Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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GESU’ CRISTO
VS
MAOMETTO
L’ISLAMIZZAZIONE
DEL MONDO
DI ANTONIO GIANGRANDE
SOMMARIO
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
INTRODUZIONE.
CRISTIANI ED EBREI. UN CONFLITTO LUNGO DUE MILLENNI.
L’ANTISEMITISMO ISLAMICO.
EI FU…PADRE PIO.
I TESTIMONI DI GEOVA.
IL SATANISMO.
IL VATICANO E LA MASSONERIA.
IL VATICANO E GLI SCANDALI.
QUANTO GUADAGNANO.
LO SFRUTTAMENTO DELLE SUORE.
I CRISTIANI ORTODOSSI.
COME FURONO INVENTATI I PALESTINESI.
GLI UTILI IDIOTI DELL’ISLAM.
SOCIALISMO ISLAMICO.
ATTENTATO A BARCELLONA. DA KARL MARX A MAOMETTO.
IL FASCISMO ISLAMICO. QUELLO CHE I FASCISTI NON VORREBBERO SAPERE…
CHE COS'E' IL DAESH (ISIS) E CHI SONO I SUOI CALIFFI.
CI UCCIDONO I FIGLI.
I MIGRANTI E LA SOLIDARIETA’ COLLUSA E SPECULATIVA.
L’ISLAM ED IL VELO DELLA DISCORDIA.
IL VENTRE MOLLE DELL’OCCIDENTE.
GUERRE ED INTOLLERANZA. PROCESSO AL MONOTEISMO.
UN BUSINESS CHIAMATO GESU'.
QUELLI…PRO SATANA.
PEDOFILIA ECCLESIASTICA.
11 FEBBRAIO 2013. LA RINUNCIA DI UN PAPA.
LA CHIESA COMUNISTA.
IL PAPA COMUNISTA.
LA LAVATA DEI PIEDI AI MUSSULMANI.
LA FINE DEL CRISTIANESIMO.
TERRORISMO ISLAMICO. IL 2017 INIZIA COL TERRORE.
L'ISIS PARTIGIANO DELL'ORRORE.
HEZBOLLAH. I GUERRIERI DI DIO.
IL COMUNISMO E L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO: LE PROFEZIE.
L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO.
GERUSALEMME CAPITALE DI ISRAELE.
I FALSI DELLA STORIA.
LA MASSONERIA ED IL COMUNISMO PER L’ISLAMIZZAZIONE DELL’EUROPA.
LA DIFFERENZA TRA RELIGIONI.
CHI E’ MAOMETTO?
GESU’ CRISTO CONTRO MAOMETTO.
GUERRA DI RELIGIONE CONTRO LA RELIGIONE.
QUELLI CHE...ORIANA FALLACI AVEVA TORTO.
L’ISLAM ED IL COMUNISMO E LA FINE DELLA CIVILTA’ EUROPEA.
IL NATALE COME TRADIZIONE E CULTURA: GENESI ED EVOLUZIONE.
L’ANTICLERICALISMO COMUNISTA.
A PROPOSITO DI MAFIA E DI TERRORISMO ISLAMICO.
DALL’ESKIMO AL BURQA.
PARLIAMO DEI RISCATTI DEGLI ITALIANI RAPITI ALL'ESTERO E IL FINANZIAMENTO AI TERRORISTI.
SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.
SOTTOMESSI ALL’ISLAM!
L’ISLAM NON E’ DONNA.
IN EUROPA DOBBIAMO ESSERE TUTTI GAY.
LE ICONE ARTEFATTE DELLA SINISTRA.
L’ITALIA RAZZISTA.
PERCHE’ GLI ISLAMICI SON DIVERSI?
PERCHE’ I COMUNISTI SON DIVERSI?
L’ISLAM NON SI TOCCA.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.
LE CROCIATE: ORGOGLIO CRISTIANO!
QUELLI CHE VOGLIONO ROMA.
IL SUICIDIO DELL’EUROPA.
NEL CORANO LE RADICI DEL MALE.
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
ORGOGLIOSO DI ESSERE CRISTIANO E CATTOLICO OCCIDENTALE.
SIAMO TUTTI ORIANA FALLACI.
I TAGLIA GOLE TRA DI NOI.
IL TERRORISMO ISLAMICO CHE VIENE DA LONTANO. QUANDO NEW YORK E PARIGI ERAVAMO NOI.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
INTRODUZIONE.
“La Patria è un vincolo fatto di molti vincoli che stanno nella nostra carne e nella nostra anima, nella nostra memoria genetica”. “La Patria non è un’opinione. O una bandiera e basta. La Patria è un vincolo fatto di molti vincoli che stanno nella nostra carne e nella nostra anima, nella nostra memoria genetica. E’ un legame che non si può estirpare come un pelo inopportuno.” Oriana Fallaci
Vittorio Feltri 15 Settembre 2018 su "Libero Quotidiano": Follia e bravura di Oriana Fallaci. Alessandro Gnocchi, l'autore del libro che vi accingete a leggere, è un eroe. Ha sopportato per mesi, che dico, anni le torture psicologiche e fisiche di Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice formidabile, la più grande di tutti i tempi, ma anche la meno malleabile. Il lettore deve sapere: ero amico di questa donna che stimavo moltissimo; amavo le sue opere, forti e godibili, scritte con mano felice, illuminanti, talvolta sconvolgenti.
La Fallaci "rinnegata" perché criticava islam e immigrazione. Da oggi in edicola il libro che racconta la polemica «buonista» contro Oriana, scrive "Il Giornale" Sabato 15/09/2018. I nemici di Oriana. La Fallaci, l'islam e il politicamente corretto di Alessandro Gnocchi sarà in edicola da oggi con il Giornale, a 8 euro più il prezzo del nostro quotidiano (pagg. 176, prefazione di Vittorio Feltri). Il libro racconta la Fallaci post 11 settembre 2001, quella de La Rabbia e l'Orgoglio e dei successivi La Forza della Ragione e Oriana Fallaci intervista sé stessa. L'Apocalisse. Una Oriana che vendeva milioni di copie, ma che era accusata, sui giornali e perfino in tribunale, di esser xenofoba, razzista, ignorante. La sua colpa? Aver violato i tabù dei benpensanti, esprimendo una posizione netta sull'islam, da lei ritenuto inconciliabile con i valori «occidentali», e sull'immigrazione incontrollata. Cose che non si potevano e non si possono dire senza incappare tuttora nella condanna del mondo intellettuale. Anche se la cronaca ci mostra l'attualità e la lungimiranza di quelle idee. Il libro dunque ripercorre la polemica seguita alla pubblicazione de «La Rabbia e l'Orgoglio», alla quale parteciparono Tiziano Terzani, Dacia Maraini, Umberto Eco e molti altri. Tutti schierati contro Oriana.
«I nemici di Oriana» di Alessandro Gnocchi, recensione di Lidia Gualdoni del 12-05-2016 su Solo Libri. A dieci anni dalla morte di Oriana Fallaci, avvenuta il 15 settembre 2006, esce un interessante saggio del giornalista Alessandro Gnocchi dal titolo “I nemici di Oriana. La Fallaci, l’islam e il politicamente corretto” (Melville Edizioni, 2016), il cui intento è ricostruire la polemica che ha accompagnato gli ultimi anni della Fallaci e che ancora ci pone domande in attesa di risposta. Ricorda Vittorio Feltri nella prefazione che la prosa della Fallaci era “liscia come l’olio, ma frutto di tormenti”. Per questo motivo, quando lavorava per Libero, aveva affidato ad Alessandro Gnocchi la confezione finale degli articoli che la “immensa Fallaci” regalava al giornale. Grazie a questa collaborazione, sebbene non ci sia mai stato un incontro diretto, Gnocchi è in grado di raccontare “con abilità e precisione vari aspetti della poderosa opera fallaciana, senza trascurare episodi in apparenza minori, ma tali da spiegare esaurientemente la personalità focosa e indomabile della miglior donna di pensiero nata e cresciuta nel nostro Paese”. Con l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio, pubblicato sul quotidiano Il Corriere della Sera del 29 settembre 2001, in seguito all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, e poi in volume nel dicembre 2001, comincia, secondo l’autore, la prima e finora unica polemica di portata nazionale su temi quali l’immigrazione, la crisi d’identità dell’Europa, i pericoli dell’islam e l’inconciliabilità dei suoi valori con i nostri. Il concetto viene poi sviluppato ne La Forza della Ragione e ripreso in Oriana Fallaci intervista se stessa – L’Apocalisse, entrambi pubblicati nel 2004. Le opinioni espresse in questa trilogia sono state sufficienti per marchiare la Fallaci come razzista, xenofoba, violenta e ignorante, in Italia, come in tutti i paesi dove i volumi sono stati pubblicati. Certo non mancano le espressioni forti, controverse e colorite e alcune tesi possono non convincere completamente il lettore, ma accanto agli eccessi ci sono numerosi temi di importanza cruciale e di grande attualità, ai quali critici e benpensanti hanno preferito ribattere attaccando le esagerazioni verbali, piuttosto che entrare nel merito delle sue argomentazioni. “Oriana Fallaci, con la chiarezza delle sue posizioni, costringe invece a riflettere sul ruolo che l’Italia vuole assumere nel mondo e su cosa significhi essere italiani all’inizio del nuovo millennio”. La morte della scrittrice ha solo sopito la polemica che, oggi più che mai, dopo che l’Europa ha avuto i suoi “11 settembre” – Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles –, si ripresenta alla nostra attenzione, accendendo in tutto il continente un dibattito che ha coinvolto scrittori, filosofi, intellettuali, sociologi, religiosi e politici. La rapida, ma puntuale ricognizione militare e culturale fatta da Gnocchi mostra quanto le idee della Fallaci siano più che mai attuali, inserite in una discussione che supera i nostri confini e destinate, non solo a durate nel tempo, ma a condizionare la Storia. Eppure, l’Italia sembra averla cancellata. Secondo l’autore, infatti “il dibattito sull’immigrazione è clandestino. Non va al di là del multiculturalismo buonista o della propaganda politica. Forse siamo troppo legati al nostro passato e rinunciamo ad attrezzarci per il futuro. Forse l’accoglienza è un ottimo affare per qualcuno e non bisogna disturbare il manovratore. In ogni caso è evidente che non si possono trattare fenomeni epocali come quelli ricordati con le categorie dei buoni sentimenti, della convenienza elettorale o col silenzio”. La tendenza è dunque quella di nascondere la parte più fastidiosa della sua attività letteraria – quella posteriore all’11 settembre –, per concentrarsi sulla partigiana-adolescente, la grande reporter, la romanziera o l’icona anni Settanta.
La seconda parte del saggio è dedicata alla storia delle critiche su Oriana Fallaci e sui suoi libri. Dopo la reazione a La Rabbia e l’Orgoglio, nel capitolo dal titolo “Canzoni, No Global, minacce e processi”, vengono citati, in modo puntuale, uomini di cultura, trasmissioni televisive, testi di canzoni, vignette, libri in cui viene presa di mira, oltre ai quattro processi subiti proprio a causa della Trilogia. In queste pagine risulta evidente come le stesse categorie rimproverate al pensiero della Fallaci – come il pensare-per-nemici, il creare il Mostro o il semplificare i problemi, allontanando l’attenzione dalla dimensione oggettiva delle questioni affrontate – si possono applicare ai testi critici in cui la scrittrice interpreta la parte del mostro senza che le sue opere vengano davvero prese in considerazione. Eppure la sua conoscenza e comprensione del mondo arabo aveva radici profonde, risalenti alla fine degli anni Cinquanta e agli inizi degli anni Sessanta, quando aveva accettato di compiere un lungo viaggio alla scoperta della condizione delle donne nei vari Paesi del mondo: la prima tappa, il Pakistan, era stato subito un trauma. Questo interesse non era mai cessato, anche se aveva trovato meno spazio nei libri per motivi editoriali, e aveva portato, nel 1979, a due interviste storiche, a Khomeini e a Gheddafi. Molti dei suoi critici, che l’hanno accusata di parlare di fatti che non conosceva, non possono vantare esperienze neppure lontanamente simili. Nell’ultima parte del libro, fatti più recenti, come i gravi scontri razziali verificatisi nel 2010 a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, o l’assalto parigino del 13 novembre 2015, vengono citati per dimostrare come il linguaggio – soprattutto quello giornalistico e intellettuale – si sia modificato, cambiando o nascondendo il vero nome delle cose, così da eliminare le differenze e non urtare la sensibilità di qualcuno. Perché di fronte all’immigrazione crescente, alle tragedie nel Mediterraneo, ai segni evidenti di una mancata integrazione, si è andata imponendo una retorica diversa, radicata nel politicamente corretto di chi viene definito “il socialista umanitario”, ovvero chi scredita come razzisti tutti coloro che rifiutano il multiculturalismo, chiedono di regolare il flusso migratorio, stabiliscono un legame tra il numero di clandestini e il dilagare del crimine, rivendicano le proprie radici, criticano alcuni aspetti del mondo islamico. Con una lungimiranza fuori dal comune, Oriana Fallaci ha previsto molte delle situazioni che ora i governi europei stanno affrontando con gravi difficoltà: a distanza di dieci anni, siamo invitati ad intraprendere con lucidità e imparzialità un viaggio alla “riscoperta di una donna che ha consumato la vita per aprirci gli occhi e, soprattutto, la mente”.
I nemici di Oriana: uno sguardo inedito su Oriana Fallaci nel libro di Gnocchi. Intervista di Luigi Caiafa del 9 Aprile 2016 su Cultora. Oriana Fallaci, la giornalista pronta a demolire quanto si fosse frapposto alle sue imperiture convinzioni, irriducibile agli schemi del conformismo e del politicamente corretto. Da La rabbia e l’orgoglio fino alla sua morte, Oriana Fallaci subì severi attacchi da parte del mondo intellettuale e fu additata come razzista, xenofoba e guerrafondaia. Alessandro Gnocchi, capo redattore della sezione cultura del quotidiano il Giornale, nel suo libro appena pubblicato vuole presentare il vero volto della giornalista e scrittrice toscana, con cui ebbe modo di collaborare nei suoi ultimi anni di vita, inquadrando la fase finale di un percorso controverso per la maggior parte dell’opinione pubblica. Il libro I nemici di Oriana. La Fallaci, l’islam e il politicamente corretto, edito da Melville, che si pregia dell’introduzione di Vittorio Feltri, offre uno sguardo inedito, profondo e limpido sugli ultimi anni di Oriana Fallaci, cercando di chiarire i nodi essenziali delle sue parole, spesso travisate. Noi di Cultora abbiamo intervistato l’autore.
La scelta del tema è stata in qualche modo influenzata o vuole ricollegarsi all’attuale situazione politica internazionale?
«Ho deciso di scrivere un libro sulla Fallaci della “Trilogia” perché mi sembrava ci fosse un’attenzione lacunosa su questo periodo in realtà così interessante. Con la pubblicazione de La rabbia e l’orgoglio, a mio avviso, inizia la prima e per ora unica polemica di portata nazionale su temi ancora attuali come il fondamentalismo islamico, l’immigrazione di massa e il politicamente corretto. Il libro racconta proprio le reazioni indignate a quell’articolo e cerca di ricostruire quali fossero le fonti della Fallaci».
Nel suo libro Lei offre una panoramica delle polemiche sollevatesi dopo la pubblicazione del libro La rabbia e l’orgoglio, il primo della cosiddetta “Trilogia”, e riporta i commenti di autori italiani, da Tiziano Terzani a Dario Fo, che senza mezzi termini condannano le dichiarazioni della Fallaci. Qual è il suo rapporto con la Fallaci? E come considera l’atteggiamento critico degli intellettuali italiani nei confronti della giornalista scrittrice?
«Ho lavorato con la Fallaci proprio negli ultimi anni della sua vita. La Fallaci pubblicò diversi articoli fluviali su Libero, quotidiano di cui ero redattore. Il mio compito era far sì che arrivassero in edicola, seguendo ogni fase della lavorazione. La Fallaci era una perfezionista ed era guidata da una passione feroce. Non si è mai arresa alla malattia, che le procurava grandi dolori fisici. Ogni testo era corretto e ricorretto per giorni, tutto il giorno. Per venire alla seconda parte della domanda, credo che gli intellettuali italiani non l’abbiano mai presa in seria considerazione, se non per dirne male. Venne trattata con sufficienza: però le sue parole sono rimaste, a differenza di quelle dei suoi detrattori più decisi. Inoltre alcuni suoi critici non l’hanno letta con attenzione, per usare un eufemismo. Cosa che si capisce da alcuni dettagli. Ad esempio, la scrittrice ha fama di essere una guerrafondaia. Certo non era una pacifista, come avrebbe potuto esserlo una ex partigiana? Certo conosceva l’importanza di difendersi, se necessario con le armi in pugno. Ma il più duro e argomentato articolo italiano contro le guerre americane in Medio Oriente porta la sua firma. La Fallaci era sicura che deporre Saddam avrebbe destabilizzato l’intera area e condotto alla creazione di uno Stato islamico sul territorio iracheno. “Sangue chiamerà sangue, e non se ne uscirà più”, diceva con raccapriccio. Cosa che è puntualmente accaduta».
Fallaci considera l’Islam inconciliabile con i valori della cultura occidentale. Alla luce del recente dibattito sulla costruzione di una moschea a Milano, per citare l’ultimo caso esemplificativo, come considera il rapporto tra la cultura islamica e i paesi occidentali, in particolare l’Italia?
«Il tema è difficile e cruciale. Risposte convincenti su quale tipo di integrazione vogliamo perseguire non se ne sentono, né a destra né a sinistra. Anzi: non c’è stato alcun dibattito. O propaganda o buonismo. Entrambi irrealistici. Vorrei notare un fatto, forse marginale, forse no: negli anni che vanno dall’11 settembre 2001 a oggi, non è emersa, a livello mediatico, una figura carismatica, immediatamente riconoscibile come il volto dell’Islam “moderato” (chiamiamolo così per intenderci). Mi rendo conto che è una grossa semplificazione, e che nessuno, a differenza di quanto accade nel cattolicesimo, ha i titoli per parlare a nome dell’intero Islam. Ma questa assenza di leader e intellettuali “moderati” che possano essere considerati autorevoli e rappresentativi personalmente mi colpisce. Naturalmente ci sono, all’interno delle comunità: ma che peso hanno? Insomma: chi sono i nostri interlocutori?»
Quale potrebbe essere la chiave per una pacifica convivenza? Si possono rintracciare, secondo Lei, dei punti condivisi che possano essere la base per un dialogo tra l’Islam e la cultura occidentale?
«Qualunque chiave si utilizzi, non possiamo rinunciare ai cardini della società aperta e ad altri valori che connotano la libertà dell’Occidente. Ne dico qualcuno: Stato di diritto, separazione tra Stato e religione, libertà d’espressione, parità tra i sessi».
Nel suo libro si parla anche di immigrazione, un tema più che mai attuale e controverso. Cosa ne pensa, anche a proposito delle considerazioni avanzate a suo tempo da Oriana Fallaci?
«Innanzi tutto una precisazione: la “Trilogia” non è un manifesto contro gli immigrati in generale. La Fallaci distingue tra chi viene in Europa in cerca di lavoro o per fuggire alle persecuzioni e “quelli di cui parlo” ovvero gli irregolari. Nella immigrazione di massa, vedeva un pericolo demografico, culturale, sociale ed economico. Si sbagliava? Credo di no. Escludiamo subito dal discorso i profughi: quelli vanno accolti, fine della discussione. Ma qui stiamo parlando di altro. Prendiamo qualche numero. In questi giorni tiene banco il caso dell’Austria, che vuole chiudere il valico del Brennero. A Vienna sono cattivi? No, hanno fatto due conti. L’Austria è il paese europeo, insieme con la Svezia, con la più alta quota di residenti stranieri rispetto alla popolazione (il rapporto è del 17 per cento, dato Onu di poche settimane fa). In prospettiva, visto che il fenomeno delle migrazioni è in accelerazione (+41 per cento nei primi quindici anni del secolo, altro dato Onu), ci sono solo due opzioni: regolare i flussi o cessare di essere l’Austria per trasformarsi in qualcos’altro».
Lei ritiene che la cultura occidentale sia realmente minacciata dalla crescente presenza di musulmani nei paesi europei, come preannunciava la Fallaci? O forse l’indebolimento e il venir meno dei valori fondanti della cultura occidentale sono da ricercarsi altrove e in diverse responsabilità?
«C’è un libro molto bello di Alain Finkielkraut, L’identità infelice, sulla crisi dell’Europa. Secondo il filosofo francese, l’Europa ha scelto di disamorarsi di sé per uscire dal solco della sua storia sanguinosa. Il Vecchio continente ha rinunciato alla sua identità perché possano svilupparsi le identità che la sua storia ha maltrattato. L’immigrazione di massa è dunque una possibilità di redenzione e non una minaccia o una sfida. Va incoraggiata, non governata. Può essere un’analisi drastica, ma mi pare ci sia del vero. Di fronte alle forti rivendicazioni identitarie di alcune comunità, specie quella musulmana, gli europei fanno un passo indietro. Per insicurezza e in qualche caso disprezzo di se stessi. Il rischio è di arretrare troppo e volare gambe all’aria».
L'orgoglio della Fallaci e la rabbia dei conformisti. "I nemici di Oriana", da domani con "il Giornale": le idee più scomode e attuali della grande giornalista, scrive Alessandro Gnocchi, Venerdì 14/09/2018, su "Il Giornale". Con «La Rabbia e l'Orgoglio», poi pubblicato in volume dall'editore Rizzoli il 12 dicembre 2001, comincia la prima e finora unica polemica di portata nazionale su temi quali l'immigrazione, la crisi d'identità dell'Europa, i pericoli dell'islam e l'inconciliabilità dei suoi valori con i nostri. Per la prima e finora ultima volta l'Italia può toccare con mano cosa sia il politicamente corretto e quali effetti abbia prodotto. È un dato di fatto che il problema del fondamentalismo islamico entri stabilmente nella discussione pubblica (meglio: popolare) solo con la Fallaci. Come si vede dalle prime reazioni, l'11 settembre, invece di stimolare riflessioni sulle motivazioni degli attentatori, rischiava di diventare un referendum sugli Stati Uniti: se l'erano meritata? Non se l'erano meritata? Era la giusta rivincita dei Paesi colonizzati dal dollaro e umiliati dalla presenza, talvolta considerata sacrilega, delle basi militari dei marines? La parola «islam» era utilizzata con la massima cautela e sempre accompagnata da distinguo piuttosto fumosi. La Fallaci inoltre viola un santuario dei benpensanti: l'immigrazione incontrollata dai Paesi arabi. L'Italia, poco patriottica e poco orgogliosa della propria cultura, potrebbe essere travolta dalle forti rivendicazioni identitarie degli immigrati musulmani. Il concetto, introdotto ne «La Rabbia e l'Orgoglio», viene sviluppato ne La Forza della Ragione (Rizzoli, 2004) e ripreso in Oriana Fallaci intervista sé stessa L'Apocalisse (Rizzoli, 2004). L'immigrazione è un'invasione demografica auspicata dai Paesi arabi e realizzata con la fattiva collaborazione delle istituzioni di Bruxelles. L'Eurabia è una realtà. Le nostre città contengono altre città ove vige la sharia. Gli amministratori hanno già rinunciato a far valere la legge italiana nei quartieri ove la presenza musulmana è massiccia. L'integrazione è impossibile e neppure desiderata da molti immigrati che non credono nello stile di vita e nell'ordinamento laico della democrazia liberale. Aver espresso queste opinioni sarà sufficiente per marchiare la Fallaci come razzista e xenofoba in nome del multiculturalismo e della retorica sui «diseredati». Il dibattito pare centrato sulla condanna delle espressioni più colorite e controverse della Trilogia. Che non mancano, questo è vero. Ce n'è una realmente sconcertante nell'edizione francese de La Rabbia e l'Orgoglio, lo ammise la stessa Fallaci ne La Forza della Ragione: «Nell'Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per razzismo-xenofobia-blasfemia. Non a caso tra i capi d'accusa del processo che subii a Parigi v'era una frase (brutale, ne convengo, ma esatta) con cui m'ero tradotta in francese. Ils se multiplient comme les rats. Si riproducono come topi». Tuttavia concentrarsi sulla forma talvolta è un modo di evitare il confronto con la sostanza. Alcune argomentazioni della Fallaci possono non convincere, ad esempio la polemica volontà di ridurre al minimo il contributo della cultura musulmana nell'ambito del Mediterraneo si espone a scontate critiche accademiche. Accanto agli eccessi, in qualche caso, come l'ultimo citato, dettati dalla peculiare retorica del pamphlet, ci sono però numerosi temi di importanza cruciale, che toccano, anche in modo appunto «brutale», i nervi scoperti dell'epoca in cui viviamo. Raramente i numerosi critici della Fallaci entrano nel merito anche quando i fatti si incaricano di dimostrare loro che la scrittrice segnala problemi tragicamente concreti. Preferiscono ribattere sulle esagerazioni verbali e sulle questioni accessorie. È proprio questo che fa il politicamente corretto: spostare l'attenzione dalla realtà alle parole offrendo l'impressione infondata di fare cultura o addirittura politica. Oriana Fallaci, con la chiarezza delle sue posizioni, costringe invece a riflettere sul ruolo che l'Italia vuole assumere nel mondo e su cosa significhi essere italiani all'inizio del nuovo millennio. Domande tuttora in attesa di risposta. La morte della Signora, nel 2006, ha sopito la polemica ma oggi... Oggi la cronaca riconduce proprio alle idee della Fallaci, a prescindere da quale opinione se ne abbia. La Turchia è sospesa tra Europa e Medio oriente. I curdi hanno combattuto valorosamente contro lo Stato islamico e rivendicano una terra. La pace in Afghanistan è in bilico. L'Egitto è destabilizzato. La Tunisia, anche. La Libia è divisa in tribù e non si sa chi detenga il potere. Nel frattempo è facile preda di gruppi legati allo Stato islamico. La tensione in Israele è altissima. Beirut è dilaniata dalle bombe. Gli emiri sono accusati di essere doppiogiochisti. La marea di migranti, tra cui molti profughi siriani in fuga dalla guerra, è inarrestabile. Di fronte al caos, vengono in mente ancora una volta le parole di Oriana Fallaci.
La democrazia non si può esportare né tanto meno regalare, diceva la Signora. Pur non essendo pacifista, e come potrebbe esserlo una ex partigiana, la Fallaci aveva espresso forti dubbi verso le guerre in Afghanistan e Iraq. Le riteneva destinate al successo immediato ma al fallimento nel lungo periodo. Temeva avrebbero innescato una crisi politico-militare che avrebbe condotto all'instabilità dell'intera regione. Questi concetti sono esposti per la prima volta sul Corriere della Sera, nell'articolo La rabbia, l'orgoglio e il dubbio, pubblicato il 14 marzo 2003. (A proposito, nonostante tutto la Fallaci, per motivi che appaiono misteriosi ai suoi veri lettori, passa per essere stata una guerrafondaia). Ancora più chiaramente in Oriana Fallaci intervista sé stessa, la scrittrice spiega il rischio insito nella avvenuta deposizione di Saddam Hussein: «Il prezzo per toglierlo di mezzo è stato troppo alto. Il terrorismo islamico si è moltiplicato, i morti hanno partorito altri morti, continuano a partorire morti, partoriranno sempre più morti (...) Prima o poi ci ritroveremo con una Repubblica Islamica dell'Iraq. Ossia con un Paese nel quale i mullah e gli imam impongono i burkah, lapidano le donne che vanno dal parrucchiere, impiccano la gente allo stadio». La democrazia non si può regalare come una stecca di cioccolato: «Per volerla bisogna sapere cos'è. Gli iracheni non lo sanno. Ancor meno la capiscono. E di conseguenza non la vogliono. Non tanto perché diseducati da ventiquattr'anni di dittatura feroce quanto perché sono mussulmani: assimilati dalla teocrazia e incapaci di scegliere il proprio destino». Nei Paesi arabi, la democrazia, anche nelle frange più moderne, è sempre accompagnata dall'aggettivo islamica: una democrazia regolata dalla sharia? Secondo la Fallaci è una contraddizione irrisolvibile.
Vittorio Feltri contro David Parenzo: "L'unico ebreo del tutto fesso", scrive il 14 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Sono un estimatore di Giuseppe Cruciani, conduttore principe della radiofonica Zanzara, programma di successo. E noi abbiamo il privilegio di averlo quale collaboratore, autore di pregevoli articoli che pubblichiamo con soddisfazione nostra e dei lettori. Ciò detto, ci giunge notizia che la ex ministro Kyenge è stata ospite della trasmissione durante la quale, come è suo costume, ha dichiarato che un individuo di colore oggi in Italia deve avere paura. Di chi? Di tutti noi che siamo razzisti. Se questa sua affermazione fosse fondata, le chiederei sommessamente, perché allora centinaia di migliaia di africani continuano a voler sbarcare nel nostro Paese? e vengono qui in massa, pur consapevoli che siamo crudeli con i neri, mi domando come mai costoro non cessino un istante di tentare lo sbarco sulla penisola. Io se sapessi che in Senegal mi detestano, eviterei di recarmi laggiù. Mi sembra logico stare lontano da popoli inospitali e pronti ad aggredirmi. Viceversa i signori di pelle scura, pur dicendo di essere odiati da queste parti, non smettono di chiederci ospitalità. E il bello, anzi il brutto, è che seguitiamo ad accoglierli e a mantenerli ovviamente a nostre spese. O siamo scemi noi, più probabilmente, o sono scemi loro che corrono in bocca al lupo. Un lupo talmente buonino che non sbrana alcuno, come risulta dalle statistiche, ignorate da madame Kyenge. La quale avrebbe l'obbligo di rivelarci quanti negri abbiamo ucciso o almeno pestato. I dati ufficiali sono a disposizione di chiunque li voglia compulsare: gli episodi di razzismo nella nostra patria si contano sulle dita di due mani. Se su 60 milioni di connazionali, i razzisti sono una ventina - esagero - significa che accusarli in massa di xenofobia è una idiozia macroscopica che contrasta con i dati statistici. Non importa: il cervello della Kyenge forse non è in grado di elaborare in chiave sociologica i numeri ufficiali. Poco male. E non sorprende neppure il fatto che David Parenzo, aiutante di battaglia di Cruciani, sostenga questo concetto: Libero scrive che ci becchiamo le malattie quale la tubercolosi a causa degli immigrati, mentre nel Paese aumenta l'idiozia in quanto aumentano i nostri lettori. Però, che arguzia. La tubercolosi non viene dal continente nero, bensì da Zurigo o da Stoccolma. Simile idea può maturare soltanto nella testa di un cretino, con rispetto parlando. Difatti Parenzo è l'unico ebreo sciocco che abbia mai conosciuto. Non è cattivo, figuriamoci: è semplicemente privo di neuroni sufficienti per capire la realtà. In ciò è simile alla sua amica Kyenge, ex ministro inadeguato alla integrazione. Noi di Libero non disprezziamo né l'uno né l'altra: li compatiamo. P.s. Alla ex ministra scura di pelle raccomandiamo di pulire la cacca del suo simpatico cane anziché incolpare altri di spargere merda intorno a casa. Vittorio Feltri
Kyenge disse "Lega è razzista". È a processo per diffamazione. Querelata da Salvini, oggi la prima udienza, scrive Angelo Scarano, Venerdì 14/09/2018, su "Il Giornale". Disse che "la Lega è razzista" e per questa ragione ora l'europarlamentare del Pd Cecile Kyenge si trova a giudizio davanti al tribunale di Piacenza per diffamazione. A presentare la querela contro di lei è stato il leader della Lega Nord Matteo Salvini. L'accaduto risale al 2014 quando Kyenge, durante una festa dell'Unità nel Parmense, tacciò la Lega di essere razzista riferendosi a una polemica legata alla foto pubblicata su Facebook dall'allora segretario del Carroccio dell'Emilia Romagna Fabio Rainieri. Nella foto Cecile Kyenge veniva paragonata a un orango. Salvini, in qualità di segretario della Lega, la querelò per diffamazione. Oggi con la prima udienza è iniziato il processo. "Oggi a Piacenza: Salvini mi cita in tribunale, perché ho detto che la Lega è razzista. Secondo voi lo è? Giudicate voi. Ho deciso di rinunciare alla mia immunità parlamentare perché penso che i politici debbano assumersi le proprie responsabilità", ha detto Kyenge prima di entrare in aula.
