "E' la storia vera, purtroppo, di una donna e di una grande artista massacrata dall'ignoranza e dall'ottusità di tanta gente". Ma attenzione, è l'accusa della conduttrice, si tratta della "stessa gente che oggi l'applaude. Il coraggio dell'ipocrisia". Poi un bel complimento alla "bravissima" Serena Rossi che nella fiction interpreta la cantante morta nel 1995. 

Io sono Mia, Biagio Antonacci e la vergogna contro Mia Martini: "Chi mi diceva che portava sfortuna ora...", scrive il 13 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Mi dissero di non lavorare con Mia Martini perché portava sfortuna". Anche Biagio Antonacci, mentre in Rai spopola la fiction Io Sono Mia, ricorda la grandissima cantante calabrese e i vergognosi pregiudizi che ne hanno rovinato vita e carriera. "Mimì è stata una donna eccezionale nella mia vita. Lei venne a Rozzano nella casa di mia madre che ci fece da mangiare una cofanata di pasta con il pesce - scrive Antonacci su Instagram, postando una loro foto insieme -. Poi io mi misi al piano e lì cantai Il fiume dei profumi nello studiolo di casa dove dormivo anche. Lei si mise là, umilissima, e disse Questa canzone la canto io. Poi ascoltò Liberatemi e mi disse che sarebbe stato un successo pazzesco. E infatti accadde". Ma non accadde solo questo, conclude amaramente Biagio: "Certe persone che mi dissero allora di non lavorare con lei perché portava sfortuna (e furono tanti in quel periodo) alla fine la presero sui denti perché il disco vendette moltissimo alla faccia di quelli che oggi non fanno più nemmeno i discografici".

Quando Mia Martini disse a Murolo: «Sei miliardario, dammi una casa». A 20 anni dalla morte della cantante. «Odio essere un idolo, basta romanticismi», scrive Gabriele Bojano l'11 maggio 2015 su Il Corriere della Sera. Il 12 maggio 1995 moriva a soli 47 anni in circostanze mai del tutto chiarite Domenica Rita Adriana Berté in arte Mia Martini. Alcuni mesi prima, il 29 ottobre 1994 chi scrive ebbe il piacere di cenare con l’indimenticabile artista al ristorante «Il Molo» di Salerno, scoprendola persona simpatica e gioviale. Un incontro molto spontaneo che diventò un’intervista solo in parte utilizzata per Il Giornale di Milano. La parte rimasta fino ad oggi chiusa in un cassetto è stata ritrovata e adesso finalmente resa pubblica. Mimì è solare ma al tempo stesso ombrosa, bianca e nera proprio come i tasti del pianoforte che aveva disegnati sulla sua lunga sciarpa.

Che cosa rovina oggi il mondo della musica leggera italiana?

«Ci sono manager senza scrupoli che usano i cantanti in maniera vergognosa. Io ho avuto un’esperienza drammatica con Enzo Gragnaniello, ero ospite in uno dei suoi concerti, a Ravello, e quando sono arrivata nel pomeriggio ho visto nel raggio di 80 chilometri soltanto i manifesti di Mia Martini. La sera la piazza era piena di gente che credeva si trattasse di un mio concerto. Mi sono sentita complice in uno sporco disegno truffaldino».

Ma Gragnaniello non è l’autore di «Cu ‘mme» che lei canta in coppia con Roberto Murolo?

«Certo, ma ha bisogno di una sua gratificazione personale che non lo faccia confondere nè con Mia Martini nè con Roberto Murolo. Il grosso successo commerciale che ha avuto con la canzone “Cu ‘mme” ha autorizzato qualcuno a calpestare la sua sensibilità d’artista. E adesso ha ragione quando dice che nel suo prossimo disco neppure se scende la Madonna mi fa cantare con lui».

Meno male che almeno con Murolo non ci sono problemi.

«Ma è Murolo a non avere problemi, tanto è miliardario e non ha nessuno a cui lasciare tutta questa roba! Io ho sempre lavorato gratis per lui e adesso non ho una lira, manco i soldi per pagarmi l’affitto».

Cosa significa, che ogni volta che lo raggiungeva sul palco nell’esecuzione di «Cu ‘mme»... 

«Lo facevo gratuitamente, ho lavorato gratis per lui per tre anni, non ho mai voluto soldi nè sui dischi nè sulle promozioni di giro. Eppure Murolo mi è costato concerti che ho dovuto annullare. Se un giorno decidesse di pagarmi per partecipare ad un suo spettacolo, beh, ne sarei proprio felice».

Però è recidiva, anche in un’altra canzone di Gragnaniello, “Vieneme”, lei canta con Murolo.

«Sì, hanno voluto mettere a tutti i costi la voce di Murolo ma lui non c’entra niente, è stata un’operazione del produttore per fare il bis di “Cu ‘mme”. A questo punto però mi sono ribellata di fare la promozione in tv. Murolo non ha bisogno di me, può anche vivere senza di me e ti dirò che io senza di lui vivo meglio perché mi costa meno. Io dagli artisti non voglio soldi: ho cantato con Claudio Baglioni che ha venduto 700 mila copie di “Oltre” e non ho voluto una lira di royalties, ho cantato con Aznavour, Fossati, Gragnaniello, persino con mia sorella Loredana. Ma le promozioni in tv e i concerti sono un’altra cosa. Almeno mi desse una casa, Murolo, mi risolverebbe un problema d’affitto!»

Sua sorella Loredana canta “Non sono una signora”...

«È un vizio di famiglia, neppure io lo sono».

Però la sua vita, almeno dal punto di vista artistico, è stata più regolare di quella di sua sorella o no?

«Ma è sbagliato, è sbagliata l’immagine che arriva di me. Tutti mi definiscono “la grande interprete”, i cantautori mi dicono “questa canzone l’ho scritta apposta per te, solo tu la puoi cantare”. Ma nessuno si è mai chiesto: sarà adatta alla Martini? Io sono innamorata della musica etnica e invece mi toccano cose orrende, masturbazioni mentali o virtuosismi vocali. Una noia mortale. Ha ragione Francesco De Gregori quando dice che nessuno ti vuole e nessuno ti vede per quello che sei».

Perchè, chi è Mia Martini? 

«Una che vuole la verità, che odia il romanticismo, non sono sentimentale, detesto tutto ciò che è finto a parte la tv che mi diverte. Sono Minì, sono di Bagnara Calabra, abbiamo un sole noi che ci fa le radiografie appena nati. Gli odori, i colori della natura nella mia terra sono forti e violenti anche nell’animo umano. Odio essere un idolo, che male ho fatto per essere un idolo? Perché non posso essere una persona normale?»

Mia Martini, amori, canzoni, morte: 5 cose da sapere sulla storia della cantante, scrive Antonella Latilla su gossipetv.com il 17 Agosto 2018. 5 curiosità su Mia Martini: com’è morta, quanti anni aveva e tanto altro sulla storia della cantante. Passano gli anni, passano le cantanti ma lei resta intramontabile. Mia Martini è una delle interpreti più amate e ascoltate della musica italiana nonostante la prematura morte avvenuta nel 1995. Di seguito 5 imperdibili curiosità per sapere tutto sulla vita della cantante, sorella dell’altrettanto famosa Loredana Bertè.

1. Mia Martini vero nome. La cantante, nata il 20 settembre 1947 a Bagnara Calabra, si chiamava in realtà Domenica Rita Adriana Bertè. Il nome Mia viene scelto in omaggio all’attrice Mia Farrow mentre Martini viene deciso su consiglio di Alberto Crocetta, il proprietario del Piper conosciuto negli anni Settanta. Secondo Crocetta la parola Martini era tra le più riconoscibili all’estero e facilmente ricordabile. Mia è la seconda di quattro sorelle: Loredana è invece la terzogenita. Le due hanno iniziato a cantare insieme ma nel corso del tempo non sono mancate le liti e le discussioni. Negli ultimi anni della sua vita, però, la Martini era riuscita a riappacificarsi con Loredana.

2. Mia Martini morte. La cantante è deceduta nel 1995 a soli 47 anni. Si è trattato di una morte improvvisa: all’epoca nessuno si aspettava una fine così tragica per l’artista che, in quegli anni, era all’apice della sua carriera. Mia è stata trovata dai vigili del fuoco nell’appartamento al civico 2 di via Liguria a Cardano al Campo, in provincia di Varese. Gli uomini sono stati allertati dal manager dell’artista, che si è preoccupato dopo che non sentiva da giorni la donna. La cantante è stata ritrovata senza vita sul letto, in pigiama, con le cuffie del mangianastri nelle orecchie e con il braccio proteso verso un vicino apparecchio telefonico. Qualcuno all’epoca ha sospettato il suicidio ma questa ipotesi è stata subito scartata dalle tre sorelle, che hanno raccontato del periodo felice che stava attraversando Mia. Quest’ultima, secondo quanto emerso dall’autopsia, è stata uccisa da un arresto cardiaco. Da qualche tempo l’artista aveva un fibroma uterino che però aveva trascurato a causa dei numerosi impegni lavorativi. “Lei aveva un fibroma all’utero e il dottore le disse che poteva prendere delle pillole per pochi mesi, solo per contenere il male, dopo di che avrebbe dovuto assolutamente operarsi. Lei invece aveva una terribile paura di questo intervento e continuò a prendere per mesi queste pillole. Io credo poco alla teoria del suicidio e dell’overdose di cocaina. Però anche lì, la fretta con cui è stata cremata la salma e gli esami tossicologici non fatti, non hanno fatto altro che fomentare questo piccolo giallo”, ha fatto sapere il critico musicale Mario Luzzato Fegiz.

3. Mia Martini funerale. Il funerale di Mia Martini si è svolto il 15 maggio nella chiesa di San Giuseppe presso viale Stelvio a Busto Arsizio. Quasi quattromila le persone accorse a dare l’ultimo saluto a Mimì: parenti, amici, colleghi e fan. La sua bara è stata coperta da una bandiera del Napoli, la squadra di calcio per cui la cantante faceva il tifo. Dopo le esequie il corpo di Mia è stato cremato, su volontà del padre, e le sue ceneri sono state deposte nel cimitero di Cavaria con Premezzo, accanto alla sepoltura dei nonni. L’inchiesta sul decesso è stata subito archiviata, ma Loredana Berté qualche anno fa ha gettato nuova ombre sul caso. A detta della cantante di E la luna bussò e Sei bellissima, il padre ha avuto un ruolo non indifferente nella morte di Mia. Secondo Loredana, il corpo di Mimì nella bara era pieno di lividi e la sua salma è stata cremata troppo frettolosamente dopo il funerale. Sul funerale di Mia Martini, Luzzato Fegiz ha detto: “All’obitorio furono lasciati soli (il padre e Loredana Berté, ndr) e dopo qualche minuto si sentirono delle urla selvagge. La gente accorse e vide il padre che sbatteva la testa di Loredana sulla parete del calorifero”.

4. Mia Martini amori. Il grande amore di Mia è stato solo uno: Ivano Fossati. I due si sono incontrati nel 1977 e la loro relazione si è divisa tra carriera e vita privata. Tante le canzoni che Fossati ha scritto per Mia, come E non finisce mica il cielo. Il rapporto tra i due artisti era però minato dalla gelosia di Ivana, come confidato dalla Martini nel 1990, quando il legame si era ormai spezzato. “Quella storia era campo minato. Avevo un contratto con un’altra casa discografica, e ho dovuto romperlo a causa sua. Perché era geloso, dei dirigenti, dei musicisti, di tutti. Ma soprattutto era geloso di me come cantante. La prova d’amore era abbandonare del tutto anche la sola idea di cantare e distruggere completamente Mia Martini. Io ero combattuta, non riuscivo a farlo”, ha ammesso Mia. Non solo amore: nella vita della Martini ha avuto un ruolo importante anche l’amicizia, come quella per Renato Zero, con il quale ha esordito nel mondo della musica.

5. Mia Martini canzoni. Tante e unici i brani che Mia Martini ha portato al successo e che ancora oggi vengono ascoltati e cantati. Mia ha partecipato dieci volte al Festival di Sanremo ma nonostante i pezzi stupendi non è mai riuscita a vincere un’edizione della kermesse. Basti pensare che nel 1989 si è presentata con Almeno tu nell’universo che si è piazzato al nono posto mentre quell’anno hanno vinto Anna Oxa e Fausto Leali con Ti lascerò. Nel 1992 si è poi classificata seconda con Gli uomini non cambiano: è stata battuta da Luca Barbarossa e la sua Portami a ballare. Altre canzoni celebri di Mia Martini sono: Minuetto, Cumm’è (cantata in duetto con Roberto Murolo), Piccolo uomo, E non finisce mica il cielo.

Mia Martini, vent'anni dopo. Le maldicenze la uccisero ma il suo talento è immortale, scrive Carmine Saviano il 12 maggio 2015, Aggiornato il 03 febbraio 2019 su La Repubblica. 12 maggio 1995: Mimì muore nella sua casa. È sola, in testa ha le cuffie del walkman. "Era serena", scriveranno. Aveva vissuto sui palchi, si era isolata, tra estremi, senza compromessi. Vittima delle malelingue, sostenuta dagli amici come Renato Zero e dalla sorella Loredana, stimata dai colleghi Fossati, Mina, De André. Storia di una voce che l'Italia non ha mai smesso di amare. Nessuno risponde. Il campanello non smette di suonare, ma nessuno risponde. Nando Sepe, professione manager, tiene il dito incollato sul citofono, ma nulla. Eppure la Citroën verde di Mimì è parcheggiata lì fuori, all'esterno di quella palazzina di due piani in via Liguria 2, a Cardano del Campo, Varese. E in quella mattina del 14 maggio di venti anni fa, Sepe chiama la padrona di casa, si fa dare le chiavi di riserva. Ma la porta è chiusa dall'interno. Quando poche ore dopo i pompieri la sfondano, Mia Martini è stesa sul letto, le cuffie del walkman sulle orecchie. "L'espressione serena", diranno. È morta da quarantotto ore. La notizia sbriciola i palinsesti televisivi. Renato Zero chiama Loredana Berté, la sorella di Mimì: "Spegni tutto, sto arrivando". I cronisti appostati sotto casa della Bertè ricordano ancora le urla. E, di ricordo in ricordo, dopo vent'anni nessuno ha dimenticato quella voce magnetica, dolce, scura, emozionante e quelle melodie che Mia Martini ha regalato alla musica italiana.

"Ci sarebbero pure 'sti due amici". Funzionava così: era la frase classica che completava una strategia infallibile. Roma, 1968, Loredana Berté in minigonna a chiedere l'autostop. E poi Mimì, con l'immancabile bombetta, quasi uscita da un film di Fellini, che con Renato sbucava sulla strada per prendere al volo il passaggio conquistato. Inseparabili, i tre. Cercavano di mettere su un gruppo musicale. Per la Martini, ventunenne, era già la fase due della carriera: aveva iniziato nei primi anni Sessanta. Un viaggio in treno da Ancona verso Milano, Etta James nel cuore, Carlo Alberto Rossi che le fa incidere i primi singoli. Poi i concerti sulla riviera romagnola, qualcuno con Pupi Avati alla batteria. Qualche piccolo successo, ma la carriera da ragazza ye-ye non decolla. Mimì sta per lasciare, inizia a lavorare al sindacato dei musicisti, ma la passione per la musica è troppo forte. Quella Roma le restituirà la voglia di continuare. Diventa amica di Gabriella Ferri. Sperimenta con piccoli gruppi jazz. Sta per farcela. Poi in Sardegna, nel 1969, l'arresto per possesso di hashish e la condanna a quattro mesi di carcere. Le cambieranno la vita.

Una dinamica maledetta di ombre e di luce, di pace e di dannazione, di sorrisi e di lacrime. La vita e la carriera di Mia Martini si sono sempre mosse tra gli estremi, saltando le vie di mezzo, i compromessi, la sciatteria, la mediocrità. Dopo l'arresto Mimì torna a Roma, sbarca a Civitavecchia in una giornata di pioggia. Entra in un bar, prende un cappuccino e inizia a berlo sotto il diluvio. E sorridendo decide di non rinunciare al suo sogno. Sceglie il jazz. Ritorna a essere "Domenica" (il suo nome completo è Domenica Rita Adriana Berté) e con il trio di Totò Torquati conquista il pubblico del Titan di via della Meloria, del Piper di via Tagliamento. L'occasione della vita le capita nel febbraio del 1971. Deve correre al Piper di Viareggio, c'è da improvvisare una serata. Il pubblico resta a ballare fino alle quattro di mattina. Alberigo Crocetta, proprietario del Piper e mentore di Patty Pravo, si offre di produrla. Mimì rifiuta una prima volta. Poi cede. "Dobbiamo cambiare nome però. Ci vuole un nome italiano riconoscibile nel mondo. Ho pensato a Martini", dice Crocetta. "Va bene: però mi chiamerò Mia, come Mia Farrow". La storia ha inizio.

Gli anni Settanta saranno i suoi anni. Inizia a collaborare in modo stabile con Baldan Bembo, Bruno Lauzi, Claudio Baglioni. Con Franco Califano scatta l'alchimia musicale. C'è questa canzone, Minuetto, ma nessuno riesce a scrivere le parole giuste per Mia. Lei e Califano escono una sera a cena. Parlano tanto. E "il Califfo" ritorna il giorno dopo con un testo che sembra un pezzo pregiato di sartoria artigianale: perfetto per la Martini. "E vieni a casa mia, quando vuoi, nelle notti più che mai / dormi qui, te ne vai, sono sempre fatti tuoi". Nell'Italia dove maistream fa rima con piccolo-borghese le parole, il volto, l'immagine della Martini sono come un metallo pregiato, come un diamante: l'autenticità professata come valore assoluto. La sensibilità come guida. Talmente forte che le piccole, idiote e meschine armi che lo show business inventa per fermare la Martini diventano tanti colpi. Le dicerie sul suo "portar jella" iniziano allora. Non si fermeranno mai. Mimì prima ci sorride. Poi ci sta male. Crisi cicliche. Sempre più pesanti.

"Una monomaniaca della musica": Mimì secondo Ivano Fossati, che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. A lei regalò "E non finisce il cielo", una delle canzoni d'amore più intense della musica pop italiana, con cui Mia Martini partecipò per la prima volta al Festival di Sanremo nel 1982 ottenendo il Premio della Critica, istituito in quell'anno appositamente per lei e a lei intitolato dopo la sua morte. Ironia della sorte, il premio attribuito non fu mai consegnato alla cantante e venne ritirato, postumo, dalla sorella Loredana Berté durante la serata finale del Festival di Sanremo 2008.

Fino alla decisione di ritirarsi dalle scene, nei primi anni Ottanta. Non bastano la stima, l'affetto, l'amore che le manifestano Charles Aznavour, Ivano Fossati, Pino Daniele, Paolo Conte, Fabrizio De Andrè. Non basta il Premio della Critica istituito apposta per lei al Festival di Sanremo nel 1982, quando ipnotizza tutti con E non finisce mica il cielo. Non basta la sfrontatezza di Loredana con cui collabora per Non sono una signora. Non basta neanche la venerazione che tanti giovani talenti, da Ramazzotti in giù - per il cantautore romano inciderà i cori del ritornello di Terra promessa - le manifestano. Mia decide di darci un taglio. Si rifugia da Leda, la sorella più grande. Cerca una vita ordinaria. È il 1985. Sparisce per quattro anni, si trasferisce a Calvi, in Umbria, solo piccoli concerti di provincia, pochissimi. Poi una sera del dicembre del 1988 un incidente. La sua macchina scivola su una lastra di ghiaccio e la Martini ne esce miracolosamente illesa. Tornata a casa, prima il panico, le lacrime. Poi una risata liberatoria. Decide di ritornare. Di riprendersi il suo mondo.

"Sai, la gente è strana, prima si odia e poi si ama, cambia idea improvvisamente, come fosse niente, sai la gente è matta, forse è troppo insoddisfatta, segue il mondo ciecamente, quando la moda cambia, lei pure cambia continuamente e scioccamente": un testo rimasto nel cassetto. Dietro questa "lettera" che sembra una dichiarazione d'amore, gli autori Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio, nel 1972, anticipavano i tempi contestando la cieca frenesia di una società dedica al consumo. Depositato soltanto nel 1979, rimase inedito a lungo, fino a quando nel 1989 arrivò a Mimì, che la presentò al Festival di Sanremo di quell'anno. Ancora un Premio della Critica, avrebbe meritato di vincere.

1989, 21 febbraio, Sanremo. Per capire è necessario il contesto. È necessario inscrivere quel piccolo miracolo in un prima e in un dopo. Il prima è rappresentato dai "figli di papà": Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, che presentano il festival in puro stile anni Ottanta. Dinoccolati e cotonati. Dopo c'è Jovanotti, cappello da cowboy, aria casinista e "No Vasco, no Vasco, io non ci casco". In mezzo, un angelo. Mia Martini entra sul palco sorridendo, attacca Almeno tu nell'universo. Al ritornello alza i pugni al cielo, accompagna presenti e telespettatori su una melodia magnifica, su parole struggenti. Ed è una bomba, pelle d'oca collettiva. Rivince il premio della critica. Ritorna dal suo pubblico. Ricomincia a vivere e respirare. Verranno La nevicata del '56, Gli uomini non cambiano. Verrà il successo, di nuovo.