Meluzzi: “Voglio morire da cristiano penitente e liberale impenitente”. Intervista del 13/09/2018 di Lodovico Terzi su "Il Giornale". Alessandro Meluzzi non è uno che le manda a dire. Soprattutto in questi tempi turbolenti, parlar chiaro e, come direbbero gli Antichi, “cum grano salis”, non è da tutti. Lui è uno dei pochi. Di recente ha pubblicato un video in cui ci mette in guardia dalla deriva dell’informazione “mainstream”: «In questo momento esiste in Italia una grave emergenza nell’informazione. Se voi avete come unica fonte di informazione i telegiornali e i grandi quotidiani, non avrete trovato queste notizie che sono invece fatti». Vi proponiamo il video e, soprattutto, la bella intervista di Ludovico Terzi (Redazione). In alcuni e precisi momenti della propria vita bisogna essere in grado di dare degli strappi, di mettersi lì, con tutte le forze che ti rimangono, a navigare controcorrente. Hai le onde che ti sospingono indietro, ma tu riesci a nuotare andando sempre più avanti; e questo possiamo dire che è la sintesi della vita di Alessandro Meluzzi, 62, psichiatra, che ha fatto sì che il controcorrente fosse effettivamente la direzione normale, quella di tutti i giorni.
Per iniziare, qual è stato un momento Off della sua vita?
«Quando ero ragazzo, nel 1982, ed ero soprattutto un semplice specializzando, organizzai un convegno sullo stress a Torino, che aveva tra gli ospiti Paolo Pancheri, psichiatra di fame internazionale. Quel giorno, nonostante ci fosse un ulteriore convegno organizzato invece dal professor Torre, io lo stesso mostrai il mio aspetto irriverente, accompagnato sempre dal mio animo ribelle e anticonvenzionale».
Anticonvenzionale è stato sicuramente anche nella sua confessione religiosa: prima cattolico, dopodiché ortodosso. Come mai questo cambio?
«Il motivo sostanziale di questo cambio è stato l’allontanamento che ho subito dalla Chiesa cattolica, in quanto, secondo loro, non potevo ricoprire la carica di diacono essendo stato membro della massoneria tempo prima. Allora decisi, dopo anni di studi, di subentrare nel ramo ortodosso, che suppongo sia quello più vicino a me».
Oltretutto lei ha avuto un ruolo importante all’interno del contesto politico italiano, essendo stato tra le altre cose anche senatore: com’è cambiata la politica negli ultimi 20 anni?
«Prima avevamo un concetto politico basato sulla contrapposizione tra Destra e Sinistra, che pian piano è morta, dando spazio a quella tra globalismo e sovranismo; io sono sovranista, in quanto ritengo che dovremmo avere una maggiore capacità di autodeterminazione».
Quindi riaffermare una nostra identità che va a perdersi?
«Sì, sicuramente. Io non sono contro il concetto d’Europa, anzi, noi facciamo parte dell’Europa fino al midollo; ritengo solo che determinate decisioni dovrebbero prendersi possibilmente di più a Roma, in quanto solo noi sappiamo ciò che è realmente giusto per noi. Abbiamo un’identità straordinaria, e dobbiamo preservarla».
Nella sua vita poi ha avuto due persone che le sono state particolarmente vicine, cioè don Gelmini e Francesco Cossiga. Me ne può fare un breve ritratto?
«Don Gelmini è stato un uomo di Dio, che ha aiutato moltissimi giovani e che poi, secondo me, ha subito una gigantesca calunnia ed aggressione che non meritava. Cossiga invece è stato un profondo maestro liberale, capace di trasmettere valori che tuttora io stesso seguo».
E che ruolo avrebbero all’interno del contesto politico-sociale odierno?
«Posso dire con certezza che ce l’hanno tuttora un ruolo; le opere di don Gelmini ancora oggi hanno un fine ultimo importante, aiutando tantissime persone. Per quanto riguarda Cossiga invece, posso dire che non si può essere europeisti e liberali senza sostanzialmente seguirne il pensiero. D’altronde, come lui stesso diceva: “Voglio morire da cristiano penitente e da liberale impenitente.”».
Dire «Bastardi islamici» non è un reato: Belpietro viene assolto. Il direttore era a processo per un titolo sui terroristi: «Non ha offeso una religione», scrive Martedì 19/12/2017 "Il Giornale". «Non c'era alcuna intenzione di offendere e di sostenere che tutti gli islamici sono bastardi». Maurizio Belpietro è convinto che queste sue ragioni siano state accolte dal giudice che ieri lo ha assolto nel processo sul titolo di prima pagina di Libero del 13 novembre 2015 «Bastardi islamici». L'oggi direttore de La Verità era in aula alla lettura della sentenza. Era accusato di «offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone» aggravate dalla finalità di odio razziale. L'ex direttore di Libero, difeso dall'avvocato Valentina Ramella, è stato assolto dal giudice Anna Calabi «perché il fatto non sussiste». Aveva scelto quel titolo a effetto nel giorno delle stragi dell'Isis nella capitale francese. La sua difesa si fondava sulla grammatica della frase che suscitò molte polemiche. «Quando abbiamo fatto quel titolo Bastardi islamici - aveva spiegato davanti al Tribunale durante il suo esame - per noi era scontato che ci si riferisse ai terroristi, perché islamici era aggettivo relazionale del sostantivo bastardi e serviva a definire la matrice islamica degli attentati e non ho scritto, infatti, bastardi musulmani». Belpietro aveva anche sottolineato: «La lingua italiana è chiara, basta andare su Google e digitare islamico e si può leggere aggettivo». Aveva inoltre ricordato che dopo gli attentati di Parigi «un collega ebbe l'idea» di usare il titolo «Bastards» messo in prima pagina da un giornale di San Francisco all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle del 2001. Ma, continuava il direttore, se «in quest'ultimo caso non era chiara ancora all'epoca la matrice di quell'attentato, per noi invece dopo gli attacchi a Parigi e non solo era già drammaticamente nota la matrice islamica». Le proteste scatenate dalla testata? «Strumentali - aveva aggiunto il giornalista - perché si cerca di far sparire il fatto che c'è qualcuno che ammazza in nome dell'Islam». Il pm Piero Basilone aveva chiesto la condanna a una multa da 8.300 euro. «Il titolo Bastardi islamici - aveva sostenuto nella requisitoria - è un insulto generalizzato a un miliardo e mezzo di fedeli islamici, molti dei quali vittime di attentati terroristici». Secondo la Procura, Belpietro era «perfettamente consapevole di offendere» con una «espressione che ha generato grande frustrazione nella comunità musulmana». Il Caim, Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza, che si era costituito parte civile ed era stato ammesso al processo, aveva chiesto un risarcimento di 350mila euro, di cui 100mila immediatamente come provvisionale. Il procedimento era nato dalle querele di una decina di musulmani. «Non so quale siano le motivazioni con cui sono stato assolto (saranno note tra 15 giorni, ndr), immagino che il giudice abbia ritenuto che ciò che ho spiegato in aula e che io ho sempre detto è assolutamente fondato», ha detto il giornalista dopo il verdetto. Belpietro ha concluso ribadendo che la sua intenzione «era semplicemente di sostenere che i bastardi sono quelli che hanno assassinato quelle persone».
L'11 settembre 2001 iniziò il declino dell'impero americano, scrive Daniele Zaccaria il 9 settembre 2016. Oggi il peso geopolitico degli Usa è imparagonabile a quello che aveva all'inizio del millennio: in ritirata dal Medio Oriente, umiliati dalla diplomazia muscolare di Vladimir Putin. L'America trafitta dell'11 settembre è una potenza inespugnabile che all'improvviso si ritrova l'apocalisse in casa. E tutto precipita in un furente domino di guerra. Assieme alle Torri gemelle e alle tremila vittime dell'attentato terroristico più cruento della Storia, crolla anche l'immagine che gli Usa hanno coltivato di se stessi. Ma soprattutto quella che per decenni hanno proiettato all'intero pianeta. Colpiti al cuore da un miliardario saudita che per noia e fanatismo si reinventa sceicco del terrore. La rappresaglia sarà cieca e violentissima e provocherà centinaia di migliaia di vittime. Molti avversari sono spazzati via, ma non è una vittoria e nemmeno una missione compiuta; i conflitti e l'instabilità che oggi scuotono i teatri della missione enduring freedom sono figli di quel domino. Il declino dell'impero inizia, inesorabile, proprio in quel momento. A quindici anni di distanza il peso geopolitico ed economico dell'America è imparagonabile a quello che aveva all'inizio del millennio, in ritirata dagli scenari strategici del Medio Oriente, spaesata dall'insorgenza dello Stato Islamico (Isis), spettatrice dello scontro fratricida inter-islamico fra Teheran e Riyad, assente nei negoziati impossibili tra israeliani e palestinesi, messa a margine dallo scoppio delle "primavere arabe" umiliata dalla diplomazia muscolare di Vladimir Putin in Crimea e Siria. Ma anche epicentro della crisi finanziaria del 2008 che trascina il mondo nelle sabbie mobili della recessione e la nazione sul bilico del default. Una nazione che deve confrontarsi con le nuove potenze emergenti come Cina e India e che non può più rivendicare il ruolo di gendarme globale. La presidenza Obama, impegnata nel ritiro delle truppe dall'Iraq e nella battaglia per i diritti in patria, non ha fatto altro che accompagnare il Paese in questa fase di crepuscolo. In questo Obama è stato un grande presidente, ha capito il nuovo spazio e il nuovo perimetro d'azione degli Usa in un mondo multipolare e senza più imperatori in cui bisogna archiviare le antiche distinzioni imperiali, dall'embargo cubano alla guerra a bassa intensità con l'Iran degli ayatollah alla contrapposizione con l'Islam. E quel mondo multipolare inizia a profilarsi paradossalmente proprio dalle macerie del World Trade Center, quando gli Usa da animali feriti lanciano l'offensiva contro i "barbari", credendo di vincere e venendo travolti dalla Storia. Lo storico Alessandro Barbero individua anche lui una data per segnare l'inizio del declino di Roma, un passaggio che precede di quasi un secolo il 476 d. c. che nei manuali è indicato convenzionalmente come la fine dell'impero d'Occidente. Si tratta del 9 agosto 378, giorno della battaglia di Adrianopoli che avvenne in Tracia (l'attuale Turchia europea). I Goti popolazione di profughi in fuga guidata dal gagliardo Fritigerno polverizzano l'addestrato esercito dell'imperatore Valente, Adrianopoli è la Waterloo di Roma, un gigante dai piedi d'argilla: «Quella sconfitta segnò addirittura la fine dell'Antichità e l'inizio del Medioevo, perché mise in moto la catena di eventi che più di un secolo dopo avrebbe portato alla caduta dell'impero romano d'Occidente». E pensare che molti storici e analisti vedono al contrario nell'11 settembre il punto di partenza di un ciclo "neoimperiale" degli Stati Uniti. La presidenza di George W. Bush, fino a quel momento avvolta in una specie penombra soporifera reagisce con spirito belluino all'attacco jihadista e organizza una caccia senza quartiere ai suoi nemici. Che in teoria sarebbero Osama Bin-Laden e la sua al-Qaeda, fantasmi nel deserto inseguiti per oltre un decennio rovesciando regimi e bombardando città. È la stagione della "guerra infinita", della "lotta al terrore", ma anche di Guantanamo e del "Patrioct act", protagonismo militare all'esterno, attacco ai diritti civili all'interno. I consiglieri del principe, un'agguerrita accolita di strateghi, politici e intellettuali che si fanno chiamare"neo con" sospingono lo stralunato Bush nell'avventura militare più imponente dai tempi del Vietnam, attivando le suggestioni ideologiche dello "scontro di civiltà". La libertà dell'Occidente contro l'oscurantismo del mondo arabo-musulmano e il suo "medioevo" religioso, con l'idea prometeica che la democrazia sia un bene da esportare e trapiantare, anche a suon di bombe e colpi di Stato. La guerra lampo contro l'Afghanistan del mullah Omar, quella molto più logorante contro il regime baahtista di Saddam Hussein, le migliaia di attentati contro i civili, la rinascita dei conflitti settari tra sciiti e sunniti, tutti elementi capaci di innescare una spirale di violenze che alimenta il jihadismo globale e le sue organizzazioni in costante mutazione. L'ultima, l'Isis del sedicente Califfo che nasce dalle macerie di al-Qaeda in Iraq, è l'ennesima nemesi per i declinanti Stati Uniti. Riacciuffati proprio mentre stavano abbandonando il campo di battaglia. Il parziale dietrofront di Obama nella guerra all'Isis non cambia la sostanza: anche in questo caso l'America non è più in prima linea dello scontro, ma una giusto una comprimaria di lusso.
Quell'eterno giorno dopo l'11 settembre. Gli impiegati di New York, coperti dalla polvere, erano come i profughi di oggi. Da allora ci culliamo in un impossibile sogno identitario di sicurezza. Scrive Wlodek Goldkorn il 9 settembre 2016 su "L'Espresso". Il 12 settembre, per chi ha vissuto quei giorni a New York, inizia l’11 settembre. Ma non per la vista della nuvola di fumo che si alzava dalla parte sud di Manhattan in una giornata insolitamente tersa e assolata, né per le macerie, che avevano assunto la forma di un animale preistorico morto, delle Torri Gemelle. Che fosse cominciata una nuova guerra mondiale e un’epoca di incertezza si era capito quando si sono viste le persone che risalivano dalle parti del World Trade Center verso il nord. Erano finanzieri e segretarie; funzionari di grandi aziende; gente benestante, casetta nei sobborghi; due automobili, tre figli e tutte le comodità. Ma le loro divise, i loro segni di appartenenza a un mondo ricco e sicuro (i tailleur Prada, le giacche Hugo Boss, le cravatte Armani), erano coperti da una polvere color marrone-grigio. Erano persone ridotte allo status primo e ultimo di ciascuno di noi. Erano solo dei corpi. Certo, molti di loro sono tornati nelle loro case, ma i segni contano. In quei corpi si poteva leggere il presagio di altri corpi che avremmo trovato anni dopo, alle nostre frontiere e sulle barche che tentano di raggiungere le nostre coste. Probabilmente tutto quello che stiamo vivendo oggi è la conseguenza di quella scena. Il giorno dopo, nell’Isola (Manhattan) in stato d’assedio, si verificò un fenomeno strano. All’improvviso nella metropolitana la gente cominciò a guardarsi negli occhi. Prima non era possibile, pena passare per un voyeur o un molestatore. Ora invece era tutto un cercarsi con gli sguardi. Certo, solidarietà tra i reduci e comunanza di destino. Ma anche l’idea di un’identità forte e che escluda gli altri: un paradossale difendere la purezza di una casa che comunque è già stata violata dai barbari. Le bandierine a stelle e strisce che addobbavano ogni finestra di Manhattan, da un simbolo di lutto e di resistenza, nel giro di pochi giorni hanno cambiato di segno: sono diventate manifestazione di orgoglio nazionalista (anche se a New York, l’identità per fortuna non è data dal sangue né dalla religione, come invece spesso accade nella “civile” Europa e nell’Italia della brava gente), rivolto contro gli altri. E gli altri sono coloro che non condividono “i nostri valori”. Da allora, e sempre più spesso parliamo infatti dei valori, raramente invece di linguaggio. La differenza? I valori rimandano a qualcosa di trascendentale in nome di cui è giusto uccidere e morire. Più difficile trovare qualcuno disposto a sacrificare la vita sua o altrui per un aggettivo; per il linguaggio appunto. Detto in parole povere. Il 12 settembre ci siamo scoperti profughi in un mondo senza certezze, come i naufraghi nella “Tempesta” di Shakespeare, ma anche come i migranti sommersi nel mare sotto le finestre delle nostre tiepide case. E per tornare a New York: la città aveva già visto dei profughi veri, decenni prima. Erano arrivati dall’Europa, privi di documenti. Li chiamavano apolidi. Tra di loro c’era Hannah Arendt: sull’essere apolidi scrisse pagine memorabili, che oggi leggiamo versando una lacrima di commozione. La commozione a sua volta è utile per evitare di associare la parola apolide alla parola clandestino; per non ricordare che da clandestini o apolidi si muore, come morì un caro amico di Arendt, Walter Benjamin. Morì d’angoscia per non aver i documenti in regola. Ecco, il mondo che comincia il giorno dopo l’11 settembre, è un universo dove leggiamo Arendt e Benjamin, come se fossero autori di successo e non borghesi ridotti allo status di vittime. Allo stesso modo guardiamo i corpi dei migranti per convincerci che noi siamo altro, che a noi non toccherà mai una disgrazia. Poi arriva un camion a Nizza e ci rendiamo conto che il 12 settembre non è finito. E allora torniamo a rifugiarci nel nostro sogno identitario. Ci guardiamo negli occhi, ma solo tra di noi. Sempre nella “Tempesta”, Shakespeare dice: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”. I nostri sono ormai piccoli e limitati: Catalogna o Sardegna indipendenti, Italia o Germania senza musulmani e stranieri; città senza rom; Capalbio senza profughi. Nella speranza di rimandare il naufragio. Nella paura di affrontare la tempesta.
Cosa significa l'11 settembre per chi non era ancora nato. I nati dopo l'attentato alle Torri Gemelle, bambini e adolescenti, vivono in un mondo segnato da un evento che non hanno vissuto. Ma tra smartphone, internet e videogame la loro percezione della realtà è rimasta comunque influenzata da quel giorno. E il terrorismo resta una presenza costante delle loro vite, scrive Cecilia Tosi il 7 settembre 2016 su "L'Espresso". «Allà Akba!!!» Omar lancia il suo grido di battaglia e parte all’attacco. Ma Giulio non si fa intimorire. Omar pesa la metà di lui, anche se gli si lancia addosso dalla cima dello scivolo non vincerà mai. Marina di Grosseto, costa meridionale della Toscana. Due bambini maremmani di 12 anni giocano sulla spiaggia gridando «Dio è grande», ma non lo sanno. Non sanno neanche che Allahu Akbar è la frase araba con cui inizia la preghiera dei musulmani, per loro è solo un grido di guerra, la moderna versione del «Ti spiezzo in due» anni 80, una frase che rende potenti e invincibili. Non conta che significhi esattamente il contrario: un riconoscimento della propria soggezione di fronte alla grandezza delle divinità. Per un 12enne italiano è solo un suono che rievoca la forza sterminatrice di chi si lancia in mezzo alla folla e si fa esplodere. La strategia dei terroristi ha centrato in pieno il suo obiettivo: un uomo che si uccide per uccidere è diventato il simbolo della potenza. Che l’attentatore sia morto, è secondario. Resta solo il perverso successo della sua azione. Il suicidio, che di per sé rappresenta la più grande sconfitta dell’uomo, è diventato una clamorosa vittoria. Perché la vita non conta, conta solo la sua rappresentazione. I giovani nati dopo l’11 settembre 2001 sono venuti su a latte e internet, non possiamo pretendere che siano loro a disegnare una linea che divida virtuale e reale. Si muovono continuamente da un mondo all’altro, ne fanno anche una strategia di sopravvivenza. L’azione di un kamikaze che si fa esplodere in Siria è troppo disumana per essere vera, somiglia più ai giochi sparatutto della Playstation o della Wii: migliaia di proiettili al minuto, scontri con le spie di tutto il mondo, il protagonista muore ma poi il gioco ricomincia da capo. D’altronde passa tutto dagli stessi schermi, la guerra in Medio Oriente come i videogame, i reportage in prima linea e i fake con finti terroristi, le parodie e i documentari. Puoi entrare in un mondo o in un altro a seconda di dove porti il cursore o di quale bottone spingi. Clic, spegni la realtà e entri nel gioco. O almeno credi. Nella chat della playstation puoi ritrovarti i reclutatori di Isis che vanno a caccia di adepti, nei giochi on line puoi scontrarti con un soldato americano che si addestra o con un jihadista che si annoia. Senza contare che i combattenti del Califfato si fanno ritrarre dai fotografi nelle pose dei protagonisti di Call of duty, il videogame più venduto del mondo. Non è che i ragazzi non lo sanno, cosa è vero e cosa no, solo che la realtà è qualcosa di più flessibile di come lo era vent’anni fa. È “liquida”, dicono, prende la forma del suo contenitore, occupa lo spazio che i ragazzi le lasciano occupare. Chi è nato nel secolo scorso, quando ancora c’era il muro di Berlino e non esistevano i voli low cost, è abituato invece alle cose solide, a quei confini che sembravano fermi e invalicabili. E quindi continua a mettere barriere: fili spinati per allontanare gli immigrati, misure protezionistiche per salvare la propria economia, missioni militari per costruire un cordone sanitario. Ha stabilito che il confine delle terre amiche comprende Malta ma esclude Tunisi. L’ultima frontiera d’Europa è l’isola dei Cavalieri a cui fu affidata la difesa dei cristiani a Gerusalemme. Oltre, ci sono gli altri, che guarda caso sono musulmani. Gente che non ha niente a che fare con noi e che tutto sommato può anche morire senza che i nostri ragazzi rimangano turbati. Il guaio è che questo confine è inventato, non esiste, perché non possiamo più nascondere ai nostri figli cosa succede oltre il muro. Il mondo di oggi è nato l’11 settembre, quando il nostro è finito. «Certo che lo so, l’11 settembre 2001 è il giorno in cui hanno fatto esplodere i grattacieli a New York. Sono morte migliaia di persone». La generazione Zerozero la conosce quella data. Tutti gli anni gliela ricordano i telegiornali e l’immagine delle Twin Towers che crollano è qualcosa di troppo spettacolare da dimenticare. Ma perché due aerei si sono infilati nelle Torri Gemelle? Come mai qualcuno voleva uccidere migliaia di civili innocenti? «Non lo so, erano dei pazzi» «Ce l’avevano con gli americani» «Era gente che si voleva vendicare. Gente musulmana». Chi ha 13, 14 o 15 anni ha l’immagine dei grattacieli in fiamme davanti agli occhi, ma le ragioni, i protagonisti, le conseguenze, non le sa. L’11 settembre è uno dei tanti video che appaiono su youtube quando cerchi “cose più strane nella storia” o che vengono linkati su facebook per sostenere la teoria del complotto. «Ancora non si è capito se l’attentato veniva da fuori o se gli americani se lo sono fatti da soli. Ma in fondo mi interessa poco». A noi, che dividiamo i nostri ricordi tra prima e dopo quel momento, sembra impossibile che loro guardino crollare le Twin Towers senza impressionarsi. Ma per chi era davanti alla tv quel giorno, quella era la prima trasposizione nella realtà di uno spettacolo che aveva visto rappresentato solo al cinema, per chi è nato dopo il 2001, invece, è la realtà che diventa spettacolo. Gli Zerozero sono abituati a persone vere che diventano personaggi, non viceversa. Guardano gli youtuber che trasformano in spettacolo le loro vite, cliccano sulle “coincidenze più assurde” dove i fatti del mondo sembrano rispondere a una trama, al massimo scaricano le serie tv americane, sempre più affannate a correre dietro il presente. Noi – che ci guardiamo le stesse serie loro, ma ci fregiamo di leggere anche i quotidiani, o meglio la loro home page - ci limitiamo a redarguirli con frasi alla zia Peppa: ah, quando eravamo piccoli noi c’erano solo i cartoni animati su Italia 1! Altro che youtube, ci facevamo le cassettine registrando le canzoni dalla radio! Leggiti un libro, invece di stare tutto il giorno davanti a quello schermo! E invece lo schermo – del telefonino soprattutto, ma anche di tablet e tv - è l’unico mezzo che gli ha insegnato qualcosa, visto che né i professori né i genitori osano affrontare l’argomento. «Ho visto un documentario spagnolo una volta, spiegava che l’attentato l’hanno fatto gli estremisti islamici. Ma a farmi paura non è tanto morire in quel modo, mi sembra peggio essere uccisi lentamente, soffrendo». Bang, due a zero per i terroristi. Dopo che al Qaida ha reso normali i kamikaze, Isis ha messo in piazza la tortura, conquistando tutta l’attenzione del nemico. Ha gettato nella preistoria l’organizzazione di Bin Laden («Chi è Bin Laden? No, non l’ho mai sentito nominare») e conquistato la scena. Per gli Zerozero il terrorismo equivale agli atti di sadismo dello Stato Islamico e dei suoi seguaci in Europa. «Te la faccio vedere io, ti mando l’Isis!» «Scappiamo che arriva l’Isis» «Sei una faccia di merda, sei peggio dell’Isis». Il Califfato ha solo tre anni ma è penetrato nell’immaginario globale come una lama nel burro. Sfrutta il potere delle immagini, spamma i social network di filmati e regala a youtube milioni di clic. Con un miliardo di persone che ogni giorno si collega al sito di video sharing, i terroristi hanno a disposizione il pubblico più grande della storia. A contendergli il primato, ci sono solo Pewdiepie e CutiepieMarzia: il primo è lo youtuber più seguito del mondo, la seconda è la sua fidanzata, che fa lo stesso mestiere. Più precisamente, Pewdiepie è un gamer, cioè un giocatore di videogame che racconta agli altri le sue giornate alla console, facendoli spaccare dalle risate. CutiepieMarzia invece è makeup oriented youtuber, cioè una che insegna a truccarsi e a capire cosa va di moda. Sono la coppia d’oro dei teen-ager, il loro specchio. Non è che a noi andasse meglio, con Brenda e Dylan impegnati a vestirsi cool a Beverly Hills. Però Brenda era un personaggio inventato, Marzia è una persona reale. Lo spettacolo lo fa mettendo in mostra la propria vita, magari fingendo un po’, ma chi saprà vedere il confine? E chissà se i terroristi fingono o fanno sul serio, se anche sono attori di una grande recita ad uso e consumo degli spettatori globali. «Mi ha fatto impressione quello che è successo in Francia. C’era un camioncino che vendeva gelati e poi è partito e ha ammazzato tutte quelle persone». A 9 anni Alida non sa niente dell’11 settembre, ma gli attentati del 2015 e del 2016 ce li ha stampati negli occhi. «Ho avuto paura delle bombe a Parigi e negli aeroporti, vorrei capire come stare al sicuro». Anna si è appena iscritta al liceo, e dice che i professori delle medie non le hanno spiegato niente, mentre lei vorrebbe sapere cosa sta succedendo. «Ho paura quando i miei genitori vanno in trasferta. Io abito in una piccolo paese, qui non può succedermi niente. Ma nelle grandi città è pericoloso», spiega Antonio, 11 anni, che sa spiegare perfettamente come si sono fuse le Twin Towers, ma anche lui non conosce Bin Laden. «Quest’estate in vacanza ho sentito uno scoppio e ho pensato: oddio bisogna scappare è arrivato l’Isis!». Carolina è nata nel 2002 e di attentati in Europa ne ha vissuti parecchi, ma quando sono esplose la stazione di Madrid (2004) e la metropolitana di Londra (2005) era troppo piccola per rendersene conto. D’altronde, al Qaida non ha fatto niente per ricordarle quelle prodezze: nessun video virale da riproporre ogni anno, nessuna foto che scaldi le chat nei social network, nessuna teoria del complotto. Isis, invece, punta tutto sulla propaganda, sullo shock visivo. Solo così è riuscita ad attrarre combattenti stranieri da tutto il mondo e ci ha fatto credere di aver mandato in soffitta al Qaida. Su Instagram, il social più usato dai preadolescenti, circolano a manetta foto e commenti sugli attentati di Parigi, Nizza e Bruxelles. Eventi più recenti, certo, ma anche più ripresi, ritwittati, riguardati. I ragazzi stavolta si sentono coinvolti, anche perché l’Erasmus ha dato i suoi frutti, sparpagliando amici e parenti dei genitori a giro per l’Europa: «Un mio cugino vive proprio vicino a Place de la Republique!», «mia zia ha la casa a Nizza!», «Gli amici dei miei stanno a Bruxelles» «Il collega di papà proprio quel giorno doveva prendere l’aereo!». L’allarme c’è, dunque, ma non si vede. Se non glielo chiedi espressamente, i ragazzini non ti parlano di cosa pensano dei terroristi. E gli adulti non glielo chiedono. Spiegare i motivi è troppo difficile e a leggere i giornali ci sono tanti perché quanti gli esperti intervistati. Lo psichiatra che tira fuori la fragilità mentale, il sociologo l’anomia, l’antropologo l’identità, lo storico il conflitto regionale, il prete la radicalizzazione, il politico i governi irresponsabili. Il terrorismo è il fenomeno più analizzato del secolo e anche il meno compreso. È ancora più difficile spiegarlo se l’immagine che ne abbiamo è distorta. Bisogna recuperare la verità, ripulendola dalla propaganda. Gli attentatori che colpiscono in Europa non somigliano all’immagine stereotipata di un terrorista, con la tunica e la barba («Quando andiamo in gita e ne vediamo uno vestito in quel modo ci scansiamo»), l’islam non dice né di ammazzare civili innocenti né di giustiziare i prigionieri, anzi, obbliga a trattarli con rispetto («Forse la loro religione gli dice di fare questa guerra»), d’altra parte non è vero neanche che la religione non c’entra niente, che i terroristi sono solo pazzi, perché invece una versione integralista della fede consente di manipolare le menti di chi ha bisogno di poche e semplici regole («No, non credo che sia una questione di religione»). E infine Isis: ci ha stupito con i suoi effetti speciali e convinto di essere l’organizzazione combattente più forte del mondo, al punto che anche i giornalisti del tg si confondono e gli attribuiscono la responsabilità di attentati che invece ha rivendicato al Qaida, come quello a Charlie Hebdo. In realtà il suo potere si concentra in un’area molto piccola di Siria e Iraq e i gruppi affiliati entrano e escono dai network jihadisti a seconda di cosa conviene, e ci metteranno un attimo a tornare in seno all’organizzazione di Bin Laden. In nome della guerra al Califfato, l’Italia ha appoggiato gli americani nelle operazioni contro Isis a Sirte, in Libia. Ma la città viene “liberata” senza che uno Stato la prenda in affidamento. E quando la natura vede un vuoto, lo riempie. In Libia, come in Afghanistan, questi vuoti li sta riempiendo al Qaida, che - nonostante i proclami del Pentagono - non è affatto sconfitta. Tre a zero per loro.
11 settembre, com'è Ground Zero 15 anni dopo, scrive "Panorama" l'11 settembre 2016. Là dove per quasi 30 anni - dal 1973 fino all'11 settembre 2001 - le Torri Gemelle hanno svettato sulla parte meridionale di Manhattan, dopo che i due aerei dirottati da miliziani di Al Qaeda vi si schiantarono contro, per molti anni c'è stato Ground Zero, il luogo della distruzione (un termine mediato dalla guerra fredda che designa un'area coinvolta da un'esplosione atomica). L'area nella parte meridionale di Manhattan a New York dove, prima degli attacchi terroristici alle Twin Towers, sorgeva il complesso del World Trade Center è diventato il "Ground Zero" per antonomasia. Una tragedia politica e umana che, oltre ad infliggere un colpo al cuore degli Stati Uniti, ha sfregiato il volto della città. Più che ferita, per quasi 10 anni New York è apparsa come una città "amputata", fino alla rinascita, nel 2013, con il One World Trade Center, chiamato anche Freedom Tower, il quarto edificio più alto al mondo e simbolo della più grave strage terroristica della storia americana. Per il riassetto dell'area e la nuova edificazione di edifici è stato indetto un concorso, vinto dall'architetto polacco-americano Daniel Libeskind, che ha portato alla costruzione della "Torre della libertà". Alla sua base si trovano un'area storico-museale - che si estende su sette piani, per lo più sotterranei - e un'area esterna commemorativa delle vittime dell'attacco islamista. Ground Zero ha dunque attraversato cambiamenti significativi, ma porta ancora nella sua stessa struttura la memoria di quel giorno che ha segnato la storia contemporanea, quando oltre 3.000 persone sono state uccise negli attacchi a New York e Washington.
11 settembre, quindici anni dopo. La tragica verità di Filippo Facci su “Libero Quotidiano” l’11 settembre 2016: perché l'islam ci ha sconfitto. Quindici anni fa, io e Mattia Feltri eravamo sul Frecciarossa diretto verso Roma quando a intervalli regolari cominciò a telefonarci Christian Rocca; Feltri e Rocca lavoravano al Foglio, oggi sono rispettivamente alla Stampa e al Sole24 Ore. Io cercavo di dormire, ma Rocca continuava a dire che un aereo si era schiantato contro un grattacielo di New York. E vabbeh. Poi, più tardi, ci disse che un altro aereo si era schiantato contro un grattacielo affianco, sempre a New York. Io volevo dormire, Rocca ci sembrava scemo. Quando ci richiamò per dirci che un terzo aereo era caduto sul Pentagono, ci chiese testualmente «ci credete adesso?» ma a me e Mattia faceva male lo stomaco dal ridere, pensammo che ci stesse pigliando per il culo. Ricordo che chiesi: «Bruce Willis a che ora arriva?». Più tardi, alla sede romana del Foglio, io e Mattia vedemmo la collega Maria Giovanna Maglie che piangeva e che parlava del suo cane che era a New York; mentre Marina Valensise, ai tempi non ancora all’Istituto italiano di cultura a Parigi, riguardava le immagini dei grattacieli e si chiedeva: «Ma saranno assicurati?». In molti di noi, comunque, prevaleva una segreta eccitazione e non c’era la minima contezza del momento «storico» che stavamo vivendo, di ciò che avrebbe rappresentato negli anni a venire. Ecco: gli anni a venire sarebbero stati un severo bagno di consapevolezza, qualcosa poi sintetizzato nel dibattutissimo «scontro di civiltà», comunque in una contrapposizione tra la mollezza dell’Occidente e la determinazione di chi - era l’espressione - amava la morte come noi amiamo la vita. Ora: si disse «nulla sarà come prima» e non lo fu, non lo è, ma chiedersi se oggi l’Occidente non stia ridiventando come quei due ragazzi che si spanzavano sul Frecciarossa, beh, forse è una domanda che pare un po’ meno assurda. Ora: di riassunti degli ultimi 15 anni ne troverete a bizzeffe, qui la domanda è un’altra. La domanda, per dire, è: che cosa accadrebbe se Oriana Fallaci, domani mattina, pubblicasse le due paginate de «La rabbia e l’orgoglio» sul Corriere della Sera: come verrebbe accolta? Oppure: 15 anni fa, a tratti, si visse anche una sindrome, non si poteva guardare un aereo senza pensarci: ma come avremmo reagito, allora, al pensiero che 15 anni dopo - oggi - sia più facile parlar male del Papa che non di un milione e mezzo di islamici che vivono nella Penisola? Che cosa avremmo pensato del fatto che non si possa antipatizzare per l’islam, chessò, su Facebook, senza che scattino censure? Oppure che il proposito di non offendere l’islam sia divenuto a tratti un’ossessione, a cominciare dalle parole «maiale» e «carne di maiale»? Dei capi di Stato che eliminano il vino da tavola nei convivi diplomatici? Dell’abitudine di accondiscendere al galateo di teocrazie dove le condanne e violazioni dei diritti umani sono la norma? Dei costumi da bagno «burkini»? Di mille cazzate che prese una alla volta sembrano trascurabili? Del fatto che ci sono zone - non solo a Milano - dove la gente prega per strada e dove ogni tanto riecheggia il muezzin? Del politicamente corretto che sta riavendo il sopravvento? Del presunto problema dei titoli di Libero o del timore di «assecondare Salvini» perché semplicemente si dice quel che si pensa? «Loro» non hanno certo vinto, ci mancherebbe, il punto è se non stiamo ricominciando - noi - a perdere. Il punto è se la sconfitta culturale, diciamo così, non sia un veleno che si è insinuato lentamente e inconsapevolmente. Dopo al-Qaeda, l’Isis. Dopo gli Usa, l’Europa. Prima gli aerei, poi i treni, persino i camion se soltanto vai a guardarti in spiaggia i fuochi artificiali. Ci siamo abituati, quasi assuefatti a un certo tasso di esposizione e pericolosità del vivere comune; ormai giudichiamo normale scegliere le vacanze all’estero sulla base degli attentati, sappiamo che prendere un’aereo è diventato e resterà un inferno, che per morire basta frequentare locali, concerti o riviste satiriche, che i pazzi e i lupi solitari sono dietro l’angolo, che ormai ogni spostato mentale può trovare un movente politico nel jhad. Ci siamo raccontati la ridicola e inconsistente bipartizione tra islam moderato e radicale, che le primavere arabe guardassero a un modello laico-occidentale, che sciiti e sunniti non convivano tranquillamente tra loro nelle nostre città, che noi tutti non abbiamo ristretto le nostre libertà politiche e civili rinegoziato la nostra sicurezza pubblica. Non abbiamo svenduto i valori cardine della nostra democrazia: ma la sensazione è che stiamo trattando. di Filippo Facci
L’11 settembre meno raccontato, di Stephanie Merry – The Washington Post dell'11 settembre 2016. Pensiamo sempre alle Torri Gemelle, ma ci fu anche il devastante attacco al Pentagono: ora per la prima volta un documentario lo racconta. Quando ricordiamo l’11 settembre 2001, non possiamo fare a meno di pensare a immagini che non siamo in grado di dimenticare: un aereo che esplode in una palla di fuoco mentre si schianta contro un grattacielo, le persone che si gettano dalle finestre più alte delle torri, gli abitanti di New York ricoperti da così tanta polvere da sembrare delle statue. Le immagini di quanto successo al Pentagono, nella contea di Arlington, in Virginia, non hanno mai lasciato la stessa traccia. Non esistono video che mostrano il volo American Airlines 77 schiantarsi contro l’ala ovest del gigantesco complesso di uffici. Il Pentagono ha una superficie di oltre 600mila metri quadrati spalmati in orizzontale, e perciò anche l’esplosione di un aeroplano è sembrata meno devastante rispetto alla distruzione nel Financial District di Manhattan. Forse è per questo che i registi di documentari non hanno mai esaminato gli eventi di Arlington nella stessa maniera in cui hanno analizzato quanto successo a New Yorko sul volo United Airlines 93. Il regista vincitore di un Emmy Kirk Wolfinger, però, ci ha provato. Quando un network televisivo lo contattò per fare un documentario sull’11 settembre, Wolfinger propose di raccontare l’attacco al Pentagono. La risposta del network fu inequivocabile: se Wolfinger voleva fare il film, doveva farlo sul World Trade Center. «Ovviamente non è una gara a chi ha avuto la tragedia più grande», ha detto Wolfinger di recente. Il numero dei morti a New York fu chiaramente più alto rispetto alle 184 persone uccise ad Arlington. Eppure al Pentagono quel giorno ci furono storie su cui valeva la pena tornare. Se non fosse stato Wolfinger a raccontarle, chi l’avrebbe fatto? Alla fine Wolfinger ha trovato il modo di raccontare quella tragica giornata. Lo speciale da un’ora 9/11 Inside the Pentagon diretto da Sharon Petzold, e di cui Wolfinger è il produttore esecutivo, è stato trasmesso per la prima volta negli Stati Uniti martedì sera dal network PBS. Wolfinger capisce le ragioni per cui alcuni registi potrebbero voler evitare di raccontare la storia del Pentagono. Il lavoro di un documentarista si basa sull’accesso alle informazioni, e ottenerle dalle forze armate americane non è facile. Ciononostante, Wolfinger fu sorpreso nello scoprire di essere il primo regista a presentare una richiesta credibile per ottenere l’assistenza del Pentagono su un progetto del genere: «E con questo intendo un progetto che non si occupasse di teorie del complotto». «Non mi hanno imposto limitazioni», ha raccontato. «Mi hanno solo detto: “Per favore, racconta la nostra storia, perché non l’ha fatto nessuno”». Nel film ci sono interviste ad alcuni dipendenti delle forze armate che si trovavano vicino al punto dello schianto, ai primi soccorritori, al vicedirettore delle operazioni e all’ingegnere strutturale dell’edificio. Le testimonianze su quanto successo a terra sono inframezzate da resoconti di quello che è avvenuto nel cielo, grazie ai ricordi di un controllore del traffico aereo della Federal Aviation Administration (FAA), l’agenzia del Dipartimento dei Trasporti americano che si occupa di aviazione civile. I racconti sono strazianti: persone che strisciano fuori da stanze completamente oscurate dal fumo; dipendenti che cercano di uscire rompendo le finestre infrangibili che erano appena state montate durante una ristrutturazione; scale così infuocate da bruciare i piedi delle persone attraverso le scarpe. Rimane però una domanda: il pubblico americano è interessato a sapere cosa successe al Pentagono l’11 settembre? Il capitano di un sottomarino della Marina americana in pensione, Bill Toti, che sopravvisse all’attacco al Pentagono e appare nel film, ha detto di capire perché tante persone si concentrano su New York. Ma «proprio come quella di Corea è la guerra dimenticata dagli americani, il Pentagono è l’11 settembre dimenticato». Per spiegarne le ragioni, Toti ha due teorie, che ha raccontato durante una recente intervista telefonica. La prima è quella a cui preferirebbe credere: gli attacchi di New York furono visti dal mondo in diretta, e dal punto di vista visivo sono stati sconvolgenti in modi in cui il Pentagono non lo fu. Nonostante ospitasse lo stesso numero di persone del World Trade Center, il Pentagono si dimostrò un edificio meno vulnerabile, e rispetto alle Torri Gemelle molte più persone ne uscirono vive. Toti, però, ha anche un’altra teoria, che lo mette più a disagio: «Ho avuto alcuni segnali che nel paese ci sia chi pensa che le persone del Pentagono fanno parte delle forze armate, e quindi morire fa in qualche modo parte del loro lavoro», ha raccontato. «Nonostante nessuno me l’abbia mai detto in faccia, a volte penso che la morte di un civile sia una perdita più profonda rispetto a quella di un soldato». Eppure – ironia della sorte – le persone uccise al Pentagono furono per la maggior parte civili. Questa per Wolfinger è stata una delle grandi sorprese. Non fu per niente una storia di militari. Al Pentagono lavorano circa 20mila persone, molte delle quali non portano un’uniforme. «Ci sono segretarie civili, amministratori, sovrintendenti e appaltatori privati che si occupano dell’impianto elettrico e idraulico», ha raccontato Wolfinger. «Tutte queste persone si trovavano nell’edificio quel giorno, e fanno parte della nostra storia». Una delle persone che non fa parte delle forze armate e appare nel film è Ed Hannon, che al tempo era un capitano dei pompieri di Arlington. In uno dei momenti di maggiore impatto del film, Hannon racconta di essersi inginocchiato per pregare insieme a diverse altre persone nel cortile al centro del Pentagono. L’FAA aveva già allertato che nel giro di qualche minuto ci sarebbe stato un secondo attacco da un altro aereo. Hannon sapeva che non c’era modo di uscire dall’edificio costruito a serpentina abbastanza velocemente, e quando il suono del motore di un aereo diventò sempre più forte, si preparò a morire. «Poi, quasi in contemporanea, tutti questi tizi delle forze armate iniziano a esultare», ha ricordato Hannon. Il rumore che avevano sentito era un aereo da combattimento “amico” che si era abbassato sorvolando il Pentagono. «A quel punto, ci rimaneva un incendio da spegnere», ha raccontato. La sera del 10 settembre Toti aveva infilato una lettera nella casella di posta del suo capo, in cui annunciava che aveva deciso di andare in pensione. La mattina dopo, Toti riuscì a scappare illeso dalla zona dello schianto, e passò la giornata a portare i feriti verso le ambulanze e gli elicotteri. Per Wolfinger, individuare Toti nei vecchi filmati dei telegiornali fu semplice: sembrava essere dappertutto. Alla fine la Marina lo nominò a capo delle operazioni di recupero. Una delle prime cose che Toti fece il 12 settembre fu riprendere la lettera che aveva scritto al suo capo e strapparla. Lo stesso giorno il Centro Storico della Marina lo implorò di usare il suo accesso al Pentagono per salvare alcuni dipinti dalla distruzione. Mentre recuperava un quadro da una sala conferenze, Toti sentì bussare alla finestra. Era un pompiere che lo avvertiva che il soffitto sopra di lui era ancora in fiamme. Toti ha anche molte altre storie da raccontare, come tutte le persone che erano al Pentagono quel giorno. Sono racconti tragici ed eroici. Nel caso qualcuno fosse interessato a conoscerli. 2016 – The Washington Post
11 settembre, perché lo jihadismo è diventato un’ideologia globale? Scrive Loretta Napoleoni l'11 settembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". A 15 anni dall’attacco contro le torri gemelle una nebulosa di gruppi jihadisti ha rimpiazzato al Qaeda. Alcuni, come l’ISIS, con pretese nazionaliste sono riusciti a conquistare vasti territori e ad autoproclamarsi una nazione, il Califfato. Sebbene Osama bin Laden sia morto e il suo corpo sia stato dato in pasto ai pesci dell’Oceano indiano, nuove icone sono emerse e la minaccia del terrorismo e del fondamentalismo islamico continua ad essere presente nella vita quotidiana degli occidentali e dei musulmani. Se l’11 settembre passerà alla storia come un attacco terrorista, anche se eccezionale e spettacolare, il jihadismo contemporaneo verrà definito un’ideologia anti-imperialista globalizzata poiché così viene percepito da segmenti sempre più grandi della popolazione mondiale. Un bilancio triste e surreale al tempo stesso perché stiamo parlando di azioni armate contro gli innocenti, cioè la popolazione civile, un bilancio appositamente tenuto nascosto dalla classe politica che negli ultimi 15 anni ha gestito la “guerra contro il terrorismo”. Perché? Ecco una domanda che a 15 anni dall’11 settembre dovremmo porci. Ma neppure i newyorkesi, prime vittime di quell’attentato, hanno voglia di farlo. A 15 anni dal crollo delle due torri gemelle, molti a New York hanno rimosso le immagini di distruzione di uno dei simboli del capitalismo finanziario occidentale e li hanno sostituiti con quelle del nuovo grattacielo e dei i monumenti ai “caduti dell’11 settembre”, costruzioni sorte dove un tempo c’erano le due torri. Ormai sono un’attrazione turistica come tante altre, da vedere e fotografare, magari con un selfie, e mostrare agli amici. Anche la stampa tradizionale evita di rivisitare gli errori degli ultimi 15 anni. Chi vuole conoscere i motivi veri del nostro fallimento deve cercarli nell’internet, su siti che ancora credono e praticano il giornalismo vero o deve frugare su Twitter, alla loro ricerca. Eppure oggi a 15 anni da quella tragedia c’è davvero bisogno di una riflessione sul perché lo jihadismo è un’ideologia globale mentre 15 anni fa era poco meno di un gruppo di terroristi che si chiamava al Qaeda. Cosa abbiamo sbagliato? La nostra sconfitta poggia su una serie di fattori negativi per l’Occidente, tutti legati alla scellerata risposta all’11 settembre: la guerra contro il terrorismo. L’errore che molti commettono è credere che sia stato l’attacco alle torri il motore della crescita dello jihadismo. Ed invece non è così! Rivisitare questi fattori può aiutarci a fare autocritica, un processo necessario se nei prossimi 15 anni vorremmo correggere tutti questi errori. Sul piano economico: la sezione finanziaria del Patriot Act, una legislazione repressiva introdotta appena un mese dopo l’11 settembre, ha portato alla fuoriuscita di centinaia di miliardi di dollari dagli Stati Uniti, denaro arabo e musulmano che è stato rimpatriato per paura che fosse congelato. Il sistema di monitoraggio globale delle transazioni in dollari che il Patriot Act ha introdotto, ha ridotto il volume mondiale degli investimenti in dollari mentre la nascita di un sistema di riciclaggio nuovo, la cui moneta di scambio è l’euro e non più il dollaro, per aggiralo ha ulteriormente indebolito il dollaro. La Riserva Federale ha cercato di contrastare la mini recessione innescata dall’11 settembre tagliando i tassi d’interesse, ma lo ha fatto in un momento in cui l’eccessivo indebitamento richiedeva una manovra esattamente opposta. Così facendo ha gonfiato a dismisura la bolla dei mutui subprime. L’amministrazione Bush ha incoraggiato la politica dei tassi bassi perché gli ha permesso di finanziare la guerra in Iraq con un crescente debito pubblico. Questa la genesi del crollo del 2007/2008, da cui l’economia mondiale non si è più ripresa. Sul piano politico: l’attacco preventivo in Iraq, costruito su una serie di menzogne prima fra tutte quella che presentava al Zarqawi come l’ambasciatore di bin Laden alla corte di Saddam Hussein, non ha prodotto i frutti aspettati. L’Iraq è diventato un ginepraio di gruppi armati, con in testa Twahid al Jihad, il gruppo guidato da al Zarqawi che grazie alle menzogne dell’asse Bush e Blair, ha guadagnato la fiducia degli sponsor di al Qaeda. Attraverso varie reincarnazioni quel gruppo oggi si chiama ISIS. Dal 2003 al 2007, la guerra in Iraq ha radicalizzato i giovani musulmani anche in Europa e negli Stati Uniti. Madrid, Londra sono state colpite e di colpo il terrorismo è tornato a essere di casa nel Vecchio continente. Il bilancio della guerra contro il terrorismo è particolarmente negativo in Europa, diventata teatro di attacchi di tutti i tipi: dall’assassinio di Theo Van Gogh in Olanda con un semplice coltello fino alle bombe all’aeroporto di Bruxelles o alla carneficina a Nizza. Ma è nel mondo musulmano che l’impatto di questo conflitto si è fatto maggiormente sentire producendo un processo di destabilizzazione che rischia di far saltare lo status quo internazionale. Nel 2003, nasceva al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), un gruppo finanziatosi con il contrabbando di cocaina che dal 2002, a seguito dell’introduzione del Patriot Act, arriva in Europa attraverso l’Africa occidentale, il sahel e il Nord africa. AQMI è stata la prima organizzazione a rapire stranieri quale fonte di finanziamento, soldi con i quali ha reclutato giovani africani. Il cocktail di traffico di cocaina e jihadismo africano è stato letale per la stabilità delle nazioni dell’Africa occidentale, la cui economia nel giro di un decennio è diventata dipendente da queste attività illegali. Dal 2003 tutti i gruppi armati del fondamentalismo islamico, ad esempio i talebani, al Qaeda nella Penisola Arabica, al Nusra in Siria, hanno imitato il modello africano. I rapimenti si sono moltiplicati diventando nelle zone di guerra come la Siria, l’Iraq, la Libia o l’Afghanistan, o negli stati falliti come la Somalia, la fonte primaria di sovvenzionamento non solo dell’attività terrorista ma per la sopravvivenza della popolazione intrappolata al loro interno. Non solo l’Occidente non ha ancora vinto la guerra contro il terrorismo, ma la destabilizzazione del mondo mussulmano ha dato vita all’esodo più grande dai tempi della seconda guerra mondiale. Nel 2015, 1,5 milioni di rifugiati sono entrati in Europa. La crisi dei rifugiati sta mettendo a durissima prova l’Unione europea ed in parte è responsabile per la vittoria del fronte anti europeista nel referendum britannico dello scorso giugno. A giudicare dai risultati abbiamo sbagliato tutto. E la conferma è che il terrorismo è una minaccia ben più grande di 15 anni fa.
11 settembre 2001, strategia sbagliata. Risultati disastrosi. Saddam, Libia, Assad: un errore dopo l'altro, scrive Mario Arpino l'11 settembre 2016 su "Quotiniano.net". In un discorso di sette minuti, la sera dell’11 settembre 2001 il presidente George Bush jr. dichiarava la Guerra al Terrorismo ( War on Terror ). Quel giorno, è anche cambiato il significato di una parola terribile, ‘guerra’. Questo lo si è subito compreso, sebbene la nostra mente fosse ancora rimasta a modelli che non si scostavano troppo da ciò che avevamo subito nel conflitto mondiale e temuto in cinquant’anni di Guerra Fredda. Qualcosa era necessario fare, e subito. Tutto il mondo guardava a Occidente, per capire se, come e quando avrebbe reagito. Certo, l’intelligence andava ristrutturata, gli amici trasformati in alleati, la protezione doveva adeguarsi alla nuova minaccia, le catene di comando richiedevano modifiche e le stesse strutture militari andavano criticamente adeguate. Tutto fattibile, ma solo in tempi lunghi. Le Forze Armate erano l’unico strumento in grado di intervenire con immediatezza e dimostrare quella volontà di reagire che il mondo si attendeva. Ma, in mancanza di un nemico materiale, il problema era come impiegarle, dove e contro chi. Bush, intanto, aveva tratto il dado: il primo nemico era qualsiasi organizzazione statuale o meno che ospitasse i militanti della fantomatica al-Qaeda o concedesse loro di addestrarsi. È così che gli Usa incassavano il placet della Nato per l’applicazione dell’articolo 5 del Trattato, quello relativo alla difesa comune tra i Paesi membri. L’obiettivo era la distruzione dei campi di addestramento in Afghanistan e la rimozione del governo dei talebani, che aveva concesso l’ospitalità. Con questo attacco punitivo contro al-Qaeda iniziava così quella serie di operazioni militari contro il terrorismo che, sviluppate con l’assenso dell’Onu (Afghanistan, Iraq, ancora Afghanistan, Yemen, Siria e Libia), sono ancora di attualità. È stato utile tutto ciò? Difficile dire cosa sarebbe accaduto se non fosse stato fatto. Di certo è che gli errori sono stati molti – vedasi gestione politica del post-operazioni in Iraq, ingiustificato attacco alla Libia e sostegno non selettivo anti-Assad in Siria – e ciò ha lasciato un alone negativo sull’impiego delle Forze Armate in funzione anti-terrorismo. Si poteva fare di più? Probabilmente no. Ma oggi, con i risultati spesso disastrosi che abbiamo sotto gli occhi, possiamo affermare con certezza che si poteva fare di meglio.
Ground Zero, pulviscolo di cemento e ossa. La New York di allora tra bandiere a mezz'asta e arabi terrorizzati, scrive Paolo Guzzanti, Domenica 11/09/2016, su "Il Giornale". Mi telefonò Lou da New York: «Stai guardando la televisione?». Accesi. Era in fiamme soltanto la prima delle due torri. Quando la seconda nuvola di fumo e fiamme colpì al cuore la seconda fu chiaro che non era un incidente ma l'inizio di una guerra. Ormai un secolo fa, non soltanto 15 anni. Corsi a Manhattan col primo volo. I taxi, guidati quasi tutti da musulmani pakistani o arabi silenziosi e impauriti, erano tappezzati di bandiere americane. Case, negozi, scuole erano una fioritura di bandiere a mezz'asta e quella commozione profonda, sul filo del pianto eroicamente contenuto che noi europei deridiamo. Mi raggiungono le notizie con voce atona degli amici del padre della mia ex moglie, Lou, scomparsi con l'aereo che si era schiantato sul Pentagono. Ancora nessuno osava dire che era una messinscena hollywoodiana, come lo sbarco sulla Luna. George W. Bush, il neopresidente, era sotto shock. La politica che aveva annunciato entrando alla Casa Bianca era un po' isolazionista (l'America si fa i fatti suoi) e con intenzioni pacifiche, quasi edonistiche. Era chiaro a tutti che l'attacco dell'11 settembre 2001 era una dichiarazione di guerra, ma non si poteva dire per certo da chi fosse venuta. Al-Qaida era ancora la forza di Osama Bin Laden già divo del terrorismo, malgrado le buoni relazioni che la sua famiglia saudita aveva con gli americani. Ma i giornali, tutti i giornali, tambureggiavano la parola «War», guerra. Prima di decidere a chi muoverla Bush proclamò intanto lo stato formale di guerra. Le agenzie di sicurezza ebbero subito potere di arrestare e trattenere qualsiasi sospetto e interrogarlo con la brutalità necessaria. Pochi obiettarono. Tutti, democratici e repubblicani, volevano la linea dura. Gli Stati Uniti non sono un Paese che porge l'altra guancia. La sconfitta del Vietnam ancora bruciava, a destra e a sinistra. E ora questo attacco puramente simbolico, sanguinario ma simbolico, avrebbe fatto virare il corso del nuovo secolo. Quando leggiamo oggi le testimonianze degli americani musulmani di origine africana o araba, si sente l'angoscia di allora, si sentirono additati e disprezzati come complici degli assassini. Perché il Paese non prendesse una deriva razzistica anti islamica, Bush si precipitò nelle mille moschee di New York. Rassicurò, chiamò i musulmani «my fellow Americans». La reazione nel complesso fu contenuta, ma la tentazione della cacciata globale, se non del linciaggio ci fu. A Ground Zero tornai molte volte fino al 2010, finché restò nell'aria un pulviscolo sabbioso che scricchiolava sotto i denti. Quel pulviscolo conteneva tutto: cemento, acciaio, ossa, detriti degli aerei, occhi dei morti, le teste dei valorosissimi pompieri di New York, per la maggior parte di cognome italiano: quei giganti buoni che tornarono due e anche tre volte negli edifici in cui morirono. Rudolph Giuliani era il re di Manhattan, ma anche la sua Madre Teresa: una faccia scolpita nel gesso e nel fumo, esausto e carico di energia allo stesso tempo. Le foto sui muri. Bambini: Mamma dove sei? Dimmi che sei viva, ti aspettiamo. Adulti: bambini miei (foto sorridenti) papà ed io vi stiamo cercando, telefonateci. Tutti sapevano che quei genitori e quei bambini non sarebbero mai tornati. Scricchiolavano in frammenti atomici fra i denti, capelli e acciaio, nasi scarpe e vetri di finestre. Un'unica pasta unificata a 3mila gradi di calore e poi polverizzata e rimasta lì, nell'aria, per anni. Oggi cominciano a morire di cancro i soccorritori che hanno respirato a lungo quel veleno. I morti continuano, in una catena non meno crudele di quella di Hiroshima, ovunque le vite umane siano annichilite da una strage di massa nel terrore e nel fuoco. Oggi a Ground Zero c'è un museo meraviglioso. Ancora non l'ho visto ma tutti ne parlano con commozione perché è concepito come un percorso, alla maniera dei memorial come quello del Vietnam a Washington (anche quello pieno di cognomi italiani). La nuvola dell'apocalisse si è diradata, poi si è posata vetrosa e impercettibile sugli oggetti e sui raggi solari che l'hanno portata via. Da allora molte, troppe conseguenze. Le abbiamo sotto gli occhi e ci siamo quasi dimenticati delle Torri Gemelle, la Sarajevo di questa nuova guerra senza fine e senza vero senso, ammesso che le guerre ne abbiano mai uno.
L'11 settembre infinito: quella lezione non è servita. La loro vera arma è il lavaggio del cervello, ma noi per sconfiggere i tagliagole ci siamo alleati coi taglialingue, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 11/09/2016, su "Il Giornale". Quindici anni dopo il più clamoroso e sanguinoso attentato della Storia, che ha colpito al cuore della superpotenza mondiale abbattendo le due torri gemelle, simbolo dell'impero finanziario, bruciando vive circa 3mila persone, l'Occidente non ha ancora imparato la lezione più elementare: l'arma vera del terrorismo islamico non sono le bombe, i kalashnikov o le cinture esplosive, ma è il lavaggio di cervello. Perché quei 19 dirottatori votati al «martirio» islamico non erano armati. L'arma, che ha consentito loro di sequestrare quattro aereo e trasformarle in «bombe umane», era la la loro determinazione a morire per uccidere il maggior numero possibile di «miscredenti» e conquistare il paradiso di Allah. Così come l'Occidente non ha imparato che il singolo terrorista suicida-omicida è solo la punta dell'iceberg e che per vincere la guerra dobbiamo scardinare l'iceberg, non limitarci a scalfirne la punta arrestando ed espellendo solo se viene colto in flagranza di reato. Non abbiamo ancora capito che quando in mezzo a noi ci sono persone che sono state modificate mentalmente e affettivamente, al punto che con il sorriso sulle labbra ci dicono «così come voi amate la vita, noi amiamo la morte», è ormai troppo tardi, perché sono delle bombe umane pronte a farsi esplodere in ogni momento. La verità è che abbiamo paura di guardare in faccia alla realtà dell'iceberg, della «fabbrica del terrore», della filiera che partendo dalla predicazione d'odio, di violenza e di morte che avviene nelle moschee o nei siti che propagandano la guerra santa islamica, pratica il lavaggio di cervello, arruola, addestra militarmente, creando il terrorista islamico che sgozza, decapita, massacra e si fa esplodere. Questa paura ha a tal punto sopraffatto l'Occidente che, dal 2005, si è caduti nella trappola di immaginare che per sconfiggere i terroristi tagliagole ci si dovesse alleare con i terroristi taglialingue, che ci hanno imposto la sospensione dell'uso della ragione per legittimare l'islam come religione a prescindere dai suoi contenuti violenti, concedendo loro sempre più moschee. L'esito più catastrofico della paura dell'islam è l'irrompere di un terrorismo islamico autoctono ed endogeno, con terroristi islamici con cittadinanze occidentali che colpiscono all'interno stesso dell'Occidente per massacrare altri cittadini occidentali da loro condannati indiscriminatamente come nemici dell'islam. Mentre i 19 terroristi islamici dell'11 settembre 2001 erano cittadini arabi trasferiti negli Stati Uniti per colpire il nemico esterno, i terroristi islamici che dal 7 luglio 2005 si fecero esplodere nel centro di Londra sino a quelli che si sono fatti esplodere a Parigi il 13 novembre 2015, erano cittadini occidentali di fede islamica che hanno colpito dentro casa propria. Ma ciò che più di altro determinerà la nostra sconfitta in questa guerra dichiarata e scatenata dal terrorismo islamico globalizzato, è la vocazione al suicidio demografico promuovendo una folle autoinvasione di milioni di clandestini islamici, immaginandoli come la soluzione al tracollo della natalità della popolazione autoctona nell'Ue. Solo una classe politica irresponsabile ha consentito, 15 anni dopo l'11 settembre, la crescita del terrorismo islamico dei tagliagole, il radicamento del terrorismo islamico dei taglialingue, l'irrompere del terrorismo islamico autoctono ed endogeno, il dilagare dell'islamizzazione demografica.