"Piccere', canta". Roberto Murolo le sorride nella sua casa napoletana. I due, è il 1992, stanno provando una canzone di Enzo Gragnaniello, Cu 'mme. Quattro minuti e mezzo di magia, uno spazio in cui si dispongono tradizione, rabbia, commozione, rimpianto, voglia di vivere, paure e desideri. A quarantacinque anni Mia Martini è ormai patrimonio indiscusso della canzone italiana. Nel 1993, dopo un decennio di reciproci silenzi, corre da Loredana ricoverata in ospedale. Baci e carezze e un progetto: ritornare insieme a Sanremo. Lo faranno l'anno successivo. Poi quello che sarà il suo testamento. Un disco di cover registrato dal vivo - prodotto dal suo amico Shel Shapiro - dei "suoi" cantautori: La musica che mi gira intorno. Ancora Fossati, Mimì sarà di De Gregori, Fiume di Sand Creek di De Andrè. In Dillo alla luna di Vasco Rossi l'interpretazione più intensa. Tutto sembra andare. Tutto s'interromperà il 12 maggio. Poi i funerali, vagonate di parole. Le polemiche postume. Il ruolo del padre nella sua vita e nella sua morte. Le indagini, l'autopsia, i medici che mettono nero su bianco le cause del decesso: overdose di cocaina. Patina. Che nulla toglie alla voce di Mimì. "Una monomaniaca della musica", secondo Ivano Fossati che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. Mina: "Per fortuna il suo talento dolente e intenso è rimasto qui, nei suoi dischi. Io ho anche fatto un suo pezzo, Almeno tu nell'universo, ma meglio la sua versione". E un giorno Fabrizio De André, forse, ha sintetizzato il sentire comune, definendosi "innamorato totale della sua arte e della sua umanità". Lo siamo ancora, vent'anni dopo: totalmente innamorati di Mimì.

Serena Rossi in lacrime a Sanremo 2019 chiede scusa a Mia Martini, scrive Antonella Latilla l'8 Febbraio 2019 su gossipetv.com. Serena Rossi ha omaggiato Mia Martini al Festival di Sanremo 2019.L’attrice è stata invitata da Claudio Baglioni per promuovere il nuovo film tv sulla vita della sorella di Loredana Bertè. La Rossi ha cantato in coppia con Baglioni la celebre Almeno tu nell’universo, che la Martini ha presentato sul palco dell’Ariston nel 1989. Il duetto ha emozionato il pubblico in studio e a casa ma soprattutto Serena, che a stento è riuscita a trattenere le lacrime. La napoletana ne ha approfittato per chiedere pubblicamente scusa – a nome di tutti – alla Martini, che è stata spesso osteggiata nel corso della sua carriera. “A nome di tutti, Mimì ti chiedo scusa per quello che ti è stato fatto”, ha dichiarato l’ex conduttrice di Detto Fatto. Per un lungo periodo della sua carriera Mia Martini è stata ostacolata nel mondo dello spettacolo. Secondo una diceria diffusa negli anni Ottanta l’interprete calabrese portava sfiga. Per questo, per molti anni, non è stata invitata a eventi e programmi televisivi e le sue canzoni non sono state trasmesse in radio. Anni che hanno profondamente segnato anche la vita privata di Mimì, morta poi prematuramente all’età di 47 anni nel 1995. Martedì 12 febbraio andrà in onda su Rai Uno il film tv Io sono mia, dedicato alla vita di Mia Martini. La pellicola ha avuto il benestare diLoredana Bertè, che ha subito instaurato un ottimo rapporto con Serena Rossi. 

Mia Martini, furia di Giancarlo Dotto contro Io sono Mia: "Che roba è. Non bastavano le offese in vita?" Scrive il 15 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Parole pesantissime su Io sono Mia, la fiction dedicata a Mia Martini che ha sbancato in termini di share su Rai 1. Parole pesantissime firmate da Giancarlo Dotto per Dagospia, dove premette: "Non si può raccontare di anime ferite a meno che tu non sia ferito quanto loro. Nelle due ore circa di Io sono Mia non c’è neppure un graffio, una sbucciatura, che so, un principio di febbre, una lieve emicrania. Solo una vita scopiazzata, simulata e peggio recitata". No, secondo Dotto la fiction non rende giustizia alla cantante. Dunque, Dotto, si rivolge ipoteticamente a Mia Martini: "Dolce, rabbiosa, vulnerabilissima e ormai per sempre invulnerabile Mimì. Erano milioni a non saperne nulla di te prima, sono milioni a credere di saperne qualcosa adesso. Appena gli ultimi elefanti dalla memoria lunga si saranno estinti con tutto il loro software di cose viste, apprese e mai dimenticate, il plotone d’esecuzione di attori strepitosi testimoniati ed exploit irripetibili, biecamente, divinamente anti-naturalisti, anche quando giocavano da minimalisti, non ci sarà più nessuno a rompere i coglioni con la petulanza di quello che è stato e non è più". Durissima anche la chiusa del commento, in cui Dotto scrive: "Parenti e amici stretti dovrebbero fare muro una volta per tutte contro la smania di schiodare dalle tombe le Martini, i Modugno, i Califano (degradato a macchietta anche nell’omaggio a Mimì, certo tornerà a vendicarsi come ha minacciato nell’epitaffio). Lungimiranti Fossati e Zero si sono chiamati fuori. Sapevano che la Mimì non si può raccontare. Offesa già abbastanza in vita".

Serena Rossi, Io sono Mia: amare parole su Ivano Fossati e Renato Zero, scrive Mirko Vitali il 14 Febbraio 2019 su gossipetv.com. “Io sono Mia”, parla Serena Rossi: le amare parole su Ivano Fossati e Renato Zero che non hanno voluto prendere parte al racconto su Mia Martini. 7 milioni e 727 mila spettatori che tradotti in share significa 31%. Sono questi i numeri monster del film Io sono Mia, andato in onda su Rai 1 e dedicato a Mia Martini, interpretata da Serena Rossi. Ed è proprio l’attrice che a due giorni dal successo televisivo ha parlato di diversi temi toccati sulla compianta sorella di Loredana Bertè. Lo ha fatto nell’intervista pubblicata oggi dal Corriere della Sera. Con il quotidiano di Via Solferino, la Rossi ha inoltre risposto a una domanda che in molti continuano a porsi: perché Renato Zero (grande amico di Mia) e Ivano Fossati (suo ex compagno) non hanno concesso la liberatoria per essere citati nell’ambito del film?

Nel film la realtà ha dovuto subire un cambio di rotta. Al posto della relazione con Ivano Fossati, Mia ha una storia con un fotografo. La variante è stata dettata dal fatto che il cantautore non ha voluto essere incluso nel progetto. “Ci sono rimasta sicuramente molto male per lei” confessa Serena. “Poi però mi sono data una spiegazione romantica: voglio credere sia stato tutto un atto d’amore di Mimì, che abbia scelto lei che facesse parte del suo film solo chi le voleva veramente bene”. L’attrice spiega poi di non aver parlato direttamente con Fossati e nemmeno con Renato Zero, altra figura molto vicina a Mia che non ha voluto far parte del racconto: “Non ho parlato né con lui e nemmeno con Renato Zero, che pure non ha voluto far parte del racconto. Sarebbe stato bello se le cose fossero andate diversamente, ma fa niente, sono andata avanti e ora mi godo quello che sta accadendo”.

Serena Rossi confida inoltre che per lei il successo televisivo del film è stato del tutto inaspettato. “Avevo scommesso sulla metà dei numeri. C’erano in onda anche le partite”. E invece sono giunti una valanga di ascolti che hanno dato gioia anche di Loredana Bertè: “Ci siamo scritte. Era felicissima per gli ascolti e mi ha detto che ormai sono parte della sua famiglia”.

SERENA ROSSI. “Mia Martini? Mi è dispiaciuto per Ivano Fossati” (Domenica In). Serena Rossi, a distanza di una settimana dall’ultima volta, torna a Domenica In. Sarà in studio il 17 febbraio 2019. Insieme a lei anche Olivia Bertè, sorella minore di Mia Martini, scrive il 17.02.2019 Maria Laura Leo su Il Sussidiario.  Serena Rossi, attrice partenopea che ha recentemente prestato il suo volto al ricordo di Mia Martini nel film Io sono Mia, sarà di nuovo, a distanza di una settimana dall’ultima volta (era stata in studio il 10 febbraio scorso), ospite di Mara Venier a Domenica In, domenica 17 febbraio 2019. Dopo il successo ottenuto con il suo tributo all’indimenticata cantante, Serena torna in tv per raccontare ancora Mimì. Lo farà dedicandole un omaggio musicale sulle note di una delle più celebri canzoni della Martini, Almeno tu nell’Universo. Anche sul palco dell’Ariston Serena, in qualità di super ospite, aveva intonato, insieme a Claudio Baglioni, la stessa canzone. Insieme a lei a Domenica In sarà presente Olivia Bertè, sorella minore di Mia Martini e Loredana Bertè, che accompagnerà l’omaggio di Serena Rossi con dei racconti inediti sulla vita personale di Mimì, il cui ricordo vive ancora nei cuori di chi l’ha amata e del pubblico che si emoziona ancora nel rivivere la sua triste storia. Saranno accolti negli studi Fabrizio Frizzi anche, da Sanremo 2019, Enrico Nigiotti, Simone Cristicchi e Arisa, oltre a Laura Chiatti, impegnata a promuovere il film “Un’avventura”, di cui è protagonista con Michele Riondino, in uscita proprio domenica 17 febbraio.

Serena Rossi e la critica a Ivano Fossati e Renato Zero. Il film Io sono Mia ha toccato particolarmente l’animo di Serena Rossi, che non ha semplicemente interpretato un personaggio, ma si è calata davvero nei panni di Mimì. Dopo averla “imitata” durante la sua partecipazione a Tale e Quale Show qualche anno fa, per la cui esibizione Serena guadagnò la vittoria della puntata e una meravigliosa standing ovation in studio, l’attrice, ex membro del cast di Un posto al sole, si trasforma ancora in Mia Martini e si lascia trasportare così tanto dal ricordo di questa cantante da sentirsi in dovere di spendere qualche parola sulla vita tormentata che Mimì ha dovuto vivere. Dopo il film, infatti, Serena si è espressa in maniera piuttosto aspra nei confronti di Ivano Fossati e Renato Zero, che non hanno dato il consenso perché nella pellicola venisse fatto il loro nome. Ricordiamo, in particolare, che Mia Martini ebbe una storia d’amore con Ivano Fossati, nel film chiamato Andrea e interpretato da Maurizio Lastrico. Zero, invece, è diventato Anthony e ha voluto che il personaggio raccontato nella pellicola si ispirasse solo a lui, ma non lo rappresentasse nella realtà.

Il successo di Io sono Mia. Dopo aver saputo della decisione di Fossati e Zero di non far comparire i loro nomi in Io sono Mia, Serena Rossi ha rivelato, riferendosi a Ivano: “Ci sono rimasta davvero molto male per Mimì, ma poi ci ho riflettuto e ho voluto credere che fosse stato un atto d’amore. Mimì nel film avrebbe voluto soltanto le persone che le hanno voluto veramente bene”. A proposito di Renato Zero, invece, l’attrice ha commentato: “Non ho parlato con Renato Zero, so solo che non ha voluto far parte del racconto. Sarebbe stato bello se le cose fossero andate diversamente, ma fa niente, sono andata avanti e ora mi godo quello che mi sta accadendo”. A prescindere dall’amarezza che le ha lasciato in bocca questa decisione di Fossati e Zero, Serena può vantare un enorme successo di pubblico. Il film, trasmesso su Rai Uno lo scorso 12 febbraio, è stato seguito da oltre 7 milioni di telespettatori e pare che anche i giovani, nonostante non abbiamo potuto conoscere Mimì quando era viva, siano rimasti profondamente colpiti da questo personaggio impossibile da dimenticare.

Serena Rossi presenta Io sono Mia: la rivelazione su Loredana Bertè, scrive Federica Petrucci il 12 Febbraio 2019 su gossipetv.com. Serena Rossi a La vita in diretta confessa: alla prima di Io sono Mia in lacrime dopo l’incontro con Loredana Bertè. L’attesa è finita, i fan di Mia Martini potranno finalmente assistere stasera al debutto di Io sono Mia. Il film, basato su fatti realmente accaduti, vedrà come protagonista Serena Rossi nei panni di Mia Martini appunto. L’attrice, dopo essere stata ospite al Festival di Sanremo 2019, oggi è stata invitata a parlare di Mimì e della biopic a La vita in diretta. Durante la sua intervista, dopo aver speso bellissime parole nei confronti dell’artista che ha interpretato e dei professionisti con cui ha lavorato, Serena ha anche citato Loredana Bertè. Quest’ultima, presente alla prima di Io sono Mia, è stata la prima a farla emozionare. Il motivo? Serena ha dichiarato che sono state le parole sussurrate dalla Bertè al suo orecchio che l’hanno fatta scoppiare in lacrime.

Serena Rossi: le parole che Loredana Bertè le ha sussurrato all’orecchio e che l’hanno fatta piangere alla prima di Io sono Mia. La forte emozione provata da Serena Rossi durante l’incontro con Loredana Bertè alla prima di Io sono Mia, ad onor del vero, è stata già ampiamente raccontata dai media. Le immagini del loro abbraccio e le lacrime di Serena sono state immortalate dai fotografi presenti all’evento e pubblicate dai principali siti e giornali di news e spettacolo. Oggi però, a La vita in diretta, Serena Rossi ha svelato quali sono state le parole sussurrate all’orecchio da Loredana Bertè che l’hanno fatta piangere quel giorno. “Mi ha abbracciato e mi ha detto: si vede che le hai voluto bene” ha dichiarato l’attrice “E io sono scoppiata a piangere”. 

Serena Rossi incanta a Sanremo: le scuse a Mia Martini. “A nome di tutti, Mimì ti chiedo scusa per quello che ti è stato fatto” con queste parole, venerdì scorso, Serena Rossi al Festival di Sanremo 2019 ha voluto chiedere pubblicamente scusa a Mia Martini. Con la sua esibizione ha incantato il pubblico dell’Ariston e quello da casa, dando dimostrazione di un grande talento e una notevole sensibilità, come artista e come donna.

Mia Martini, Loredana Bertè e il dramma segreto in famiglia: "Perché non posso perdonare mio padre", scrive il 17 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Speravo di vincere anche per riscattare mia sorella Mimì". Loredana Bertè e tutta la delusione di Sanremo, nel nome di Mia Martini. La cantante 68enne confida al Corriere della Sera di aver creduto in qualcosa di più ("Non mi aspettavo che non mi facessero salire sul podio") ma parla soprattutto della Sorella, nella settimana della fiction-trionfo Io sono Mia. "La ricordo nei nostri viaggi in autostop, nei tantissimi concerti che abbiamo visto insieme, nelle scorribande notturne in cerca di gloria. Mimì era una donna molto intelligente e sensibile. Era lei la vera pazza tra di noi. Mi manca disperatamente, tutti i giorni della mia vita". Restano le fratture familiari: "Mio padre? Io non perdono; cancello. Non ho nulla a che spartire nemmeno con le altre sorelle da quasi cinquant'anni. È un tacito accordo. La mia famiglia era Mimì". Ringrazia poi Serena Rossi, l'interprete di Io sono Mia: "Racconta perfettamente mia sorella nei gesti, nelle piccole cose. Io ho voluto partecipare alla sceneggiatura perché potesse uscire la vera Mimì, la sua essenza. Ho insistito moltissimo perché fosse presente Movie, la sua cagnolina. Mimì e Movie erano inseparabili".

OLIVIA BERTÈ, sorella di Loredana e Mia Martini: “Io e Mimì adoravamo papà!” Olivia Bertè, sorella minore di Mimì e di Loredana, sarà ospite di Mara Venier all’appuntamento con Domenica In in onda il 17 febbraio 2019 per raccontare storie inedite sulla vita di Mia, scrive il 17.02.2019 Maria Laura Leo su ilsussidiario.net.  Sarà Olivia Bertè una degli ospiti di Mara Venier per la puntata di domenica 17 febbraio 2019 di Domenica In. Sorella minore di Mia ‘Mimì’ Martini e di Loredana Bertè, Olivia racconterà al pubblico di Rai Uno tante storie personali e inedite della vita dell’indimenticata sorella. Non è un caso che Olivia chiacchiererà con Mara proprio la domenica successiva alla messa in onda del film Io sono Mia, interpretato da Serena Rossi, anche lei ospite negli studi Fabrizio Frizzi. L’attrice partenopea, a cui era stato già affidato il compito di ricordare Mia Martini durante una magistrale esibizione a Tale e Quale Show, è stata in grado di tenere incollati davanti agli schermi televisivi lunedì 12 febbraio, giorno in cui il film di Riccardo Donna è stato trasmesso su Rai Uno, oltre 7 milioni di telespettatori. Alla presenza di Olivia Bertè, Serena Rossi renderà ancora una volta omaggio a Mimì, cantando Almeno tu nell’universo, una delle più celebri canzoni di Mia Martini, presentata al Festival di Sanremo nel 1989.

Olivia Bertè in difesa del padre. A differenza di Mimì e di Loredana, che hanno scelto il mondo dello spettacolo, Olivia Bertè ha sempre preferito trascorrere una vita in silenzio, tenendo per sé tutti i pensieri sulla morte della sorella maggiore e, soprattutto, sui commenti di Loredana. È contro quest’ultima che, nell’estate del 2018, Olivia si è voluta esprimere rompendo quel silenzio che l’aveva sempre caratterizzata. “Vorrei che emergesse forte il senso del rispetto per Mimì, soprattutto verso i sentimenti che aveva verso nostro padre, che adorava. Parlare di papà in termini di violenza significa non avere rispetto neanche di lei, dei suoi sentimenti e delle sue scelte”, aveva detto a La Nazione. La Bertè affermava della sorella Loredana che “insulta mio padre senza motivo durante incontri pubblici e concerti. Anche in televisione, dove la invitano: ma Radames Giuseppe Bertè va ricordato con stima e profonda ammirazione. Io lo amavo e Mimì pure. Non può infangare il suo nome”. Olivia sostiene che in famiglia c’erano degli scontri, come capita a tutti. Il padre non aveva preso bene la notizia che Mimì volesse fare l’artista, le aveva consigliato di studiare lirica, ecco perché Mia era mezzosoprano. 

Leda Bertè e i dubbi sulla morte di Mimì. A smentire le affermazioni di Olivia Bertè c’è anche Leda, la maggiore delle sorelle di Mia Martini. In un’intervista al settimanale Spy, Leda si è lasciata andare a considerazioni che stenderebbero un velo di mistero sulla morte di Mimì e alimenterebbero le affermazioni dure e aspre di Loredana nei confronti del padre. “La morte di mia sorella rimane un mistero irrisolto, con tanti lati oscuri ancora da chiarire e, a distanza di tanti anni, è giusto che se ne riparli”, dice. Era il 12 maggio 1995, data che non solo le sue sorelle, ma anche tutti i fan di Mia Martini difficilmente dimenticheranno. “Io e Loredana quel giorno drammatico abbiamo notato dei lividi sul corpo di Mia, il che ci fa pensare che poco prima abbia avuto uno scontro con qualcuno, magari con nostro padre che era un uomo violento e con cui non si andava d’accordo”. Poi prosegue: “Subito dopo i funerali ha fatto cremare Mia senza dire niente a nessuno e su questo pretendo ancora delle spiegazioni”. Non solo Loredana, quindi, ma anche Leda parla del padre con parole poco gratificanti, andando contro quanto affermato da Olivia Bertè che, invece, lo difende. Ma Leda spiega anche questo aspetto, affermando che la sorella minore, avendo appena sei mesi quando i genitori si sono separati, non sa tante cose della vita della sua famiglia.

Chi è Olivia Bertè: età, vita privata e storia della sorella di Mia Martini, scrive il 17 Febbraio 2019 viagginews.com. Sorella di Loredana e Mia Martini, si è esposta solo in difesa del padre o per omaggiare la sorella scomparsa: ecco chi è davvero Olivia Bertè.

Olivia Bertè è la quarta figlia, e ultimogenita, di Giuseppe Radames Bertè e Maria Salvia Dato. La donna è divenuta nota al grande pubblico per essere la sorella di Loredana Bertè e Mia Martini e per le dichiarazioni in difesa del padre che era stato descritto con severità dall’autrice di “Non sono una signora”. Ma chi è veramente Olivia Bertè nella vita privata? Ecco di seguito alcune curiosità che la riguardano.