Abbiamo ignorato la profezia di Ratzinger E ora l'islam è più forte. Dobbiamo prendere atto che i nemici della nostra civiltà sono molto più forti e l'Occidente è sempre più votato al suicidio, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 14/09/2015, su "Il Giornale". Quattordici anni dopo l'abbattimento delle due Torri Gemelle e nove anni dopo le polemiche seguite alla Lectio Magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona, che ricorrono l'11 e il 12 settembre e che sono passati alla storia come l'apice del successo del terrorismo islamico dei tagliagole e dei taglialingue, dobbiamo prendere atto che i nemici della nostra civiltà sono molto più forti. All'opposto, l'Occidente è sempre più votato al suicidio, dopo essere caduto nella trappola letale di chi s'illude che, alleandosi con i terroristi taglialingue, si possano sconfiggere i terroristi tagliagole. Se nel 2001 i terroristi islamici disponevano soltanto dell'Afghanistan come base sicura, in virtù dell'alleanza strategica di Al Qaida con i Taliban, oggi controllano direttamente dei territori nello «Stato islamico» sorto a cavallo tra la Siria e l'Irak, in Libia, Somalia, Mali, Yemen e Nigeria, così come sono in grado di destabilizzare Afghanistan, Pakistan, Tunisia, Egitto, Algeria e Indonesia. Mentre nel 2001 fu l'Occidente a promuovere l'offensiva contro Al Qaida, oggi assistiamo alla sconvolgente alleanza tra l'Occidente e il terrorismo islamico, sia quello dei tagliagole dell'Isis in Siria, sia quello dei taglialingue dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo. Persino dentro casa nostra, dove il terrorismo islamico è diventato autoctono ed endogeno, con la «produzione» di decine di migliaia di aspiranti suicidi nel nome di Allah con cittadinanza occidentale, e dove si consolida una «roccaforte islamica» che consta di moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici, tribunali sharaitici, centri studi e di formazione. Se nel 2006 Benedetto XVI ebbe il coraggio di denunciare la violenza intrinseca all'islam, prima dovette dissociarsi dalle parole dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo («Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai solo delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva a diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava»), poi fu costretto a pregare con il Gran Mufti Mustafà Cagrici nella Moschea Blu di Istanbul. Sempre nel 2006 l'Unione Europea vietò di usare il termine «terrorismo islamico», perché si incorrerebbe nel reato di offesa all'islam o di istigazione alla guerra religiosa. Per gran parte dei nostri mezzi di comunicazione di massa i terroristi islamici sono «miliziani fondamentalisti», «esercito dell'Isis», «insorti sunniti», «fondamentalisti sunniti», «jihadisti», «miliziani islamisti», «ribelli sunniti», «miliziani qaedisti», «gruppo integralista islamico» o. più banalmente. «assalitori», tranne che terroristi islamici. I leader occidentali si affannano a ripetere che l'islam è una «religione di pace». L'islamicamente corretto è diventato la camicia di forza che ci siamo auto-imposti nel contesto di una guerra in cui siamo oggettivamente perdenti. Il prossimo passo sarà la codificazione del reato penale di «islamofobia», in un Occidente dove si potrà criticare tutto e tutti tranne l'islam e Maometto. Nel frattempo si mettono a tacere gli avversari attraverso il «Jihad by Court», la «guerra santa islamica» tramite i tribunali, costringendoli a pagare fior di quattrini per denunce di diffamazione, fino a obbligarli a sottomettersi all'islamicamente corretto. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. È il Jihad, la guerra santa islamica, che da sempre mira a sottomettere il mondo intero al dio Allah e a Maometto. È ciò che descrivo e denuncio nel mio nuovo libro «Islam. Siamo in guerra», in edicola con Il Giornale e in libreria da sabato 19 settembre.
I convertiti all'islam sono più pericolosi. Il buonismo dilagante ci fa chiudere gli occhi davanti all'odio dell'islam, scrive Magdi Cristiano Allam, Giovedì 02/07/2015, su "Il Giornale". Non commentiamo l'errore madornale di sottovalutare la presenza in Italia di autoctoni convertiti all'islam e arruolati nel terrorismo islamico globalizzato, riducendolo a un fatto di cronaca, sicuramente eclatante, ma che si archivia dopo qualche giorno. Ricordo che quando nel 1999 rivelai da Londra la presenza di campi di addestramento alla guerra santa islamica sul territorio britannico, il fatto suscitò più incredulità che preoccupazione. Solo quando il 7 luglio 2005 quattro terroristi suicidi britannici, tra cui un convertito, si fecero esplodere nella metropolitana e nel centro di Londra, il governo di Tony Blair capì che aveva la guerra in casa e denunciò i predicatori d'odio annidati nelle moschee. Ebbene, dieci anni dopo dobbiamo prendere atto che l'Occidente non è più solo una “fabbrica” di terroristi islamici che vanno ad espletare la loro Jihad altrove nel mondo, ma è diventato esso stesso territorio di guerra santa islamica, dove la minaccia più insidiosa è rappresentata dagli autoctoni convertiti, proprio perché sono simili a noi, tranne il fatto di odiarci al punto da volerci sterminare o sottomettere per far trionfare lo “Stato islamico” dentro casa nostra. I convertiti all'islam, che incarnano il terrorismo autoctono e prefigurano la guerra santa endogena, sono il cavallo di Troia permanente, il nemico interno a cui noi accordiamo i diritti sanciti dalla Costituzione, illudendoci che potremo fermarli un attimo prima che perpetrino degli attentati, grazie ad una efficace azione di prevenzione come quella che ha portato all'arresto dei familiari di Maria Giulia Sergio, partita con il marito albanese per lo “Stato islamico” dell'Isis, anche loro convertiti all'islam. Al riguardo, l'islam è categorico. Maometto, secondo la narrazione di Abd Allah, ha prescritto che il sangue di un musulmano può essere sparso «nel caso in cui abbandoni l'islam (commettendo apostasia) e lasci la comunità dei musulmani» (Hadis, 9:83:17). Il nemico interno viene immediatamente eliminato. All'opposto, l'Occidente il nemico interno lo coltiva. La profonda crisi valoriale e identitaria è il terreno fertile che favorisce l'islamizzazione delle nostre società. Il relativismo religioso, promosso anche dalla Chiesa cattolica, nobilita l'islam elevandolo a religione di pari dignità del cristianesimo. Il buonismo dilagante nega qualsiasi nesso tra l'islam e i terroristi, favorendo la diffusione delle moschee e il proselitismo islamico. Una volta che varcano la porta dello “Stato islamico”, i nostri convertiti si vedono subito affidare i compiti più sporchi, sgozzare, decapitare, massacrare. Con le mani grondanti di sangue subiscono un trauma mentale ed affettivo che li marchierà a vita. Non illudiamoci che possano essere “recuperati” alla civiltà che esalta la sacralità della vita. Loro sono l'arma più insidiosa che ci sconfiggerà, dopo essersi trasformati in “bombe umane” dal lavaggio di cervello che subiscono nelle moschee o nei siti jihadisti, pronti ad esplodere in qualsiasi momento.
11 settembre, il ricordo dei bambini rimasti orfani. Sono cento i bambini nati a poche ore dagli attentati dell'11 settembre 2001. Hanno perso almeno un genitore nel crollo delle Torri Gemelle, scrive Marta Proietti, Sabato, 10/09/2016, su "Il Giornale". Sono oltre 3mila i bambini rimasti orfani dopo gli attentati che l'11 settembre cambiarono per sempre la vita di tutti noi. In particolare, i media hanno seguito la storia di quei cento bimbi nati nelle ore o nei giorni seguenti il crollo delle Torri Gemelle. Come Allison Lee, venuta alla luce due giorni dopo: suo padre Daniel era sul volo dell'American Airlines che doveva andare da Boston a Los Angeles, ma si schiantò su una delle torri alle 8,45. Daniel stava tornando a casa per stare vicino alla moglie in attesa del parto. "Sono la gioia, sono la consolazione, sono l'amore", dice Jenna Jacobs, il cui figlio Gabriel è nato una settimana dopo l'attacco. Oggi quei bambini hanno quindici anni ma, anche se non li hanno conosciuti, ricordano i loro genitori come degli eroi. Come Lauren McIntyre, venuta al mondo tre mesi dopo. Il padre era un poliziotto che si gettò all'interno della torre sud per cercare di aiutare le persone a fuggire. Lauren, che porta una collana al collo con la targhetta di riconoscimento del papà, lo ricorda così: "Non riesco a immaginare quanto coraggio ci voglia per entrare in una situazione come quella". Justin Strada era nato invece quattro giorni prima gli attacchi terroristici e quel giorno perse suo padre. Tom era stato vicino alla moglie Terry per due giorni, poi aveva deciso di tornare in ufficio. Ha raccontato la moglie: "Guardare in tv quello che stava succedendo fu pura e semplice tortura".
11/9, testimone racconta: "Sento ancora le urla..." Richard Loeb, newyorkese, era a Manhattan quell'11 settembre 2001, scrive Luca Romano, Domenica 11/09/2016, su "Il Giornale". "Ho ancora in testa i suoni delle sirene, le urla della gente, il frastuono del crollo delle torri, come se fosse successo cinque minuti fa. Invece sono trascorsi 15 anni...". Richard Loeb, newyorkese, era a Manhattan quell'11 settembre 2001. Ha visto il primo aereo schiantarsi contro la torre nord del World Trade Center, ha assistito all'arrivo dei soccorsi, ha respirato il fumo e la polvere che hanno circondato Lower Manhattan. "Una vera e propria Apocalisse nel mondo reale", ha scritto Loeb pochi giorni dopo l'attacco alle torri gemelle in un documento inedito di cui LaPresse è entrata in possesso e che, in esclusiva, racconta quei drammatici momenti. Quel martedì Loeb, all'epoca dipendente di una banca nel distretto finanziario di Manhattan, era in ufficio. "Ogni mattina - scrive - passavo sotto le torri del World Trade Center intorno alle 6.50, godendo della vista magnifica degli edifici di Lower Manhattan. Anche se le vedevo tutti i giorni, ogni volta restavo ammirato dalle torri, pensando che tutto il mondo le conosceva e io invece semplicemente 'passavo lì sottò". Poi, la notizia, alle 9. "Mia moglie Robin mi telefonò per chiedermi se stessi bene perchè, mi disse, un aereo si era schiantato contro una torre del World Trade Center. L'edificio in cui lavoravo è il più a sud di tutta Manhattan - spiega Loeb - a meno di un chilometro di distanza dalle torri. Scesi nell'ingresso e vidi che fuori c'erano fumo e detriti che, come coriandoli, cadevano ovunque". Richard decise così di tornare a casa ma, nel frattempo, un altro aereo aveva colpito la torre sud. "Capimmo così che eravamo sotto un qualche tipo di attacco". Arrivato sulla Broadway, Loeb racconta: "c'era polvere ovunque, si sentivano sirene di ogni tipo, la gente correva e piangeva. Molti sembravano essere appena usciti da un qualche tipo di disastro: avevano i capelli spettinati, i vestiti strappati, nei loro occhi si vedeva il terrore, alcuni piangevano, e tutti correvano". Arrivò davanti alla chiesa della Trinità. "Vedere il fumo e le fiamme innalzarsi, sapere che c'erano persone disperate ai piani superiori delle torri e, a quanto avevamo sentito, sul tetto, fece scorrere l'adrenalina nei corpi di tutti noi che osservavamo. Ma eravamo impotenti e frustrati". Loeb continua descrivendo una delle immagini più terrificanti dell'11 settembre: le persone imprigionate nelle torri che, nel vano tentativo di salvarsi, si lasciavano cadere dalle finestre. "Inizialmente non mi ero reso conto di cosa stessi vedendo, pensavo fossero strani detriti. Osservando una scena che si svolge a quasi 400 metri di altezza, a due isolati di distanza, una persona che precipita nel vuoto non appare subito agli occhi come un essere umano. La gente a terra strillava quando vedeva persone saltare giù". In quei primi momenti di confusione sembrò prevalere comunque l'ottimismo nella 'forzà americana. Loeb iniziò infatti a parlare con le persone vicine. "Alcuni dissero che nemmeno con degli aerei erano riusciti a far cadere le torri: “Ci hanno provato di nuovo”, dicevano, (riferendosi all'attacco del febbraio 1993, ndr). Credevamo che sarebbe bastata una pesante opera di ristrutturazione e le torri sarebbero tornate presto". Ma bastò una frazione di secondo per cancellare ogni sorta di ottimismo, di speranza. La parte superiore della torre nord si inclinò leggermente verso sinistra e "come in una scena al rallentatore, precipitò in basso.... Il terreno tremò, il suono che accompagnò il crollo fu qualcosa che mi perseguiterà per sempre. Non fu come sentire una serie di esplosioni, sembrava più un pesante tamburellare metallico, come quello che si sente durante un temporale prima che un forte tuono si abbatta a terra, o come quello di un treno della metropolitana in transito. Finì con un forte rombo, confuso e soffocato. Ora si potevano di nuovo sentire le persone che urlavano mentre correvano via, e le sirene...tutte quelle sirene. Era una vera e propria Apocalisse nel mondo reale". L'onda d'urto di fumo e detriti che si sprigionò dopo il crollo travolse la zona circostante. Loeb si nascose dentro la filiale di una banca. "Ero coperto di una polvere che non avevo mai visto prima: appiccicosa, acida, inconsistente - spiega Loeb - Ce l'avevo dappertutto: nel naso, negli occhi, in bocca, nelle orecchie, sopra e sotto i vestiti. Guardando fuori dalle finestre sembrava che fosse notte, con un turbine di pesante polvere grigia che mulinava intorno". Un quarto d'ora dopo il pavimento tornò a tremare: era la seconda torre che crollava. Trascorsero due ore di paura e di attesa. Poi la Guardia Nazionale iniziò le operazioni di evacuazione. "Le strade erano praticamente deserte, non c'erano sirene né altri suoni, tutto era attutito come quando si cammina durante una fitta nevicata - ricorda Loeb - Il contrasto tra i suoni e gli eventi incredibili di poco prima era qualcosa da ricordare. Le urla, i pianti, le sirene, tutto taceva. In quel momento ero in una città abbandonata, tutto era stato congelato e zittito dal crollo delle torri. Fu l'esperienza più incredibile, surreale, fisica, mentale ed emotiva che una persona possa mai immaginare". Loeb impiegò sei ore e mezza prima di arrivare a casa, a New City, sobborgo di New York. "Tra le braccia di mia moglie e dei miei figli ho pensato a tutto quello che era successo: le sirene, i suoni, il silenzio, le sofferenze, e la follia. Sapevo che non avrei mai più potuto essere lo stesso dopo quel giorno".
Lottare per la libertà: il grande compito che ci ha lasciato la Fallaci. La nostra editorialista, amica della scrittrice, la ricorda tra passioni politiche e vita privata, scrive Fiamma Nirenstein, Domenica 11/09/2016, su "Il Giornale". È ormai diventato quasi un luogo comune ripetere che l'Oriana aveva ragione. Ci si stupisce, con tante polemiche, tanto scandalo, tanta persecuzione. Forse adesso il coro di stupefatto di rimpianto e ammirazione generale diventa un impedimento a identificarla pienamente come una scrittrice e una mente poliedrica e profonda. Tutte le guerre di Oriana erano guerre sante e ben condotte, non solo quella all'Islam e al terrorismo. Piccola, con quei vestiti da signora fiorentina, la gonna scozzese e il twin set, e pronta nell'armadio, fino all'ultimo, la tuta Kaki per partire «embedded» su un carro armato non c'era angolo dell'universo politico in cui Oriana non agitasse la sua fiaccola scintillante, trascinando l'interlocutore in un labirinto di idee in cui lei si offriva generosamente come guida, capo supremo, sacerdote. Oriana faceva venire il cardiopalma, ti eccitava, ti sgridava, ti lodava: a me lo fece venire letteralmente, una notte prima di una mia visita finii al pronto soccorso cardiaco a New York. Dopo l'11 di settembre ero diventata uno dei suoi interlocutori su Bin Laden e in genere sull'Islam, spesso mi chiamava in Israele alle due di notte con una domanda improvvisa. La vita pratica, specie durante la malattia che durò 15 anni, le era di impaccio al volo ideologico continuo che lei puntigliosamente nutriva di cultura, citazioni, nomi e date. Era consapevole di essere graziosa, sempre con la virgola nera sui begli occhi. Un giorno andò perduto il caviale beluga: «L'avevo comprato per te, dov'è? Dove l'ho messo... eppure deve essere in frigorifero...» No, in frigorifero l'Oriana non l'aveva messo. L'aveva cacciato nel cassetto delle posate il giorno avanti... e così, addio, era andato a male, e mi preparò due ottime uova al tegamino. Lei rise e si arrabbiò. Si arrabbiava sempre di più per i tradimenti, le minacce, la sofferenza del cancro che ormai, e se ne pentì, non curava quasi più perché correva verso l'appuntamento impostole dalla storia: essere la profetessa dell'invasione islamica e la fustigatrice nella neghittosità occidentale. I tre piani della casa browstone al 222 della 61esima erano per quanto possibile la succursale (e viceversa) della magione vicino a Greve in Chianti dove si rifugiava anche a costo di quel maledetto viaggio aereo, così lungo senza sigarette. Anche la sigaretta era per lei un apologo di libertà, nessuno doveva romperle le scatole mai, in niente, anche se e quando le faceva male. Così va letta Oriana, come una leader e anche un'enciclopedia nella sempiterna guerra per la libertà, come donna e come cittadino; anche tutta la sua ultima guerra contro l'Islam militante che ci vuole soggiogare, contro Eurabia, contro la vigliaccheria del politically correct che si rifiuta di coniugare la parola Islam con «violenza» e tantomeno con «terrorismo» è tutta contro i lacci del totalitarismo che opprime le donne e la libertà di pensiero e di religione. Libertà è la parola chiave. Senza questo valore così specifico, così occidentale la vita non vale la pena di essere vissuta. Il nemico non è solo l'Islam che vuole sottometterci, ma quello che è nazi fascista come diceva lei. Aveva fatto la resistenza da staffetta, quasi bambina, portando armi e messaggi, aveva visto morire i suoi amici ed era rimasta partigiana e patriota. E benché vivesse ogni nemico come nazi fascista la sua vis rivoluzionaria lei la viveva in maniera del tutto irrituale, dato che davvero non era di sinistra, e tanto meno comunista. Anzi, i comunisti la rivoltavano, da Pol Pot ai russi totalitari: li minacciava di «prenderli a calci nel culo», come diceva con vezzo toscano. Oriana sfoggiava una incantevole scrittura fiorentina (teneva tre dizionari sul tavolo, curava spasmodicamente la punteggiatura) e esibiva la sua attitudine da dura, sembrava una John Wayne alla fiorentina, da «antica signora» e da guerriera. Firenze e America: erano i suoi due poli geografico-ideologici: «...Fiorentina parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All'estero quando mi chiedono a quale Paese appartengo rispondo: Firenze. Non Italia». E per quella Firenze si precipitò come un San Giorgio contro il drago, per difendere Santa Maria del Fiore, il campanile di Giotto, la torre del Mannelli dove aveva combattuto i tedeschi col padre e dove voleva «morire in piedi come Emily Bronte». È a Firenze in realtà che comincia la sua lotta contro l'invasione islamica, a seguito dell'occupazione da parte di immigrati somali dello spazio sacro fra il Duomo e il Battistero, fra il Campanile di Giotto e la Porta del Paradiso del Ghiberti. Oriana lotta con le unghie e con i denti contro il sacrilegio e contro i vigliacchi pusillanimi e stupidi che non lo impediscono: «L'arcivescovo che non si pronuncia, i turisti che si sorprendono, i cittadini che si offendono». Quello che la Fallaci otterrà dalla difesa della sua città sarà il rifiuto di attribuirle il riconoscimento del Fiorino. Una vergogna. Qui comincia la strada di Oriana che trova tutto il suo significato nella Rabbia e l'Orgoglio e La Forza della ragione, la sua impavida resistenza al politically correct che diventa poi minaccia di morte. Dalla nuova ferita a ciò che ama, cioè agli Stati Uniti con le Twin Towers, Oriana trae la determinazione ad andare a fondo anche nell'approfondimento del tema Islam. È stato colpito il suo amore, perché l'America è libertà: «Se non si fosse scomodata a fare la guerra a Hitler e a Mussolini oggi parlerei tedesco... se non avesse tenuto testa all'Urss oggi parlerei russo... È un paese da invidiare perché nasce dall'idea della Libertà sposata a quella dell'Uguaglianza. Non ne parlavano nemmeno i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, dato che sarebbe cominciata nel 1789, ossia tredici anni dopo la Rivoluzione americana, che scoppiò nel 1776». Oriana pensava che Firenze fosse la città più bella del mondo, che gli Usa fossero la nazione più entusiasmante, che il suo mestiere fosse il più significativo, il suo amore per Panagulis il più alto e poi disperato dopo la morte, le sue battaglie quelle senza le quali un uomo non è un uomo. Si chiama identità, un dono sublime, e anche lotta senza quartiere per difenderla quando sia minacciata, significa sapere, un po' sfacciatamente, cosa si è e per che cosa si vive e quanto costa. Ha descritto tutto questo per filo e per segno, e ha denunciato il terribile sforzo di andare valorosamente fino in fondo studiando e riportando quel che vedeva anche mentre stava morendo. Da giornalista, da scrittrice. Da Oriana, l'unica.
11 settembre 2001, 15 anni dopo chi ha capito la verità sugli attacchi? Scrive Gianluca Ferrara l'11 settembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Gianluca Ferrara. Saggista e direttore editoriale di Dissensi Edizioni. L’11 settembre di 15 anni fa gli Stati Uniti D’America subirono l’attentato più grave della loro storia. Era dal 1815 che non ricevevano un attacco sul proprio territorio. Nel 2001 due aerei si schiantarono contro le Twin Tower al World Trade Center di New York, un altro aereo colpì il Pentagono e un altro ancora, secondo la versione ufficiale, precipitò in Pennsylvania dopo che alcuni passeggeri tentarono di fermare i terroristi. All’indomani degli attacchi dell’11 settembre il grande shock per il popolo americano fu capire il perché una nazione buona e innocente fosse stata colpita con tale violenza. Era inverosimile immaginare che, come lo definì George W. Bush, “il faro più luminoso della libertà” fosse stato attaccato. Questo perché la gran parte degli statunitensi (ma degli occidentali in generale) vivono in una bolla mediatica che distorce la realtà e fa credere loro fin dalle scuole primarie di vivere nel “mondo libero” quello dalla parte giusta della storia. Ma è davvero così? Pochi giorni fa, dopo aver pubblicato un video messaggio intitolato Usa: l’impero più brutale della storia ho capito, dai tanti commenti ricevuti, che sempre più persone non credono alle tesi narrate dai principali organi mainstrean. In Italia è sempre più forte una richiesta d’indipendenza che, dopo 70 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e quasi 30 dalla caduta del muro di Berlino, sarebbe già dovuta iniziare da tempo. Nel nostro Paese sta maturando una domanda d’indipendenza e di vera sovranità che va ascoltata. A esclusione dell’episodio di Sigonella dell’ottobre 1985, l’Italia si è sempre tenuta al ruolo di fedele periferia dell’impero statunitense. Dopo il secondo conflitto mondiale e quelle atroci e inutili sofferenze inflitte ai civili giapponesi, la politica estera Usa ha mirato a occupare territori, attaccare paesi sovrani per imporre le proprie corporation e piazzare brutali dittatori. Si pensi a Somoza in Nicaragua, Pinochet in Cile, Suharto in Indonesia, Reza Pahlavi in Iran, Carlos Castillo Armas in Guatemala e Numumba in Congo. Dopo il 1945 gli Usa sono diventati un’economia di guerra intraprendendo un percorso di colonizzazione che secondo André Vtchek ha causato la morte diretta di almeno 50 milioni di persone. Dei 19 dirottatori dell’11 settembre nessuno era afgano o iracheno, ben 15 erano sauditi eppure gli Usa, legati economicamente all’Arabia Saudita, non fecero alcuna rimostranza verso questo regime a cui anche il nostro Paese vende armi; armi che di recente sono usate nel conflitto in Yemen che ha già ucciso 4000 persone. Non è mia intenzione avanzare ipotesi su chi sia stato e perché fu effettuato l’attacco dell’11 settembre. Una mia convinzione è che nel mondo non si muove una foglia se non ne sono a conoscenza preventivamente i servizi segreti Usa. A maggior ragione credo che sia impossibile che non ci fosse consapevolezza che fosse in programma un attentato di tale portata sul suolo americano. Sta di fatto che dopo quel terribile attentato in cui morirono 2974 persone il governo di George Bush ebbe un pretesto perfetto per proseguire il piano fissato nel 1990 di destabilizzare e poi controllare le fonti energetiche del Medio Oriente. Dopo il nemico comunista ne serviva subito un altro per giustificare gli ingenti fondi all’ipertrofica macchina bellica. Bin Laden ritenuto responsabile degli attentati era lo stesso combattente che, insieme a tanti jihadisti, fu definito da Ronald Reagan “Combattente per la libertà” allorquando la guerra santa fu armata e finanziata dagli Usa per fermare l’avanzata sovietica in Afghanistan. Bin Laden fu, secondo la versione governativa, ucciso il 2 maggio del 2011 durante un intervento di forze speciali denominato Operation Neptune Spear. Osama Bin Laden si nascondeva in un compound di Abbottabad in Pakistan, nell’assalto fu ucciso lo sceicco saudita suo figlio e altri tre abitanti della casa. Il corpo di Bin Laden fu portato via e gettato nell’oceano. L’uccisione di Bin Laden può essere equiparata a un raid malavitoso, non di certo a un’operazione compiuta da un governo che si reputa il faro della democrazia mondiale. Bin Laden era disarmato e persino i nazisti dopo il secondo conflitto mondiale ebbero diritto a un processo. Ma oggi a 15 anni di distanza da quel terribile giorno in quanti hanno capito la correlazione con la politica estera Usa? Quanti sono davvero a conoscenza delle atrocità commesse dalla macchina bellica statunitense? In quanti hanno davvero compreso che la democrazia Usa in realtà è un’oligarchia composta da grumi di potere che fissano una politica estera aggressiva che continua a mettere a repentaglio la sicurezza dei più per tutelare i propri interessi?
11 settembre, ecco tutti quelli che non credono alla versione ufficiale. Professionisti, scienziati, familiari, registi: chi sono coloro che non credono che quello che è stato raccontato sull'11 settembre corrisponde a verità, scrive il 10 settembre 2016 Mirko Bellis su "Fanpage”. L’attacco al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 ha prodotto nel corso degli anni tutta una serie di teorie alternative alla versione ufficiale. Il rapporto della Commissione del Congresso degli Stati Uniti – incaricata dal presidente George W. Bush di fare luce sul peggior attentato della storia recente – ha suscitato fin dalla sua uscita le critiche di chi non crede a quella ricostruzione dei fatti. Le modalità con cui venne realizzato l’attentato – mai prima di allora dei dirottatori avevano compiuto una missione suicida contro degli obiettivi civili – le reticenze delle autorità americane e i misteri che gravitano attorno ad ogni evento di questa portata, hanno indotto molte persone a sostenere che l’11 settembre fu frutto di un complotto. Uno dei primi a realizzare una inchiesta-documentario fu Micheal Moore con il suo Fahrenheit 9/11, vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes nel 2004. Moore esamina le complesse relazioni fra il governo statunitense e la famiglia Bush con il clan dei bin Laden, il governo saudita, i talebani, nell'arco di oltre trent'anni. Moore afferma che, nei giorni immediatamente successivi all'attentato, ventiquattro membri della famiglia bin Laden, presenti negli Stati Uniti, sarebbero stati segretamente evacuati senza essere sottoposti ad alcun tipo di indagine. A finire sotto la lente del regista fu anche la reazione del governo americano. Bush e i falchi Neocons che componevano il suo esecutivo (Rice, Cheney e Rumsfeld) individuarono subito il cosiddetto Asse del male del quale faceva parte anche l’Iraq di Saddam Hussein, assolutamente estraneo all'attentato. Nel 2013, gli Usa – con l’accusa, poi rivelatasi falsa, della possessione di armi di distruzione di massa da parte del regime di Baghdad – diedero inizio all'invasione dell’Iraq. Nel corso di questi quindici anni sono nate molte associazione negli Stati Uniti che hanno chiesto una riapertura delle indagini. Tra queste c’è il Family Steering Committee (Fsc) composto dai familiari delle vittime dell’attentato. Nell'autunno del 2001, i membri del Fsc iniziarono il primo di una serie di viaggi a Washington per chiedere un'indagine indipendente sugli attacchi terroristici dell’11 settembre. Il Fsc ottenne il sostegno bipartisan di importanti senatori come John McCain, del partito repubblicano, e Joseph Lieberman, per i democratici. Per niente soddisfatta dei risultati della Commissione Congressuale, l’associazione inviò nel 2004 cento domande ai massimi rappresentanti delle istituzioni degli Stati Uniti, tra cui l’ex presidente Bush, il segretario di Stato Condoleezza Rice e il direttore della Cia, George Tenet. I familiari delle vittime volevano sapere, tra le altre cose, perché la nazione fosse così impreparata ad un attacco o chi avesse approvato il volo della famiglia Bin Laden fuori degli Stati Uniti, quando tutti gli altri voli commerciali erano stati sospesi. Moltissime delle domande dell’associazione non hanno mai avuto nessuna risposta da parte dell’amministrazione Bush e le poche in cui si sono espresse le autorità non sono state considerate soddisfacenti da parte dei familiari delle vittime. A non credere alla versione ufficiale dei fatti di quel tragico 11 settembre, ci sono anche varie associazioni di ingegneri, architetti, piloti d’aereo e vigili del fuoco. Questi professionisti, ciascuno nel proprio campo, non accettano le conclusioni della Commissione Congressuale e chiedono un’investigazione indipendente. A sollevare dubbi sull'uso spregiudicato che l’amministrazione Bush fece dell’attentato non sono mancati neanche ufficiali di alto grado dell’esercito americano, come il generale Wesley Clark. Quello che fu il comandante delle forze Nato durante la guerra in Kosovo, durante un’intervista del 2007 a Democracynow, disse che guerre che seguirono agli attentati dell’11/9 erano state pianificate ben prima. L’obiettivo di attaccare l’Iraq e altri Paesi – secondo la tesi del generale – rientrava in un disegno già prestabilito. Nell'elenco dei “complottisti”, il gruppo 911truth (Verità per l’11 settembre) – che comprende membri sparsi in tutto il mondo – accusa apertamente il governo americano di mentire. L’attacco – sostengono – sarebbe stata opera di elementi all'interno dell’amministrazione degli Stati Uniti che in qualche modo hanno orchestrato o partecipato all'esecuzione degli attentati. L’obiettivo di questo gruppo è di raccogliere tutti i documenti e le prove per rovesciare la storia ufficiale. Secondo 911truth, l’attentato sarebbe stato il pretesto usato dal governo americano per scatenare le guerre in Medio Oriente e per ridurre le libertà civili negli Usa. Solo un mese dopo dagli attacchi terroristi, fu approvato dal Congresso il Patriot Act, una legge federale che rinforzava il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi, limitando pesantemente anche la privacy dei cittadini. A cercare di diffondere la tesi alternativa ci ha provato anche il milionario Jimmy Walter autore di Confronting the Evidence, un documentario mandato in onda anche in Italia nel 2006 dalla trasmissione Report di Raitre. Walter ha affermato: “Nessuna persona obiettiva può esaminare l'assenza di rottami al Pentagono e il crollo dell'edificio 7 del WTC senza rendersi conto che c'è qualcosa di terribilmente sbagliato nella versione ufficiale”.
11 settembre 2001: Siems racconta gli errori americani. Finte confessioni, manipolazione pubbliche, segreti inconfessabili. Perché la guerra al terrore Usa non ha funzionato. Parla l'editore di Guantanamo's Diary, scrive Gea Scancarello l'11 Settembre 2016 su “Lettera 43”. Pochi minuti dopo la fine della nostra conversazione, Larry Siems salirà su un palco e racconterà – ancora una volta, l'ennesima, ma con lo stesso sgomento della prima – come un uomo qualunque possa lasciare casa propria dopo una normale giornata di lavoro, convinto di andare in commissariato per un interrogatorio di routine, ed essere invece caricato su un aereo segreto, picchiato selvaggiamente, spostato in varie carceri mediorientali fino a trovarsi incatenato mani e piedi dentro all’orrore di Guantanamo, dall’altra parte del mondo. E come quell'uomo sia costretto ad attendere cinque anni, senza alcuna imputazione, prima di poter parlare con un avvocato, tra torture quotidiane, violenze sessuali, umiliazioni di ogni genere. E poi altri otto, anche quando aguzzini e carcerieri sanno perfettamente che la ragione per cui è stato portato lì dentro è falsa: non è un terrorista, non ha alcun legame con gli attentatori dell’11 Settembre, non frequenta membri di al Qaeda. La storia è quella di Mohamedou Slahi, (allora) giovane della Mauritania e autore inconsapevole di Guantanamo Diary (in italiano 12 anni a Guantanamo,edito da Piemme): 400 pagine di appunti giornalieri, dettagliati e persino ironici, scritti per restare umano dentro alla meno umana delle prigioni. Il governo americano li ha requisiti e secretati per anni, finché gli avvocati di Slahi hanno vinto la battaglia legale, sono riusciti a ottenerli e a passarli a Larry Siems, giornalista, attivista dei diritti umani ed ex direttore del Freedom to Write and International Programsdel Pen, l'associazione degli scrittori americani per la libertà d'espressione. Siems, con la consapevolezza dell’enormità del compito che gli era stato affidato, li ha editati e trasformati in un libro uscito nel 2015, che Slahi non ha mai potuto vedere: è infatti ancora rinchiuso a Guantanamo. Il quindicesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, e della cosiddetta lotta senza quartiere al terrorismo, coincide con il 15esimo anno della sua detenzione illegale. Nel luglio scorso, un giudice ha stabilito che potrebbe essere tra i prossimi rilasciati e, nell’attesa che succeda, Siems e il fratello di Slahi girano raccontando a un’Europa sconvolta dalla nuova ondata di attentati come e perché non cedere agli errori e agli orrori di altre Guantanamo. «La violazione dei diritti umani, la tortura, il rinunciare ai nostri valori fondanti in nome di una presunta sicurezza è un danno che facciamo a noi stessi grande almeno quanto quello che ci fanno i foreign fighter o chi tortura a Raqqa», spiega Siems. Larry Siems, co-autore del libro 12 anni a Guantanamo.
DOMANDA. La sensazione però è che, al di là della retorica ufficiale, l'urgenza sia trovare una qualsiasi soluzione per arginare il terrorismo, più che il rispetto dei valori fondanti.
RISPOSTA. Potrei rispondere con la citazione di Benjamin Franklin che anche Mohamedou propone nel libro: «Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza».
D. Eppure è stata la strada scelta proprio dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001, in nome della «guerra al terrore».
R. La reazione americana è stata sostanzialmente questa: prendi le tue certezze, i tuoi valori, le cose su cui hai fondato la tua storia e mettile da parte. Le extraordinary rendition, la sorveglianza di massa, le detenzioni preventive di cui Guantanamo è il più terribile esempio sono una sospensione totale della cornice legale e delle consapevolezze umane e giuridiche costruite in secoli.
D. Nonché una violazione di trattati internazionali, per esempio quello contro la tortura sui prigionieri di guerra.
R. Abbiamo torturato come fanno i terroristi a Raqqa, come fanno i regimi che hanno paura e vogliono una risposta qualsiasi subito: non giusta, non vera, ma una risposta. È un compromesso che non andava accettato. Tornare indietro poi è molto difficile.
D. Un compromesso utile, almeno?
R. Prendiamo il caso della sorveglianza di massa. Dicono quelli che sono incaricati di scavare nelle informazioni raccolte che l'accumulo mostruoso di dati sia controproducente, che rende il loro lavoro più difficile, che è più complicato isolare quello che è realmente importante.
D. E nella prevenzione del terrorismo? C'è un fil rouge tra l'11 settembre, Guantanamo e i recenti attentati?
R. Non è facile rispondere, ma pensiamo agli ostaggi dell'Isis con le stesse tute arancioni dei detenuti di Guatanamo: il segnale è chiaro. O prendiamo lo studio del Senato Usa sul programma di detenzione e di interrogatori della Cia: ha rivelato che le confessioni estorte ai detenuti sono state svianti per l'antiterrorismo. Poi c'è la consapevolezza che Al Baghdadi, il capo dell'Isis, fu detenuto nel carcere 'speciale' di Abu Ghraib...
D. I programmi speciali non erano poi così speciali, insomma.
R. Le nostre detenzioni illegali e le nostre violenze hanno minato l'impegno degli Stati Uniti nei confronti del rispetto della dignità e dei diritti umani. E nel momento in cui abbiamo consentito ad altri di questionare la nostra serietà nei confronti della libertà abbiamo contribuito a creare una animosità generale.
D. Eppure, nell'Europa sconvolta dagli attentati dell'Isis, sono molti a pensare che ci vorrebbe una Guantanamo anche qui per prevenire i rischi.
R. Non so ovviamente quale sia il bilanciamento perfetto tra libertà e sicurezza, ma penso che il libro di Mohamedou riporti la questione alla sua essenza. Stiamo parlando di individui, di persone, di diritti umani e civili di base: i problemi del terrorismo non si risolvono prendendo un sacco di gente e consentendo ogni genere di abusi.
D. Qualcuno risponderebbe che anche non farsi ammazzare in un teatro parigino o lungo la passeggiata di Nizza è un diritto.
R. Questa è un'argomentazione consumata, vecchia, già morta. È frutto di una manipolazione, simile a quella per cui in America ci hanno convinto che i 798 detenuti a Guantanamo fossero le persone peggiori, le più cattive del mondo, l'incarnazione del male. I politici si sono fatti forti maltrattando gente che non hanno saputo riconoscere. Infatti la maggior parte di queste persone sono poi risultate totalmente estranee ai fatti: nel frattempo però non solo sono state distrutte le loro vite, ma anche quella delle loro famiglie, minando pericolosamente un intero tessuto sociale.
D. È per via di questa manipolazione che negli Usa non c'è mai stato un movimento davvero serio contro Guantanamo e certe sospensioni della legalità?
R. Penso che sia un insieme di fattori. A partire dalla segretezza: non è un caso che quella prigione sia stata realizzata a Cuba. L'hanno messa lontana, inaccessibile, tutto quello che succedeva era impossibile da sapere. Con il tempo alcune cose sono venute fuori, il diario di Mohamedou in questo senso ha aiutato moltissimo, ma penso che almeno quattro quinti delle cose rilevate nello studio sui programmi della Cia non saranno mai rese note.
D. Il libro di Mohamedou Shali, che lei ha editato, è pieno di omissis e di parti secretate. I nomi di certi aguzzini e responsabili però prima o poi verranno fuori. Cosa succederà allora? Sarà come quando i funzionari nazisti dissero che si limitavano a eseguire ordini?
R. Questo è un ottimo punto. Io penso che Mohamedou, e molti altri detenuti, siano rimasti dentro tutto questo tempo proprio perché non facciano i nomi: Guantano oggi esiste non per proteggerci dal terrorismo, ma per mantenere segreti. E mi amareggia sapere il danno fatto non solo ai sequestrati, ma anche agli americani: violando la loro comprensione di quello che è giusto e di quello che non lo è.
D. Il giudice ha stabilito di recente che Mohamedou potrà forse uscire. Cosa succede una volta fuori?
R. Questa è una cosa strana, perché a persone a cui è stato tolto tutto non resta che una cosa: il perdono. Molti ex detenuti hanno dimostrato questa attitudine, dopo aver avuto una capacità incredibile ed eroica di resistenza. Nonostante le loro famiglie abbiano subito condizioni di stress estremo e siano state caricate di uno stigma che ha portato alla lacerazione del tessuto sociale che stava loro intorno. Sarebbe giusto che gli Stati Uniti – ai quali nessuno comunque potrà chiedere i danni – chiedessero almeno scusa, che si prendessero la propria responsabilità nell'errore immenso che sono stati Guantanamo e tutti i programmi speciali inaugurati dopo l'11 settembre.
D. Invece?
R. Invece non c'è alcuna accountability, alcuna assunzione di responsabiltà. E il fatto che gli americani non abbiano mai pubblicamente ammesso l'errore e non abbiamo mai chiesto scusa, aumenta la percezione distorta degli europei, che ora sono tentati di imboccare soluzioni simili.
D. Obama aveva promesso che avrebbe chiuso Guantanamo, e non l'ha fatto. E la sua amministrazione ha invece confermato alcuni programmi.
R. Ci sono molte lotte, nell'Amministrazione, tra la Cia e il Pentagono, nel Congresso stesso. Penso che questi scontri abbiano impedito al presidente di chiudere Guantanamo come aveva detto. Ma lo ammiro molto, perché ha comunque cercato delle strade per riuscire a far uscire chi non doveva trovarsi lì. Ha ordinato udienze, revisione dei casi, ha stretto accordi con i Paesi perché i detenuti potessero tornare a casa. E anche così, pur nella consapevolezza acclarata che si stavano liberando innocenti detenuti illegalmente per oltre un decennio, a ogni ondata di rilasci i repubblicani tuonavano: «Stiamo rimettendo in libertà pericolosi terroristi...».
IL TERRORE TRA NOI. L’11 settembre e la paura Isis, scrive Toni Capuozzo l'11/09/2016 su “Il Tempo”. Vanno al liceo, o al college. Nel mondo c'è una generazione che è nata dopo quell'11 settembre del 2001. Come spiegare loro quello che significò quel giorno, per noi che accendemmo le televisioni, e assistevamo a qualcosa che non poteva essere vero? Non possiamo spiegarglielo, continuiamo a conservare solo spezzoni di immagini: l'aereo che si conficca nella seconda torre, le figurine delle persone che si lanciano nel vuoto, i volti dei vigili del fuoco, la polvere. In quindici anni molte cose sono cambiate: Bin Laden è stato ucciso e la sua salma nascosta per sempre, i talebani non governano più l'Afghanistan, sono morti Saddam e Gheddafi, Al Qaeda ha perso la sua supremazia nel mondo del fondamentalismo cedendola a un gruppo, se possibile, ancora peggiore. L'America ha, da allora, contato più vittime per sparatorie folli che per attentati terroristici, è stata guidata da un presidente nero, ed è diventata riluttante a mettere i piedi dei suoi soldati in un mondo confuso, preferisce la guerra asettica, un po' sdegnosa e un po' prudente, dei droni. L'Europa, che quindici anni fa assistette sgomenta a quello che succedeva nel World Trade Center, ma con l'angoscia di uno spettatore risparmiato dalla minaccia, ha dovuto contare i suoi morti, da Madrid a Parigi, da Bruxelles a Londra. I leader europei ci ripetono: siamo in guerra. Tra cinquanta o cento anni, quando nei libri di storia verrà raccontata, questa guerra, sarà risparmiata agli studenti la memorizzazione delle date: è una guerra che non ha una data d'inizio - c'erano già stati attentati alle ambasciate americane in Africa, gli stessi giochi olimpici di Sidney 2000 avevano convissuto con le minacce di uno sconosciuto saudita di ricca famiglia - e non avrà mai una data certa che possa essere definita la fine della guerra. Forse sceglieranno quell' 11 settembre di quindici anni fa come data atrocemente simbolica di un secolo che, chiuso il precedente con la dissoluzione dell'impero sovietico e le guerre etniche, si inaugurava smentendo ogni illusione, regalandoci le guerre sporche, il terrorismo internazionale, gli attentati. E allora, la stiamo vincendo, questa guerra? Lo Stato Islamico perde pezzi, certo. Ma non possiamo fare a meno di interrogarci sul futuro di migliaia di manovali del terrore sparsi per il mondo e in guerra con il mondo, un'armata di zombie che, perso il suo ridotto, entrerà nella clandestinità, e forse accanto a noi. Ecco, non è un caso che sia l'Isis a ricordare l'anniversario dell'11 settembre più ancora di quel che resta di Al Qaeda. Da Raqqa hanno fatto un appello ai lupi solitari perché entrino in azione proprio oggi, e lo condiscono appropriandosi delle immagini del World Trade Center e mettendo Bin Laden nella galleria dei loro cattivi maestri. Lo Stato Islamico si sta preparando - perdonateci l'aspro neologismo - ad alqaedizzarsi, a rendere carbonare le proprie strutture di massa. Possiamo consolarci pensando che stanno per perdere Sirte, che finalmente Russia e Stati Uniti un qualche accordo sulla Siria l'hanno trovato, e i francesi hanno fermato un commando femminile armato di bombole di gas? No: ci sono minori addestrati a uccidere che viaggiano verso le nostre rive ingenue, ci sono gas sarin e nervino preparati per riempire altre bombole, e i folli del fondamentalismo non sono più cellule di rampolli sauditi annoiati, ma elenchi senza fine di gente nata in Europa: il Belgio dice di temere il ritorno in patria di 200 tagliagole. Vedremo se succederà qualcosa oggi, ma comunque sia, quindici anni dopo, non possiamo permetterci il lusso di ricordare in una quiete dolorosa ma sicura. A quei ragazzi che non erano ancora nati possiamo solo dire che è stato risparmiato loro un passato duro, ma il futuro non appare migliore. Sappiamo che c'è chi continua a morire per le polveri respirate sul Ground zero. Noi continuiamo a vivere, ma il fiato, a guardare in faccia la realtà, a guardare l'America che non ha cancellato il nemico con Bush ma neanche con Obama, a vedere l'Europa che frana proprio sotto la spinta delle migrazioni, a registrare la morte, con le primavere arabe, di tante illusioni, il fiato è sospeso. Toni Capuozzo
Il delirio del sito islamista: "Il sisma punizione di Allah". "Sì all'Islam in Italia" è seguito da 43mila persone: "Un segno per convertire i peccatori". E fioccano le adesioni, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale". Non c'è solo la spiegazione scientifica dei sismologi e dei geologi, c'è anche l'interpretazione islamica sulle vere ragioni del terremoto che ha devastato il centro Italia. La teoria arriva da un sito di musulmani residenti in Italia, «Sì all'Islam in Italia», che conta più di 43mila seguaci su Facebook. «Indubbiamente i terremoti che stanno accadendo in questi giorni sono tra i segni che Allah usa per spaventare i Suoi servi - si legge -. I terremoti e tutte le altre cose che accadono e che provocano danni e ferite alle persone sono a causa dello Shirk (l'idolatria, la falsa fede, ndr) e dei peccati, come Allah dice: Qualunque sventura vi colpisca, sarà conseguenza di quello che avranno fatto le vostre mani». La distruzione causata dal sisma non è casuale, né un evento solamente naturale, dietro ci sono la volontà di Allah e le colpe dei peccatori infedeli. Il post viene condiviso da centinaia di persone: Ibrahim residente a Milano, Mohammed che vive a Parma, Hamza che invece lavora a Padenghe sul Garda, Mehdi di Bergamo e molti altri. Il terremoto come punizione di Allah del resto trova riscontri in diverse sure del Corano, citate dal sito islamista a conforto della propria spiegazione. Una (Al-A'rf, 96) dice: «Se gli abitanti di queste città avessero creduto e avessero avuto timor di Allah, avremmo diffuso su di loro le benedizioni dal cielo e dalla terra. Invece tacciarono di menzogna e li colpimmo per ciò che avevano fatto». Un'altra ancora (Al-Ankabt, 40): «Ognuno colpimmo per il suo peccato: contro alcuni mandammo ciclone, altri furono trafitti dal Grido, altri facemmo inghiottire dalla terra e altri annegammo. Allah non fece loro torto: furono essi a far torto a loro stessi». Il concetto è chiaro anche se non viene detto in modo esplicito dal sito: chi è morto sotto le macerie si era macchiato di un grave peccato, non credere in Allah, e quindi se l'è cercata. Il sito «Sì all'Islam in Italia» cita a riprova un commentatore coranico del XIV secolo: «A volte Allah dà alla terra il permesso di respirare, il che avviene quando accadono forti terremoti; questo fa si che le persone si sentano spaventate, così si pentono, abbandonano i peccati, pregano Allah e provano rammarico per i loro peccati». La soluzione per evitare le catastrofi come quella che ha raso al suolo Amatrice e altri paesi del centro Italia, più che costruire abitazioni antisismiche, è la conversione all'islam: «Quello che devono fare i Musulmani e gli altri che sono responsabili e sani di mente, è di pentirsi ad Allah, aderire fermamente alla Sua Religione ed evitare tutto ciò che Egli ha proibito, in modo che possano essere indenni e raggiungere la salvezza da tutti i mali di questo mondo e dell'Altro: è così che Allah allontanerà da loro ogni male, e li benedirà con ogni bene». Nei commenti alla pagina Facebook, oltre ai ringraziamenti ad Allah «che ci fa vedere questi segni», c'è chi fa notare che tra i morti ci potrebbe essere anche qualche italiano di fede musulmana. Risposta degli amministratori (ignoti) del sito islamista: «L'articolo parla in generale. Si riferisce ai musulmani e ai non musulmani». Il sito (che come immagine profilo ha una cartina dove il nome «Israele» è barrato e al suo posto compare «Palestina») avvisa anche che «la Moschea di Rieti ha offerto immediata accoglienza e supporto logistico ai terremotati», mentre «Islamic Relief Italia sta già operando in coordinamento con la Protezione Civile, per far affluire prontamente i primi soccorsi». La spiegazione religiosa al terremoto non è peraltro prerogativa islamica. Anche «Militia Christi» si avventura in un'interpretazione altrettanto sconcertante, con un tweet («La tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull'abominio delle unioni civili») poi cancellato e goffamente smentito. Mentre il post sul terremoto come castigo di Allah resta lì, senza che Facebook (inflessibile sui contenuti politicamente scorretti) intervenga.
Ed a proposito di Islam. Sul terremoto che ha straziato l'Italia prende la parola anche il presentatore Claudio Lippi. E' indignato, e le sue parole vengono riportate da Lettera43 (mentre il suo profilo Twitter risulta non accessibile). Lippi si riferisce alla diversità di trattamento tra i terremotati italiani delle zone di Rieti e gli immigrati: "Mettiamo 50 immigrati a Capalbio e i terremotati in una palestra? Non ho parole".
Terremotati in tendopoli, immigrati in hotel: perché gli italiani s'infuriano, scrive di Fabio Rubini il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Prima le lacrime e l'incredulità di fronte alle immagini che rimbalzavano dalle tv ai social e viceversa. Poi, piano piano, tra politici e la gente comune s'è fatto strada un dubbio: ma se ai clandestini lo Stato riserva alberghi con wi-fi e tv al plasma, perché ai terremotati italiani dovrebbero toccare tende e unità abitative di lamiera? È stato un attimo, la rete anche questa volta, è stata veicolo imbattibile e inarrestabile e così il tam tam è partito. Corroborato anche dalle notizie come quella apparsa sul sito dell'Huffington Post, secondo cui: «I terremotati dovranno stare nelle tende almeno fino alla fine di settembre, poi si vedrà». Qualcuno, come il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana, non l'ha presa bene e ha polemizzato su quelli che facevano polemica: «è evidente che non gli interessa né degli uni né degli altri. Vogliono solo contribuire a loro modo, versando bile», scatenando un dibattito sulla sua pagina Facebook tra quelli che erano d'accordo con lui e quelli che, più o meno velatamente, lo accusavano di non stare dalla parte degli italiani. A rinfocolare le polemiche ci ha pensato anche l'ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, che con una lettera inviata al Tempo spiega: «Conosco bene quella gente, nessuno vorrà andarsene lontano dai loro paesi, vanno trattati come cittadini di serie A con priorità assoluta» quindi «vanno piantate tendopoli nella zona colpita sperando che non le abbiano usate tutte per gli extracomunitari». Poi c'è il parroco di Boissano (Savona), don Cesare Donati, che in disaccordo con Bertolaso spiega: «Adesso è il momento, vista la tragedia del terremoto, di mettere gli sfollati nelle strutture e i migranti sotto le tende», raccogliendo anche il placet del leader della Lega Matteo Salvini: «Questo parroco non ha per niente torto». Il picco, però, è stato raggiunto a Milano. Il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, rilascia una dichiarazione per mettere a disposizione il campo base di Expo sia «per ospitare in questi primi giorni i terremotati» sia «per inviare i moduli abitativi nelle zone terremotate». E annuncia che «l'assessore Bordonali è già in contatto con la protezione civile» ben contenta dell'aiuto ricevuto. Tanto più che quel campo andrebbe comunque dismesso, per restituire l'area al vicino comune di Rho. Quindi la Regione e la società Expo Spa potrebbero in un sol colpo aiutare i terremotati e velocizzare lo smantellamento del Campo Base. Sulla vicenda, però, è entrato a gamba tesa il neo sindaco di Milano, il piddino Beppe Sala, ancora scottato dal «no» che lo stesso Maroni aveva posto alla sua richiesta di trasformare il Campo base di Expo in un campo profughi. Così, pensando di interpretare il pensiero del governatore come un dietrofront «opportunistico», lo ha accusato a testa bassa: «Questo terremoto è un dramma da non strumentalizzare - sbotta il sindaco -. La proposta di Maroni di utilizzare il campo base o i suoi moduli per gli sfollati del terribile terremoto sembra una delle tante dichiarazioni politiche che la Regione non ci fa mai mancare. Questa volta tentando anche una strumentalizzazione su una tragedia come quella che ha colpito il centro Italia». Un commento border line, come subito dopo gli fa notare lo stesso Maroni: «Sono sorpreso dalle dichiarazioni del sindaco Sala. In un momento così drammatico dobbiamo lasciare da parte le polemiche e fare ogni sforzo per aiutare chi è stato colpito dal terremoto - ribadisce Maroni -. Questo è il senso della mia proposta di mettere a disposizione il campo base Expo. Proposta che, per altro, è stata condivisa dalla Protezione civile nazionale. Intendo quindi procedere rapidamente in questa direzione per portare aiuto concreto a chi ha subito questa immane tragedia». Con buona pace di Sala e del Pd. Fabio Rubini.
Vittorio Feltri il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”, la verità amara sul terremoto: "Perché pensano ai morti, ignorano i vivi". Di solito succede questo: le grandi tragedie nazionali mobilitano i mezzi di comunicazione, che per qualche giorno non fanno altro che parlarne in tutte le salse fino alla saturazione. Le maratone televisive, che riprendono da ogni angolazione i danni provocati dal terremoto, durano meno di una settimana, sempre le stesse, i soliti cumuli di pietre, mani nude che scavano, cadaveri, gente disperata, lacrime. D'altronde che altro potrebbero fare i giornalisti se non raccontare ciò che hanno sotto gli occhi? Ma la ripetitività a lungo andare spegne le emozioni che si tramutano in noia. Tra un po' i riflettori si trasferiranno dall’Umbria, dalle Marche e dal Lazio in altri luoghi e anche l'ultima sciagura sarà archiviata, salvo tornare a bomba quando si scoprirà che qualche malfattore, approfittando del dolore altrui, avrà trovato il modo di arricchirsi: appalti, stecche, prezzi gonfiati. C'è una regola che non muta mai: le disgrazie sono occasioni d'oro per chi non ha scrupoli. L'esperienza ci ha istruiti. Cosicché alla fine di settembre saranno pochi, oltre ai terremotati, a ricordarsi del flagello che ha martoriato il Centro Italia. Compariranno qua e là notizie riguardanti la ricostruzione, che tarderà a cominciare, il recupero dei capitali necessari a finanziare le opere, le beghe tra le imprese che cercheranno di accaparrarsi gli appalti. Nulla di appassionante. E le nostre coscienze si quieteranno. Ecco quanto è sempre successo e succederà ancora. Le brutte abitudini sono le più resistenti. Personalmente, in veste di cronista ho seguito parecchie calamità: il sisma che distrusse il Friuli nel 1976, quello che sbriciolò l'Irpinia nel 1980, quello di Perugia e dintorni nel 1997 e, assai recente, quello che ha violentato l'Emilia. L'indomani di ogni catastrofe si è assistito alle medesime immancabili scene e si sono uditi i medesimi discorsi improntati a buone intenzioni, a prescindere dal colore del governo in carica: faremo, brigheremo, ci impegneremo affinché le prossime scosse non ci colgano impreparati. Parole, parole, soltanto parole. Esportiamo in vari Paesi le nostre tecnologie da applicarsi agli edifici al fine di renderli sicuri, ma non le applichiamo in Patria. Siamo bravi nella cura di ogni territorio tranne quello che calpestiamo. Perché? Si possono avanzare soltanto ipotesi: non siamo capaci di organizzarci, abbiamo una classe politica scucita e perennemente in polemica con se stessa. Risultato, anziché fare, discutiamo. Si pensi che non abbiamo ancora un piano per le zone attualmente disastrate. Le istituzioni, la Boldrini in testa, si dannano per ottenere esequie collettive per le vittime. Sono più preoccupate dei morti che dei vivi. Spendono molti quattrini per i profughi e lesinano aiuti per i nostri connazionali bisognosi. Insomma, questa è la situazione e non promette niente di buono. C'è il timore che i terremotati siano costretti a stare in tenda mesi, mentre gli extracomunitari si crogioleranno in belle camere d'albergo, ben pasciuti, nutriti e riveriti. L'accoglienza e la solidarietà sono solo per individui di importazione. Vittorio Feltri.
LO STATO CRIMINALE. Lo sfregio dello Stato ai terremotati. Profughi e sfollati: chi riceve di più, scrive Roberta Catania, il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Ci sono oltre 5mila immigrati che dormono in hotel o in confortevoli appartamenti nel raggio di 150 chilometri dalle cittadine distrutte dal terremoto del 23 agosto scorso, mentre 2.500 sfollati italiani abitano nelle tende messe in piedi nei campi vicini alle macerie di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto, tra l'alto Lazio e le Marche. Nessuno di questi 5mila stranieri vive in quei casermoni conosciuti con i nomi di Cie o Cara, dove comunque vengono ospitati migliaia di clandestini. Questi numeri si riferiscono esclusivamente al progetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), un programma finanziato dal Ministero dell'Interno tramite il Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell'Asilo e che prevede l'accoglienza e la tutela dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei migranti che sono soggetti ad altre forme di protezione. In questi casi, le 2.545 strutture messe a disposizione in tutta Italia sono di tre tipologie: l'82% sono appartamenti, poi ci sono alberghi (12%) e infine le comunità di alloggio, per lo più destinate ai minori, appena il 6%. Dati riferiti al 2015 e attuali fino all' aprile scorso, quando il Viminale ha diffuso l'ultimo report. Così, mentre gli immigrati, divisi in base all' età, alle parentele e ad altre necessità, hanno cucine, un bagno normale e il riscaldamento d' inverno, i 2.500 sfollati che dormono nelle tende provano ad arrangiarsi. Per ora lo fanno e va bene così, anche perché la maggior parte vuole rimanere vicino a quello che gli è rimasto della loro casa e nessuno, a così pochi giorni dai crolli, dormirebbe in una struttura dove, al primo scricchiolio, sarebbe assalito per il terrore di sentire di nuovo le macerie crollargli addosso. Ma tra qualche settimana, quando arriveranno le prime piogge e poi la neve, anche i più legati al territorio inizieranno a sognare un letto caldo, una cucina dove sia possibile preparare una minestra calda e un bagno dove lavarsi senza soffrire temperature glaciali. Qualcuno, già ora, ammette di temere l'arrivo del freddo. Alessandro, 67 anni, sfollato da Amatrice insieme alla moglie e al cagnolino, oggi vive in una tenda al campo di Sant' Angelo. Raggiunto dalle telecamere, l'uomo ha spiegato di avere «non avere paura di rimanere nella tenda per troppo tempo», ma di aver «paura dell'inverno, che», ha sottolineato, «è qui alle porte». Nessuno ha ancora pensato, invece, a ciò che sarà nei prossimi anni. Giustamente questi sono i giorni del lutto per chi ha perso i propri cari e dello choc per chi è sopravvissuto guardando la morte in faccia. Eppure, quasi come un amaro presagio, quattro giorni prima del terremoto tra Amatrice e Pescara del Tronto, un uomo sopravvissuto nove anni fa al sisma dell'Aquila, ha fatto i conti con la dura realtà delle istituzioni, che spente le telecamere ridimensionano anche il sostegno morale e - soprattutto - economico. Quello sfollato dell'aprile 2009, il 18 agosto scorso era salito su un cornicione al secondo piano di una palazzina del progetto Case di Cese di Preturo, in provincia dell'Aquila, minacciando di gettarsi a causa delle maxi bollette che stanno arrivando in questi giorni agli inquilini degli alloggi costruiti per gli sfollati dopo il terremoto e per la chiusura dell'acqua calda da parte del Comune nei confronti dei morosi. L' unico riuscito a far desistere l'uomo è stato il sindaco, Massimo Cialente, che evidentemente ha promesso uno sconto o la rateizzazione. Fatto sta che le collette e le donazioni a un certo punto finiscono e queste persone si trovano a far il conto con le spese di tutti i giorni, senza avere più un'attività o i risparmi di una vita. Il premier Matteo Renzi non ha tardato a stanziare i primi soldi per aiutare i terremotati: 50 milioni di euro sono già stati destinati ad Amatrice e le altre località colpite dal sisma di martedì notte. Però per i 5.845 immigrati ospitati negli alberghi e negli appartamenti del progetto Sprar tra le Marche, il Lazio, l'Umbria e l'Abruzzo, intorno cioè ai luoghi sbriciolati dalla scossa, sono stati spesi quasi 75 milioni solo nel 2015. A voler fare i conti in difetto, si tratta di 204.575 euro al giorno, senza cioè considerare che gestire i minori costa di più. E l'anno scorso, per le 21.613 persone ospitate in tutta Italia nel progetto Sprar il conto è stato salato: 276 milioni e 106mila euro. Troppo in confronto a quei 50 milioni. Roberta Catania
C’è razzismo e razzismo.