Olivia Bertè è sempre apparsa schiva rispetto ai riflettori ed è intervenuta pubblicamente solo per due motivi: disconoscere le affermazioni fatte da Loredana Bertè sul loro genitore e per rendere omaggio a Mia Martini, l’amata sorella scomparsa. Olivia aveva infatti affermato riguardo il rapporto avuto con il padre, durante un’intervista rilasciata per La Repubblica: “Basta con questa spazzatura. Spero solo che da oggi si ricominci a parlare di Mia Martini esclusivamente come la grande cantante che è stata. Mio padre non è un mostro, è una persona normale. Da quello che so io tra Mimì [Mia Martini] e Leda non c’erano rapporti da almeno 8 anni. Con Loredana i rapporti si erano interrotti dopo il Sanremo del ‘92. La verità è che Mimì si era riavvicinata a papà, tanto è vero che aveva cambiato casa per avvicinarsi a lui. I rapporti tra loro erano intensi, di amicizia, anzi di amore.”

Nata nel 1958, Olivia si trova presto a respirare il difficile rapporto dei genitori che solamente 6 mesi dopo decidono di separarsi. Secondo i racconti di Loredana Bertè il padre sarebbe stato un uomo tanto violento da picchiare la madre a che quando era incinta di Olivia e da picchiare anche le sue stesse figlie. Olivia non ha mai apprezzato i commenti della rocker e ha risposto alle accuse al padre in modo netto, soprattutto dopo la morte di Giuseppe Radames: “Quando i miei si separarono avevo solamente 6 mesi, quindi non sono in grado di ricordare, dovrei parlare di cose che mi sono state raccontate, ma di sicuro i racconti di Loredana sono molto confusi. Luoghi e date non corrispondono assolutamente”. Distante per età ed esperienza all’interno della famiglia, prima unita, Olivia Bertè instaura un rapporto molto diverso con le sorelle cantanti, un rapporto che cambia di molto nel tempo. Olivia trascorre i suoi primi anni a Roma e il rapporto con il padre si instaura subito come una relazione a distanza. Secondo quanto riportato dalla sorella maggiore Leda, la piccola Olivia aveva una predilezione particolare per Loredana che, forse proprio a causa della differenza di età, pare non fosse ricambiata. Della sorella Domenica, affettuosamente chiamata Mimì, in arte Mia Martini, Olivia ha sempre parlato bene e secondo le fonti sin da giovanissima seguì la sorella sin dagli esordi della sua carriera esortandola e appoggiandola con grande affetto. Con Loredana, invece, dagli inizi in cui era forte la sua predilezione, il rapporto sarebbe totalmente cambiato, tanto che le due sembra si vedano molto di rado. Delle circostanze che hanno portato alla morte di Mia Martini, Olivia Berté ha parlato in un’intervista: “Si è fatto un gran mistero del fatto che sia stata ritrovata morta dopo due giorni, ma la verità, è molto più semplice. Lei veniva dalla Sicilia. Mi disse: ‘domani vado a Milano per provare un pezzo, se sabato non rispondo è perché sono in cuffia’. Io infatti l’ho chiamata e non mi sono preoccupata pensando che banalmente non sentisse il telefono. E lo stesso ha pensato mio padre. Ecco la verità”. Olivia Bertè ha un figlio, è sposata e al suo matrimonio fu proprio l’amata Mimì a farle da testimone.

Mia Martini rivelò tutto: “Quei due mi rovinarono la carriera”, scrive su chedonna.it Michele D. il 16 Febbraio 2019. Ha lasciato parecchi strascichi il film andato in onda martedì sera su Rai Uno “Io sono Mia”. Dopo questo film anche Patty Bravo è rimasta coinvolta nelle polemiche. La cantante che è reduce dal Festival di Sanremo 2019, nelle ultime ore ha anche comunicato un comunicato stampa, in cui ha preso le distanze da alcune dicerie attribuitele su Mia Martini. La cantante calabrese, nello specifico, nel 1983, al settimanale Gente, fece delle rivelazioni importanti. In questa chiacchierata, la sorella di Loredana Bertè, parlo proprio di queste dicerie strane per le quali lei portasse sfortuna. Mia Martini disse: “TRA COLORO CHE DIEDERO RISALTO A QUESTA MENZOGNA SECONDO LA QUALE IO PORTI JELLA CI SONO FRED BUONGUSTO E PATTY PRAVO. POI ANCHE LA RAI CI HA MESSO DEL SUO, EVITANDO DI MANDARE IN ONDA LE MIE CANZONI. E DOPO LO STESSO LO HANNO FATTO ANCHE I DISCOGRAFICI, CHE RIFIUTAVANO I MIEI BRANI”. Il film che ha riscontrato un grande successo, ha riacceso i fan della cantante su Spotify.I suoi successi come “Piccolo Uomo” e “Almeno tu nell’universo” sono comparsi in classifica. Non solo Patty Bravo e Fred Bongusto. Tra i tanti nomi che hanno diffuso le voci scaramantiche contro Mia Martini c’è quello dell’impresario Fausto Teddeu che nel 1970, aveva ricevuto un rifiuto sulla proposta di contratto fatta a Mia Martini. Chi ha deluso amaramente mia è stato anche Gianni Boncompagni: “Una volta ospite a DISCORING, lui era il regista. Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla troupe: ragazzi attenti, da adesso può succedere di tutto”. Questo rivelò mia alla rivista Epoca. Fonte: Instagram @patty_pravo_official. E su Patty Pravo dopo queste voci ha voluto rilasciare delle dichiarazioni: “A seguito dei messaggi dal contenuto falso e offensivo ricevuti nei giorni scorsi, sono costretta a pubblicare il seguente comunicato. La Signora Strambelli prende le distanze, ora come allora, dalle affermazioni attribuitele circa la Signora Mia Martini e, qualora si dovesse insistere in tali comportamenti, provvederà a sporgere denuncia-querela per diffamazione a mezzo stampa ed Internet a tutela della propria reputazione”.

Mia Martini intervistata nel 1983: “Lei ha detto che porto sfortuna”, scrive Salvatore S. su lettoquotidiano.it. Sono passati più di 30 anni. Ma si parla ancora di Mia Martini. Soprattutto in questi giorni dopo la straordinaria interpretazione di Serena Rossi in “Io sono Mia”. La cantante calabrese fu etichettata come portasfortuna e a suo tempo, fece i nomi di due cantanti che alimentarono delle stupide dicerie su di lei. Uno di loro è stato a Sanremo 2019. Tantissime le polemiche maturate nel post film. E’ stata la stessa Serena Rossi a rivelare che Ivano Fossati, grande amore tormentato della Martini, e l’amico Renato Zero, non hanno voluto che venissero fatti riferimenti ai loro personaggi in "Io Sono Mia". E ora ci sono anche delle altre cose da esaminare. Specificatamente ci sarebbe una intervista che proprio Mia Martini concesse alla rivista ‘Gente’ nel 1983 e nella quale la cantante, sorella di Loredana Bertè, parlo proprio di queste malelingue per le quali lei portasse sfortuna. Una cosa che in maniera definitiva segnò la sua carriera comunque strepitosa Mia Martini disse al giornalista Gianfranco Moriondo: “Tra coloro che diedero risalto a questa menzogna secondo la quale io porti jella ci sono Fred Buongusto e Patty Pravo. Poi anche la Rai ci ha messo del suo, evitando di mandare in onda le mie canzoni. E dopo lo stesso lo hanno fatto anche i discografici, che rifiutavano i miei brani”.

Mia Martini, la smentita di Patty Pravo: “Mai detto cose simili”. Tali parole hanno portato alcuni utenti a rivolgere delle offese a Patty Pravo sui social. Ma l’artista veneziana non ci sta e con un comunicato ha smentito con forza di aver diffuso falsità a danno di Mia Martini. Sul suo profilo ufficiale Instagram + comparso il seguente messaggio. “A seguito dei messaggi dal contenuto falso e offensivo ricevuti nei giorni scorsi, sono costretta a pubblicare il seguente comunicato”. Segue poi la nota del suo legale. “La sig.ra Strambelli prende le distanze, ora come allora, dalle affermazioni attribuitele circa la sig.ra Mia Martini e, qualora si dovesse insistere in tali comportamenti, provvederà a sporgere denuncia-querela per diffamazione a mezzo stampa e Internet, a tutela della propria reputazione”. La Martini è stata proprio lei a dichiarare in una seconda intervista la provenienza e il motivo di queste voci tristi: “Era il 1970, cominciavo a mietere i miei primi successi e questo impresario volle che io firmassi con lui una esclusiva a vita. Ma era una persona del tutto inaffidabile, per cui dissi di no. Qualche giorno dopo una esibizione in Sicilia ebbi un incidente stradale in cui due ragazzi persero la vita. Quella persona ne approfittò per incolpare me di tutto, dicendo che portavo sfortuna”.

Mia Martini, “Patty Pravo la prima a dire che portavo sfortuna”: lo scioccante comunicato, scrive il 2019-02-16, la Redazione Velvet. Dopo il film Io sono Mia, che ripercorre la vita e la carriera di Mia Martini, interpretata da Serena Rossi, si accende una polemica che vede Patty Pravo nell’occhio del ciclone. Sta facendo il giro del web una presunta intervista che Mia avrebbe rilasciato, di fonte però incerta. Avendo tuttavia dei contenuti infamanti, Patty Pravo ha deciso di reagire con un comunicato. Ecco la presunta intervista e il comunicato della cantante veneziana.

L’ipotetica intervista rilasciata da Mia Martini. Nell’intervista dalla dubbia veridicità (non si riescono a confermare nè la data nè la testata cui Mia Martini l’avrebbe rilasciata), la sfortunata sorella di Loredana Berté avrebbe affermato: “Tra i primi a dire che portavo sfortuna, Patty Pravo e Fred Buongusto. Poi è stata la volta della RAI che ha cominciato a non mandare più le mie canzoni”. Un’accusa pesantissima, un’ipotetica intervista che però è piombata su Patty Pravo come una bomba, scatenando l’ira degli utenti sui social che invece ci hanno creduto. Tanto che la Pravo ha sentito, giustamente, il bisogno di un comunicato, per smentire e chiarire la dolorosa faccenda. 

Patty Pravo e il comunicato: “Si tratta di un falso”. Sul suo profilo Instagram ufficiale, Patty scrive: “A seguito dei messaggi dal contenuto falso e offensivo ricevuti nei giorni scorsi, sono costretta a pubblicare il seguente comunicato“, messaggio poi seguito da una nota legale: “La Sig.ra Strambelli prende le distanze, ora come allora, dalle affermazioni attribuitele circa la Sig.ra Mia Martini e, qualora si dovesse insistere in tali comportamenti, provvederà a sporgere denuncia-querela per diffamazione a mezzo stampa ed internet a tutela della propria reputazione“. Noi siamo certi, visto che nessuno è riuscito a dare un’attribuzione alla suddetta intervista, che si tratti di un falso. E speriamo che le accuse contro Patty Pravo possano cessare al più presto. 

«Mai diffamato Mia Martini: ora querelo», scrive Antonio Lodetti, Domenica 17/02/2019, su Il Giornale. Mia Martini non è destinata a riposare in pace. Non è bastato il tributo al recente Sanremo, né la fiction-evento che l'ha celebrata su Raiuno. Sui social in questi giorni infuria la polemica sul fatto - che Mimì si è portata dietro come una croce - che la cantante portasse iella. Sul web è uscita una vecchia intervista della cantante - alcuni dicono rilasciata a Gente nel 1983, altri a Epoca nel 1989 - in cui l'artista avrebbe indicato in Patty Pravo e Fred Bongusto i primi a dire che lei portava sfortuna. L'intervista apparsa online dice testualmente: «Tra i primi a dire che porto jella sono stati Patty Pravo e Fred Bongusto. La delusione più cocente me la diede Gianni Boncompagni, un amico per l'appunto. Una volta fui ospite a Discoring, lui era il regista. Appena entrai in studio lo sentii dire alla troupe: ragazzi attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out». Parole pesanti che hanno fatto impazzire il web e soprattutto hanno fatto incavolare Patty Pravo che ha deciso di difendersi con un comunicato che dice: «A seguito dei messaggi dal contenuto falso e offensivo, la signora Strambelli prende le distanze, ora come allora, dalle affermazioni attribuitele circa la signora Mia Martini e, qualora si dovesse insistere, provvederà a sporgere denuncia-querela per diffamazione a mezzo stampa e internet a tutela della propria reputazione». 

LA RIVOLUZIONE CHIAMATA: TENCO.

Luigi Tenco, Pier Paolo Pasolini: quando la tragedia sveglia le coscienze. Il suicidio di Luigi Tenco (1967) e l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (1975): la gravità di questi due eventi scosse tante persone, ma soprattutto colpì anche parte di quel blocco conservatore indicato come “maggioranza silenziosa”, scrive Gianni Martini il 3 dicembre 2012. Si è parlato di “torpore coscienziale”, condizione politico-culturale che caratterizzava, negli anni ’60 e ’70, larghi strati della popolazione. “Maggioranza silenziosa”, così veniva definito questo “blocco sociale” trasversale che dalla piccola e media borghesia arrivava a toccare anche i ceti popolari. Ritengo importante soffermarmi su questo “muro sociale” conservatore perché la sua presenza impalpabile e, appunto, silenziosa, giocò un ruolo significativo. Più che di arretratezza politica penso si trattasse di una ben più grave arretratezza culturale che si esprimeva in una mentalità chiusa e refrattaria alle novità. Sarebbe quindi sbrigativo ed erroneo liquidare come “di destra”, compattamente, quest’area sociale. Infatti, anche una parte della sinistra popolare, allora legata al P.C.I, condivideva nei fatti le stesse posizioni conservatrici che non esitarono a condannare l’arte d’avanguardia, i capelloni dei primi anni ’60, gli omosessuali. Eppure, in quegli anni ci furono almeno due fatti che, sul piano del costume, scossero la società civile, arrivando forse a smuovere un po’ anche le “maggioranze silenziose”: 1967 suicidio di L. Tenco e 1975 omicidio di P. Pasolini. La sociologia ci insegna che quando nella società civile si verifica un “evento traumatico” si possono determinare cambiamenti nei comportamenti sociali più o meno diffusi, in relazione all’entità dell’evento stesso. L. Tenco si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967, mentre era in corso il festival di Sanremo. Nel drammatico messaggio che lasciò scritto sulla carta intestata dell’albergo si leggeva un’attestazione d’amore per il pubblico italiano, ma al tempo stesso una profonda delusione per il passaggio in finale di una canzonetta insulsa come “Io tu e le rose” e una finta canzone di protesta come “La rivoluzione”. L’opinione pubblica fu scossa soprattutto perché non ci si aspettava che il Festival di Sanremo potesse essere sconvolto da una tragedia simile. La morte di L. Tenco fece irrompere nella spensieratezza del tempio della canzonetta disimpegnata e leggera, del bel canto popolare, un’altra realtà: il fatto che si potessero scrivere canzoni frutto di un’ispirazione più autentica, canzoni che parlassero della vita concreta, non idealizzata e mistificata. Che le cose stessero iniziando a cambiare – con grida di scandalo di ben pensanti e reazionari di ogni risma – lo si era in realtà già capito da qualche anno, visto che il Festival di Sanremo aveva ospitato alcuni complessi di “capelloni” e canzoni di protesta. Comunque quasi tutta la stampa batté la strada del “cantante solo, incompreso, forse depresso e inacidito per il mancato successo”. Certamente il mondo della canzone, dopo quel tragico fatto, non fu più lo stesso. Nel 1972 nacque a Sanremo il Club Tenco e nel 1974 vi si tenne la prima “Rassegna della canzone d’autore”. Il Club Tenco (presieduto e fondato da A. Rambaldi), per statuto, si impegna a promuovere e diffondere un nuovo tipo di canzone, fuori dalle strategie delle case discografiche e della musica di consumo. Una canzone rivolta alla parte più sensibile e impegnata della società civile, già frutto di una vitalità socio- culturale, segno attuale dei tempi. E veniamo alla drammatica vicenda di P. Pasolini, ucciso barbaramente nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Gli occulti mandanti e le circostanze dell’omicidio non furono mai del tutto chiarite. Anche in questo caso l’impatto fu notevole soprattutto sulle componenti della società civile più sensibili e culturalmente attive. Buona parte della stampa, dopo aver riconosciuto o semplicemente riportato con distacco il valore dell’impegno artistico e intellettuale di Pasolini, si soffermò soprattutto sugli aspetti da “cronaca nera”. La stampa più retriva e moralista trattò il caso come “maturato negli ambienti omosessuali”. Per il resto ci si limitò con poche eccezioni a descrivere le scelte di vita di Pasolini. Si perse così (volutamente, sia chiaro), l’occasione per una discussione non solo sulla statura artistica di Pasolini ma su ciò che, come giornalista, scriveva su quotidiani e riviste importanti come “Il corriere della sera”, “Il tempo”, “Panorama”, “Rinascita”, “Il mondo” ecc, oltre a dichiarazioni rilasciate in interviste, anche televisive.