Di Pontelandolfo e Casalduni (BN)non rimanga una pietra: 14 agosto 1861 l'eccidio, scrive Leonardo Pisani l'11 agosto 2016. «Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra.» Così disse il Generale Cialdini al Colonnello Eleonoro Negri. Era il 14 agosto 1861, in pieno periodo del grande Brigantaggio, qualche giorno prima il 7 agosto 1861 quando alcuni briganti della brigata Fra Diavolo, comandati da un ex sergente borbonico, il cerretese Cosimo Giordano, approfittando dell’allontanamento di una truppa delle Guardie Nazionali da Pontelandolfo, occuparono il paese, uccidendo i pochi ufficiali rimasti, issandovi la bandiera borbonica e proclamandovi un governo provvisorio. Successivamente L’11 agosto il luogotenente Cesare Augusto Bracci, incaricato di effettuare una ricognizione, si diresse verso Pontelandolfo alla guida di quaranta soldati e quattro carabinieri. Nei pressi del paese, gli uomini del reparto piemontese furono catturati da un gruppo di briganti e contadini armati che li portarono a Casalduni, dove furono uccisi per ordine del brigante Angelo Pica. Un sergente del reparto sfuggì alla cattura e successiva uccisione e riuscì a raggiungere Benevento dove informò i suoi superiori dell’accaduto. Costoro chiesero a loro volta un dettagliato rapporto ai capitani locali della Guardia Nazionale Saverio Mazzaccara e Achille Jacobelli. Ottenuti dettagli sull’accaduto, le autorità di Benevento informarono quindi il generale Enrico Cialdini. Racconta Carlo Melegari, a quel tempo ufficiale dei bersaglieri, che il rapporto inviato a Cialdini conteneva una descrizione raccapricciante dell’uccisione dei bersaglieri. Cialdini, consultandosi con altri generali, ordinò l’incendio di Pontelandolfo e Casalduni con la fucilazione di tutti gli abitanti dei due paesi “meno i figli, le donne e gli infermi”. Ma non fu così. Il colonnello Pier Eleonoro Negri, al comando di un battaglione di 500 bersaglieri, massacrò un numero stimato di oltre 400 inermi cittadini, altre fonti dicono quasi un migliaio e distrusse il paese incendiandolo: molte donne furono stuprate prima di esser assassinate e non furono forniti dati ufficiali sul numero totale delle vittime della repressione. Il generale Cialdini, per l’attuazione del piano, incaricò il colonnello Pier Eleonoro Negri e il maggiore Melegari, che comandavano due reparti diretti rispettivamente a Pontelandolfo e a Casalduni. All’alba del 14 agosto i soldati raggiunsero i due paesi. Mentre Casalduni fu trovata quasi disabitata (gran parte degli abitanti riuscì a fuggire dopo aver saputo dell’arrivo delle truppe), a Pontelandolfo i cittadini vennero sorpresi nel sonno. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di essere risparmiate) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate: “Il saccheggio e l’eccidio durano l’intera giornata del 14. Numerose donne furono violentate e poi uccise. Alcune rifugiatesi nella chiesa prima denudate e trucidate davanti all’altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffiò a sangue il viso di un piemontese; le furono mozzate entrambe le mani e poi fucilata. Anche i luoghi di culto non furono risparmiati, le chiese profanate, le sacre ostie calpestate; i voti d’argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive rubati. Gli scampati al massacro furono rastrellati e inviati a Cerreto Sannita, dove circa la metà fu fucilata. A Casalduni la popolazione, avvisata in tempo, per la maggior parte fuggì. Alle quattro del mattino, il 18° battaglione, comandato dal Melegari e guidato dal Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino, circondò il paese. Il Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna e attacca baionetta in canna concentricamente. La prima casa ad essere bruciata è quella del sindaco Ursini. Agli spari e alle grida, i pochi rimasti in paese escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali piemontesi. Messo a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti trovati. Dalle alture i popolani osservano ciò che sta accadendo nei due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto orrore. Carlo Margolfo, uno dei militari che parteciparono alla spedizione punitiva, scrisse nelle sue memorie: «Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava.» Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri, così descrive quell’episodio: “… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un’intera giornata: il castigo fu tremendo…”. Alcuni particolari del massacro si leggono nella relazione parlamentare che il deputato Giuseppe Ferrari scrisse a seguito del suo sopralluogo a Pontelandolfo all’indomani del terribile evento. Nella relazione si citano due fratelli Rinaldi, uno avvocato e un altro negoziante, entrambi liberali convinti. I fratelli, usciti fuori di casa per vedere cosa stesse accadendo, vennero freddati all’istante e uno dei due, ancora in agonia dopo i colpi di fucile, fu finito a colpi di baionetta. Un altro episodio citato è quello di una ragazza, tale Concetta Biondi, che rifiutandosi di essere violentata da alcuni soldati, fu fucilata. «Una graziosa fanciulla, Concetta Biondi, per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue» (Nicolina Vallillo) Al termine del massacro, il colonnello Negri telegrafò a Cialdini: «Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora.» Questo eccidio è stato sottaciuto, nascosto per più di un secolo nei “testi ufficiali” di storia, per una commemorazione ufficiale di un massacro di inermi si è dovuto aspettare Centocinquant’anni dopo, il 14 agosto 2011, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, ha commemorato quella strage, porgendo a tutti gli abitanti di quella che è stata definita «città martire», le scuse dell’Italia.
Capalbio e non solo, ex comunisti snobbano immigrati e metalmeccanici, scrive il 18 agosto 2016 Laura Naka Antonelli su “Wallstreetitalia”. Su Twitter viene lanciato anche un hashtag ad hoc per commentare il caso: l’hashtag è #capalbioforrefugees e l’ultimo caso tutto italiano, esploso qualche giorno fa, è quello di Capalbio. Un caso che coinvolge e travolge la sinistra italiana, e quella roccaforte della stessa, almeno fino a qualche tempo fa, che si chiama Regione Toscana. Le offese contro questa sinistra sempre più non pervenuta tra la gente comune si sprecano: si parla di ex comunisti radical chic che non vogliono gli immigrati. Tutto parte di fatto proprio dalla questione spinosa dell’immigrazione, dal momento che sono ben due i ricorsi che sono stati presentati al Tar dagli abitanti del centro storico di Capalbio, alla notizia dell’arrivo di 50 immigrati. “Non siamo affatto contro l’accoglienza”, precisa il sindaco del Pd Luigi Bellumori, dopo la bomba mediatica esplosa con le dichiarazioni rilasciate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (prima PCI, ora Pd) che, dal suo profilo Facebook, nel giorno di Ferragosto, ha stroncato la sinistra di Capalbio. “A Capalbio nobili ambientalisti, boiardi di Stato e intellettuali ex comunisti non vogliono i profughi, non vogliono la strada, non vogliono nulla, perché le loro vacanze non possono essere disturbate”. Esulta ovviamente la destra, con Matteo Salvini, leader della Lega, che usa le parole del governatore Rossi per perorare la propria causa: “Sono 50 profughi, ma la sinistra radical chic non li vuole vicino ai campi da golf, alle piscine, ai giardini, ai villini e ai villoni di questa sinistra che i campi rom li pensa sempre in periferia». E poi: «Non li metterete davvero qui, hanno detto in coro. Loro si sono ribellati. Ecco la sinistra”. Il sindaco di Capalbio Bellumori difende se stesso e la comunità di Capalbio: “Questa non è accoglienza, è ghettizzazione. Non è integrazione calare 50 migranti in un borgo di 130 residenti. Perché Capalbio è sì, molto più esteso perché ha frazioni e ville sparse, ma qui si parla del centro medievale”. E sulle accuse di razzismo: “Capalbio ha accolto i braccianti del Sud negli Anni ’50, e i migranti dell’Est negli Anni ’90”. Promettendo infine: “Convocheremo un tavolo con prefettura e Regione, sono convinto che troveremo una soluzione. Noi non diciamo no agli immigrati, diciamo no a 50 in quel posto, siamo disposti ad accoglierne una quindicina”. Certo il caso rimanda a quella intervista a IO Donna (Corriere della Sera) rilasciata ormai un bel po’ di anni fa, nel 2009, da Giovanna Nuvoletti, giornalista e fotografa, moglie di Claudio Petruccioli, ex presidente della Rai. Nel commentare il suo romanzo L’era del cinghiale rosso, Nuvoletti aveva parlato proprio della sua Capalbio. “L’unico ricco comunista che abbia mai conosciuto, Giangiacomo Feltrinelli, a Capalbio non ci veniva. I comunisti che negli anni Settanta andavano in Maremma erano squattrinati. Chi poteva se ne andava a Porto Ercole”. E’ una pessima estate, quella di quest’anno, per la sinistra italiana. Non si può dimenticare neanche l’altro grande triste protagonista dei cosiddetti ex comunisti, Arcangelo Sannicandro, 73 anni, avvocato e parlamentare “comunista”, che ha un reddito da 400mila euro l’anno (dato relativo al 2014) e che si è opposto in modo piuttosto plateale, lo scorso 4 agosto, alla Camera, alla proposta del M5S relativa alla riduzione delle indennità di carica da 10.000 a 5.000 euro (tra l’altro richiesta non passata). “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. E lui, anche, viene da Pci e da Rifondazione.
Capalbio, arrivo dei migranti: gli spocchiosi radical chic tolleranti col sedere degli altri, scrive il 17 agosto 2016 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Arrivo migranti. A Capalbio è dramma collettivo. Bruciati i tricolori, interrotte le proiezioni della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e le serate di degustazione delle mandorle bio dell’Uzbekistan in tutta la città; per protesta, i vip locali chiedono più diritti. C’è già chi grida “Fascisti!”. In queste ore caldissime, l’ANSiA riporta le ultime dichiarazioni ed iniziative per fronteggiare il dramma: ANSiA: Emergenza migranti a Capalbio. Arrivati i viaggiatori del mare. Distribuite ai poveri fuggiaschi dalla disperazione, pashmine colorate, occhialetti tondi, copie di Pasolini e Saviano. Ristabilito l’ordine. Un gesto umanitario necessario dopo il lungo viaggio, dopo stress alto e paura. A Capalbio i migranti arrivati sono cinquanta e sono stati destinati solo profughi poeti che narrano delle danze tipiche del loro Paese e che sono emarginati dalla dittatura tribale a cui si sono ribellati non potendosi più barbaramente permettere un nuovo Mercedes o di non poter presentare il nuovo libro in giro per il mondo. Altrove in Italia, tutti gli altri. Il sindaco di Lampedusa, ex perla del mediterraneo, si unisce al coro dei colleghi di tutta Italia – che senza battere ciglio hanno ricevuto ordine dalla Prefettura di ospitare i poveri fuggiaschi dalle guerre -, dal centro al Sud, fino al Nord, dai paesini più poveri e isolati a quelli più espressivi a livello architettonico e storico, fino alle grandi città d’arte, in un appello: “Ha ragione il collega toscano. L’arrivo dei 50 (cinquanta) migranti nella sua città, potrebbe essere una “una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio” – parola del sindaco PD Luigi Bellumori -. Fa bene a dirlo; fa bene a difendere la sua realtà e chi se ne frega delle nostre città, del nostro turismo, della nostra arte e della nostra capacità di fare cultura. Del decoro delle nostre comunità”. Proprio in seguito a quanto si apprende dall’agenzia ANSiA, abbiamo raccolto alcuni pareri. “Appena ricevuta la notizia dell’arrivo di questi poveri viaggiatori sono corso a casa, ho preso mia moglie per un braccio e mio figlio Ubaldo Jonah e gli ho detto: “dobbiamo lasciare casa. Dobbiamo andarcene ora!”. Non credevamo che questo problema potesse toccare anche a noi in Italia. Pensavamo fosse una cosa da Sud, da isole di prossimità, da paesini sperduti del centro o del nord Italia, quelli devastati dalle politiche governative; la nostra Capalbio e chi poteva immaginarlo. Che ne sarà dei nostri reading? E delle sedi delle nostre associazioni umanitarie, deserte? E delle degustazioni di Tofu, del teatro sperimentale? – ci racconta ancora atterrito Gian Maria Ipocriti, stimato medico del luogo -. “Abbiamo riflettuto sulle parole del sindaco. È da fascisti, suvvia, non accogliere, da figli del terzo Reich, quelli a cui toglierei il diritto di voto e di vita; ma noi qui non possiamo proprio permettercelo. Non possiamo!”, ci racconta Guidobaldo Pace. C’è anche chi, come Luigi Colpavostra, addossa le colpe di un simile problema alla politica e alla storia: “La colpa dell’arrivo di cinquanta migranti? Di Salvini, oggi, e delle politiche di Mussolini, ieri. Se non avesse bonificato le paludi pontine, con il conseguente arrivo di operai veneti, del nord Italia, di altre regioni, insomma, venuti a lavorare per vivere, tutto questo non ci sarebbe stato!”. Duilio Demo Crazia, conte capalbiese, dopo due aver dato due corpose boccate di pipa ci risponde: “Chi l’ha detto che immigrazione faccia rima con sicurezza, sostenibilità, assistenzialismo. Roba da fascisti! Prendete le parole (reali) del sindaco. La sicurezza? “Non potrà essere garantita dalla polizia municipale che conta un solo agente a tempo indeterminato e due vigili estivi con il sindaco che ha il ruolo di comandante”. Integrazione e sostenibilità? “Ho delle perplessità che una comunità possa accettare che per un cittadino di Capalbio vengono spesi 31,28 euro l’anno in spesa sociale e per i richiedenti asilo 32,50 euro al giorno”. Vedete? L’immigrazione non ha nulla a che fare con la sicurezza, la sostenibilità, non porta problemi! Prima gli italiani? Fascisti!”. “SulGiornale, quello dei nazimaoistiklingoniani, sì, proprio quello, addirittura si legge: “Tra i moventi del lamento capalbiese, c’è il fatto che i profughi siano sistemati in «ville di gran lusso» vicine «all’area più residenziale». «In 19mila ettari bisognava metterli proprio là?», ha chiosato il primo cittadino. Altra equazione «profughi-decoro». Morale: l’unico immigrato buono per Capalbio è la colf”. Ma vi rendete conto dove siamo arrivati?”, così Patrizio Pierre Libertà. Nel frattempo, il DCSAGdAdPC, il Dipartimento Centro Studi Associazione Gruppo di Amici del Politicamente Corretto, ente freschissimo, istituito nella notte tra il 14 e il 15 agosto, approfittando delle partenze intelligenti degli italiani, si esprime, in una nota, sull’annosa questione di Capalbio: “Quello dei migranti è un dramma. Eppure a Capalbio il mare è bello, le menti sono belle. Crediamo sia un peccato rovinare questa cartolina d’Italia con l’arrivo di un contingente di poveri viaggiatori del mare, ben 50, che pensiamo di destinare altrove, verso un’Italia più povera, in cui non ci saranno le principali basi strutturali per l’accoglienza ma ci sono maggiori spazi territoriali. Ribadiamo il nostro sdegno verso chi ritiene l’immigrazione un problema, verso quelle comunità che si lamentano di non riuscire ad integrare, di non averne gli strumenti per farlo. Una barbarie proprio nel corso del giubileo della Misericordia. Questi sono i nemici della modernità, della democrazia, del nuovo modo di stare al mondo e di essere più che fratelli: coinquilini”.
Brutti, sporchi e cattivi, scrive Giovedì 18 agosto 2016 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Ebbene, ora che anche la sinistra radicale di Capalbio ha ricevuto la sgraditissima visita di questi clandestini puzzolenti, che scappano dalle loro bidonville, per venire a bivaccare in Italia, possiamo dire che la misura sia colma. Finché hanno rotto i coglioni ai poveracci italiani, quelli che non arrivano alla prima settimana, quelli che stanno duellando con equitalia da anni, quelli che stanno ancora pagando a rate di sangue il finto benessere post DriveIn e AsFidanken, quelli che hanno recuperato i nonni a casa e magnano con le loro pensioni sicure (per ora), quelli che non sanno più per chi votare dopo aver fatto tutto il giro delle setteliste, finché, dicevamo, i coglioni triturati erano i loro, c’era, ad ogni lamentela, l’islamofobia, il razzismo, l’accoglienza necessaria, la fratellanza cattolica di parata di Francesco il gaucho, la xenofobia, il volemosebbenismo. I giornali addomesticati avevano scancellato (è italiano, è italiano: significa fare le cancella tipo ####### sulla parola sbagliata e si usava sulle pergamene. NdA) tutti i termini tipo negro, zingaro, beduino… Certo pretame da politburo, certo vescovame unto di compromesso massomafioso e grasso di soldi facili da finta fratellanza, certo papame da fotoromanzo l’hanno avuta facile. Perché il cuore del governo, non ancora in ferie, era dalla loro parte. “Seicento negri al 15! N’acqua minerale lisca al 23! 387 siriani al 19! Na pajiata ar 5! Na camionata de regazzini ar grand hotel! Ahò, portaje na cinquantina de mignotte nigeriane ar privé!…” Sembrava una comanda continua. Poi, il piede in fallo! Venti negretti, docciati, sanati e vestiti alla marinara vanno sistemati in un cinquestelle a Capalbio! Col Cazzo! Ma che stamo a scherzà??? Qua c’abbiamo in ferie milionarie tutta a nomenclatura der piddì!!!! Politisci, imprenditori, zozzone rifatte, gente che conta… Robba da villona de millemetriquadri! Che, fra l’altro, i loro stranieri ce l’hanno già: filippini per i tappeti e i mobili, moldave per i nonni, svizzere per i bambini, capoverdiani per le siepi, giamaicani per le signore (e i signori, diciamolo)… Che gli mandi, i negri d’Africa????? Quelli sdentati, che gli puzza il fiato di carie e hanno le pulci fra i ricci? Quelli che te ribartano i cassonetti e bruciano i materassi? Quelli che se credono sto par de ciufoli e parlano di uguaglianza e diritti umani????? Brutti sporchi e cattivi! Ecco cosa sono! Un ammasso di straccioni che non possono pretendere di venire ad abitare in un paradiso terrestre destinato solo a pochi, pochissimi, (non)eletti che hanno il diritto di rilassarsi prima delle fatiche autunnali: shopping stagionale, party referendari, riaperture di canottieri, palestre eterofrocie, discotroieche di vecchio conio e nuova stampa…No, ragazzi, non si può! Sti clandestini vanno freesbati da n’artra parte! Mò chiamo io a Roma… Pronto, ma che, state a scherzà??? … E viene fuori che, “Stai tranquillo: tutto sotto controllo! Mò basta lo diciamo noi, compagno! Mò bombardiamo pure noi! Non ve lo volevamo dire, per evitare il clamore, ma, sì ragazzi: in Libia je stamo a fa un culo così! Gli abbiamo mandato quelli dei Servizi. E pure qualche bombetta. E mica se fermamo! No, no. Mò li sterminiamo tutti. Intanto, abbiamo controllato i gommoni e, toh!, Ci abbiamo trovato un tunisino che voleva venire in Italia, diononvoglia a Capalbio, per fare l’attentato. Dunque, c’est fini! Che crociata sia! Questi pur di distruggere Capalbio, sarebbero capaci di venirci a pisciare pure davanti al portone del palazzo a Roma. Magari a defecare nel parchetto sotto casa. E senza raccogliere con la paletta e la bustina, come fanno i nostri filippini coi nostri bassotti… No, No, No! Vanno rimandati tutti a casaccia loro.” Ma pensa te: invadere Capalbio! Che idea malsana! Considerazioni agostane, a qualche metro dalla vergognosa tendopoli di San Ferdinando, Area Industriale Porto di Gioia Tauro, piena fino al vomito. Anzi, con la nuova, più accogliente, in fase di montaggio proprio di fronte…Puah! Tra me e me…
I profughi a Capalbio: l'ultima spiaggia della sinistra. Le villette destinate ai profughi a Capalbio. Il luogo simbolo dell'Italia radical chic doveva dare una risposta diversa, avrebbe dovuto aprire le porte, scrive Roberto Saviano il 19 agosto 2016 su "La Repubblica". Capalbio non è solo Capalbio. Ci sono luoghi che trascendono ciò che sono, smettono di essere definiti dalle piazze e dagli affreschi, non sono descritti nemmeno dai volti, dai palazzi o dalle scalinate ma diventano simbolo creato dall'immaginazione. Capalbio è uno di questi luoghi. Non è per la grazia del suo meraviglioso borgo, per la dolcezza della sua costa, o quantomeno non è più solo per la sua bellezza armoniosa che Capalbio campeggia nel nostro immaginario. Capalbio è la storia delle estati della nostra Repubblica: della prima, della seconda e adesso di questa indecifrabile terza. La piccola Atene - definizione romantica in cui Capalbio con un po' di civetteria si riconosce - dove nel tempo delle ferie si sono incontrati da sempre intellettuali, dirigenti di partito, imprenditori, giornalisti e artisti progressisti e di sinistra. Capalbio è divenuta - forse persino suo malgrado - il dolce ritrovo degli intellettuali. Parola che nel tempo della rabbia, che è il nostro tempo, sta subendo sui social network lo stesso destino semantico di "parlamentare" o "consigliere comunale" - per non parlare di "assessore": troppo spesso sinonimi, per le nuove generazioni, di élite. E quindi, immancabilmente, di corruzione. E che cosa ti combina l'"intellighenzia" di Capalbio? Che cosa si fa per spegnere la rabbia e il qualunquismo? I fatti sono noti. Profughi in fuga dalla guerra o semplici poveri cristi in cerca di un futuro migliore. Certo, come in ogni emigrazione da qualche parte si nasconderà anche qualche brutto ceffo (non siamo stati noi a regalare agli americani Al Capone e Lucky Luciano?). Certo, in questi giorni c'è l'allarme per le infiltrazioni jihadiste. Ma qui stiamo parlando di immigrati a cui è stato già riconosciuto appunto lo stato di profughi. A Capalbio, come a tanti altri comuni d'Italia, è stato chiesto di esserci, nel tentativo di arginare l'emergenza. Quindi ospitarne, nel caso, cinquanta. E che è successo? Capalbio ha fatto le barricate. Sì, il sindaco (per la cronaca, il piddino Luigi Bellumori) sarà anche stato inopportuno, comportandosi come qualsiasi sindaco di un piccolo centro turistico, protestando per la decisione del prefetto: terrorizzato magari che i migranti allontanino le famiglie, che i ristoranti si svuotino, che la spesa turistica diminuisca. Ma Capalbio non è solo Capalbio: non è un piccolo centro turistico come un altro. E proprio per questo la piccola Atene doveva rispondere diversamente: in nome della sua storia. Il flusso di migranti, ben poco a dire il vero, avrebbe dovuto essere al centro di una risposta intelligente come i suoi villeggianti. Di fronte all'emergenza, Capalbio avrebbe dovuto rispondere in tutt'altro modo: focalizzando la sua estate su questo tema, essendo questa terra di dibattiti e incontri. Il che non avrebbe voluto dire trasformare una legittima vacanza in penitenza. Né tanto meno ospitare i migranti nelle proprie case (richiesta subdolamente razzista che si diffonde come un morbo online a chiunque sostenga politiche d'accoglienza "portateli a casa tua"). Invece, col loro silenzio, gli intellettuali di Capalbio non hanno fatto che fornire munizioni ai soliti fustigatori dei Radical Chic. Ecco: Radical Chic l'espressione mutuata da Tom Wolfe è una accusa sempreverde al di là di qualsiasi riflessione seria sul caso. Si sa da dove deriva: ma è bene fare una veloce sintesi. Se potete, rifiondatevi su quel libro di Wolfe, Radical Chic, pubblicato in Italia da Castelvecchi (meraviglioso). È il reportage di una serata particolare. A New York. In casa di Leonard Bernstein: il grande direttore d'orchestra nonché autore di West Side Story. Tra gli ospiti, il regista da Oscar Otto Preminger e i leader dei Black Panthers. Il libro racconta come la moglie di Bernstein, in una casa lussuosissima, raccogliesse fondi per i combattenti delle Pantere Nere. Wolfe fa capire come in quella casa si respirasse quasi l'eccitazione per qualcosa di esotico, lontano e proibito. Il tutto sapeva di impostura: il gioco puramente intellettuale di chi, da lontano, prende parti che nella vita reale non è costretto a sostenere, di chi insomma nella propria posizione può permettersi di giocare con le idee, senza doverne pagare mai il prezzo. Questo e molto altro si conserva dunque in quelle pagine e nella definizione di Radical Chic. Ma da allora - era il 1970 - quel titolo viene ormai usato come uno slogan dispregiativo. Chiunque decida di vivere del proprio lavoro culturale e abbia posizioni progressiste e democratiche diventa "radical chic". Provare a ragionare su certi temi, provare a cercare la mediazione, subito viene etichettato come furbesco e ipocrita. Radical Chic oggi è uno slogan qualunquista. Un insulto generico. Il fatto è che questa volta Capalbio ha risposto esattamente come nelle pagine di Tom Wolfe si muovono gli intellettuali americani alle prese con i "pericolosi" ribelli: attraenti da lontano, disgustosi da vicino. Ora, i migranti destinati a Capalbio non saranno certo i nuovi Black Panters. E nelle villette sul mare in Toscana non svernano certo i nuovi Bernstein (o i nuovi Preminger). Ma non ci voleva neppure l'intelligenza di Tom Wolfe per comportarsi con più buonsenso. Non lo sanno, nella piccola Atene, che il disgusto più grande, nella gente, nasce proprio quando si vede il problema migrazione scaricato lontano dalle loro case e quindi piombato nelle periferie? I loro figli, nelle scuole che frequentano, forse non si imbattono in quelle classi formate per la maggior parte da bambini immigrati. Le spiagge che frequentano - come la ormai mitica "Ultima spiaggia" - non sono come le spiagge libere e popolari piene di famiglie d'ogni cultura. Molto più facile - dicono i delusi dalla risposta di Capalbio - parlare di integrazione quando i problemi sono lontani. Non la vivono, i sostenitori dell'integrazione, la difficoltà dell'integrazione. Ecco perché da Capalbio ci si sarebbe aspettati una reazione diversa. Avete presente l'immagine dei migranti che entrano nella stazione di Monaco accolti dalla gente? Ricordate il milione di euro raccolti, sempre a Monaco, non dai circoli intellettuali (che pure tanto si sono impegnati e schierati) ma dagli ultras del Bayern? Certo: Capalbio non è Monaco. Ma tanto più dopo questa brutta storia non è più solo Capalbio. La piccola Atene avrebbe potuto fare la differenza. Che delusione invece questo silenzio di tutti gli intellettuali - quasi tutti: Asor Rosa è stata una delle pochissime eccezioni. Che vergogna vedere non "l'intellighenzia" ma l'intelligenza andare in vacanza. E nascondersi.
Quel "poverino" del colonnello dell'Isis. Così i compagni italiani lo difendevano, scrive “Libero Quotidiano” il 19 agosto 2016. C'è un filo nero che collega l'estremismo islamico e i militanti anarchici e neobrigatisti italiani. Un collegamento raccontato anche dalle lettere che il colonnello dell'Isis arrestato in Libia, Fezzani Moez Ben Abdelkader, detto anche Abu Nassim, scriveva agli "amici", i compagni anarchici attivi a Milano. Abu Nassim era stato arrestato a maggio 2010 e detenuto nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Il destinatario delle sue lettere era l'associazione Ampi orizzonti, che ha inserito le carte nel dossier "è Ora di Liberarsi dalle Galere", con il quale gli anarchici milanese fanno controinformazione sullo stato delle carceri. I punti in comune tra le rinascenti Br e i terroristi islamici stanno tutti nella lotta all'imperialismo americano e contro la misura dell'isolamento nelle carceri. Per i compagni italiani, gli estremisti islamici sono "prigionieri di guerra arabi". Nel dossier "Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per araboislamici" del 2014 c'è la rappresentazione plastica del legame tra i due mondi, considerando che il dossier porta le firme dei principali "prigionieri politici" rossi come Alfredo Davanzo e Claudio Latino. Dal carcere di Siano, in provincia di Catanzaro, scrivono: "Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano". Per far breccia nei cuori dei compagni italiani, Abu Nassim aveva raccontato il suo curriculum carcerario. Quegli ultimi sette anni passati a Bagram, in Afghanistan, prigioniero dell'esercito americano, lo hanno reso praticamente un martire: "Ero legato al muro con i ferri - racconta in una lettera agli amici italiani - come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all'asilo politico, perché dopo 7 anni nell'inferno di Bagram sono stato considerato innocente". Quando è tornato in Italia, Abu Nassim è stato espulso nel 2013, prima della condanna. In Tunisia ha fatto carriera tra le fila dell'esercito del Califatto, fino a toccarne i vertici.
Quegli strani rapporti tra jihad, Br e criminalità. Una lettera di Abu Nassim su una rivista rossa. Solidarietà ai detenuti islamici dai brigatisti, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/08/2016, su "Il Giornale". L'emersione del cosiddetto «fondamentalismo islamico è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione è etica, diritto, prassi politica»: bisogna partire da questa analisi, ospitata da uno dei siti di punta della sinistra antagonista italiana, per capire dove appoggi uno dei fenomeni più inverosimili della emergenza terrorismo in Italia: la saldatura tra gli ambienti dell'integralismo islamico e l'universo antagonista e insurrezionalista. Nelle carceri e fuori dalle carceri, i fanatici della jihad intrecciano legami con i fanatici della lotta armata made in Italy, dagli ultimi avanzi delle Brigate Rosse al magma anarchico e autonomo. Una intesa saldata da alcune parole d'ordine comuni: la battaglia contro il capitalismo occidentale e l'odio verso Israele, spesso tracimante in antisemitismo. In nome della lotta ai nemici comuni, i rivoluzionari nostrani non disdegnano il dialogo con chi decapita omosessuali e adulteri. A rilanciare l'allarme su un fenomeno già noto alle forze di polizia sono le lettere pubblicate ieri sul Corriere della sera scambiate in carcere tra Moez Fezzani, il terrorista espulso dall'Italia dopo una assoluzione campata per aria e ora catturato in Libia, e ambienti estremisti italiani. In particolare il quotidiano milanese cita una missiva inviata da Fezzani (alias Abu Nassim) e pubblicata da Altri orizzonti, la rivista anarchica dedicata al mondo delle carceri. La lettera viene inviata dall'islamico alla rivista nel 2010, dopo che Fezzani - a lungo rinchiuso nel carcere americano di Bagram - era stato consegnato all'Italia. Interessante il luogo di provenienza: Fezzani scrive da Rossano, il carcere calabrese di alta sicurezza dove il ministero concentra tutti i detenuti islamici considerati a maggiore rischio di militanza jihadista. In teoria, la corrispondenza degli estremisti detenuti a Rossano dovrebbe essere soggetta a censura preventiva. Ma la lettera in cui Abu Nassim denuncia presunte torture riesce a superare i varchi di censura e viene ricevuta e pubblicata da Altri orizzonti insieme a quelle di altri detenuti politici. Di rimando, nel 2014 dal carcere di Siano dove sono detenuti i capi delle «nuove Br» arriva il documento di solidarietà ai detenuti islamici, un dossier intitolato Le Guantanamo italiane in cui i terroristi rossi denunciano le condizioni in cui sarebbero detenuti i terroristi islamici. Nel documento, i Br sentono il dovere di prendere in parte le distanze dagli aspetti più integralisti della ideologia islamica. Ma si tratta di dettagli su cui i rivoluzionari italiani sono pronti a sorvolare senza fatica in nome della comune battaglia antimperialista: come sintetizza un titolo di un documento della Organizzazione comunista internazionalista, Dalla bandiera rossa alla bandiera verde per stato di necessità. Ad approfondire le basi ideologiche di questa alleanza basta leggere quanto il leader dei «Comunisti-marxisti leninisti» Giovanni Scudieri: «Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l'imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l'imperialismo sia il padrone dell'Irak, della Siria, del Medioriente. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo». E sul sito campoantimperialista.it troneggia il titolo Rivolta islamica: un 11 settembre di massa, sotto cui si legge addirittura: «Il salafismo combattente, ancorché sconfitto, come l'araba fenice risorgerà dalle sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l'imperialismo dominerà il mondo». Insomma: privi di prospettive, davanti alla disarmante sordità delle masse popolari italiane ai loro proclami, i rivoluzionari di casa nostra cercano interlocutori più attivi nella galassia islamica. E a quanto pare, come dimostrerebbe la lettera di Fezzani, trovano disponibilità al dialogo. Un'alleanza potenzialmente assai pericolosa, che lo diverrebbe ancora di più se dai messaggi da una cella all'altra e dai ponderosi documenti ideologici si passasse ad una contiguità operativa. Di questa per ora non c'è traccia. A differenza di quanto emerso in alcuni casi di dialogo tra organizzazioni islamiche e ambienti legati alla criminalità organizzata: ma questo è un altro film.
Il detenuto Moez era il «povero amico» di anarchici e brigatisti. Lettere dal carcere italiano del reclutatore Abu Nassim. Islamisti e «compagni» uniti nella lotta antimperialista. «Mi sveglio sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite», scrive Gianni Santucci il 19 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Rivolgendosi ai nuovi «compagni», anarchici e neobrigatisti, si firma così: «Il vostro povero amico Moez, che si sveglia sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite». La lettera viene spedita dal carcere di Rossano Calabro (Cosenza). È datata 30 maggio 2010 e arriva a Milano poco dopo. Il «povero amico» è Fezzani Moez Ben Abdelkader (detto Abu Nassim): oggi colonnello dell’Isis in fuga dalla Libia. Secondo alcune fonti, non confermate, Fezzani sarebbe stato arrestato qualche giorno fa, ma è interessante sapere chi sono gli «amici» a cui scriveva prima della condanna e l’espulsione dall’Italia (nel 2013). Abu Nassim indirizzò la sua lettera all’associazione «Ampi orizzonti», che l’ha inserita in un ampio dossier «OLGa» («è Ora di Liberarsi dalle Galere»): il bollettino anti carcerario degli anarchici milanesi. Quel fascicolo racconta l’abbraccio solidale che, da un decennio, lega i «neri» e le nuove Br ai terroristi islamisti (definiti «prigionieri di guerra arabi»). Si sono ritrovati «compagni di strada» su un terreno comune: contro «l’imperialismo americano» e i reparti di isolamento nei penitenziari italiani. La testimonianza più profonda di questo legame sta in un’altra lettera di solidarietà ai condannati islamisti, anch’essa contenuta nel dossier «Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per arabo-islamici» (2014), che porta la firma dei maggiori «prigionieri politici» delle Nuove Brigate Rosse (tra cui Alfredo Davanzo e Claudio Latino). Pur chiarendo che «ci distingue la concezione del mondo», dal carcere di Siano (Catanzaro) affermano: «Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano». L’isolamento dei condannati islamisti ha un obiettivo primario: contenere il reclutamento in carcere dei detenuti per reati «comuni». Abu Nassim si radicalizzò nella moschea di viale Jenner nel 1993. Partì come mujaheddin per la guerra in Bosnia. Tornato a Milano, divenne un reclutatore per l’invio di combattenti di Al Qaeda in Afghanistan. Poi si spostò a fare lo stesso «mestiere» in Pakistan, dove venne fermato dagli americani e tenuto per 7 anni a Bagram. Ai «compagni» anarchici e comunisti raccontava questa esperienza: «Ero legato al muro con i ferri, come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all’asilo politico, perché dopo 7 anni nell’inferno di Bagram sono stato considerato innocente». Riconsegnato all’Italia ed espulso prima della condanna, dalla Tunisia Abu Nassim ha scalato le gerarchie dell’Isis. L’abbraccio con gli estremisti italiani è stato politico, mai «operativo». Nell’ambiente anarchico e neobrigatista c’è stato un duro dibattito interno sull’amicizia con i «compagni (islamisti) che sbagliano».
Padre Rebqwar scuote il Meeting: "Sull'islam dovete dire la verità", scrive Franco Bechis il 22 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. "Sul rapporto con l'Islam bisognerebbe smetterla con il politically correct per non urtare sensibilità. L'unico criterio possibile per parlarsi èla verità, non nascondere i fatti come si fa con la polvere sotto il tappeto". Padre Rebwar Basa è un iracheno di 38 anni, nato ad Erbil e ordinato sacerdote nel monastero di San Giorgio a Mosul. Un religioso nella polveriera di questi anni, che ha vissuto in un Iraq dove i cristiani sono sempre più minoranza, perseguitata da tutti i gruppi islamici del paese e con una vita resa difficile anche dal potere ufficiale. Al Meeting di Rimini per tre giorni è venuto a raccontare la sua storia a chi visita la mostra sui martiri cristiani organizzata dalla onlus Aiuto alla Chiesa che soffre. È stato protagonista di un episodio che mai si era verificato al Meeting di Rimini: un testimone oculare di stragi che racconta la propria storia e che viene messo in discussione, ritenuto inattendibile dal pubblico che ascolta. L'ho filmato durante quel braccio di ferro con il pubblico, e lui ha tenuto botta: "Ogni tanto leggo che i cristiani sarebbero vittime collaterali di un conflitto. No, non è così: sono l'obiettivo principale. C'è una persecuzione che è anche un genocidio, e di questo dobbiamo parlare". Il pubblico rumoreggiava, contestava apertamente. Padre Rebwar con calma ha replicato: "Non vi fidate di me? Non ci credete? Potete anche approfondire: ci sono mass media, ci sono libri, ci sono altri testimoni. Potrete informarvi. Però qui spesso si ha paura di parlare per non toccare la sensibilità di altre religioni, di non dire questo, non dire quello. E state vedendo grazie a questo atteggiamento come è diventata la situazione dell'Europa, dove siete la maggioranza come cristiani e vivete in allerta. Immaginate cosa si vive da noi in Iraq, dove siamo lo 0,5% della popolazione. Qui da voi ci sono ragazzi dell'Islam che partono per andare a combattere in Iraq e in Siria, pronti a morire. E i vostri giovani non sono pronti nemmeno più a partecipare a una Santa Messa”. Il giorno dopo gli ho chiesto se era stupito di questa incredulità. Mi ha fatto capire di no, che non è la prima volta. Ho sentito le sue parole vibranti sugli errori dell'Occidente, ma lui ora quasi se ne ritrae: "Voi in Occidente siete molto più sviluppati che da noi, non posso dirvi cosa dovete fare. Secondo me c'è un solo criterio per giudicare quel che sta avvenendo: la libertà. Dove la libertà è assicurata, non c'è conflitto, non c'è ingiustizia. Ma per esserci libertà bisogna che una minoranza possa vivere in pace, e da noi questo non accade. L'Islam è una religione, che però spesso viene catturata dalla ideologia che lo rende radicale. I giovani che corrono a combattere con l'Isis sono vittime di questi islamici che gli insegnano l'odio, dicono loro di non accettare le diversità, di considerare gli altri infedeli. E quell'odio diventa persecuzione nei nostri confronti. Questo bisogna saperlo...". Franco Bechis.
Al Meeting di Rimini di CL. Oltraggio alla statua della Madonna: come l'hanno ridotta (per gli islamici), scrive “Libero Quotidiano" il 20 agosto 2016. La statua della Madonna nascosta per non urtare la "sensibilità" dei fanatici islamici. Anzi, per evitare che qualcuno, magari un lupo solitario ispirato dall'Isis, possa dare di matto e fare qualche gesto inconsulto. Il clima di terrore si è diffuso anche al Meeting di Comunione e Liberazione. Un video di RepubblicaTv svela cos'è successo nello stand della casa editrice Shalom, dove si vendono libri religiosi, rosari, poster e oggetti sacri. Qui però sulla statua della Vergine è stato posto un telo azzurro: "È per questi attacchi che stanno facendo. Loro hanno un odio verso la Madonna e quindi, per evitare, l'abbiamo coperta - spiega davanti le telecamere la responsabile dello stand -. La dovevamo togliere, addirittura perché qui ci sono tante religioni. Non era mai successo, avevamo dei quadri qui che ci hanno fatto togliere. È per evitare degli scontri". Il finale è all'insegna di un'amara ironia: "La Madonna è stata messa in castigo e ha accettato perché è umile. Ogni tanto la vengo a consolare".
Filippo Facci il 28 luglio 2016 su “Libero Quotidiano” svela il vero volto dell'Islam: "Perché lo odio". Odio l’Islam. Ne ho abbastanza di leggere articoli scritti da entomologi che osservano gli insetti umani agitarsi laggiù, dietro le lenti del microscopio: laddove brulica una vita che però gli entomologi non vivono, così come non la vivono tanti giornalisti e politici che la osservano e la giudicano dai loro laboratori separati, asettici, fuori dai quali annasperebbero e perirebbero come in un’acqua che non è la loro. È dal 2001 che leggo analisi basate su altre analisi, sommate ad altre analisi fratto altre analisi, commenti su altri commenti, tanti ne ho scritti senza alzare il culo dalla sedia: con lo stesso rapporto che ha il critico cinematografico coi film dell’esistente, vite degli altri che si limita a guardare e a sezionare da non-attore, da non-protagonista, da non vivente. Ma non ci sono più le parole, scrisse Giuliano Ferrara una quindicina d’anni fa: eppure, da allora, abbiamo fatto solo quelle, anzi, abbiamo anche preso a vendere emozioni anziché notizie. Eccone il risultato, ecco alfine le emozioni, le parole: che io odio l’Islam, tutti gli islam, gli islamici e la loro religione più schifosa addirittura di tutte le altre, odio il loro odio che è proibito odiare, le loro moschee squallide, la cultura aniconica e la puzza di piedi, i tappeti pulciosi e l’oro tarocco, il muezzin, i loro veli, i culi sul mio marciapiede, il loro cibo da schifo, i digiuni, il maiale, l’ipocrisia sull’alcol, le vergini, la loro permalosità sconosciuta alla nostra cultura, le teocrazie, il taglione, le loro povere donne, quel manualetto militare che è il Corano, anzi, quella merda di libro con le sue sireh e le sue sure, e le fatwe, queste parole orrende che ci hanno costretto a imparare. Odio l’Islam perché l’odio è democratico esattamente come l’amare, odio dover precisare che l'anti-islamismo è legittimo mentre l’islamofobia no, perché è solo paura: e io non ne ho, di paura. Io non odio il diverso: odio l’Islam, perché la mia (la nostra) storia è giudaica, cattolica, laica, greco-latina, rousseiana, quello che volete: ma la storia di un’opposizione lenta e progressiva e instancabile a tutto ciò che gli islamici dicono e fanno, gente che non voglio a casa mia, perché non ci voglio parlare, non ne voglio sapere: e un calcio ben assestato contro quel culo che occupa impunemente il mio marciapiede è il mio miglior editoriale. Odio l’Islam, ma gli islamici non sono un mio problema: qui, in Italia, in Occidente, sono io a essere il loro. Filippo Facci
Vergognoso il razzismo anti-italiano del Governo, scrive Andrea Pasini il 23 agosto 2016 su “Il Giornale”. “Ma, detto con grande serenità, che cosa dobbiamo fare di più noi italiani nei confronti degli immigrati” si chiede laconico, qualche tempo fa, il direttore Alessandro Sallusti su la prima pagina de Il Giornale. Con Mare Nostrum e l’operazione Triton siamo andati a raccogliere i clandestini in mezzo al mare. Con i centri d’accoglienza li abbiamo accolti, sfamati e vestiti per sentirci dire che il popolo italiano non è nient’altro che razzista. La lista continua e ai rom, che spesso mi capita di citare, consentiamo di non pagare le tasse, di vivere in campi abusivi e senza la minima norma igienica. Agli islamici invece consentiamo di dettarci le regole, vedendo costruire moschee ad ogni latitudine della penisola senza sapere da dove provengono, in maniera precisa, i contributi che servono a finanziare l’edificazione di questi luoghi di culto. Una dinamica che non sta né in cielo, né in terra. Il tutto mentre gli italiani vittime di calamità naturali vivono ancora dentro a delle baracche a distanza di decenni. Gli anziani “campano” con 300 euro al mese di pensione, anche se le indagini Istat parlano di un pensionato su due che vive con più di 1000euro al mese di vitalizio miraggi da terzo millennio, morendo di fame. I giovani valorosi, con lauree e voglia di fare, si vedono il futuro sottratto perché davanti a loro, sulla corsia di sorpasso preferenziale, passano gli incapaci, ma amici degli amici. Qualche tempo fa ci siamo imbattuti nella morte di Emmanuel Chidi Namdi, l’immigrato deceduto a Fermo in seguito ad una rissa con Amedeo Mancini. Il fermano è già stato bollato dalla stampa come estremista di destra ed ultras per questo razzista e colpevole. Ben prima che la Magistratura faccia il suo corso. Si è detto che Mancini avesse insultato razzialmente il nigeriano e ne sarebbe nata una colluttazione, ma la testimone, la cui voce è stata messa in dubbio ripetutamente, Pisana Bachetti ha visto l’africano, che era accompagnato dalla consorte, aggredire l’italiano. Al funerale tutti gli alti funzionari da Laura Boldrini a Maria Elena Boschi. Ma costoro dov’erano agli estremi onori delle vittime di Dacca? Erano presenti al servizio funebre del giovane ternano, David Raggi, sgozzato da un marocchino irregolare sul suolo italiano con precedenti penali? Le parole della vedova del macellaio Pietro Raccagni, ucciso due anni fa da quattro immigrati clandestini albanesi, fanno raggelare il sangue: “noi discriminati dal governo”. Proprio così perché nessun politico parlò di razzismo in questi casi da me citati. Nessun presidente della Camera si recò ai funerali di questi uomini. Nessun anima pia della lotta all’antirazzismo spese una parola per questi italiani. Vittime di serie A e di serie B, ma per loro saremo sempre e solo vittime di serie B. “Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”. Inizia così la seconda parte dell’inno d’Italia e i doppiopetto della politica esercitano questa parole a meraviglia.
Si sta rompendo il patto sociale vigente in Italia. Si sta cercando di scardinare ogni appiglio di questa nazione, ogni speranza di rivalsa. Le famiglie italiane si impoveriscono giorno dopo giorno, gli imprenditori, le partite Iva e i commercianti lottano contro una burocrazia fattasi pachiderma che costringe i lavoratori a pagare il 60% delle loro entrate sotto forma di tasse. Le nostre forze dell’ordine sono senza mezzi, senza dignità e lasciati senza fiducia nella lotta che li vede contrastare il crimine in ogni angolo dello stivale. Immaginate voi, per pochi spiccioli, di combattere il male riversatosi su questa nazione e di dover essere schiacciati ed usurpati da chi ci comanda. Una pazzia. Il sistema sanitario è al collasso. La sanità è sempre stato un vanto tutto italiano dai medici ai primari passando per gli infermieri capaci e volenterosi di dare dignità al malato in ogni istanza. Mentre oggi per una visita specialistica, che può fare la differenza tra la vita e la morte, bisogna aspettare mesi, se non mesi anni. E il pronto soccorso? Si entra la mattina e si esce la notte, il tutto mentre ai clandestini vengono gettati a terra tappeti rossi e privilegi. La sanità va a pari passo con le case popolari e a soccombere sono, tra un incartamento e l’altro, i nostri concittadini. Vittime di attese e scavalcati da ogni lato dagli altri, che vengono prima ce lo dice il governo. Per non farci mancare nulla ovviamente l’orco brutto e cattivo della fiaba siamo noi, che non abbiamo cuore, che non ci doniamo come dovremmo. Per Papa Francesco “Dio è nei migranti”, ma non esiste per i padri divorziati che dormono in macchina per dare un futuro ai propri figli. Per chi raccoglie nella spazzatura un torsolo di mela pur di mangiare qualcosa. Per quegli italiani in fila al dormitorio che non vogliono passare una notte su di una panchina. Per il nostro vicino di casa senza lavoro che non vede un domani e pensa al suicidio. Dio per questa gente, secondo l’attuale Chiesa, si è voltato dall’altra parte. La saliva dei politici e dei prelati continua a dirci che dobbiamo accogliere i clandestini in casa nostra, che dobbiamo sostenere le comunità disagiate provenienti da ogni lato del mondo, che, come direbbe Nichi Vendola, dobbiamo abbracciare “i nostri fratelli rom e i nostri fratelli mussulmani”, che l’integrazione è fondamentale. Ma chi siede sui banchi di Montecitorio o a palazzo Madama che esempio dà? Nessuno, si sono adagiati sulla riva del mare per vedere affondare questa nazione, al fresco, visto il periodo di canicola, delle loro laute ricompense. Date il buon esempio e accoglieteli nelle vostre regge, spalancate i conventi per ospitare e mantenere tutti i clandestini presenti in Italia. Essere bravi a parole non vale nulla è troppo facile. Prima gli italiani, bisogna gridarlo in ogni piazza, perché gli interessi di questa nazione vengono prima di qualunque altra cosa. Gli italiani tutti i giorni si rimboccano le maniche e fanno sempre di più di quello che dovrebbero fare. Tutti i giorni devono cercare di sbarcare il lunario per pagare tasse su tasse, senza ricevere in cambio niente, nessun servizio, nessuna tutela, nulla di nulla. Ma attenzione, siamo stanchi di farci derubare dei nostri soldi che vengono utilizzati per mantenere chiunque l’importante è che non sia italiano. Ed avete la faccia tosta di chiamarci razzisti? Come osate? La classe dirigente di questo paese si deve vergognare, dovrebbe rappresentare con onore il popolo italiano e invece tutti i giorni lo offende, lo accusa, lo processa e soprattutto lo sfrutta. I veri razzisti siete voi. Basta con la discriminazione anti-italiana, basta con questa classe politica costituita da incapaci e traditori.
Italicidio. L’Italia è gli Italiani. Non tutti gli italiani sono l’Italia, scrive Nino Spirlì il 22 agosto 2016 su “Il Giornale”. « …Vergine Augusta e Padrona, Regina, Signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, né trionfi contro di me l’iniquo avversario » (S. Efrem) Italicidio, direi. Sì. Tanto per scimmiottare i neologisti dello specifico spasmodico. Morte della mia Patria, aggiungerei, pensando a mio Nonno Nino Spirlì, Vero Cavaliere di Vittorio Veneto e a Zio Giacomo Mangialardo, Camicia Nera fino all’estremo sacrificio. Assassinio della mia Terra, della mia Gente, della nostra Identità e della nostra Cultura, per mano sporca di schiavisti vestiti da cherubini. Per mano di trafficanti di libbre di carne umana, in cambio di strapotere occulto. Di vile denaro, lordo di sangue di innocenti e di pianti di italiani abbandonati a se stessi, mentre i macellai ci sgozzano come agnelli sacrificali e il papampero li incoraggia con la stupida e ottusa falsa accoglienza che gli fa cassa, eccome! Martirio della nostra Storia e della nostra Fede Cristiana, la quale, volenti o nolenti, è Radice inconfutabile della nostra Civiltà. Gesù Nazareno nacque Uomo, accolse la Legge degli uomini e il volere del Padre, e tracciò per noi, con la vita, la morte e la rinascita, il tempo e la strada da seguire. Che piaccia o no ai maomettani e similari, ai senzadio nostrani e ai disattenti politicanti da selfie tamarro, Cristo è Padre, Fratello e Signore dell’Occidente e degli uomini liberi di tutto il mondo. A Lui dobbiamo. Quando la nostra Civiltà e il suo progresso vengono schiaffeggiati, derisi, violati, uccisi, viene commesso reato e peccato. Insieme. Perché noi siamo così come siamo proprio perché Cristiani. E soprattutto i Cristiani non dovrebbero uccidere i Cristiani. Mentre sono proprio certi cristianoidi, bugiardi nella fede e nella dignità, che stanno aprendo le porte al maiale di troia (perché della nobiltà del cavallo nulla ha, questo nuovo strumento d’invasione), affinché dalle sue viscere si liberi quel fango violento che ci vorrebbe spazzare via dalla nostra Casa. L’Italia uccide l’Italia. Il Palazzo vende la carne del Popolo alle mafie e ai menzogneri di tutto il continente africano. Assassini, ladri, truffatori, pedofili, femminicidi di ogni stato del continente nero salgono sulle carrette del mare e si vomitano in Italia, senza un pezzo di carta che attesti chi siano e che cazzo vogliano da noi… Brutti nel corpo e nell’anima, sporchi nella dignità e nelle speranze, cattivi nella mente e nel cuore, sbarcano e si sentono padroni feroci. Anche delle nostre esistenze, che qualcuno gli presenta in dono. Ma noi non ci stiamo. Noi siamo l’Italia che non ci sta! Siamo Coloro i quali li spazzeranno via. Li costringeranno a tornarsene nei loro lontani covi malandrini, dai quali sono scappati non certo per persecuzioni o carestie, ma per codardia o colpevolezza. Ribellarsi all’invasione è un dovere. Ribellarsi alla malapolitica e alla sopraffazione massona è un diritto. Allontanare l’antiCristo è un obbligo, che ci viene dal nostro Signore. Che si chiama Gesù e non UE. Basta prendere schiaffi! Ognuno di noi cominci a lavorare nel proprio piccolo territorio. Non li chiamiamo più, i clandestini, per pulire il giardino o scaricare la legna per dieci euro. Non li chiamiamo più per svuotare le cantine. Non li copriamo più coi nostri vestiti ancora nuovi. E neanche con quelli lisi, se mai ne avessimo. Prima di consegnare un chilo di pasta o un barattolo di pelati, guardiamoci intorno: magari c’è una famiglia italiana che non ne ha da mesi…Apriamo, spalanchiamo le porte a Cristo, come diceva qualcuno. Prima che a Maometto, aggiungerei. E scegliamoci veri e buoni amministratori, che sappiano e vogliano difendere confini e territorio, dignità e avvenire della nostra Italia. L’Italia è gli Italiani. Non tutti gli italiani sono l’Italia. Fra me e me.
Il poliziotto racconta: “L’accoglienza un business dei poteri forti. E chi parla viene fatto fuori dal sistema”, scrive Mattia Sacchi il 22 agosto 2016 su “Il Mattino On Line”. E’ uno dei poliziotti più famosi d’Italia, grazie alle sue denunce pubbliche su quanto succede nei centri d’accoglienza e nelle procedure per identificare i migranti. Daniele Contucci, assistente capo della Polizia di Stato in forza presso la Direzione centrale immigrazione e Polizia delle Frontiere, ora dirigente sindacale Consap, racconta quanto visto negli sbarchi di migranti sulle coste italiane.
Daniele Contucci, lei è stato in prima linea durante l’emergenza immigrazione…
«Ho fatto parte dell’URI. Si trattava di un’unita il cui obiettivo era quello dell’impiego in tutte le emergenze di immigrazione. Facevamo interviste a tutti i migranti che duravano circa 20 minuti e durante le quali ricostruivamo tutto il loro trascorso: tra cui le generalità, il percorso fatto per arrivare fino all’Italia e se avevano ricevuto ritorsioni nel loro paese d’origine. Successivamente, i dati venivano inviati in un database che veniva girato alla commissione territoriale la quale decideva se concedere l’asilo politico».
Lei ha visto da vicino il Cara di Mineo, uno dei più grandi centri richiedenti l’asilo d’Europa…
«Un centro in grado di ospitare 4000 richiedenti, ognuno dei quali ha un costo giornaliero di circa 37 euro, di più se il richiedente è minorenne. Potete quindi immaginare il tipo di business, per non dire altro, che ci sia dietro. Centinaia di persone che lavorano all’interno del centro, quindi un indotto economico enorme per l’entroterra siciliano. Con tutti gli interessi del caso e gli scambi clientelari. La task force di cui facevo parte riusciva a ridurre i tempi di permanenza di un anno. Successivamente l’unità è stata demansionata e chiusa, chissà perché…»
I migranti che ha incontrato le davano tutti l’impressione di scappare da qualcosa?
«Assolutamente no! Abbiamo avuto a che fare con tante persone dal passato tragico, ma anche da tanti migranti che si capiva sin da subito che avevano altri obiettivi. D’altronde i numeri parlano chiaro: nel 2014 sono arrivati in Italia 172mila migranti. Di questi solo il 10% riconosciuto lo status di asilante politico, per un totale di 36mila migranti a cui è stato riconosciuto un titolo per stare sul territorio europeo. Tutti gli altri avrebbero dovuto rimpatriare e invece la maggior parte è sparita nel nulla».
Lei è conosciuto anche per essere stato il primo a denunciare casi di turbercolosi e malattie infettive…
«Durante un’operazione di sbarco migranti nel Porto Augusta nel giugno 2014, siamo stati un giorno e mezzo a trattare con 1.200 persone, di cui 66 con la scabbia e altri con la tubercolosi. Ma, contro ogni procedura, siamo stati mandati allo sbaraglio con delle semplici mascherine e guanti in lattice. Io ho un figlio che all’epoca era appena nato e, per paura di non contagiarlo, non l’ho incontrato per un mese e ho fatto degli esami privati per accertarmi di non aver contratto alcuna malattia infettiva. Potete immaginare la frustrazione nel non poter vedere il proprio figlio crescere nei primi mesi di vita. Allora ho voluto denunciare questa situazione assurda che metteva i poliziotti a serio rischio».
Aveva paura delle malattie che si potevano contrarre?
«Certamente. Salivamo e scendevamo dalle navi senza le protezioni necessarie, incontrando persone che magari avevano malattie infettive. Finché si trattava di scabbia poteva essere fastidiosa ma non grave. Ma con la tubercolosi si può morire e soprattutto si rischia di contagiare i propri cari. Cosa avrei fatto se mio figlio avesse contratto una malattia del genere? Non me lo sarei mai perdonato, il solo pensiero era terribile».
Le sue denunce hanno portato a qualcosa?
«Prima le visite mediche duravano pochi minuti, adesso sono fortunatamente più approfondite, anche se non abbastanza. Proprio qualche giorno fa è stato trovato nella provincia di Como un migrante con una diagnosi di scabbia riscontrata pochi giorni prima nel Meridione d’Italia, senza sapere se aveva effettuato la profilassi del caso. Questi sono pericoli per la salute pubblica. Ma non è l’unico problema nelle procedure con i migranti in Italia».
Cosa intende dire?
«La mancata fotosegnalazione dei migranti ha creato dei grandissimi problemi. Io sono stato il primo a denunciare queste manchevolezze, che impedivano il rispetto dei trattati di Dublino. Molti di questi migranti evitavano di farsi fotografare, con la compiacenza delle autorità italiane: parliamo di 100mila persone non fotosegnalate tra il 2014 e il 2015. Magari alcuni di loro sono terroristi o legati ad associazioni dai fini criminali. Anche se fosse solo uno su mille sarebbe una cosa gravissima dalla portata decisamente pericolosa con evidenti responsabilità dei vertici governativi e di sicurezza».
Le sue denunce le hanno portato ripercussioni sul posto di lavoro?
«Solo problemi e ritorsioni. La nostra sezione è stata ufficialmente chiusa, noi demansionati dai nostri incarichi. Io lavoro a Roma e hanno cercato ad ogni modo di convincermi a far domanda di trasferimento, situazione comoda vista la lontananza da un ufficio centrale di importanza così rilevante. E anche i colleghi che prima mi sostenevano sono piano piano spariti, lasciandomi solo contro tutti. Chissà se qualcuno di loro comprato?»
La politica si è però interessata a lei e al suo caso…
«La Lega Nord aveva presentato delle interpellanze sui casi da me denunciati, ma quando il gioco ha cominciato a farsi più serio sono spariti anche loro. Forse gli interessi che ho toccato sono troppo grandi. Poi ho accettato la candidatura al Consiglio comunale a Roma con Fratelli d’Italia: se avesse vinto la Meloni forse avrei fatto parte del Consiglio comunale per continuare a lottare affinché giustizia, verità e libertà trionfino contro la casta e il malaffare legato al business dell’immigrazione».
Quindi cercava anche lei la poltrona…
«Ma per niente! Solo che in questa situazione è praticamente impossibile proseguire in Polizia il mio lavoro di verità e giustizia. Ricoprendo un incarico politico elettivo rinuncerei a qualsiasi euro in più rispetto alla mia ultima busta paga a dimostrazione del mio disinteresse economico. Lo avrei fatto solo per continuare la lotta contro la delinquenza, ovunque essa sia».
Come valuta la situazione a Como?
«E’ una situazione molto particolare. I migranti che arrivano vogliono passare il confine svizzero. Solo che se entrano in Svizzera e non sono stati fotosegnalati prima in Italia è più difficile accertare il primo paese di approdo per poi esser riaccompagnati alla frontiera. Ma comunque dalle interviste delle polizie locali si risale poi ai fatti e quindi rispediti lo stesso in Italia. A questo punto è giusto che le Guardie di Confine siano li per garantire la sicurezza del loro popolo, visto anche il concreto rischio terrorismo».
Ma l’Italia ha colpe in tutto questo?
«Direi proprio di si. I trattati di Dublino probabilmente penalizzano l’Italia, ma la soluzione non è non identificare i migranti. Durante il semestre di presidenza europeo, l’Italia poteva far qualcosa su questo fronte ma in realtà, nonostante i proclami, non si è fatto nulla. Un’immigrazione controllata e integrabile può essere sana, ma non è certo questo il caso».
“Immigrazione integrabile”. Ritiene che molti immigrati rifiutino di integrarsi?
«Chiedete alle donne poliziotte quando alcuni migranti di sesso maschile si rifiutavano di rilasciare le dovute interviste. Già questo indicativo della differenza di mentalità».