Quella rivoluzione chiamata Luigi Tenco. Fascinoso, anticonformista, ombroso. Ma anche ironico e traboccante di creatività, capace di sfidare la morale con canzoni che facevano pensare. Cinquant'anni fa, il 27 gennaio 1967, il cantautore pose fine alla sua vita con un colpo di pistola. Lasciando però una grande eredità alla nostra canzone, scrive Alberto Dentice il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Se non fosse mai andato al festival di Sanremo, oggi Luigi Tenco avrebbe 78 anni, la stessa età di Celentano e chissà, forse sarebbe anche lui un insopportabile gigione. Invece, il 27 gennaio del 1967, 50 anni fa, con un colpo di pistola Tenco pose fine alla sua vita tormentata assicurandosi un posto nel paradiso dei “forever young”, accanto a Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e altre leggende del rock morte giovani e preservate perciò dagli acciacchi del tempo e dell’età. Che si sia trattato di suicido, di un fatale incidente come capitò a Johnny Ace (leggenda del R&B fulminato nel 1954 da un colpo partito per sbaglio mentre giocava con la sua pistola) o di omicidio eseguito su commissione di oscuri mandanti come quello di Pier Paolo Pasolini, il dibattito è ancora aperto. Una mole impressionante di libri e di inchieste giornalistiche ne hanno evidenziato a più riprese l’inconsistenza: si legga in proposito la nuova aggiornata biografia di Aldo Colonna, “Vita di Tenco” (Bompiani), che arriva ad adombrare una responsabilità del vicino di stanza, Lucio Dalla. La versione del suicidio sembrerebbe a tutt’oggi accettata con rassegnata perplessità dalla stessa famiglia del cantautore, rappresentata dai due figli del fratello, Valentino Tenco, e dalla loro madre. Suicidio o omicidio? Non è un dubbio da poco. Cambiando il finale, sarebbe tutto un altro film. E il mito dell’artista “maudit” che si toglie la vita per protestare contro l’ottusità e la corruzione che infestano il tempio della musica leggera ne uscirebbe ridimensionato. Dell’eredità spirituale e artistica di Tenco, nel frattempo ha continuato a occuparsi, nel segno dell’indipendenza e di una mission creativa scevra da compromessi con il famigerato “mercato”, la Rassegna a lui dedicata, fondata proprio a Sanremo da Amilcare Rambaldi, gran signore e appassionato conoscitore di musica popolare. Il Premio Tenco aprì le porte nel 1974, nel pieno della stagione d’oro della canzone d’autore. Poi nel ’95 Rambaldi ci ha lasciato e la manifestazione ha cominciato a perdere un po’ dell’allegria e dello spirito dilettantesco, nel senso migliore del termine, che ne avevano caratterizzato gli esordi. Le mitiche serate post festival trascorse all’osteria assistendo alle sfide in ottava rima tra Guccini e Benigni sono un ricordo. Anche il Tenco ha aperto le porte al nuovo e ha esteso il concetto di canzone d’autore fino ad abbracciare l’hip hop, la canzone dialettale, la world music e il pop all’insegna di quella contaminazione tra i generi che siamo portati a considerare il suggello della contemporaneità. L’orgoglio della diversità artistica è rimasto un punto fermo anche per Enrico De Angelis, il direttore artistico che ne ha guidato le sorti fino a poche settimane fa, coadiuvato da un ristretto comitato di esperti e appassionati. Per celebrare i 50 anni dalla scomparsa, l’edizione 2016, la quarantesima, ha previsto un gran finale tutto dedicato a Luigi Tenco. Titolo: “Come mi vedono gli altri… quelli nati dopo”. Sul palco fra gli altri anche l’istrionico Morgan che per Tenco ha una vera adorazione. Gli ha dedicato il prossimo album e una canzone: «Luigi Tenco / scappato eternamente / oltre lo spazio, le luci e il tempo / perché lui si sente /vivo / fatalmente/ solo nel momento in cui non è». Ma quanti lo ascoltano, quanti fra i giovani musicisti e i cantanti oggi conoscono Tenco? La risposta forse arriverà il 28 gennaio ad Aosta, quando sul palco del Teatro Splendor in ricordo del cantautore saliranno altri giovani protagonisti della canzone d’autore. Fra gli altri proprio il toscano Motta, cui è stato assegnato il recente premio Tenco. E che mentre si appresta a cantare il suo “Una brava ragazza”, ammette di conoscerlo poco. Ma appunto, chi era Luigi Tenco? Certo è che quel gesto estremo, notava anni fa Lietta Tornabuoni su La Stampa, «lo aveva confermato per quel che Tenco era sempre apparso all’euforico, quattrinaio e prepolitico mondo della musica leggera dei primi anni Sessanta: un guastafeste». E chissà se Carlo Conti e Maria De Filippi decideranno di commemorare l’anniversario al prossimo Sanremone. Perché la sua ombra continua a dividere come quella di un angelo sterminatore. Le cronache del tempo tramandano il ritratto di un anticonformista dal carattere ombroso e introverso ma assai consapevole del proprio fascino, jeans e maglione nero d’ordinanza, lo sguardo sprezzante del giovane arrabbiato a mascherare una profonda fragilità. Insomma, è uno che se la tira. Oltretutto il Nostro è un lettore accanito, adora Pavese e in una canzone, “Quasi sera”, cita addirittura versi di Bertolt Brecht. Quanto basta perché alla fama di intellettuale si sommi quella più sospetta di comunista. Oggi non ci farebbe caso nessuno, ma nell’Italia pre-sessantotto che vuole essere ricca, spregiudicata e ottimista basta questo per essere guardato con diffidenza, specie nell’ambiente ridanciano e superficialotto della discografia. All’immagine del pessimista introverso da sempre fa da contraltare quella del Tenco amante della vita, traboccante creatività e perfino spiritoso, bravissimo a raccontare barzellette, con un debole per le zingarate. Dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto, insomma, Tenco risulta essere stato tutto e il contrario di tutto. Ma sulla sua missione ha idee chiarissime: «Anche la canzone può servire a far pensare». Convinto che si debba cantare l’amore con un linguaggio nuovo, fare a pezzi i luoghi comuni, la rima baciata, il verso tronco, la retorica imperante. Sì: «Mi sono innamorato di te», ma solo «perché non avevo niente da fare». Nei primi anni Sessanta, ovviamente, non è il solo artista impegnato a rinnovare il linguaggio della canzone. Tenco è meno musicista di Bindi, meno romantico di Paoli, non ha l’aplomb aristo-maledetto di De André, ma proprio lui, genovese d’adozione (è nato a Cassine in provincia di Alessandria) è il più politico del gruppo. Nel 1962, “Cara maestra”, il “j’accuse” contro l’ipocrisia di certi precetti morali impartiti a scuola e in chiesa, gli era valso due anni di esilio dalla tv. Intanto, nella musica e non solo in quella, sta cambiando tutto. L’avvento di Bob Dylan, dei Beatles, dei Rolling Stones ha impresso al mondo un’accelerazione bestiale. Tenco, appena sbarcato alla Rca, la sua nuova casa discografica, scopre il Piper Club, il tempio romano del beat e dei capelloni, dove oltre ai Rokes, all’Equipe 84, a Patty Pravo si possono ascoltare i Primitives, i Bad Boys e molti altri gruppi rock blues inglesi sconosciuti ma bravissimi. E perfino divinità del Rhythm’ n’Blues come Otis Redding, Wilson Pickett, Sam & Dave. Tenco a differenza di Bindi, di Paoli, di Endrigo, di Lauzi, che hanno la bussola puntata verso la Francia di Brassens, guarda più all’America. Nasce come sassofonista, viene dal jazz e ha trovato in Paul Desmond il suo modello. Come se non bastasse, sussurra «Quando il mio amore tornerà da me…» con lo stesso timbro vellutato di Nat King Cole e in questo come in altri suoi lenti da mattonella farciti con overdose di violini - pensiamo a “Lontano, lontano” o a “Ti ricorderai” - riesce a toccare come pochi le corde della malinconia. Proprio al Piper, però, il Nostro deve rendersi conto che il conflitto, ormai, non è più fra destra e sinistra, quanto piuttosto una questione generazionale. Da una parte i giovani, dalla parte opposta tutti gli altri. Lui a 25 anni si sente già vecchio, e quando nel 1966 scoppia la polemica contro i capelloni, è tra i primi a schierarsi: «Gli argomenti preferiti di certa gente sono che i capelloni non lavorano, che non si lavano, che sono ignoranti; bene, a questo punto io mi proclamo un capellone, mi sento uno di loro». L’ondata dei beat, delle canzoni di protesta lo vedrà in prima linea, anche se, a onor del vero, il contributo di Tenco alla causa, “Ognuno è libero”, non si distingue per originalità. Chissà cosa pensano davvero di lui i giovani che oggi nei dischi infilano cover delle sue canzoni per accattivarsi la giuria del premio Tenco. I cinquant’anni dalla morte cadono mentre De Angelis si dimette dal Club denunciando che l’iniziale «professionalità» si sta trasformando in «professionismo», e gli eredi litigano con i gestori del museo-omaggio di Ricaldone, rei di aver esposto una gigantografia del cantante. E intorno a Tenco tira aria di maretta.

«Ecco perché Tenco fu ucciso» Il libro-inchiesta riapre il caso, scrive Monica Bottino, Sabato 23/02/2013, su "Il Giornale". «Quando molti giornalisti mi chiedono se esiste il delitto perfetto, io gli rispondo di sì: è l'omicidio Tenco». Il criminologo Francesco Bruno ne è convinto. Nella notte del 27 gennaio 1967, durante il Festival di Sanremo, avvenne quello che a 46 anni di distanza resta ancora uno dei grandi misteri italiani. Mistero, sì. Nonostante due sentenze della magistratura dicano che Luigi Tenco si è suicidato, sono tanti e insoluti i dubbi su quella notte. E non solo. A tentare di far luce su quello che è per molti un «cold case» sono due giornalisti d'inchiesta: Nicola Guarnieri e Pasquale Ragone che hanno pubblicato il libro «Le ombre del silenzio. Suicidio o delitto? Controinchiesta sulla morte di Luigi Tenco» (edizioni Castelvecchi), proprio con la prefazione del professor Bruno. Un lavoro ponderoso che è il risultato di quattro anni di ricerche nei faldoni giudiziari, alla riscoperta di interviste dell'epoca con le persone che a vario titolo furono coinvolte nella vicenda. E nuove testimonianze. A rendere straordinario il libro non c'è solo la capacità degli autori di raccontare una storia vera come fosse un noir, ritmandola di colpi di scena e rivelazioni clamorose, ma anche e soprattutto la pubblicazione di testimonianze e materiali inediti rinvenuti nell'aula bunker della corte di Assise di Sanremo. Un lungo lavoro di ricerca che gli autori hanno portato avanti scavando tra archivi e faldoni, fino a scovare per la prima volta il foglio matricolare e alcune lettere di Luigi Tenco, documenti finora mai pubblicati. Il lettore viene assalito da molti dubbi di fronte a un quadro inquietante e alle troppe incongruenze che emergono dalle carte stesse. Alla fine emergono anche altre domande: perché Tenco doveva morire? Quali segreti custodiva? E la richiesta degli autori alla magistratura, sulla base delle nuove prove emerse, è quella di aprire nuovamente il caso. Intanto è bene sapere che Luigi Tenco in quei giorni aveva paura. Di più. Temeva per la sua vita, dopo che poco tempo prima del festival, nei pressi di Santa Margherita due auto lo avevano stretto e avevano tentato di mandare la sua fuoristrada. Era stata la terza volta che attentavano alla sua vita, confidò a un amico. Fu a quel punto che decise di acquistare una pistola Walther Ppk7.65, abbastanza piccola da tenerla nel cruscotto della macchina. Secondo gli autori non fu questa la pistola che uccise Tenco perché non uscì mai dalla macchina. Nella stanza 219 del Savoy la polizia dirà di aver rinvenuto una Bernardelli, molto simile alla precedente, ma naturalmente non quella. Inoltre nel primo verbale stilato dalla polizia «alle ore tre» (e pubblicato nel libro) si parla di proiettili, di medicinali, ma non di arma. La pistola non fu repertata. Perché? Forse perché non c'era? Ma andiamo avanti. È assodato che il cadavere fu condotto all'obitorio subito dopo il ritrovamento dai necrofori, che poi furono richiamati e costretti a riportarlo nella stanza dove fu rimesso nella posizione che aveva al momento del ritrovamento, per consentire alla polizia di scattare le fotografie e di eseguire i rilievi non fatti prima. Non fu eseguita l'autopsia. Il cadavere di Tenco non fu svestito né lavato, ad eccezione del viso. Non fu nemmeno fatto lo «stub», ovvero il test che prova se una mano ha tenuto la pistola che ha sparato. Nulla. Perché? A distanza di molti anni, a fronte di molti dubbi, nel 2006 la salma di Tenco fu riesumata. Gli esami furono - secondo gli autori - incompleti anche in questo caso. Ma ci furono esperti che si dissero convinti che la pistola che aveva ucciso Tenco avesse un silenziatore, poiché la ferita sul cranio non era a stella, ma rotonda. Ma il silenziatore non fu mai trovato. Inoltre nel 2006 non furono fatti accertamenti sui vestiti, gli stessi che l'uomo indossava al momento della morte e che avrebbero almeno dovuto avere le tracce dello sparo. Il lettore verrà condotto attraverso uno dei misteri irrisolti con dovizia di particolari e una documentazione ricca, sebbene un piccolo appunto (magari in vista di una ristampa) va fatto per la poca chiarezza delle immagini fotografiche stampate sulla carta ruvida, e in bianco e nero anche nella ricostruzione. Resta il fatto che il libro-inchiesta non solo pone questioni, ma fornisce al lettore anche una possibile chiave di lettura degli avvenimenti che culminarono in quella notte maledetta. C'è la pista argentina, per dirne una, ma si parla anche di mafia marsigliese, e di eversione di estrema destra. E anche del potere delle case discografiche a Sanremo. Non possiamo svelare di più, per non togliere il piacere di una lettura coinvolgente che attraversa fatti e personaggi della nostra storia. «Gli esami svolti nel 2006 dall'Ert non chiariscono tutti i punti oscuri e la tesi del suicidio non combacia con diversi elementi», scrive ancora Bruno nella prefazione. La soluzione al mistero è ancora lontana. Ma questo libro è un passo avanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

GIORGIO GABER E’ CON NOI.

Io mi chiamo G, scrive Roberto Tartaglione e Giulia Grassi. Il primo dell'anno 2003 è morto un artista italiano di grande talento, Giorgio Gaber. Al suo funerale hanno partecipato, oltre che numerosissime persone comuni, anche politici di destra e di sinistra (da Silvio Berlusconi, Capo di un governo di destra, a Mario Capanna, ex leader del movimento studentesco, di estrema sinistra, del 1968). Tutti celebrano il Gaber anticonformista e un po' anarchico, la televisione trasmette le sue canzoni più divertenti o quelle impegnate in cui critica proprio quella generazione "di sinistra" di cui lui stesso faceva parte. Insomma: è già successo per Pasolini e ora succede di nuovo. Quando muore un artista che ha espresso idee che escono un po' dall'ortodossia del pensiero dominante sono subito tutti pronti a tirarlo dalla propria parte (perfino gli ex-democristiani hanno elogiato Gaber, dimenticando forse quello che Gaber aveva scritto e cantato proprio sul loro partito politico nella censuratissima Io se fossi dio).

- Io mi chiamo G. 

- Io mi chiamo G.

- No, non hai capito, sono io che mi chiamo G. 

- No, sei tu che non hai capito, mi chiamo G anch’io.

- Ah, Il mio papà è molto importante. 

- Il mio papà... no.

- Il mio papà è forte, sano e intelligente. 

- Il mio papà è debole, malaticcio... e un po’ scemo.

- Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue. 

- Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto. Ma poco, perché tartaglia.

- Io sono figlio unico e vivo in una grande casa con diciotto locali spaziosi.

- Io vivo in una casa piccola. Però c’ho diciotto fratelli! 

- Il mio papà è molto ricco guadagna 31 miliardi al mese che diviso 31 che sono i giorni che ci sono in un mese, fa un miliardo al giorno.

- Il mio papà è povero: guadagna 10.000 al mese che diviso 31 che sono i giorni che ci sono in un mese fa... circa... 10.000 al giorno!!! …al primo giorno. Poi dopo basta.

- Noi siamo ricchi ma democratici. Quando giochiamo a tombola segniamo i numeri con i fagioli.

- Noi, invece, segniamo i fagioli con i numeri. Per non perderli.

- Il mio papà ogni anno cambia la macchina, la villa e il motoscafo.

- Il mio papà non cambia nemmeno idea.

- Il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: Guarda! Tutto quello che vedi un giorno sarà tuo.

- Anche il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: guarda!

Basta.

Con questo monologo del 1970 comincia l'avventura del "Teatro Canzone" di Giorgio Gaber, una serie di spettacoli fatti da canzoni e monologhi spesso satirici e divertenti, ma sempre pieni di contenuti sociali e politici. Le canzoni possono riportarsi tutte a una serie di filoni principali: alcune sono legate a un dettaglio, a un gesto del proprio corpo, a una situazione piccolissima (per esempio la divertente LE MANI). Altre si occupano "pirandellianamente" del nostro modo di essere e del nostro modo di apparire (per esempio IL COMPORTAMENTO). Ma Gaber diventa più graffiante quando tocca questioni sociali come la famiglia e il rapporto di coppia (come succede in C'È SOLO LA STRADA o ne IL DILEMMA) e ancora di più quando critica i giovani della sinistra troppo omologati nei gusti e nel pensiero (durissima la canzone QUANDO È MODA È MODA). Naturalmente tutto questo senza alcuna simpatia per la destra che viene fotografata nel suo insieme in canzoni come I BORGHESI o L'ODORE. Certamente però il massimo della sua carica di rabbia e di delusione per la politica si trova nella canzone IO SE FOSSI DIO, censurata da radio e televisione, così provocatoria che nessuna casa discografica aveva accettato di pubblicarla (e infatti il disco è stato prodotto in privato da Gaber stesso e poi venduto quasi clandestinamente nelle università e sulle bancarelle per strada). Fra i monologhi ricordiamo LA SEDIA DA SPOSTARE, in cui attacca l'immobilismo della classe politica italiana; e poi LA CACCA DEI CONTADINI, e tanti altri ancora in cui veniva fuori il suo grande talento di attore oltre che quello di cantante. Negli ultimi anni Gaber sembrava essersi un po' "addolcito". Canzoni come IL CONFORMISTA o LA LIBERTA’ o DESTRA- SINISTRA sono ancora molto divertenti e incisive ma forse non così adeguate alla situazione italiana contemporanea. Interrogato su questo "addolcimento" dell'ultimo Gaber, Enzo Jannacci, un altro cantautore di grande bravura e amico di Gaber da sempre, ha recentemente dichiarato al giornale La Repubblica: " Lui aveva visto lungo: aveva capito subito che questa sinistra non funzionava... era arrabbiatissimo, come Nanni Moretti, solo che ultimamente non poteva ribellarsi come lui, in modo così eclatante, diciamo, appunto per la malattia e magari un po' per motivi di famiglia. Ma lui aveva capito."

Note: Nanni Moretti: è il regista cinematografico che da un anno è diventato leader del movimento dei girotondi, un movimento di sinistra che critica la sinistra stessa per il modo poco incisivo con cui fa opposizione al governo Berlusconi. Per motivi di famiglia: Jannacci allude probabilmente al fatto che la moglie di Gaber è diventata un importante esponente del partito di Forza Italia, il partito di Berlusconi.

La lezione "eretica" di Gaber: il coraggio di non essere omologati, scrive Paolo Giordano, domenica, 04/12/2016, su "Il Giornale". La tentazione, quella c'è sempre per tutti. Rimanere nel coro, seguire il binario, galleggiare nella fama già conquistata. Il conformismo, o chiamatelo omologazione, è un virus che contagia la stragrande maggioranza di artisti o cantanti, e non necessariamente si merita la bocciatura. C'è chi, pur volendo, non potrebbe fare altro e, per carità, non chiediamogli divagazioni imprevedibili, ché altrimenti è peggio. Ma per altri, fortunatamente, non è così. Per rimanere fuori dal coro ci vuole non soltanto una bella voce (leggasi talento). Ci vuole anche la forza di cantare più forte (leggasi coraggio). E se il coraggio è fatto di paura, come ha scritto Oriana Fallaci, è inevitabile che Simone Cristicchi ne abbia patito una bella dose quando, più o meno consapevolmente, ha seguito il proprio istinto. Aveva vinto Sanremo, era considerato uno dei cantautori più promettenti, aveva la benedizione della critica e della gente che piace. Invece ciao. Ha fatto altro. E come lui altri (pochi) cantautori italiani capaci di lasciare l'alveo della canzone popolare per diventare popolari davvero, e perciò unici. Come Giorgio Gaber. Anche lui, con brani come Torpedo blu o Goganga, a inizio anni Sessanta si era conquistato un enorme consenso di pubblico, era uno dei golden boy della musica leggera, carriera garantita a base di contratti e vendite discografiche allora davvero esaltanti. E invece si inventò il teatro canzone, trovò sale vuote o semivuote ma poi si rivelò uno degli artisti più coraggiosi del Novecento. Aderì alla cosiddetta «eresia della libertà» che è formalmente un ossimoro, ma sostanzialmente resta il vero crinale che separa il talento onnivoro e curioso da quello più conforme e pigro. Ebbe, da vero pioniere, la forza di resistere alla calamita delle ideologie quando le ideologie assorbivano - meglio: contaminavano - quasi tutta la produzione artistica e musicale. Fu un profeta del dubbio con la certezza di essere libero. Altri tempi. A seguire quella strada, quella che porta fuori dai banchi del coro ma lascia comunque i riflettori accesi, sono stati in pochi e oggi Simone Cristicchi è realmente una mosca bianca in uno scenario assai omologato, per inguaribile paura o spicciola convenienza. È passato dal tormentone estivo alla ritirata dell'Armir, dal Coro dei Minatori di Santa Fiora al canto anarchico Stornelli d'esilio con una curiosa voracità agile e soprattutto libera. In Italia, si sa, la libertà è quella cosa che ti porta a essere, di volta in volta, criticato da chi prima ti esaltava e viceversa. Così è accaduto a Gaber. E così, in altri contesti e senza paragoni, sta capitando anche a Cristicchi, che molti festeggiarono al Festival di Sanremo per la poesia scarna del brano scritto dopo avere visitato il manicomio di Girifalco (Ti regalerò una rosa) e poi criticarono perché aveva osato illuminare a teatro le pieghe sanguinose delle foibe con Magazzino 18. Dopotutto, chi si mantiene sempre libero obbliga gli altri a fare i conti con le proprie schiavitù ideologiche.

Quel magnifico naso di Giorgio Gaber: oggi il Signor G. avrebbe compiuto 80 anni, scrive Daniele Bellasio il 25 gennaio 2019 su "La Repubblica". Oggi Giorgio Gaber compie 80 anni e quello che mi manca di più è il suo naso. Quando meno te lo aspettavi il Signor G. lo piazzava lì, a mezz’aria, nel punto esatto dove accendeva il tuo sorriso, il tuo pensiero, il tuo dubbio, la tua emozione, il tuo fon. Per Gaber il naso era il regista occulto delle reazioni del pubblico, il primo degli applausi che meritava dopo lo shampoo, lo strumento del fascino e il trucco del colpo di genio beffardo. Giorgio Gaber non è soltanto musica, non è soltanto teatro, non è soltanto poesia, è soprattutto il suo corpo, il suo sorriso disincantato, ma sempre benevolo. Lo utilizzava come una macchina teatrale alla Carmelo Bene, il corpo; quando spostava la testa di lato – “Oh, mamma” -, quando piegava leggermente la schiena come a rannicchiarsi con il pugno chiuso sbattuto con grinta all’ingiù per dire “dai, ce la facciamo”, o almeno “ce la faremo”, dentro un urlo tenuto a distanza di sicurezza dal microfono; quando lo slegava in gesti ognuno separato dall’altro nella cantilena sui tic alla catena di montaggio; quando formava un cerchio con pollice e indice, stendeva le altre tre dita in avanti e sottolineava il cuore di quel che stava dicendo; quando arrivava dopo il suo teatro canzone per i bis con le sue canzoni in teatro.

Chitarra, capelli sudati buttati all’indietro alla ricerca di quelli perduti e degli anni passati, Barbera, Champagne. Il pubblico lasciava le sedie del Lirico di Milano e si avvicinava. Lui, sempre gentile. Suonava dinoccolato, intenerito dalla nostra presenza costante, anno dopo anno, dilemma dopo dilemma, elezioni dopo elezioni. Forse era già vietato fumare, ma in quei fuori programma per il suo clan te lo immaginavi sempre con la Marlboro accesa. Il naso, la chitarra, le mani lunghe, il microfono abbrancato, quel vestire sempre uguale a sé stesso e sempre elegante, la giacca, la cravatta, felicemente borghese, in pace con la sua libertà e maturità obbligatoria, portata con saggia leggerezza come un suo cappello nero o una sciarpa bordeaux. In ogni spettacolo il Signor G. sorrideva del e con il suo pubblico perché aveva il naso esatto per cogliere in qualunque periodo qual erano il luogo e il difetto comune del momento: il potere dei più buoni, l’ipocrita differenza di una famiglia dentro e fuori la porta di casa, la paura nell’incontro dell’ignoto in una strada notturna, gli eccessi della tv e gli eccessi della controtv, gli eccessi del mercato e gli eccessi del contromercato, gli eccessi della politica e gli eccessi dell’antipolitica, la destra, la sinistra, la nave, i soli, basta. Dai, è ovvio che non manca soltanto il suo naso, ma il fatto che manchi il suo corpo si fa sentire. “Che vuoi che se ne faccia un uomo del proprio corpo, che se lo prenda lei”, recitò in un monologo sulla “Coscienza della morte” del 1996. Ecco, l’ultimo dei fuori programma lo ricordo il giorno del suo funerale, il suo corpo non si vedeva più durante quel bis: c’era un giorno grigio, il Grigio di gennaio, una brutta giornata, tanta gente, un luogo del milanese e una canzone a mezz’aria: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna e purtroppo lo sono”. Sciacquo, seconda passata.

Giorgio Gaber avrebbe 80 anni: i 15 brani indimenticabili. Le canzoni più belle del signor G., che con il suo teatro-canzone ha raccontato trent'anni di storia italiana, scrive Gabriele Antonucci il 25 gennaio 2019 su Panorama. “Dove esistono una voglia, un amore, una passione, lì ci sono anch’io”. Parola di Giorgio Gaberščik, da tutti conosciuto come Giorgio Gaber, che oggi avrebbe compiuto 80 anni. Nato a Milano il 25 gennaio 1939 in via Londonio 28, il signor G. è stato uno dei personaggi più influenti dello spettacolo e della musica italiana del secondo dopoguerra. L’originalità della sua produzione artistica lo distacca nettamente dai suoi contemporanei. Nell'opera di Gaber c'è tutto: la leggerezza il disincanto, l'ironia per i tic e le nevrosi dell'uomo comune, il senso dell'amore e della vita, la gioia per l'impegno sociale e civile e la più cocente disillusione. Oggi a Milano sarà svelata una targa, alla presenza della vedova Ombretta Colli, della figlia Dalia, dei nipoti Lorenzo e Luca, sulla facciata della casa natale di Gaber di via Londonio, dove ha vissuto dal 1939 al 1963. Sulla targa è inciso: "Qui nacque nel 1939 Giorgio Gaber. Inventore del Teatro - Canzone. La sua opera accompagna vecchie e nuove generazioni sulla strada della libertà di pensiero e dell'onestà intellettuale". Cantautore, chitarrista, commediografo, regista, attore, e scrittore, il "filosofo ignorante", come si era autodefinito, in realtà aveva un'ampia gamma di riferimenti letterari, da Adorno a Leopardi, passando per Beckett, Borges, Brecht, Céline, Sartre e Pasolini. Con quest'ultimo Gaber condivideva l'obiettivo di scardinare il conformismo ideologico, come rivelano i folgoranti testi di Qualcuno era comunista, Destra-Sinistra e Il conformista. Si forma con il jazz, suona il rock’n’roll quando da noi era ancora un genere di nicchia, collabora con Jannacci e Mina fino a quando, all’apice del successo, crea un nuovo genere nuovo: il teatro-canzone. Ispirato ai récital francesi, con il suo teatro-canzone l'artista del Giambellino ha attraversato trent'anni di storia italiana, in una compenetrazione continua tra vita pubblica e privata. Gaber ha costituito con Sandro Luporini una coppia artistica complementare e fecondissima, in grado di rivaleggiare, per qualità e inventiva, con McCartney/Lennon e Bacharach/David. Per celebrare gli 80 anni del signor G., morto il primo dell'anno del 2003, vi proponiamo 15 canzoni indimenticabili del suo repertorio, in ordine rigorosamente cronologico, consapevoli che sono solo una parte dei numerosi tesori che ci ha lasciato.

1) La ballata del Cerruti Gino (1960) "Il suo nome era Cerutti Gino/Ma lo chiamavan Drago/Gli amici al bar del Giambellino/Dicevan che era un mago (era un mago)"

2) Non arrossire (1961) "No non temere/Non indugiare/Non si fa del male /Se puro è l'amor".

3) Il Riccardo (1969) "Ma per fortuna che c’è il Riccardo/che da solo gioca al biliardo/non è di grande compagnia/ ma è il più simpatico che ci sia".

4) Lo shampoo (1972) "La schiuma è una cosa pura, come il latte: purifica di dentro/ La schiuma è una cosa sacra che pulisce la persona meschina, abbattuta, oppressa/ È una cosa sacra. Come la Santa Messa".

5) La libertà (1973) "La libertà non è star sopra un albero/ Non è neanche il volo di un moscone/ La libertà non è uno spazio libero/ Libertà è partecipazione".

6) Far finta di essere sani (1973) "Per ora rimando il suicidio/ e faccio un gruppo di studio/ le masse la lotta di classe i testi gramsciani /far finta di essere sani / far finta di essere".

7) Un'idea (1973) "Un'idea, un concetto, un'idea/ finché resta un'idea è soltanto un'astrazione/ se potessi mangiare un'idea/ avrei fatto la mia rivoluzione".

8) Il dilemma (1980) "Il loro amore moriva come quello di tutti/ come una cosa normale e ricorrente/ perché morire e far morire è un'antica usanza/ che suole avere la gente".

9) Io se fossi Dio (1980) "Io se fossi Dio /non avrei proprio più pazienza inventerei di nuovo una morale /e farei suonare le trombe per il giudizio universale".

10) Qualcuno era comunista (1991) "Qualcuno era comunista perché era ricco, ma amava il popolo/ Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari/ Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio/ Qualcuno era comunista perché era così affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro".

11) L’illogica allegria (1992) "È come un'illogica allegria/ Di cui non so il motivo/ Non so che cosa sia".

12) Quando sarò capace d’amare (1994) "Quando sarò capace d'amare mi piacerebbe un amore/ che non avesse alcun appuntamento col dovere".

13) Destra-Sinistra (1994) "Tutti noi ce la prendiamo con la storia/ma io dico che la colpa é nostra/ é evidente che la gente é poco seria/ quando parla di sinistra o destra".

14) La razza in estinzione (2001) “Coi giovani sono intransigente/Di certe mode, canzoni e trasgressioni non me ne frega niente”.

15) Io non mi sento italiano (2003) "Io non mi sento italiano/ Ma per fortuna o purtroppo lo sono".

L'antipopulista d'autore che aveva già previsto l'Italia al contrario di oggi. Ha raccontato il Paese con "Illogica allegria" e delusione. La sua generazione ha perso. Lui no, scrive Paolo Giordano, Sabato 26/01/2019, su "Il Giornale". Sì forse degli elogi o degli auguri di questi giorni, Giorgio Gaber avrebbe sorriso oppure ne avrebbe fatto un testo. Alla maniera sua e di quell'altro geniaccio di Sandro Luporini. Il Signor G compie ottant'anni, chissà cosa penserebbe dell'Italia di oggi, sarebbe felice oppure no e via dicendo. Ma non ha molto senso ora chiedersi se questo fuoriclasse in senso letterale (gli altri erano omologati in classe, lui no) avrebbe titolato una canzone Qualcuno era populista oppure se l'establishment lo avrebbe elogiato o censurato. Qualcuno ha scritto che neppure adesso lo capirebbero. In realtà Gaber è stato sempre capito, magari superficialmente, altrimenti non sarebbe stato temuto e criticato random, cioè sia a destra che a sinistra in ordine sparso, senza scadenze precise. Usciva un suo spettacolo e, se era ad esempio Polli d'allevamento (1978), lo criticavano gli allora giornali comunisti, con un mitragliante Michele Serra. Usciva il 45 giri con un brano come La libertà (quello del 1973 con il verso male interpretato «Libertà è partecipazione») e la destra lo prendeva di mira. Specialmente a quel tempo, chi non si schierava era per forza un avversario. Il pensatore libero, cioè Gaber, era quindi avversario di tutti, ogni sua frase veniva sfruttata «contro» qualcosa o qualcuno. Non a caso, l'unica etichetta che a stento accettava era «anarcoide». La sua carriera lo è stata. La sua vita no: una moglie per sempre, Ombretta Colli, una figlia adorata, Dalia, una passione maniacale per il lavoro fino alla fine. Si era fatto conoscere agli italiani prestissimo, al Musichiere proprio come Mina e Celentano, e divenne uno dei golden boy della musica leggera, uno dei primi a capire, anche come chitarrista, che dall'America la risposta musicale soffiava nel vento del rock'n'roll. Poi la tv lo rese famoso giovanissimo, quando viveva ancora in via Londonio a Milano con la sua famiglia (ieri il condominio gli ha dedicato una targa). A neppure trent'anni Gaber era già oltre. Nasce il Teatro Canzone, una delle formule espressive e artistiche più grandi e inimitabili del Novecento. Gli spettacoli come Libertà obbligatoria o Io se fossi Gaber o Far finta di essere sani sono frustate alla coscienza collettiva, avamposti del pensiero libero, campi minati per i luoghi comuni. Come ogni artista fuori dal coro, Gaber veniva capito per quanto possibile e sfruttato, specialmente dalla Rai, soprattutto per le sue storie o i suoi testi più politicamente neutrali. E, come ogni visionario, è stato capito soprattutto dopo. Negli anni Novanta, quando recitava cantando Qualcuno era comunista, in platea si commuoveva anche chi non era mai stato comunista e, addirittura, vent'anni prima dava del comunista proprio a Gaber.

E oggi? Come vivrebbe oggi nella società dell'immagine, galleggiando tra le fake news, fuggendo il viscido pedinamento dei social? Vivrebbe come allora. Facendo incazzare tutti. Creando appartenenza perché «Gaber è partecipazione» di chi non partecipa per scelta consapevole e magari sofferta. A differenza del suo tempo, quest'epoca è molto più frenetica, istantanea, fulminea e quindi ci sarebbe una «quota Gaber» di polemiche molto più frequente di allora. E la sua libertà di pensiero sarebbe notata molto più di quanto lo sia stata allora. Tra gli anni Settanta e i Novanta (ma anche dopo, a pensarci bene) non era possibile essere «altro». O si era di destra o di sinistra. O di qua o di là. Lui non era né di qua né di là perciò c'erano lanci di bottiglie ai suoi spettacoli, fischi e contestazioni. Proprio nel periodo di Polli d'allevamento disse: «Quando finisco lo spettacolo, so benissimo che s'incavoleranno, che fischieranno, sento questa cosa che mi arriva addosso e di nuovo rimango con l'occhio spalancato di notte, mi ritrovo a non addormentarmi fino alle otto di mattina per superare questo choc dello scontro». Già allora la scintilla dei suoi spettacoli, dei monologhi e delle canzoni era la fuga dalla massificazione, dall'omologazione spacciata per libertà. E quindi i suoi testi di ieri spiegano anche la vita di oggi e della società definita fluida ma clamorosamente omogenea perché tutti hanno gli stessi tic, le stesse forme di comunicazione e cascano nelle stesse trappole conformiste. Oggi sarebbe una pacchia per Gaber. O, forse, non avrebbe più voglia di ripetersi e riderebbe nella sua Versilia, dove il primo gennaio del 2003 se ne è andato a 63 anni. Nel 2001 aveva pubblicato La mia generazione ha perso, generosamente catalogandosi all'interno di una generazione sconfitta. In realtà non ne aveva mai fatto parte se non per poco, giusto il tempo di prendere appunti e poi fare arrabbiare tutti.

Luca Pavanel per “il Giornale” il 19 febbraio 2019. Quanti volti, quante vite vissute in una, quante storie da ascoltare. L' incontro con Ombretta Colli è un romanzo da sfogliare pieno di momenti, personaggi e viaggi in giro per l'Italia e all' estero. Ride divertita la signora quando glielo si dice, ma non si tira indietro, sta al gioco e si prepara a rispondere a una lunga raffica di domande. Si diverte a ripescare angoli del suo passato, come quando andava a New York e si interessava al femminismo, o come quando a un certo punto decise di abbandonare il mondo dello spettacolo per darsi alla politica. Davanti a un caffè, accetta di raccontarsi, nella sua casa a Milano dove viveva con lei suo marito Giorgio Gaber, che il 25 gennaio scorso avrebbe compiuto ottant' anni. «Eravamo davvero una bella coppia, tra di noi c'era una grande complicità», dice aprendo un sorriso.

Ombretta Colli: cantante, attrice e politico, quante identità...

«Sì, ho cambiato molte cose. Anche il mio cognome, che era Comelli, l'ho cambiato perché veniva storpiato, c' è chi l' ha fatto persino diventare Cammelli».

Ha seguito le orme di qualcuno?

«Mio padre era musicista, eravamo sempre in giro per l'Italia, l'ho vista quasi tutta già in gioventù. Anche qui ogni volta cambiavo tutto, dalla scuola agli amici».

Chissà che fatica...

«In un anno magari si abitava in tre città diverse. Si arrivava a Venezia? Si doveva allestire una nuova casa, una vita da nomade. Ho abitato anche in Svizzera e quando sono tornata in Italia un mio amico mi ha regalato un disco di Giorgio Gaber, un segno del destino».

Le persone importanti prima di quell' incontro?

«Mia madre. Si chiamava Franca, non sopportava i lamentosi, era una forte e simpatica. Da lei ho preso una certa tenacia».

Ha avuto buoni punti di riferimento?

«Anche papà era un uomo positivo, in maniera diversa da mamma. Lui tendeva a sdrammatizzare. Il carattere serve per andare avanti, certo poi ci pensa pure la vita a formarlo».

A proposito di modelli, le sarebbe piaciuto fare la modella?

«Negli anni Sessanta sono arrivata seconda a Miss Italia. Ho partecipato per caso, avevo diciassette anni. Di quell' esperienza mi è rimasta l'allegria che c' era tra le partecipanti».

È iniziata così l'attrazione fatale per il palcoscenico?

«Mi piaceva la recitazione, l'ho scoperta da giovanissima. Mi piacevano le scene sentimentali dei film ambientati nel Far West. Girando nelle varie città ho scoperto che i nomi delle sale sono tutti uguali, un Duse o un Rivoli ci sono ovunque».

Poi la musica...

«In casa si cantava sempre, le canzoni di Sanremo. Era un modo per fare allegria, dopo un po' di tempo, negli anni Cinquanta, arrivò la tv».

E per lei il cinema.

«Gli incontri nel mondo del cinema sono stati bellissimi. Penso ad alcuni registi con cui ho lavorato, come Elio Petri, Luigi Magni ed Ettore Scola, tre persone diversissime con in comune una cosa: una serietà che nella vita non ho trovato molto in giro. Era gente che non affrontava niente alla leggera e non ne approfittava mai».

Le va di raccontare qualche aneddoto?

«Scola mi faceva divertire. Io e Stefania Sandrelli ci guardavamo in faccia e scoppiavamo a ridere. Allora lui diceva ragazze state bone!. Magni aveva una fissa, Roma scritta con tre r. Petri sembrava un uomo dei primi del '900, era la politica e l'impegno».

Insomma si è divertita...

«È stato molto bello pure nel teatro. Mi è piaciuto fare il personaggio Una donna tutta sbagliata. Poi ancora nel cinema, mi piaceva tutto, anche se mi svegliavano alle cinque del mattino per andare a Cinecittà».

E lì chi incontrava?

«Mastroianni, la Sandrelli appunto. Moravia e la Morante, Pasolini, ma lo vedevo meno. C'era anche Enzo Siciliano, marito di una mia amica. Ho incontrato Fellini, mi dava la sensazione di essere un fanciullone».

A Milano ci sono state altre frequentazioni.

«Battiato negli anni Settanta. Una mattina alle 5 suona il campanello di casa. Apro la porta e vedo questo ragazzone magrissimo che mi dice c' è Gaber?».

Pensava a sposarsi?

«Ero giovanissima, ho conosciuto Giorgio (Gaber, ndr) in maniera banalissima, nella casa discografica di un amico di mio padre. L' incontro fu per la copertina di un disco cui lui stava lavorando in vista del Festival di Sanremo».

Il primo incontro?

«Il giorno delle foto per il disco siamo andati al ristorante e lì, ho scoperto una cosa. Lui si alzava, si vestiva e usciva. Soldi e documenti non gli appartenevano, lasciava tutto a casa».

Come facevate?

«Al momento di pagare il conto cominciava a toccarsi la giacca per cercare il portafogli. Poi diceva: O me l'hanno rubato o l'ho lasciato a casa. Questa frase gliel' ho sentita dire un milione di volte».

Altri flash di quel periodo?

«A me è sempre piaciuto viaggiare, ogni tanto pensavamo a qualcosa. Un giorno Giorgio mi dice: Andiamo lontano! Io penso subito agli Stati Uniti, invece poi lui mi spiega che avremmo avuto un futuro davanti, insieme. Insomma niente vacanza».

Con suo marito Gaber come era la quotidianità?

«Anche nelle nostre collaborazioni è stato fatto tutto in allegria. Ogni cosa era interessante. Lo vedevo che passava ore e ore sui testi che scriveva. Aveva un amico, il pittore Sandro Luporini, con cui ha scritto dei brani».

Lui poeta, ma anche critico esigente...

«Se si parla di politica, era assolutamente di sinistra, ma l'ha anche criticata. Non ha detto cavolate, ha detto cose che sono avvenute, tutte quante. I nostri nipoti riscopriranno molte cose di lui».

Se fa invece un confronto con la musica di oggi?

«La nostra generazione ha avuto un friccico che non c' è più da anni. Questo però non è colpa dei cantanti. In generale c' è un po' di lassismo. Il cantante è qualcuno che va coltivato. Io e mio marito ogni anno andavano una settimana a Londra per informarci sulle novità. Londra era il caput mundi».

Negli anni Settanta ci sono stati momenti da brivido...

«Qualche volta momenti di angoscia, in quel periodo mio marito lavorava in teatro a Milano. Tiravano topi morti qui, a casa».

Tra di voi, entrambi di successo, c' erano rivalità, invidie?

«Assolutamente no. Quando Giorgio doveva debuttare io stavo male per lui, soffrivo fisicamente. E lui provava le stesse cose per me. Tra di noi c'era grande complicità».

Dai palcoscenici alla tv...

«Facevo della televisione divertente, ma ho sempre guardato tutto. In questi anni mi è capitato di vedere bei programmi molto tardi la sera, sono nottambula. Più volte mi sono chiesta perché certe cose non vengono messe in onda prima, non dico alle 21, ma appena dopo sì a beneficio di tutti».

Può raccontare l'esordio?

«L' esordio in tv è stato con la trasmissione Giochiamo agli anni Trenta. Mi sono divertita, ero vestita con gli abiti di quel periodo. Il programma? Andò benissimo».

Un periodo d' oro pieno di ritmo...

«Già da bambina ballavo il charleston. Mio padre diceva, se le venisse in mente di fare qualche cosa, questa è già avvantaggiata».

Cosa le è piaciuto di più fare?

«Tutto. Ogni esperienza mi ha lasciato qualcosa. La tv mi ha dato popolarità. Nel cinema ho avuto dei buoni riscontri, poi tutto il resto, la canzone. Di tutto questo sono felicissima».

Ha avuto compagni di viaggio imprevedibili, come Paolo Villaggio.

«Ho fatto una trasmissione domenicale con lui. Faceva morir dal ridere perché non aveva le più elementari regole dell'attenzione, rispetto e riservatezza. Magari prendeva in giro le persone senza pensarci su troppo, certo ci si divertiva, ma quello preso di mira...».

Insomma cose da Fracchia...

«Non lo dimenticherò mai. Con Paolo non si poteva non ridere.

Una volta si va al cinema, per entrare e uscire dalla sala c'era una scala. Lui che cosa fa? Si mette a salirla stando sdraiato come un marines, arrampicandosi sui gradini con la gente che passava. Una scena pazzesca. Per fortuna poi lo hanno riconosciuto e giù tutti a ridere».

E cose da Moravia?

«Moravia era pazzo per le donne, quando ne vedeva passare una, si fermava e diceva, quanta grazia, quanta grazia, quanta grazia ti hanno dato... ma chi sei?.

Gli dicevo dài Alberto, andiamo via!».

Poi c' è stato l'incontro con Rita Levi Montalcini.

«Una volta si è presentata in camerino, dopo uno spettacolo al Teatro Manzoni di Milano. Mi ha chiesto un autografo per i suoi nipoti e io l'ho chiesto a lei, per me».

Che rapporto ha con i suoi fan?

«Ci sono stati fiori, lettere, messaggi. Anche stalker purtroppo. Per esempio uno, per un anno, tutte le mattine alle 4 suonava il campanello di casa. Con noi abitava mia madre che cercava di tenerlo a bada».

Negli anni Novanta è stata folgorata dalla politica attiva. Come ha cominciato?

«Anche in questo caso per pura combinazione. Me lo ha proposto Silvio Berlusconi. Quando sono tornata a casa ne ho parlato con mio marito. Lui, che era di sinistra, mi ha detto: Se è una cosa che ti interessa falla, io di te mi fido».

Così si è buttata.

«Sì, l'ho fatta per parecchi anni, dal Senato al Parlamento europeo. Poi la Provincia di Milano con una politica molto amministrativa, facendo lavoro vero. Ho messo a posto le scuole. È un lavoro che consente di conoscere le cose dall'interno. Si potrebbe fare molto di più con un po' di grinta. Non si può affrontare la politica come se fosse un salotto dei primi del Novecento a Parigi».

Ha conosciuto meglio anche gli italiani?

«Noi italiani siamo volubili. Prima un amore folle per qualcuno, poi tutto il contrario. Comunque sia, io sono stata sempre interessata alla cosa pubblica».

E la famiglia?

«Mia figlia Dalia da piccola era brava, non ha dato pensieri. Ogni tanto la portavo con me al lavoro e durante lo spettacolo stava vicino alla batteria e si divertiva un mondo. Oggi è una donna forte, brillante e spiritosa, realizzata nel suo lavoro».

A casa come vi divertivate?

«Facevamo della grandi nottate insieme mangiando dolci e ascoltando la radio. Dalia tornava dai suoi impegni e noi anche. E la notte era come una casa normale la mattina».

E oggi?

«La famiglia si è allargata, coi nipoti Lorenzo e Luca, hanno 20 e 22 anni, studiano. Il più grande studia in America, nel campo economico-manageriale. Il più giovane invece decide adesso che cosa vuole fare. Tutti suonano ma saggiamente progettano anche altro».

Ombretta, che cosa ha capito dalla vita?

«Intanto che va vissuta. Poi che l’allegria è un antidoto a tutto.

Non bisogna perdere troppo tempo dietro a delle stupidate. Il nostro tempo diciamo che è un po' contingentato».

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

FABRIZIO DE ANDRE’ E’ CON NOI.

Maledetto Faber, ora ti amano tutti! Vent’anni fa moriva Fabrizio De André. E’ stato, forse, il più grande cantautore italiano del Novecento. Ora tutti dicono: «Che artista!», scrive Piero Sansonetti il 6 gennaio 2019 su "Il Dubbio".  Una volta Fabrizio De André, chiacchierando con Adriano Botta che lo stava intervistando per l’Europeo, spiegò in poche parole cosa pensava di se stesso e delle scelte della sua vita. Disse: «Ho letto Benedetto Croce, l’Estetica, dove dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti: dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante». Già, proprio così. E non si può dire che la sua decisione fosse sbagliata. Fabrizio De Andrè, “Faber” (come lo ribattezzò Paolo Villaggio) è stato probabilmente il cantante italiano di maggior talento di tutto il secolo. Il cantautore più bravo, più originale, più estroso. Uno dei pochissimi in grado di mettersi alla pari con i grandi cantautori americani, francesi, brasiliani. E’ morto 20 anni fa. L’ 11 gennaio del 1999. Stroncato da un tumore in pochi mesi, alla vigilia del nuovo millennio e alla vigilia dei suoi sessant’anni. A conclusione di una vita molto complicata, piena di successi, di delusioni, di rotture, di amori, di avventure, di alcool. Fabrizio de André è stato il più grande dei cantanti italiani (diciamo pure dei cantautori) e il più sovversivo. O forse: è stato il più grande, sebbene il più sovversivo. O forse ancora: proprio perché il più sovversivo. Faber era sovversivo nelle sue canzoni come nella vita. Era anarchico, gli piaceva Bakunin, odiava il potere. Sì, anche il potere politico, certo, ma soprattutto il potere- potere, cioè la repressione, i giudici, la polizia, i guardiani dell’ordine costituito. Magari diciamolo sottovoce, per non scandalizzare nessuno (di questi tempi), però è difficile negare che se c’era un valore che De Andrè aborriva questo valore è la legalità. A lui piaceva vivere borderline e gli piacevano le persone borderline 8 o anche oltre il “border”), come Bocca di Rosa, come l’assassino, come il “tipo strano” che si aggirava nel porto di Genova dopo aver venduto sua madre a un nano per tremila lire, se ricordo bene. Lui stesso, neanche ventenne, si era fidanzato con una prostituta di via Prè. Creando grande scandalo nella sua famiglia. Il padre di Fabrizio all’epoca era un cinquantenne, era stato vicesindaco di Genova, era amministratore delegato della Eridania. Non era contento del comportamento da sbandato di Fabrizio, e della sua continua sfida a tutto ciò che era perbene. Voleva che Fabrizio facesse l’avvocato. Invece Fabrizio a 20 anni scrisse “La Ballata del Miché”, ebbe un certo successo, lasciò la facoltà di Legge e iniziò a strimpellare e a scrivere musica. Tanti anni dopo disse: «Miché mi ha salvato. Grazie a lui sono diventato un discreto cantante invece che un pessimo penalista». Fabrizio era nato a Genova il 18 febbraio del 1940. E aveva iniziato a comportarsi male già alla scuola media. Era un geniaccio, questo è chiaro, ma le regole non le sopportava, studiava un po’ come gli pareva a lui, faceva impazzire i professori. A otto anni, in vacanza a Cortina D’Ampezzo, aveva conosciuto un ragazzo parecchio più grande di lui. Si chiamava Paolo, aveva 15 anni ed era anche lui un po’ scapestrato. Fecero amicizia. Ma un’amicizia vera, forte, che durò tutta la vita. Paolo si comportò per vari anni da fratello maggiore. Poi da fratello più vecchio ma minore. Paolo, il giorno dei funerali di Fabrizio, disse che per la prima volta aveva provato invidia per un amico e per un funerale. Perchè disse – diecimila persone commosse in quel modo lui non le avrebbe mai avute al suo funerale. Qualche anno dopo morì anche Paolo e pure i suoi funerali furono ben partecipati e commoventi. Paolo, di cognome si chiamava Villaggio. Fece l’attore. Per il grande pubblico ebbe forse un successo ancora maggiore a quello di Fabrizio. Però Fabrizio è sempre stato un numero uno, o forse un numero unico, Polo no. Negli anni sessanta scrisse per Fabrizio una canzone un po’ sboccata, che vendette molti dischi: Re Carlo tornava dalla guerra. Di nuovo una storia di puttane e di scopate, e di lamenti del re tirchio che non voleva pagare cinquemila lire alla sgualdrina e scappava via frustando il cavallo. De André ha cantato l’amore, il sesso, ha cantato la miseria umana, ha cantato le lodi dell’illegalità, anche del crimine. Molte sue canzoni oggi non sarebbero accettate da nessun produttore. Pensate a quella in semi- dialetto napoletano, bellissima – don Raffaè – scritta pensando a Raffaele Cutolo, cioè il capo della camorra. Oggi Fabrizio è morto, Cutolo sta ancora in galera e credo sia il detenuto che ha scontato la pena più lunga di qualunque altro detenuto. Con qualche mese di intervallo, sta dentro dal ‘ 62. Voi vi immaginate se oggi qualche cantautore si presentasse, per dire, a Sanremo o a X Factor e dicesse che lui vuole cantare una canzone nella quale si parla – dico un nome a caso – di Matteo Messina Denaro? E’ vero che don Raffaè non è una esaltazione del capo camorrista, tutt’altro, ma un testo che critica la condizione delle carceri italiane e la sottomissione dello Stato (“e lo stato che fa? Si costerna si indigna si impegna poi getta la spugna con gran dignità…”). Però è il linguaggio diretto, anticonformista, antiperbenista di De Andrè che oggi sarebbe inammissibile.

Del resto già quarant’anni fa non è che fosse amatissimo. Né a destra, tra i conservatori, che si scandalizzavano facilmente. Né a sinistra, dove era considerato un individualista, un cane sciolto, un tipo molto borghese e parecchio pericoloso. Persino “Lotta Continua” stroncò uno dei suoi dischi che io penso sia forse il più bello e più di rottura di tutto il suo repertorio: “Storia di un impiegato”. E’ del ‘ 73, rilegge il sessantotto a modo suo, rilancia l’idea dell’anarchia, contesta tutte le istituzioni e tutti i poteri, il carcere, i giudici, invita alla rivolta, condanna la lotta armata, esalta i prigionieri, i detenuti, i delinquenti. E riesce persino a parlare d’amore, con la sua tristezza di sempre, con la disillusione e il pessimismo che sono il suo Dna, ma anche con lo struggimento e la capacità di commuovere che nelle sue canzoni non manca mai, mai, proprio mai. Quali sono le grandi istituzioni che de Andrè ha messo in discussione nei circa 40 anni della sua attività? La Chiesa, la Magistratura, il Carcere, la Legge, la Morale comune, il Sindacato. Quasi tutto. E su quasi tutto la sua critica è impietosa e urta il senso comune. Anche perché Faber contesta le istituzioni, non i valori e i sentimenti. Per esempio è severissimo con la Chiesa, coi preti e coi magistrati, ma non con la religione e con il diritto. Tutt’altro. Concepisce il diritto in modo molto originale: diritto a non essere giudicati e comunque a non essere puniti. La sua prima canzone – lo abbiamo detto – è la ballata del Miché, ed è una canzone che esalta un omicidio. Michè ha ucciso il rivale d’amore, ha ucciso per amore, per amore di Maria, e dunque la punizione è ingiusta e Miché si ribella nell’unico modo possibile: uccidendosi. E uccidendosi beffa tutti: evade. Faber è dalla parte di Miché: amante, uccisore, evaso, suicida. Ci sono Tutti i peggiori peccati possibili nella persone dell’eroe. E così anche nella sua religione – fortissima, a volte quasi ascetica – Faber parte dai peccati: lui sta con Cristo ma vuole peccare, perché Cristo è perdono e non punizione, è debolezza e non forza, è errore e non correttezza, è fuorilegge e non giudice, sta coi ladri e non coi derubati. “Guardate la fine di quel Nazareno, e un ladro non muore di meno…”. Oggi vedo che De André non scandalizza più. Molti se ne appropriano. Lo hanno esaltato, qualche anno fa, Fabio Fazio e Roberto Saviano, che pure sono ultralegalisti. Lo ha lodato Matteo Salvini. Persino tra i 5 Stelle De André va per la maggiore. Del resto che Faber fosse amico di Beppe Grillo è fuori di dubbio. Credo che Grillo fu suo testimone alle sue nozze con Dori Ghezzi e forse anche Fabrizio fu testimone di nozze di Grillo. Si sono frequentati e voluti bene fino all’ultimo. In realtà Beppe Grillo, per un lungo periodo della sua vita e della sua attività artistica è stato un anarchico, come Fabrizio. Un contestatore di tutto. Probabilmente con una preparazione culturale più leggera, sicuramente non con l’altezza artistica di De Andrè, ma in ogni caso con uno spirito simile. Poi però è successo qualcosa. Due cose, un po’ lontane nel tempo. De Andrè, insieme alla sua seconda moglie, Dori Ghezzi, subisce un rapimento. In Barbagia. Era la fine del 1979. Un rapimento che dura quattro mesi. Quattro mesi nascosti nei boschi del Supramonte, all’aperto, al freddo, spesso legati, bendati. Fabrizio supera in modo grandioso questa prova umana. Non si indurisce. Non cambia le sue idee e i suoi valori. Perdona. Rispetta lo spirito delle sue canzoni. Addirittura compatisce i suoi persecutori. Dimostra una coerenza e una grandezza morale difficili da trovare in un un uomo e in un artista. Grillo fa il percorso inverso. A metà anni ottanta viene cacciato dalla Rai, probabilmente perché aveva criticato troppo Craxi. Grillo vede a rischio la sua carriera, non resiste alla rabbia per quella che ritiene, e forse è, una ingiustizia. Reagisce producendo odio, e rimodellando sull’odio, non più sull’ironia bonaria, tutta la sua costruzione artistica. Odio vuol dire punizione e contrappasso. E per ottenere punizione e contrappasso ci si affida ai giudici, alla legge, alla repressione, al rigore. Credo che sul piano umano i due restino amici. Tanto che Grillo viene incaricato dalla famiglia di occuparsi dei funerali di Faber. Ma sul piano intellettuale la distanza diventa siderale. Perciò a me sembra poco rispettoso l’abbraccio a De André senza idealità. De André, certo, è anche quello di “Marinella” o di “Valzer per un amore”, o di “Volta la carta”. Però De Andrè è soprattutto un intellettuale, “imprevisto” da Croce, che ha messo la poesia al servizio del sovversivismo. Della contestazione delle istituzioni e della legge. Negargli questo aspetto, esaltandolo a prescindere, è un torto grave che gli si rende. Per me De Andrè resta soprattutto quello degli ultimi versi della “Storia di un impiegato”: «… Vagli a spiegare che è primavera: e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera». E ancora: «venite adesso alla prigione, state a sentire sulla porta, la nostra ultima canzone, che vi ripete un’altra volta: anche se voi vi credete assolti, siete per sempre coinvolti».

Fabrizio De André 20 anni dopo: Homo Faber (ma soprattutto poeta), scrive Francesco Prisco l'11 gennaio 2019 su Il Sole 24 ore. Venti anni fa. Fabrizio De Andrè è morto a Milano l’11 gennaio 1999. La canzone è arte minore? Questione antica, più volte riproposta negli ultimi 20 anni, almeno ogni qual volta l’Accademia di Svezia esaminava la candidatura di Bob Dylan per il Nobel alla Letteratura. Alla fine, nel 2016, «Sua Bobbità» il premio in questione se lo è visto assegnato per davvero e la disputa intorno alla nobiltà della musica popolare – intesa nel senso più ampio del termine – ha trovato finalmente un punto di equilibrio. Se Dylan merita il Nobel, al di qua dell’Atlantico faremmo bene ad abbandonare ogni indugio: Fabrizio De André è in tutta probabilità il più grande poeta italiano della seconda metà del Novecento, di sicuro il più influente, quello che meglio di ogni altro ha fatto grande letteratura (poesia) ed è riuscito a divulgarla attraverso un formidabile strumento (musica). E non c’è bisogno di scomodare i lirici greci per legittimare la nobiltà artistica della parola cantata, perché ci bastano quattro versi di Faber: «Voglio vivere in una città/ dove all’ora dell’aperitivo/ non ci siano spargimenti di sangue/ o di detersivo». Ci bastano i suoi versi e le almeno venti pubblicazioni a lui dedicate uscite nell’ultimo anno, tra saggi che ne spiegano il pensiero, biografie più o meno autorizzate e ritratti vari, attenzioni degne di un autore senza tempo per questo straordinario artista che ci lasciava l’11 gennaio 1999, esattamente 20 anni fa. Due di questi libri meritano sicuramente menzione. Il primo è Falegname di parole – Le canzoni e la musica di Fabrizio De André, scritto da Luigi Viva (Feltrinelli, pp. 288, euro 25), forse il primo biografo del cantautore genovese, autore di quel Non per un dio ma nemmeno per gioco uscito nel 2000, dopo dieci anni di lavoro di selezione delle fonti in diretta collaborazione con Faber. Chi ha conosciuto e amato quel testo, apprezzerà questo che fu scritto in parallelo e lo completa. Falegname di parole, titolo che prende spunto da un componimento inedito di De André, è infatti una specie di guida ragionata all’ascolto del cantautore, una vita attraverso le opere, disco per disco. Dagli esordi da indipendente con la Karim, quando questo giovane intellettuale di buona famiglia si fa strada sulla vivacissima scena della Genova anni Sessanta, davanti agli occhi, come modello, la coerenza anarchica di George Brassens. Le notti alle osterie della Città Vecchia, il sodalizio umano e artistico con Paolo Villagio, una manciata di singoli che gli valgono una grande reputazione: Il testamento (1963), La guerra di Piero e soprattutto La canzone di Marinella (1964) che, grazie al successo della versione di Mina datata 1967, darà finalmente una ribalta nazionale al cantautore. Negli anni della Contestazione, mentre tutti si sporgono verso Stati Uniti e Inghilterra, lui guarda soprattutto agli chansonnier francesi con Vol. 1 (1967), Tutti morimmo a stento e Vol. 3 (1968). Tutti chiedono l’impegno politico e lui rilegge i Vangeli apocrifi, tirando fuori quel capolavoro che si chiama La buona novella (1970), un concept album su Gesù di Nazareth che, secondo Faber, «è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi». Tutti declamano i versi dei poeti Beat e lui mette in musica gli epitaffi primo Novecento di Edgar Lee Masters, facendosi aiutare da Fernanda Pivano, senza la quale qui da noi i poeti Beat neanche avremmo saputo chi fossero: ne esce Non al denaro non all’amore né al cielo (1971), disco impossibile da ascoltare senza lacrime. E poi il concept sulla deriva bombarola del Movimento condiviso con Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani (Storia di un impiegato, 1973), il feeling con l’astro nascente del Folkstudio Francesco De Gregori (Canzoni del 1974 e Vol. 8, 1975), la scoperta di Dylan e Leonard Cohen, gli affacci live sull’universo prog con la Pfm, il prolifico sodalizio con Massimo Bubola che porterà ad album decisivi come Rimini (1978) e l’omonimo con l’indiano in copertina (1981), nato dalla drammatica esperienza del sequestro subito assieme alla moglie Dori Ghezzi in Sardegna, sua patria elettiva. Negli ultimi 20 anni di vita De André pubblica meno, ma la sua scrittura raggiunge vette inedite per la storia della parola cantata. E qui ci viene incontro Amico Faber – Fabrizio De André raccontato da amici e colleghi di Enzo Gentile (Hoepli, pp. 258, euro 17,90), con la testimonianza del regista tedesco Wim Wenders su Crêuza de mä (1984), capolavoro di world music realizzato in coabitazione con Mauro Pagani, tutto in dialetto genovese: «Sono convinto che tanti artisti nel mondo potrebbero apprezzare e capire le canzoni di Fabrizio reinterpretandole a modo loro». O quella di Ivano Fossati su Le Nuvole (1990) e Anime Salve (1996): «Fabrizio aveva il massimo grado di responsabilità e controllo su quello che faceva, quasi un motivo di sofferenza». Eggià: «Ormai sono abituato a soffrire, e forse ne ho la necessità», diceva di sé Eugenio Montale, altro Nobel per la Letteratura. Genovese, stessa razza di De André.

Fabrizio De André, 20 anni senza: le frasi indimenticabili. Il grande cantautore genovese, morto l'11 gennaio del 1999, ci ha lasciato parole, aforismi e riflessioni memorabili, scrive Gabriele Antonucci l'11 gennaio 2019 su Panorama. Sono passati vent'anni dalla scomparsa di Fabrizio De André, morto l’11 gennaio 1999, un notevole lasso di tempo che, invece di offuscare il valore culturale e popolare del suo lavoro, rende ancora più doloroso il distacco dal cantautore genovese, specie se paragonato al desolante panorama odierno della musica italiana di largo consumo. De André si serviva della musica per raccontare l'uomo, la sua vita, le sue fragilità. Ha saputo portare al centro dell’attenzione chi da sempre era considerato e collocato ai margini della società: emarginati, ribelli e prostitute. Non si può prescindere dalla forza dei suoi testi e dalla curiosità che trasmetteva, in modo silenzioso, portando l'ascoltatore, quasi senza accorgersene, a leggere L’antologia di Spoon River, i Vangeli Apocrifi o ad ascoltare Georges Brassens, Leonard Cohen e Bob Dylan. Il cantautore genovese, inoltre, ha avuto il merito di aver liberato il dialetto dalle pastoie delle vecchie ballate popolari, traghettandolo nella musica moderna e assegnandogli una centralità che non aveva mai avuto prima di lui.

La poetica di De André. Bocca di rosa, una delle sue canzone più famose, è un po’ l’emblema della sua poetica. De André, nelle sue canzoni, parte sempre da un episodio di vita per raccontare “le umane cose” ed il loro evolversi secondo schemi prestabiliti e sempre uguali. A meno di un atto di coraggio che implica il voler essere sé stessi, liberi da qualsiasi etichettatura sociale. Un atto che, spesso, si paga caro. L’uomo-vittima di De André combatte sempre quello che non conosce, perché gli ricorda la parte più oscura di sé. L’uomo-eroe è quello che sceglie di scegliere. Ovviamente, la strada più difficile. Vogliamo ricordare, in occasione dei 20 anni dalla sua morte, il grande cantautore genovese attraverso le frasi, gli aforismi e le citazioni più belle tratte dalle sue canzoni.

Le citazioni più belle:

"Ama e ridi se amor risponde/piangi forte se non ti sente/Dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fiori" (Via del campo)

"Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione" (Smisurata preghiera)

"Libertà l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato/ per un fruscío di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco" (Il suonatore Jones)

"Poi, d’improvviso, mi sciolse le mani e le mie braccia divennero ali/quando mi chiese: “Conosci l’estate?”/ io, per un giorno, per un momento/corsi a vedere il colore del vento" (Il sogno di Maria)

"Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane/ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame" (Nella mia ora di libertà)

"C’è chi aspetta la pioggia/ per non piangere da solo" (Il bombarolo)

"E l’amore ha l’amore come solo argomento/ e il tumulto del cielo ha sbagliato momento" (Dolcenera)

"Non si risenta la gente per bene/ se non mi adatto a portar le catene" (Il fannullone)

"Ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo/e il mio cuore le restò sulle labbra" (Canzone di un malato di cuore)

"Passerà anche questa stazione senza far male/passerà questa pioggia sottile come passa il dolore" (Hotel Supramonte)

"Si sa che la gente dà buoni consigli/ se non può più dare cattivo esempio" (Bocca di rosa)

"Coltiviamo per tutti un rancore che ha l’odore del sangue rappreso/ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso" (Ballata degli impiccati)

"E se tu tornerai t’amerò come sempre ti amai/ come un bel sogno inutile che si scorda al mattino" (Per i tuoi larghi occhi)

"Quei giorni perduti a rincorrere il vento/a chiederci un bacio e volerne altri cento" (Amore che vieni, amore che vai)

"Primavera non bussa, lei entra sicura/come il fumo lei penetra in ogni fessura/ ha le labbra di carne, i capelli di grano/ che paura, che voglia che ti prenda per mano/Che paura, che voglia che porti lontano" (Un chimico)

"E ora sorridimi perché presto la notte finirà/ con le sue stelle arrugginite, in fondo al mare" (Verdi pascoli)

"All’ombra dell’ultimo sole s’era assopito un pescatore/e aveva un solco lungo il viso/come una specie di sorriso" (Il pescatore)

"Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti/è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti" (Un giudice)

"E come tutte le più belle cose/ vivesti solo un giorno come le rose" (La canzone di Marinella)

"Pensavo: è bello che dove finiscono le mie dita/debba in qualche modo incominciare una chitarra" (Amico fragile)

"Dormi sepolto in un campo di grano/ non è la rosa non è il tulipano/ che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ ma sono mille papaveri rossi" (La guerra di Piero)

"O resterai più semplicemente dove un attimo vale un altro/ senza chiederti come mai/ continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai" (Verranno a chiederti del nostro amore)

"Dove fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura/ dove cammina il mio destino c’è un filo di paura" (Canto del servo pastore)

Pensare: "Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che pensano e quelli che lasciano che siano gli altri a pensare".

Virtù ed errore: "C’è poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Anche perché non sono ancora riuscito a capire bene, malgrado i miei cinquantotto anni, cosa esattamente sia la virtù e cosa esattamente sia l’errore, perché basta spostarci di latitudine e vediamo come i valori diventano disvalori e viceversa. Non parliamo poi dello spostarci nel tempo: c’erano morali, nel Medioevo, nel Rinascimento, che oggi non sono più assolutamente riconosciute".

Giovani: "Non è che i giovani d’oggi non abbiano valori; hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capir bene, perché siamo troppo affezionati ai nostri".

Gesù: "Fra la rivoluzione di Gesù e quella di certi casinisti nostrani c’è una bella differenza: lui combatteva per una realtà integrale piena di perdono, altri combattevano e combattono per imporre il loro potere".

Preghiera: "Quando non hai nessuna possibilità di decidere del tuo destino, ti metti nelle mani di qualcuno che, in quel momento, speri che esista. E così ti arrendi alla tentazione della preghiera: non una preghiera tua, che forse non ne sei capace, ma una di quelle che ti hanno insegnato da bambino e che, magari, ti ricordi ancora a memoria".

Cantautori: "Certe volte mi chiedo se noi che cantiamo insieme al pubblico non siamo rimasti per caso un “club” di signorine romantiche che giocano a “palla a mano” fra le mura di un giardino di melograni mentre fuori la gente si sbrana".

Elemosina: "Trovo estremamente più dignitoso chiedere l’elemosina che fare le scarpe al proprio collega in ufficio".

Solitudine: "La solitudine non consiste nello stare soli, ma piuttosto nel non sapersi tenere compagnia. Chi non sa tenersi compagnia difficilmente la sa tenere ad altri. Ecco perché si può essere soli in mezzo a mille persone, ecco anche perché ci si può trovare in compagnia di se stessi ed essere felici (per esempio ascoltando il silenzio, stretto parente della solitudine)".

Consensi elettorali: "Agli estorsori di consensi convengono i disagi sociali degli uomini: gli uomini disagiati, senza lavoro, senza soldi, sono facilmente orientabili, sono facilissime fonti di consensi (anche elettorali)".

Italia: "L’Italia appartiene a cento uomini, siamo sicuri che questi cento uomini appartengano all’Italia?".

Marinaio: "Il cuore del marinaio è sempre all’asciutto, a scaldarsi intorno al fuoco. Il marinaio non ama il mare: ci lavora e lo teme. Sogna di avere sempre la terra sotto i piedi, ricorda gli aromi, i volti e i sapori di casa".

Rapimento: "Durante il rapimento mi aiutò la fede negli uomini, proprio dove latitava la fede in Dio. Ho sempre detto che Dio è un’invenzione dell’uomo, qualcosa di utilitaristico, una toppa sulla nostra fragilità… Ma, tuttavia, col sequestro qualcosa si è smosso. Non che abbia cambiato idea ma è certo che bestemmiare oggi come minimo mi imbarazza".

Genova: "Genova è anche gli amici che da lontano ti vedono crescere e invecchiare, per esempio i pescatori, che hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare".

Utopia: "Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura".

Anarchia: "Se posso permettermi il lusso del termine, da un punto di vista ideologico sono sicuramente anarchico. Sono uno che pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio".

Libertà e anarchia: "Aspetterò domani, dopodomani e magari cent’anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie".

Governo: "Quello che io penso sia utile è di avere il governo il più vicino possibile a me e lo stato, se proprio non se ne può fare a meno, il più lontano possibile dai coglioni".

Sanremo: "Se si trattasse ancora di una gara di ugole, si trattasse cioè di un fatto di corde vocali, la si potrebbe ancora considerare una competizione quasi sportiva, perché le corde vocali sono pure sempre dei muscoli. Nel caso mio, dovrei andare ad esprimere i miei sentimenti, o la tecnica attraverso i quali io riesco ad esprimerli, e credo che questo non possa essere argomento di competizione".

Uomo e artista: "Io ho tentato in tutti i modi di poter essere un uomo. Avrei potuto esprimermi per esempio attraverso la coltivazione dei fiori se fossi vissuto ad Albenga, oppure attraverso l’allevamento delle vacche se non mi avessero venduto di soppiatto una fattoria che avevano i miei nel ’54. Mi è accaduto di fare il cantautore. Il fatto di diventare un artista, in qualche maniera, ti impedisce di diventare uomo in maniera normale. Quindi credo che ad un certo punto della tua vita tu devi recuperare il tempo che hai perduto per fare l’artista per cercare di diventare un uomo".

Canzone: "La canzone è una vecchia fidanzata con cui passerei ancora molto volentieri buona parte della mia vita, sempre e soltanto nel caso di essere ben accetto".

Donare: "I potenti rammentino che la felicità non nasce dalla ricchezza né dal potere, ma dal piacere di donare".

Solitudine: "Io sono uno che sceglie la solitudine. E che come artista si fa carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello. È il mio mestiere".

Sardegna: "La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattro mila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso".

Genoa: "Non posso scrivere del Genoa perché sono troppo coinvolto. L’inno non lo faccio perché non amo le marce e perché niente può superare i cori della Gradinata Nord. Semmai al Genoa avrei scritto una canzone d’amore, ma non lo faccio perché per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che scrivi, invece il Genoa mi coinvolge troppo".

Realtà e finzione: "Tutte le sere quando finisco un concerto desidererei rivolgermi alla gente e dire loro: “tutto quello che avete ascoltato fino adesso è assolutamente falso, così come sono assolutamente veri gli ideali e i sentimenti che mi hanno portato a scrivere queste cose e a cantarle”. Ma con gli ideali e con i sentimenti si costruiscono delle realtà sognate. La realtà, quella vera, è quella che ci aspetta fuori dalle porte del teatro. E per modificarla, se vogliamo modificarla, c’è bisogno di gesti concreti, reali".

Doppio binario: "Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l’illusione di poter partecipare in qualche modo a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane".

Poesie: "Benedetto Croce diceva che fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono solo due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. E quindi io, precauzionalmente, preferisco definirmi un cantautore".

Morte: "Sicuramente ho paura della morte. Non tanto la mia che in ogni caso, quando arriverà, se mi darà il tempo di accorgermene, mi farà provare la mia buona dose di paura, quanto la morte che ci sta intorno, lo scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili che si ammazzano per dei motivi sicuramente molto più futili di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo".

Scrittura: "Perché scrivo? Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me".

Fabrizio De André, vent'anni senza, venti canzoni per ricordarlo. Il cantautore genovese se ne andava nel 1999, lasciando un vuoto incolmabile, ripercorriamo la sua storia discografica con un viaggio lungo venti brani, scrive Giulia Cavaliere l'11 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera".

Valzer per un amore. Sono trascorsi vent'anni a velocità sconcertante da quell'11 gennaio del 1999 quando Fabrizio De Andrè scomparve improvvisamente per un cancro ai polmoni. Di lui si è detto tutto: ma, oltre a un numero di indimenticabili classici, De André ha soprattutto scritto grandi canzoni, non precludendosi mai temi, vie, citazioni, incontri artistici che si sarebbero rivelati fortunati. Prima di essere "mostro sacro”, anche in eccesso secondo certi esegeti, Faber era un uomo che scriveva brani eccezionali dalla forza universale e spesso capaci di sconvolgere l'ascoltatore. Ebbene, qui di seguito lo ricordiamo attraverso 20 canzoni speciali e, in qualche caso, persino un po' nascoste nella sua straordinaria discografia che lo raccontano meglio di mille parole. “Vola il tempo lo sai che vola e va / forse non ce ne accorgiamo / ma più ancora del tempo che non ha età / siamo noi che ce ne andiamo”. Il Valzer Campestre di Gino Marinuzzi gira sul grammofono di Giuseppe De André quando suo figlio Fabrizio sta nascendo. Alcuni anni dopo lo stesso Fabrizio, venuto a conoscenza di questa storia, decide di trasformare questo brano classico in una canzone, ispirandosi a un sonetto del 1578 del poeta francese Pierre de Ronsard intitolato Quand vous serez bien vieille. La canzone è originariamente il Lato A di “La canzone di Marinella” e torna nel disco Canzoni del 1974, cioè esattamente dieci anni dopo. Durante la registrazione del disco negli studi Fonorama di Milano, Fabrizio De André invita per la prima volta Dori Ghezzi e la conduce ad ascoltare questo brano in studio. Se mai canzone fu galeotta del grande amore tra i due, beh, fu proprio questo antico valzer.

Il testamento. “Cari fratelli dell'altra sponda / cantammo in coro giù sulla terra / amammo in cento l'identica donna / partimmo in mille per la stessa guerra, / questo ricordo non vi consoli / quando si muore, si muore soli.” Inciso con arrangiamento del maestro Gian Piero Boneschi nel 1963 e ispirato al Testament di George Brassens pubblicato sette anni prima, Il testamento è un’apparentemente allegra tarantella per chitarra e fisarmonica. Dentro ci sono già tanti temi che saranno cari a De André e, soprattutto, tanti mondi che andranno a comporre il suo universo iper realista e insieme allegorico: la prostituzione, il gioco, l’illecito amoroso e, naturalmente, il tema della morte. Il requiem in chiusura fa il tono del brano tutto più fosco, cupo e lugubre, annunciando, insomma, la fine imminente ed è proprio lì che De André arriva pienamente con la sua verità bruciante: niente da fare, quel che abbiamo fatto qui a un certo punto, ovunque andremo, sarà di poco conto: davanti alla morte saremo comunque soli.

La stagione del tuo amore. “Passa il tempo sopra il tempo / ma non devi aver paura, / sembra correre come il vento / però il tempo non ha premura.” Il giovane Fabrizio De André osa su uno spettro molto più profondo di quello normalmente riconosciuto, non solo prostitute e notti brave nei vicoli come ci racconta la vulgata, ma una profondità espressiva assoluta che tocca temi lontanissimi come per esempio quello del tempo che passa, degli anni che se ne vanno, dell’amore che si trasforma rispetto a quello che attraversa la giovinezza ma che non per questo è meno rigoglioso. Con il suo timbro senza rivali qui De André ci restituisce un grande esempio di quanto detto: ed è la delicatezza stupefacente messa in questa scrittura e poi in questa interpretazione a lasciare senza fiato. Insieme a questa novità: il tempo non ha premura, ci dice Fabrizio. Probabilmente siamo noi ad averne.

Secondo intermezzo. “Sopra le tombe d'altri mondi nascono fiori che non so / ma fra i capelli di altri amori muoiono fiori che non ho”. Un viaggio psichedelico allucinato, che oggi sarebbe perfetto un dj set di gran gusto: fiati, batteria, basso, tastiere e chitarra elettrica magistralmente diretti da Gian Piero Reverberi che ci fa sprofondare in questa sorta di trip lisergico che ricorda un velluto tombale, tra la sinfonia e la colonna sonora dei poliziotteschi anni ’70, tra gli Osanna e Beethoven. Il secondo, per il suo testo (una strofa ripetuta identica due volte), è probabilmente il più interessante tra i tre intermezzi contenuti in “Tutti morimmo a stento”, il concept album più oscuro e doloroso mai scritto in Italia.

Il sogno di Maria. Siamo nel 1969 quando Fabrizio De André, mentre nelle strade impazza il Movimento Studentesco, si dedica alla rilettura musicale dei Vangeli apocrifi e, in particolar modo, del Protovangelo di Giacomo e del Vangelo arabo dell’infanzia. Sembra un’operazione controcorrente – e certamente, formalmente, la è – ma ci sono dei forti punti di congiunzione tra lo spettro valoriale mobilitato da questo lavoro che De André definirà sempre “di liberazione del Cristianesimo dal Cattolicesimo” e quello che sta abitando quotidianamente le piazze. Oggi più che mai è bene porre attenzione su quanto al centro di questo straordinario concept album le figure attorno alle quali ruota il perno della narrazione e la forza del racconto, siano sempre le donne: Maria e le Tre madri in primis. Il sogno di Maria è un viaggio magico in un territorio che ricorda l’entroterra ligure – viaggio che Maria compie con Gabriele al suo fianco e, al tempo stesso, è la trasposizione in canzone di un quotidiano e comune disorientamento di fronte alla semplice scoperta di attendere improvvisamente un figlio – disorientamento che, naturalmente, si fa più sconcertante nella situazione di Maria.

Un ottico. “Vedo che salgo a rubare il sole / per non aver più notti, / perché non cada in reti di tramonto, / l'ho chiuso nei miei occhi, / e chi avrà freddo / lungo il mio sguardo si dovrà scaldare”. Secondo Fernanda Pivano l’ottico è uno spacciatore di hashish, tuttavia è certamente più facile immaginarlo come un Timothy Leary alle prese con l’LSD, uno che spaccia lenti speciali, appunto, stufo di far vedere alla gente la semplice, comune (pessima?) realtà. Tra tutti i personaggi che popolano L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che De André, ormai inabissato nel piacere per i grandi concept, rende protagonista e filo conduttore del suo Non al denaro, non all’amore né al cielo, l’Ottico è quello che musicalmente porta il grande lavoro di Nicola Piovani, arrangiatore e primo musicista dell’album, su un livello ancora più alto, sommersa tra rese lisergiche dei passaggi musicali che oscillano tra il valzer il kraut rock a una sperimentazione assolutamente inedita nella discografia di De André.

Al ballo mascherato. “Mio padre pretende aspirina ed affetto / e inciampa nella sua autorità / affida a una vestaglia il suo ultimo ruolo / ma lui esplode dopo, prima il suo decoro. Mia madre si approva in frantumi di specchio / dovrebbe accettare la bomba con serenità / il martirio è il suo mestiere, la sua vanità / ma ora accetta di morire soltanto a metà, / la sua parte ancora viva le fa tanta pietà”. Siamo nel 1973 e ancora una volta Fabrizio De André si dedica a un concept, questa volta, ancora in pieno clima politicamente coinvolto, anche l’autore si apre espressamente al trattamento dei temi politici nei suoi brani. I temi centrali dall’album sono allora quelli del Maggio Francese, della lotta armata, della condanna dell’ideologia borghese, dell’individualismo e delle contraddizioni che coinvolgono l’intimo dell’essere umano messo in relazione con i moti delle masse. Il ballo mascherato è l’antro delle danze borghesi, è il luogo scelto dal nostro impiegato, novello bombarolo e protagonista, per piazzare la sua bomba. Quello che De André ci riporta, dunque, è il variegato mix di umanità e mito che anima la festa borghese: Gesù Cristo che vuole ottenere il premio Nobel per la bontà, Maria coinvolta da questioni edipiche (un modo ironico e deanderiano per parlarci della psicanalisi), Dante che spia Paolo e Francesca dalla porta per guardare “chi fa meglio di lui” e poi ci sono loro: i genitori, quelli che più di tutti – secondo le leggi morali del movimento – andrebbero devastati dalla bomba.

Le passanti. “Ma se la vita smette di aiutarti / è più difficile dimenticarti / di quelle felicità intraviste / dei baci che non si è osato dare / delle occasioni lasciate ad aspettare / degli occhi mai più rivisti. Allora nei momenti di solitudine / quando il rimpianto diventa abitudine / una maniera di viversi insieme/ si piangono le labbra assenti / di tutte le belle passanti / che non siamo riusciti a trattenere.” Forse il più struggente e riuscito tra tutti gli adattamenti italiani fatti da De André è questo brano, una delle ultime canzoni di George Brassens che riprende una poesia di un minatore alsaziano, Antoine Pol, che nel lontano 1911 compone una delle più belle elegie di tutti i tempi dedicata alla molteplicità della figura femminile. Nel brano c’è l’uomo che osserva ogni donna del mondo, ogni sconosciuta, appunto, ogni passante, con l’occhio di chi prova a immaginare con lei un amore, un tentativo, un segreto condiviso mostrando al contempo sia il desiderio di conoscere sia il puro piacere di contemplare.

Giugno '73. “Poi il resto viene sempre da sé / i tuoi "Aiuto" saranno ancora salvati / io mi dico è stato meglio lasciarci / che non esserci mai incontrati”. Una canzone d’amore e disamore inusuale, che rifugge la rima, allontana gli stilemi classici della canzoni italiana e, altresì, del cantautorato. Una delle poche canzoni apertamente dialoganti e d’amore che De André abbia mai scritto – non a caso avvicinata di frequente a Verranno a chiederti del nostro amore, anch’essa in seconda persona. Un senso di innocua perdita, di sommessa tristezza domina il brano a partire da quella data del titolo che pare fermare su un diario un momento che è già da ricordare e quindi già finito. Anche la musica si muove pacata, come a descrivere la morte dolce delle relazioni che non sono grandi amori ma potevano esserlo, che sanno essere meravigliosi e immediatamente dopo di troppo, semplicemente amicali e capaci di lasciare spazio ad altro. Ricco di ironia e aperto a una sintassi canora quasi d’avanguardia, il brano ci lascia soprattutto i versi citati quassù, entrati negli annali della letteratura amorosa – sonorizzata e non – della nazione.

Franziska. “Hanno detto che Franziska / è stanca di ballare / con un uomo che non ride / e non la può baciare”. La storia di Franziska viene raccontata a Fabrizio De André da uno dei suoi carcerieri durante il sequestro del 1979. Ancora una volta De André mette una donna al centro dei suoi brani, spostando il centro del discorso da quello considerato più facilmente tale. Franziska è la donna del brigante che si è dato alla macchia. Franziska vive in uno stato di assoluto pericolo e conduce un’esistenza a metà in cui non può amare, non può sorridere ad altri uomini, non può neppure concedersi semplici relazione quotidiani. Se il brigante dorme in qualche caverna dispersa, con il rosario che avvolge il fucile pensando a Franziska, lei, altrove, non può che sperare che arrivi uno sventurato, ignaro del pericolo, ad amarla. Il pezzo sembra, musicalmente, stare sospeso a metà tra Linda Paloma di Jackson Browne e Buenos Aires di Francesco De Gregori.

Jamin-a. "Staccati Jamin-a / labbra di uva spina / fatti guardare Jamin-a / getto di fica sazia. / E la faccia nel sudore / sugo di sale di cosce / dove c'è pelo c'è amore." C'è una canzone che Fabrizio De André ha scritto per Dori Ghezzi senza dirle mai il titolo. In cuor suo, ha sempre affermato Dori, la speranza è che sia proprio questa Jamin-a, la canzone più erotica che De André abbia mai scritto: "è hardcore", diceva lui. Jamin-a è il canto del desiderio del navigante che, dopo aver affrontato i pericoli e le rabbie del mare, spera ogni volta in un attimo d'amore all'approdo. Il brano è il secondo, dopo la title track, contenuto in Crêuza de mä, l'album interamente cantato in genovese, realizzato con Mauro Pagani, uscito nel 1984 e diventato ben presto una delle pietre miliari della musica italiana e della musica etnica mondiale. Il canto erotico del mare di Jamin-a diventa però qui anche una cosa in più: il canto erotico della stagione del mare, delle sabbia e del caldo, la stagione d'amore che stringe tutti noi.

Le acciughe fanno il pallone. "Se prendo il pesce d'oro / ve la farò vedere / se prendo il pesce d'oro / mi sposerò all'altare. Ogni tre ami c'è una stella marina / ogni tre stelle c'è un aereo che vola / ogni balcone una bocca che m'innamora". Nell'ultima fase della sua carriera De André sembra riavvicinarsi e avvincersi ancora di più alla sua terra e al mare, osservandone dettagli nuovi, dando particolare rilevanza e centralità alla natura e al modo in cui l'umanità si rapporta a essa. Questo brano, scritto con Ivano Fossati come tutto l'album Anime Salve, in questo senso, è una perla. Lo è per il magnifico arrangiamento di Cristiano De André e anche per la storia che ci racconta: quella delle acciughe che sfuggono al pesce azzurro muovendosi verso la superficie saltando fuori dall'acqua assiepate in semisfere scintillanti. Le acciughe, secondo la leggenda, sono stelle marine cadute dal cielo e i pescatori, dunque, sono pescatori di stelle. Stelle che tremano sotto gli ami.

Prinçesa. "Sorriso tenero di verdefoglia / dai suoi capelli sfilo le dita / quando le macchine puntano i fari / sul palcoscenico della mia vita. Dove tra ingorghi di desideri / alle mie natiche un maschio s'appende / nella mia carne tra le mie labbra / un uomo scivola l'altro si arrende". Per scrivere questo brano l'autore si ispira alla storia di Fernanda Farias de Albuquerque, giovane contadina nata in un corpo maschile. Fernanda nasce col desiderio di essere qualcun altro, conosce il disagio, la solitudine, l'emarginazione, la prostituzione e poi la fortuna di piacere ai clienti (milanesi in primis) che con i loro soldi le permettono di pagarsi l'operazione per cambiare sesso. In un magnifico magma sonoro di fisarmonica cromatica, chitarra classica, tra il violoncello di Piero Milesi e la batteria di Ellade Bandini il brano si muove in una bolla di suggestione e potenza, chiudendosi con i cori che recitano trentadue immagini in portoghese per descrivere, a frammenti, l'intera vita di Fernanda. Nel 1996 De André racconta la storia di un un transessuale ("preferisco chiamarli transgeneri" diceva lui) scegliendo di aprire proprio con questa storia - inedita nella musica italiana - quello che sarà il suo ultimo lavoro in studio.

Girotondo. "Se verrà la guerra, Marcondiro'ndero / se verrà la guerra, Marcondiro'ndà / sul mare e sulla terra, Marcondiro'ndera / sul mare e sulla terra chi ci salverà? Ci salverà il soldato che non la vorrà, ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà". Travestita da brano per l'infanzia, questa è la più importante e riuscita canzone antimilitarista composta nella storia della nostra musica. Un brano apocalittico, incalzante, nel quale De André affida a un coro di voci bianche sempre più macabro e distorto il compito di trasferire all'ascoltatore l'orrore incosciente della guerra. In Rai il brano viene confuso con una canzoncina per bambini spensierata e, mentre la censura miete ciecamente vittime, De André viene invitato a eseguire il brano - in verità profondamente inquietante - alla trasmissione Incontri Musicali, accompagnato da un coro di bimbi.

Il suonatore Jones. "In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità / a me ricordava la gonna di Jenny / in un ballo di tanti anni fa". Chi è il suonatore Jones? Un flautista, nel brano, violinista nel libro di Masters, che non ha il tempo per preoccuparsi dei campi da coltivare, di diventare più ricco, di distruggersi la schiena con l’aratro: la sua libertà, è la sua prigione, la gioia degli altri è la sua povertà e insieme la sua stessa felicità. Jones è il musicista che suona per la musica e per regalarla alla gente, creando per lei e per sé mille ricordi capaci di frantumare qualsiasi rimpianto. E il rimpianto è vivere come non vorresti, laddove la gioia è seguire il proprio amore.

Leggenda di Natale. "E adesso che gli altri ti chiamano dea / l'incanto è svanito da ogni tua idea / ma ancora alla luna vorresti narrare / la storia d'un fiore appassito a Natale". Grazie a una leggerezza poetica in grado di alleviare e addolcire o, come abbiamo visto per quanto riguarda Girotondo (ma vale anche per un pezzo come La ballata dell'amore cieco o per Sally) di creare un'atmosfera di apparente giocosità, Fabrizio De André arriva anche a dipingere quadretti di atrocità davanti all'ascoltatore. Nel caso di questo brano, per esempio, ci racconta un episodio di pedofilia attingendo a un immaginario doppiamente fiabesco: quello dell'atmosfera natalizia (identificabile per antonomasia con la purezza) e avvalendosi persino all'immagine che, per l'infanzia, è innocenza per eccellenza: quella di Babbo Natale.

Ottocento. "Figlio bello e audace, bronzo di Versace / figlio sempre più capace di giocare in borsa / di stuprare in corsa e tu / moglie dalle larghe maglie, / dalle molte voglie / esperta di anticaglie / scatole d'argento ti regalerò". Un brano che sembra mutuato direttamente dal primo immaginario di De André, quello, per intenderci, abitato da brani come Il Testamento, Carlo Martello, La città vecchia. Al centro troviamo un'invettiva contro i potenti che sono, in linea con il concept dell'album Le nuvole (tratto da Aristofane) in cui troviamo il brano, proprio la rappresentazione vivente della nuvola, cioè di chi oscura la purezza, l'azzurro. Il potente, dunque, qui, che oscura il plebeo, l'umile. Il brano è un'operetta che include uno jodel tirolese, nove cantanti lirici e un numero imprecisato di riferimenti metapop e metaculturali curiosissimi nonché una chiusura in tedesco maccheronico: giochi di parole e variazioni sul tema.

Dolce luna. "E tu mi vieni a dire voglio un figlio / su cui potermi regolare / con due occhi qualunque e il terzo occhio inconfondibile e speciale / che non ti importa niente / se non riuscirà a nuotare / l'importante è che abbia sulla guancia destra / quella mia voglia di mare / e mi dici ancora che il mio nome / glielo devo proprio dare /ma non so testimoniare". Dovessimo menzionare un solo brano capace di decretare le influenze di Francesco De Gregori sulla scrittura e sul cantato di Fabrizio De André sarebbe sicuramente questo. Il disco è Volume 8, l'album che rende ancora più stretta (realizzata in quattro brani) la collaborazione tra i due. Siamo nel 1975 e Dolce luna, con quell'ermetismo degregoriano per chitarra già volto a una diversa emotività rispetto a quello degli esordi, sembra lasciata casualmente fuori da Buffalo Bill (l'album di Francesco De Gregori che uscirà l'anno successivo).

La ballata dell'amore cieco. "Fuori soffiava dolce il vento / tralalalalla tralallalero / ma lei fu presa da sgomento / quando lo vide morir contento. Morir contento e innamorato / quando a lei niente era restato / non il suo amore non il suo bene / ma solo il sangue secco delle sue vene." Dritta, crudele, appassionata: un brano che sembra animarsi seguendo la struttura fint'allegra della tromba che suggerisce spensieratezza, unitamente al "tralalalalla tralallalero" mentre il testo, ispirato a una poesia francese di Jean Richepin intitolata "Cuore di mamma", è in realtà una vera e propria fiaba nera. Eppure la morale della fiaba è a suo modo pacificante, straordinaria e imprevedibile: l'uomo che per amore sacrifica ogni cosa, anche la la propria vita, è un uomo felice. L'essere umano che, invece, invita un altro a sacrificarsi per soddisfare il proprio egoismo e la propria vanità resta vivo a mani vuote. 

Se ti tagliassero a pezzetti. "T'ho incrociata alla stazione / che inseguivi il tuo profumo / presa in trappola da un tailleur grigio fumo / i giornali in una mano e nell'altra il tuo destino / camminavi fianco a fianco al tuo assassino. Ma se ti tagliassero a pezzetti / il vento li raccoglierebbe / il regno dei ragni cucirebbe la pelle / e la luna, la luna tesserebbe i capelli e il viso / e il polline di Dio /di Dio il sorriso." Una canzone d'amore e insieme un inno alla libertà e, in qualche modo, all'armonia con un disegno superiore che rimette a posto ogni cosa, fa ordine, riporta al proprio posto ciò che al proprio posto era sfuggito, perché la vita, perché il tempo, perché il caos... chissà perché. Se ti tagliassero a pezzetti, uscita nel 1981, sembra includere riferimenti alla Strage di Bologna e, come spesso accade con la scrittura di De André, suggerisce una sovrapposizione continua e struggente dell'allegoria e del reale, depistando l'ascoltatore e insieme offrendogli più piani di poesia.

Per De André pugni chiusi e Ave Maria in sardo. Vent'anni fa a Genova i funerali del cantautore. Vi riproponiamo il pezzo pubblicato su Repubblica il 14 gennaio 1999 di Gianni Mura: "Ci sono molti fiori, nelle sue canzoni, e non è solo il profumo che ci resta", scrive Gianni Mura il 14 gennaio 2019 su "La Repubblica". In occasione dei vent'anni dalla morte di Fabrizio De André riproponiamo dall'archivio di Repubblica il pezzo sui funerali del cantautore scritto da Gianni Mura e pubblicato sul quotidiano il 14 gennaio 1999. Adesso che solo la morte lo ha portato in collina, a Fabrizio non dispiacerebbe sapere che proprio di fronte alla chiesa di Carignano, al balcone dell'istituto E. Ravasco, Figlie del Sacro Cuore di Gesù e Maria, è appeso uno striscione bianco e sopra c'è scritto grazie Fabrizio, e lo gonfia la tramontana. Sotto, davanti alla chiesa barocca (le nuvole non ci sono, oggi) gli anarchici hanno scritto sull'asfalto che la puttana (Bocca di rosa) alla stazione ce l'ha accompagnata il prete con la polizia. Memento. In cima alla scalinata c'è la bandiera rossa e nera dell'anarchia. La regge ferma una signora col cappotto bordeaux e la faccia di chi ha camminato la vita per dritto e non per traverso. E forse a lui verrebbe da ridere: picchetto d' onore e un prete a dire le ultime parole, ma almeno un prete che sa cosa dire, e poi non esistono le ultime parole. Ci pensavo prima della cerimonia, che è stata asciutta e dolce, con tanti lucciconi quando è partita l'Ave Maria in sardo, e se partiva Preghiera in gennaio credo che molti sarebbero stati male sul serio. Ci pensavo ascoltando dei ragazzi che erano fuori a cantare, in un angolo, fin dalle nove con un paio di chitarre. Cantavano stonati, ma con tanto amore. Notte notte notte sola sola come il mio fuoco, piega la testa sul mio cuore e spegnilo a poco a poco. Questo è il Canto del servo pastore. Cosa importa se sono caduto se sono lontano perché domani sarà un giorno lungo e senza parole. Questo è Hotel Supramonte. E questa è una mattina di sole freddo, in una piazza come sospesa sul porto, una piazza spartiacque fra la città di chi sta meglio e la città di chi sta peggio, scendi una rampa e sei in piazza Sarzano e di lì nei vicoli, uno dei primi è vicolo Boccadoro. Una mattina lunga il giusto, e con tante parole. Quelle che si portano dentro e premono contro gli occhi, quelle che qualcuno ha scritto sui biglietti che accompagnano i fiori: Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati, questa è Giugno '73. E ora non piangere perché presto il concerto finirà, questa è Verdi pascoli. Ma più ancora del tempo che non ha età siamo noi che ce ne andiamo, questa è Valzer per un amore, così scopertamente ronsardiana. Le parole sono quelle che bisbiglia la donna che ho di fianco, con il sacchetto del supermercato, tra i 50 e i 60. Ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra una stella. È una favola che resiste, la storia vera era quella di una puttana massacrata di botte e gettata nel Tanaro. Strano il mondo. Un' altra canzone che resta uguale, Il cielo in una stanza, Paoli la scrisse pure per una puttana, ma viva, dei carrugi. Non che abbia importanza, adesso, nemmeno sapere se poi da qualche parte gli ultimi saranno i primi come lo sono stati nelle canzoni di Fabrizio. Cantava di puttane e balordi all'inizio degli anni 60, di zingari e transessuali sull'orlo del 2000. Prima del '68 e prima che fosse battezzato e irriso il buonismo. Chi sta dentro la chiesa barocca queste cose le sa, e anche chi sta fuori perché dentro non c'è più posto o perché ha deciso che il suo posto è fuori. Sicché, Le monde ha scritto che Fabrizio era il Brassens italiano, e detto dai francesi è un gran complimento. Ma io penso che Brassens, gigantesco, monolitico, una cosa come Creuza de mà non l'avrebbe mai fatta, non ci avrebbe mai pensato. Non perché gli mancasse un Mauro Pagani ma perché era l'esempio dell'artista isolato e lieto di esserlo. Mentre Fabrizio, che passava per un musone appartato, gli altri li ha cercati e ci ha lavorato: De Gregori, Pfm, Bubola, Fossati. Gli altri ai funerali ci sono, come c'era Fabrizio (e solo lui, di tutti i cantautori italiani) ai funerali di Tenco, anche lì un cimitero in salita ma la neve sui costoni di vigne. Gli altri, in questa piazza Carignano che curiosamente fa angolo con via Alghero e sono le due terre di Fabrizio, sono quelli trovati senza essere cercati. Le facce note e le facce vere, le kefiah e le pellicce, i pugni chiusi e i segni di croce, quelli di Albaro e quelli del Biscione, le sciarpe del Genoa e anche della Samp, i colletti bianchi e quelli del porto. Una maestra ha portato la sua classe, 19 bambini di cui 5 con la pelle scura. Forse non capiranno tutto, ma serve più una canzone di Fabrizio (sulle minoranze, sul rispetto) di tanti discorsi. E ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto (come il suonatore Jones) sarebbe bello averne, ma il rimpianto, fratello minore del pianto, c'è e si sente ed è quello di aver perso un amico non importa quanto conosciuto da vicino, uno che trovava le parole giuste (che paura che voglia che ti prenda per mano), e quando si fa la conta si è uno in meno e quelle parole (com'è che non riesci più a volare) adesso chi le dice? Inutile andare in via del Campo, niente occhi grigi come la strada né occhi grandi color di foglia. Pure, le ultime parole non esistono. Come Fabrizio non sarebbe stato Fabrizio se non avesse ascoltato Brassens, e un po' di Brel e di Ferré, così uno di questi ragazzi che si sentono più soli un giorno troverà le parole giuste e i giusti accordi per la libertà e l'amore. A questo servono, brutto verbo, i poeti. Una vecchia ragazza con le calze verdi (come Nancy) lega fiori finti a un palo della segnaletica e il biglietto dice: Bocca di rosa per sempre. Non capisco cosa vuol dire, ma sono qui per sperare, non per capire. Con funerali rigorosamente pubblici, la famiglia di Fabrizio lo ha idealmente e praticamente diviso con chi lo amava. Innamorati, non fan. Un poeta anarchico e popolare, Prévert, che Fabrizio ha sicuramente letto da giovane, lui che leggeva Machado e Thomas, ha scritto: le jardin reste ouvert pour ceux qui l'ont aimé. Credo ai segni: tre gerbere lanciate da dieci metri restano impigliate nelle maniglie della cassa. Vorrei che il comune di Genova ricordasse Fabrizio dedicandogli un giardino pubblico, un piccolo parco, con quel po' di verde così difficile a Genova, niente fiori strani (viole e papaveri sì) e tante panchine dove i ragazzi possano dirsi non ci lasceremo mai e poi mai, e restasse un po' di tenerezza anche passato l'amore che strappa i capelli, e ci fosse tolleranza per i barboni e quelli che hanno bevuto un bicchiere in più, e certo ci andrebbero a passeggiare la signora Libertà e la signorina Fantasia, uscite da Se ti tagliassero a pezzetti e viste ieri in piazza Carignano, e Brassens non ci troverebbe niente da ridire e Fabrizio credo sarebbe contento. Ci sono molti fiori, nelle sue canzoni, e non è solo il profumo che ci resta.

MINO REITANO E’ CON NOI.

Dieci anni senza Mino Reitano, l'artista che si faceva maltrattare dalla tv, scrive Massimo Falcioni domenica 27 gennaio 2019 su tv blog. Dieci anni fa se ne andava Mino Reitano, l'artista che la tv amava maltrattare. "Italia" lo ingabbiò una sorta di eterna parodia. Nel 2002 a Sanremo venne umiliato per i denti 'nuovi'. Lui ne uscì con dignità. Il riscatto lo ha ottenuto solo da morto. Dopo dieci anni, di Mino Reitano ci resta la dolcezza. Un candore unico, strabordante, persino eccessivo. Il 27 gennaio 2009 il cantante partito da Fiumara se ne andava, lasciando il ricordo di una purezza d’animo che spesso cozzava con la sua resa televisiva. Sì perché negli ultimi tempi Beniamino Reitano detto Mino era diventato più che altro un fenomeno da piccolo schermo, l’incursore da schernire, da prendere di mira. Insomma, la vittima ideale. Mino era popolare, estremamente popolare. Probabilmente la linea di confine tra l’artista e il bersaglio fu sancita da quell’“Italia” che lui urlò al Festival di Sanremo nel 1988. Un brano del quale non si sarebbe più sbarazzato, finendo per ingabbiarlo in un’eterna parodia di se stesso. Reitano era buono, ingenuo. Si faceva torturare e stava al gioco. Magari soffriva in camerino o a casa. Ma in tv era il bersaglio perfetto. Forse troppo perfetto. Da Premiata Teleditta a Domenica In, dove una volta uscì da un mega-uovo di Pasqua. Passando per Libero, trasmissione di scherzi telefonici che una volta gli fece credere di parlare col vero Silvio Berlusconi. Lo spettatore rideva, sghignazzava e sottovoce si domandava per quale motivo si prestasse a tutto questo. Nessuno saprà mai se Mino un po’ ci marciasse o se per lui fosse davvero un’eterna ricreazione. A inizio millennio trionfò nel programma celebrativo degli anni ottanta La notte vola. Fu l’apripista per il settimo e ultimo ritorno a Sanremo. Pippo Baudo lo richiamò in gara all’Ariston e gli suggerì di rimettersi in ordine i denti. Il consiglio non bastò ad evitare l’umiliazione pubblica orchestrata dal giornalista Aldo De Luca: “Come ti trovi con la dentiera?”. Il pubblico insorse, Reitano invece non si scompose: “Tutti noi andiamo ogni tanto dal dentista. Io ci sono andato e ho fatto una pulizia”. In un mondo che giudica e critica alle spalle, con Mino si faceva un'eccezione. La preda veniva azzannata sotto i riflettori. E più Mino rimbalzava l’attacco, più si tornava alla carica. Tempo due anni e rispuntò al Dopofestival mettendo a segno un siparietto indimenticabile con Umberto Bossi sulle note di “Italia”, che il senatur modificò in “Padania”. Scene che oggi generano affettuosi sorrisi, ma che all’epoca non fecero altro che inserire Reitano tra i mostri di Blob. Nel 2007, già ammalato e visibilmente provato, si esibì a Piazza Grande senza riuscire a trattenere la commozione. L’addio ai fan arrivò il 12 febbraio 2008 con l’ultima apparizione a La vita in diretta. Il riscatto, come spesso accade, lo ottenne da morto. Nella primavera del 2012 Massimo Giletti gli dedicò uno speciale al sabato sera. Avevo un cuore che ti amava tanto totalizzò più di 5 milioni e riuscì a sconfiggere la corazzata di Amici. Più di un Ballando qualsiasi.