Cosa pensa di Mare Nostrum e Triton?
«Mare Nostrum è stata un’operazione italiana dai costi incredibile che ha fatto il gioco degli scafisti, visto le regole d’ingaggio che permettevano di arrivare a 10 miglia dalle coste libiche. Mentre Triton, sotto Frontex e tutt’ora in atto, ha come obiettivo salvaguardare le coste e arrestare gli scafisti con l’ingaggio a 30 miglia dalle coste libiche. Un migrante prima di queste missioni pagava 2-3 mila euro per il viaggio verso l’Italia, successivamente solo 700-800 perché ovviamente i rischi, sempre altissimi, sono diminuiti con Mare Nostrum. Bisogna arrivare alle origini del fenomeno, facendo lavorare le diplomazie. All’estero ci sono consolati e ambasciate italiane: si potrebbe gestire la cosa nei paesi d’origine organizzando e gestendo le richieste d’asilo direttamente presso le nostre diplomazie all’estero. In quel modo la gente potrebbe sapere che c’è una strada normale e ordinaria per arrivare in Italia e si toglierebbe un business mortale dalle mani dei trafficanti di esseri umani. Poi servirebbe un’operazione cuscinetto sotto l’egida dell’Onu creando dei campi sosta per selezionare da lì i richiedenti asilo. Accompagnando inoltre corridoi umanitari per le popolazioni effettivamente in guerra come la Siria o Libano. Purtroppo invece si preferisce la politica delle lacrime di coccodrillo e delle morti annunciate».
Nonostante le ritorsioni, continuerà a denunciare i malfunzionamenti delle politiche migratorie?
«Certo, continuerò a lottare da uomo libero quale sono e non mi fermerò di fronte ad alcuna ritorsione o minaccia. Racconterò i fatti, nella convinzione che molti apriranno gli occhi…»
Mario Giordano su “Libero Quotidiano” del 19 agosto 2016: la verità è che gli immigrati non vogliono lavorare. Lavoro? Non ce n' è, perciò noi lo diamo ai profughi. È un'idea geniale quella del governo, avanzata tramite il capo dell'Immigrazione, prefetto Mario Morcone. Un' idea candidata ufficialmente al Premio Oscar della Stupidaggine 2016. E del resto solo chi sta gestendo l'accoglienza nel modo delirante che abbiamo sotto gli occhi, con piccole frazioni invase da centinaia di immigrati e cooperative improvvisate che si riempiono le tasche di soldi, poteva partorire una scemenza di tale portata. E solo chi sta cercando disperatamente un diversivo per celare la propria incapacità poteva lanciarlo a nove colonne sul Corriere della Sera come una vera proposta su cui far discutere il Paese. Intanto, per prima cosa, va detto che se questa è una novità anche Matusalemme potrebbe passare per un neonato. Di Comuni che negli ultimi mesi hanno cercato di impiegare i sedicenti profughi in lavoretti vari, infatti, se ne contano a bizzeffe: a Belluno gli immigrati hanno ridipinto le ringhiere, a Vicenza hanno pulito i parchi, a Castello d' Argile hanno fatto lavoretti nell' asilo, a Lucca si sono occupati della manutenzione della via Francigena, in Val Bormida hanno tolto i rami dai fiumi, ad Arezzo e Vittorio Veneto si sono occupati di giardinaggio, a Genova si sono trasformati in archivisti al Museo Doria… Il problema, piuttosto, è che "lavorare" per molti aspiranti profughi è una parola grossa, la questione non è tanto trovare loro un'occupazione quando ottenere che la svolgano. Evidentemente mangiare a sbafo, per molti, è assai più comodo… Il prefetto Morcone, dunque, dimostra ancora una volta di non conoscere la realtà che dovrebbe amministrare perché propone un'idea che non solo è vecchia come il cucco, ma che già mostra la corda in tutto il Paese per manifesta inapplicabilità. Probabilmente, come dicevamo, lo fa soltanto per creare un diversivo in mezzo alle polemiche. Ma quello che è grave è l'idea devastante che questa proposta rivela, la concezione mortale della nostra società che si nasconde dietro di essa. Lo si capisce perfettamente quando il giornalista del Corriere chiede al prefetto Morcone: «E gli italiani che non hanno lavoro?», e lui risponde sprezzante: «Io mi occupo di immigrati». Chiaro, no? Lui si occupa di immigrati. È giusto che gli immigrati abbiano vitto, alloggio, i soldi per il telefono e ora anche il nostro lavoro. E gli italiani? Che restino disoccupati. Che muoiano pure di fame. Oppure, se preferiscono, che spariscano dall' Italia. Sia chiaro, lo ripetiamo per non essere fraintesi. In sé l'idea di togliere i clandestini dai muretti dove bighellonano da mane a sera non è priva di qualche fascino. Vedere schiere di giovani baldi e forti (a proposito: perché i sedicenti profughi che arrivano in Italia sono tutti baldi e forti?) che ciondolano nullafacenti negli hotel quattro stelle in attesa del pranzo e della cena (che contestano se non è di loro gradimento) o bivaccano sulle panchine smanettando sugli smartphone di ultima generazione (a proposito: perché i sedicenti profughi che arrivano in Italia hanno tutti smartphone di ultima generazione?), magari provocando risse, furti, scippi e altri guai, non è piacevole. Di qui è ovvio che qualche sindaco si lasci tentare: perché, almeno, non facciamo fare loro qualcosa? Ma dev' essere chiaro che se un immigrato fa (gratis o sottopagato) il giardiniere o il cantoniere o l'archivista, evidentemente toglie il posto a un italiano, che quel lavoro non lo può fare gratis né sottopagato per il semplice motivo che a lui quei soldi servono per vivere perché non c' è nessuno che lo mantiene, a differenza dell'immigrato. Dunque ci sarà un operaio disoccupato in più, una piccola azienda che perde la commessa, un artigiano senza lavoro. E allora vi sembra logico che un italiano paghi le tasse (e tante) per mantenere in Italia profughi che vivono a sbafo e poi portano via pure il posto di lavoro? Non è un circolo perverso, una spirale mortale, un tunnel che porta al nulla? Questo è quello che è successo finora: lo Stato dà i soldi ai profughi e affama i sindaci, i sindaci affamati dallo Stato si fanno tentare dall' utilizzare manodopera gratis, e alla fine chi è che paga il conto? I lavoratori italiani, ovviamente. Quelli che hanno sempre pulito le strade, riparato le strade, verniciato le ringhiere. E che ora lo fanno sempre meno. Per la crisi, si capisce. Ma anche per la concorrenza sleale di chi può lavorare gratis perché mantenuto. Ancora più grave, poi, se tutto ciò avviene non per lavori di pubblica utilità, ma in attività private, come accadde l'anno scorso alla festa del Pd di Reggio Emilia. Qui lo sfruttamento è totale e non ha nemmeno l' alibi del servizio alla collettività… Che ora lo Stato, attraverso il capo dell' Immigrazione, proponga questo come sistema generale è preoccupante perché dimostra il modello di società che hanno in mente, che si basa per l' appunto sullo sfruttamento totale, una cosa che arriva quasi a sfiorare la moderna schiavitù: l' invasione programmata di clandestini serve infatti ad abbassare fino all' annullamento i diritti dei lavoratori e la loro retribuzione, fino a considerare cioè la retribuzione non come la giusta ricompensa ma come un "di più", una mancetta da elargire insieme a un tozzo di pane e a un posto letto improvvisato. Vi siete mai chiesti, per esempio, perché a Rosarno non si riesca a eliminare l'eterna tendopoli dei clandestini? Semplice: perché serve manodopera a bassissimo costo per i caporali che reclutano lavoratori per i campi. E gli italiani, se vogliono lavorare, devono adeguarsi a quelle condizioni, come in effetti già stanno facendo. Ecco il modello Morcone è una specie di maxi-caporalato esteso a livello nazionale, una Rosarno moltiplicata per mille: diffondo lavoro sottopagato per costringere gli italiani ad adattarsi, oppure ad emigrare. Un progetto devastante che si nasconde dietro il volto gentile dell'integrazione, del "non possiamo lasciarli abbruttire", dei "meccanismi premiali" e dei "comportamenti virtuosi". Tutte parole inutili per nascondere due verità semplici che il prefetto Morcone, ovviamente, si guarda bene dal dire. La prima verità: quelli che bivaccano nei nostri centri di accoglienza nella maggioranza non sono profughi, ma "richiedenti asilo". Cioè sono persone che chiedono una cosa di cui non hanno e non avranno diritto. E dunque (seconda verità) l'unico modo per non farli bivaccare o abbruttire o bighellonare non è dar loro un lavoro togliendolo agli italiani. Ma è rispedirli subito nel loro Paese. Senza farne entrare altri. Mario Giordano
I trecento cristiani perseguitati dagli islamici in Puglia, scrive il 20 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. Fedeli cristiani segregati in Italia, costretti a celebrare messe clandestine, Crocifissi nascosti per evitare che vengano distrutti, bruciati da fanatici islamici. Tutto questo nel Gargano, a 40 km dalla tomba di San Padre Pio in Puglia. La storia, incredibile, la racconta Cristiano Gatti sull'Espresso e Repubblica ne anticipa una parte. Si tratta di 300 immigrati africani, lavoratori stagionali dei campi di pomodoro, che vivono in una vera e propria bidonville sotto costante minaccia di musulmani che vengono da fuori: "Abbiamo paura, sì. Da due anni la domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere". Di fatto il ghetto di Rignano Garganico è la riproposizione su piccola scala dei drammi della Nigeria e di altri Paesi africani dove i cristiani vengono perseguitati, picchiati, uccisi. "La bidonville aumenta di 10 nuovi arrivati ogni 24 ore. Ha già superato il record di 2mila abitanti e, con la raccolta dei pomodori, si avvia verso i 3mila. Troppa manodopera. Il risultato è che trovano lavoro per non più di 3 o 4 giorni al mese". I racconti dei cristiani sono atroci. Un nigeriano custodisce una croce, due legnetti di fortuna legati insieme alla bell'e meglio: "L'abbiamo fatta con i resti della baracca della fedele che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l'hanno bruciata una notte di due anni fa. Poi qualcuno ci ha fatto capire che, se non volevamo altri incendi, non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Trecento contro duemila, troppo pochi. Così per paura abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno 3 moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa". "I braccianti musulmani sono solidali con noi", spiega, rivelando che i persecutori sono "spie dei caporali", africani anche loro, che per ora non hanno dichiarato la loro vicinanza a Boko Haram o Isis. Ma l'intolleranza sta aumentando anche nel ghetto, con l'arrivo di nuovi immigrati: "Oggi ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con quanta fatica viviamo".
Apocalisse in Puglia, un pezzo del Paese oltre ogni umanità. Una spaventosa baraccopoli arsa dal sole e dal degrado. Clan di schiavisti in guerra. Migranti islamici che bruciano le croci di quelli cristiani. Violenze, minacce, agguati. A Rignano Garganico è la peggiore estate di sempre, scrive Fabrizio Gatti su "L'Espresso" il 22 agosto 2016. L’ultima messa l’hanno celebrata a Pasqua. La penultima non se la ricordano nemmeno. Nella torrida pianura ai piedi del Gargano, a 40 chilometri dalla tomba di San Padre Pio, c’è una bidonville di oltre duemila abitanti dove trecento cristiani vivono segregati. La misera baracca, in cui ogni settimana un padre missionario veniva a santificare le domeniche, l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Dai resti del luogo di preghiera hanno costruito un crocifisso per ricordare l’aggressione: due moncherini di legno carbonizzato, legati insieme da un nastro di plastica nero ricavato dai tubi che irrigano i campi di pomodoro. La croce adesso la conservano nascosta sotto uno scaffale. Non se la sentono di esporla. Hanno paura di nuovi attacchi: «Abbiamo paura, sì. La domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere fuori». La vita dei braccianti nelle campagne della provincia di Foggia è già difficile. Ma per i trecento cattolici africani, isolati in mezzo alla maggioranza musulmana del Ghetto di Rignano Garganico, lo è molto di più. Il Ghetto di Rignano è un valico in uscita. Quando le rotte carsiche verso l’Europa si chiudono, qui la baraccopoli si riempie. È la capitale delle bidonville nostrane. La più grande. Un termometro del clima sociale. Dovrebbero ammetterlo gli italiani che vorrebbero seguire la Brexit: finora ci hanno salvato le frontiere aperte, cioè l’Unione Europea. Dei 170 mila profughi sbarcati in Italia nel 2014, centomila hanno continuato il viaggio verso Nord. Se ne sono andati anche un po’ dei 153 mila arrivati nel 2015. Ma la grande maggioranza e i novantamila che si sono finora aggiunti quest’anno non hanno alternative. Si dovranno accontentare dell’Italia, anche se non piace. L’Austria prima, poi la Francia e la Svizzera non li lasciano più passare. È la nuova fase dell’immigrazione, la più maledetta: dalla chiusura delle frontiere europee dobbiamo cavarcela da soli. E le premesse non sono buone. Nel 2015 sui 29.698 stranieri riconosciuti come rifugiati e transitati nei progetti Sprar, il sistema di protezione italiano, soltanto 1.972 sono usciti dal percorso con un contratto di lavoro. E il 32 per cento dei progetti non ha portato a nessuna assunzione (dati Atlante Sprar). Normale, con un tasso di disoccupazione nazionale al 12 per cento. Ma l’Africa continua a partire al di là del mare. E quasi mai i nostri ministri la vanno ad ascoltare. Il 25 maggio il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, è atterrato in Niger, snodo cruciale lungo la rotta del deserto verso la Libia. La sua missione è durata solo un pomeriggio. Pochi giorni prima Francia e Germania avevano inviato contemporaneamente i loro ministri degli Esteri. E insieme, con il governo di Niamey, hanno avviato una collaborazione ad alto livello che riguarda anche noi. Ma senza di noi. La frontiera che porta alla bidonville di Rignano è diversa da quelle di Ventimiglia, Ponte Chiasso o del Brennero. Il Ghetto, così lo chiamano senza giri di parole i suoi abitanti, sorge al di là di un confine interiore. È il valico dentro ciascuno di noi tra la decenza e l’indecenza, la democrazia e il caporalato. Dopo il tour nei centri ordinari e straordinari per richiedenti asilo, un periodo variabile tra nove mesi e due anni e aver tentato inutilmente di entrare in Francia o in Germania, i profughi riappaiono qui. Non fa differenza se hanno o non hanno ottenuto un qualsiasi tipo di permesso di soggiorno. Tanto, là fuori, di lavoro regolare non ce n’è più. E qui dentro perfino i capineri, i caporali africani, i kapò del nostro tempo, fanno fatica a soddisfare tutti. Dieci anni fa il rapporto era di un caponero ogni dieci, venti braccianti. Quest’anno siamo a uno ogni cento. Troppa manodopera. Il risultato è che si lavora non più di tre o quattro giorni al mese. Il resto delle settimane si sopravvive con la solidarietà tra connazionali, un piatto di riso al giorno, un morso di carne arrostita regalato dal vicino di baracca. La bidonville aumenta di dieci abitanti ogni ventiquattro ore. Il Ghetto ha già superato il record di duemila persone e con la raccolta dei pomodori si avvia verso quota tremila. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, ha ottenuto dal prefetto lo sgombero. Stanno studiando dove trasferire gli abitanti. Un pericoloso azzardo, in piena stagione di raccolto. Ci avevano provato già in passato. Ma le alternative offerte si limitavano a spiazzi sperduti. Così la bidonville ogni volta è risorta: la sera, di ritorno dal lavoro nei campi, è meglio l’intimità di una casa di legno e cartone, piuttosto che l’ipocrita benevolenza delle tendopoli e dei container di Stato. Adesso le autorità ci riprovano. Magari sgomberassero l’economia locale dal piglio criminale di molti imprenditori. Prendete l’esempio di Franco Valenzano, agricoltore di Borgata Arpinova a Foggia. L’anno scorso il Tribunale l’ha condannato a risarcire 19.595 euro di arretrati non pagati a uno dei suoi schiavi, un geometra del Burkina Faso, padre di tre figli, arrivato in Italia in aereo nel 2009 con un visto di lavoro. Valenzano non ha fatto ricorso in Appello. Dopo quasi un anno dalla sentenza semplicemente continua a non pagare. E anche il suo ex dipendente è precipitato in una baracca del Ghetto. In mezzo a questa arroganza italiana perfino l’eredità sindacale di Giuseppe Di Vittorio diventa un privilegio. Meglio un caporale subito e dodici ore di fatica a venti euro al giorno. «Padrone mio... damme li botte», supplica la triste canzone del compositore foggiano Matteo Salvatore. «Questa è la croce bruciata», dice sottovoce il bracciante nigeriano che la custodisce. La prende dallo scaffale. La mostra cauto, come fosse una sacra reliquia. E lo è. «L’hanno benedetta due volte. L’abbiamo fatta con i resti della baracca della fede che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Lei per fortuna non c’era. Poi qualcuno ci ha fatto capire che se non volevamo altri incendi non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Siamo del Togo, del Ghana, noi nigeriani. Trecento contro quasi duemila, troppo pochi. Così per paura di altri incendi abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno tre moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa». Chi sono quelli che vi hanno fatto capire? «No, non facciamo nomi. Sono spie dei caporali, africani che non vivono nel Ghetto, vengono da fuori. Poche persone, ma stanno seminando paura. No, no, nessuno si è mai dichiarato a favore dei terroristi di Boko Haram o dello Stato islamico. I braccianti musulmani sono perfino solidali con noi. Con loro i rapporti sono buoni. Ma negli ultimi due anni è arrivata tanta gente nuova. E molti di loro non sembrano così tolleranti». Una sera di febbraio un altro incendio, partito da una stufa a gas, ha distrutto la baraccopoli. «Abbiamo messo in salvo le nostre cose, la batteria, il pannello solare. Ma mentre stavamo tentando di spegnere il fuoco, ce le hanno rubate. Anni fa nessuno ti chiedeva di che religione sei. Ora ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con che fatica viviamo». Gli immigrati che hanno costruito il Ghetto una decina di anni fa erano cresciuti nella speranza laica e socialista di Thomas Sankara. E anche l’emigrazione era vissuta come lo strumento necessario per finanziare il riscatto scolastico dei propri figli, rimasti con le mamme in Africa. I ventenni che sbarcano ora non sanno che farsene di Sankara, nemmeno di Nelson Mandela. Gran parte di loro ha trascorso anni a ciondolare il capo leggendo ad alta voce versetti nelle madrase coraniche, pagate dall’Arabia Saudita lungo tutto il Sahel. La lingua internazionale dei più giovani appena arrivati nella bidonville non è più il francese o l’inglese, ma l’arabo. Sono i figli dei patti di stabilità imposti dalle istituzioni mondiali agli Stati africani: tagliare la spesa, in cambio di aiuti. Così hanno tagliato le scuole statali. E a riempire il vuoto è piovuto dal Golfo l’imperialismo wahhabita, il razzismo religioso che sta sconquassando il mondo, finanziato dagli stessi emiri che in Europa comprano squadre di calcio, interi quartieri e compagnie aeree. Il tramonto adesso allunga le ombre. E nonostante le minacce alla comunità cristiana, la baraccopoli di Rignano sembra correre nella direzione opposta. I genitori musulmani consegnano senza remore i pochi bambini a don Vincenzo, giovane missionario scalabriniano, che con i suoi volontari viene fin qui qualche ora alla settimana a insegnare italiano. Per adescare i raccoglitori di pomodori sono accorse da Napoli le maman nigeriane con ragazze giovanissime da far prostituire nei bar improvvisati ovunque. E anche quest’anno una rete di studenti da tutta Italia si dà il cambio per mantenere accesa Radio Ghetto, davanti all’autoproclamato imam senegalese dell’autocostruita moschea di legno e cellophane, che al di là del spiazzo di polvere passa e saluta. Sotto sotto però, la delusione, il sovraffollamento, l’infiltrazione delle gang hanno rotto l’equilibrio. A fine luglio un bracciante del Mali, Ibrahim Traoré, 34 anni, viene ucciso a coltellate da un ivoriano di 26 anni, poi arrestato dai carabinieri. Pochi giorni dopo, un ladro sorpreso a rubare 300 euro, rischia il linciaggio. Lui si chiude in una baracca. Da fuori impugnano bastoni chiodati. «Bagnatelo tutto che lo colleghiamo all’elettricità», gridano i rivali assatanati. Ritornano i carabinieri e la sera alcuni connazionali che li hanno avvertiti passano un brutto quarto d’ora. Quando ormai è buio, telefonano da Lampedusa per raccontare della visita al campo profughi dell’europarlamentare di “Possibile”, Elly Schlein, accompagnata dall’avvocato Alessandra Ballerini della rete “LasciateCIEntrare”. È un altro passo dentro i confini dell’indecenza: 350 stranieri rinchiusi, venti donne, sei bambini piccoli, dieci minori, e solo otto docce (una ogni 43 persone), dodici turche in condizioni pessime (una ogni 29), wc inagibili e niente doccia nel settore minori, dormitori di lamiera rovente e mai un ricambio per i materassini di gommapiuma su cui dormono senza lenzuola i malati di scabbia. Eppure Lampedusa è diventata un “hotspot” europeo. Bruxelles ha inviato una palata di soldi all’Italia che una gara d’appalto ha girato alla “Confederazione nazionale delle Misericordie”, l’associazione cattolica che l’ha vinta. Fine della telefonata. A pochi passi da un disoccupato di Foggia che vende patate dal bagagliaio della sua macchina, gli ultimi inquilini del Ghetto portano notizie del mondo di fuori. Dicono che la polizia adesso fa scendere a Genova i neri che salgono sui treni per Ventimiglia. E sorridono spiegando che aerei pagati dal ministero dell’Interno riportano in Sardegna i rifugiati sgomberati dal confine francese. Qualcuno di loro ha già fatto su e giù addirittura quattro volte: sì, nel caos del prossimo autunno, finiremo con i gommoni che scappano da Olbia per sbarcare a Sanremo.
Migranti, in centomila sono scomparsi. La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari, scrive Fabrizio Gatti il 21 gennaio 2015 su "L'Espresso". Lo Stato c’è, eccome. Il Tricolore sventola nella brezza. Il cartello giallo sulla rete avverte: «Zona militare. Divieto di accesso. Vigilanza armata». La camionetta dell’esercito con i due soldati di ronda arriva puntuale. Davanti ai loro occhi, sette tra africani e asiatici non si scompongono. Scavalcano i quattro metri e mezzo di recinzione. Scappano dal Cara di Bari, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Uno di loro è vestito da talebano: caffetano bianco, berretto afghano sulla testa, barba e capelli lunghi. Forse è per questo che per uscire non passano dalla portineria. I militari guardano e non si fermano. La camionetta tira dritto, sempre a passo d’uomo. Sono le 10.30 di mercoledì 14 gennaio. La grande fuga continuerà per tutta la mattinata. Ma era così anche dieci minuti fa, un’ora fa, stamattina presto, stanotte, ieri sera, ieri pomeriggio, ieri mattina. Decine e decine di stranieri fuggono a ogni ora del giorno e della notte dal centro che dovrebbe registrare la loro presenza in Italia. Altri profughi, sbarcati addirittura nel 2011, a Bari usano il Cara per mangiare, dormire, farsi la doccia. Loro si arrampicano sulla recinzione due volte al giorno. Andata e ritorno. Hamid, 35 anni, bengalese, richiesta di asilo respinta, fa questa vita da due anni: esce la sera per andare a lavare i piatti in una pizzeria, la mattina rientra. Non importa se non è registrato. Perfino gli imam, quelli autoproclamati che nessuna moschea ufficiale riconosce, entrano a predicare il loro Islam. E, quando hanno finito, escono indisturbati. Eccone due. Si calano dalle sbarre di ferro del perimetro, lato Sud. La camionetta dell’esercito riappare dietro di loro e, puntuale, tira dritto. Sempre a passo d’uomo. Lo Stato c’è. Ma è di burro. Non solo a Bari. Accoglienza all’italiana. La strage di Parigi ha fatto risuonare l’allarme terrorismo. I rifugiati non sono criminali. Ma in tempi di massima allerta, registrare l’identità di chi entra in un Paese è il minimo indispensabile. Per avere il quadro della situazione, prevenire i rischi. Ecco, già questo elementare calcolo è impossibile: perché nel 2014 ben centomila dei 170 mila profughi arrivati in Italia sono scomparsi da ogni forma di monitoraggio. Fantasmi di cui non si sa più nulla. Nella maggioranza dei casi, nemmeno la vera identità: soccorsi in mare e contati, una volta arrivati a terra sono stati lasciati fuggire. Proprio come a Bari. Quasi sempre prima di essere identificati. Sono dati ufficiali del ministero dell’Interno. Le crisi umanitarie nell’area del Mediterraneo e l’operazione «Mare nostrum» hanno quasi triplicato il record nazionale del 2011:170.816 profughi arrivati nel 2014 contro i 64.261 di quattro anni fa. Nell’ultimo anno, però, soltanto 66.066 risultano registrati e ospitati nei centri. Significa cioè che104.750 stranieri sbarcati nel 2014 sono ora al di fuori di qualunque controllo. Colpiscono anche le cifre suddivise per origine. Siria: su 51.956 sbarcati nel 2014, solo 505 hanno richiesto protezione in Italia. Eritrea: su 43.865, solo 480. Somalia: su 8.152, solo 812. Il resto? Spariti. Rimangono i profughi partiti da altri Stati africani. Nigeria: 10.138 le domande d’asilo nel 2014. Gambia: 8.556. Mali: 9.771 su 11.119 sbarcati. Gran parte di siriani, eritrei e somali è andata ad alimentare il record di arrivi in Germania e Svezia. Moltissimi però vengono rimandati indietro. Oppure non escono dai nostri confini. Vanno ad aggiungersi alle migliaia di loro connazionali, in Italia dal 2011 o anche da prima, che non hanno mai ottenuto un permesso di soggiorno, o se l’hanno ricevuto non hanno più un lavoro regolare. Tremila di loro vivono a Roma: per strada, sotto i portici della stazione Termini o in case e uffici abbandonati. Nessun mezzo di sostentamento se non le mense di beneficenza. E, per qualche centinaio di africani, lo spaccio al Pigneto, il quartiere di Pier Paolo Pasolini. Altri cinquemila si stimano nelle province di Napoli e Caserta. Settecentocinquanta all’ex villaggio olimpico di Torino. Cinquecento al Ghetto di Rignano Garganico: la baraccopoli di braccianti e caporali nella campagna foggiana per la prima volta non si è svuotata, anche se è pieno inverno e in giro non c’è niente da fare. Centinaia dormono in ripari di cartone e container intorno ai centri statali per richiedenti asilo. Come Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, o Pian del Lago, a Caltanissetta: una volta usciti dai Cara, con il permesso di soggiorno o il respingimento in tasca, le persone si spostavano a cercare lavoro. Adesso no: è più sicuro rimanere nelle vicinanze e attraverso la recinzione elemosinare un pasto a chi ha ancora diritto all’accoglienza di Stato. Insicurezza alimentare, la chiamano. Ci si aiuta così. L’Italia in recessione crea mille disoccupati ogni giorno. Nel frattempo avrebbe dovuto assimilare 291.247 nuovi cittadini: tanti quanti ne sono sbarcati dal 2011 al 2014. Il sogno infranto dalla crisi. Per noi. Per loro. “L’Espresso” è andato a cercarli. Dal Piemonte alla Sicilia. Dalla Calabria al Friuli. Ritorna una parola da decenni scomparsa dal vocabolario delle nostre strade: fame. L’alimentazione tipo la descrive Isaac Kumih, 32 anni, partito dal Ghana e incagliato nei prefabbricati di lamiera sulla pista della vecchia base militare di Borgo Mezzanone, quattro materassi in una stanza: «Una fetta di pane secco e una tazza di tè la mattina, un piatto di semolino la sera. Ho raccolto pomodori in agosto: 550 euro. Mi devono ancora pagare. Non posso permettermi il pranzo». Un alto funzionario della polizia italiana si lamenta perché alla frontiera del Brennero i colleghi austriaci rimandano indietro gli eritrei: «Sono spesso ragazzi cresciuti nei campi profughi». Ma si tengono i siriani diplomati e laureati. Non è solo cinismo. Quei titoli di studio in Italia andrebbero probabilmente sprecati. Mohanad Jammo, 42 anni, medico di Aleppo fuggito dalla guerra in Siria e poi dalla Libia in fiamme, è sopravvissuto con la moglie e la figlia di 5 anni al naufragio dell’11 ottobre 2013. Il più grande e il più piccolo dei loro bambini sono scomparsi in mare. Da Malta, la famiglia Jammo è stata accolta in Germania. Destinazione, un appartamento affittato dal sistema federale a due ore da Francoforte e un contributo mensile di 350 euro a persona per la spesa e il vestiario. Nel 2014 il dottor Jammo ha potuto frequentare un corso di tedesco. Nemmeno la sua laurea siriana è stata cestinata. A fine autunno ha superato l’esame per convertire la qualifica ed esercitare in Germania: da inizio gennaio Mohanad Jammo lavora in un ospedale. Dopo appena quattordici mesi e una tragedia immensa, la sua famiglia non è più a carico del governo tedesco. Un altro sopravvissuto allo stesso naufragio del 2013, un ragazzo che non vuole che il suo nome sia rivelato, ha chiesto protezione all’Italia. Dopo quasi un anno trascorso in un centro temporaneo in provincia di Varese, viene trasferito all’improvviso con una trentina di profughi a Carfizzi, milleduecento chilometri a Sud, 700 abitanti in mezzo alla Sila. Il paese in provincia di Crotone e il progetto di una cooperativa locale sono entrati nella rete Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati: è l’ultima tappa, da sei mesi a un anno di accoglienza che dovrebbe fornire all’ospite conoscenze linguistiche e capacità professionali per vivere e lavorare in Italia. «A Carfizzi ci sono 33 profughi», spiegano il 6 gennaio Yasmine Accardo, dell’associazione LasciateCientrare, e l’avvocato Alessandra Ballerini: «Oggi un ragazzo con mal d’orecchie non è riuscito a contattare nessuno. Abbiamo provato a chiamare mediatrice e gestore: niente. La guardia medica non risponde». Dopo una visita al centro, parte la segnalazione al servizio centrale Sprar: «La struttura, un ostello della gioventù, è posta al di fuori del paese... Gli ospiti ci chiedono aiuto sotto diversi aspetti: cibo scarso, ritardo dei documenti, isolamento sociale, scarsa assistenza medica, assenza di riscaldamento... Moltissimi ospiti hanno radicato i loro documenti a Varese e tanti ci hanno fatto vedere la documentazione con appuntamenti già scaduti. Veniamo a sapere che il gestore dichiara che non ha soldi per acquistare il biglietto per il Nord. Nelle comunicazioni della questura, lo spazio riservato all’interprete è sempre vuoto. Sono tutte in lingua italiana. È evidente che la mediazione multiculturale non sia il forte di questo soggetto gestore che in alcuni documenti addirittura scrive: englesh». Dopo quattordici mesi, il ragazzo sopravvissuto come il dottor Jammo non parla italiano, non parla inglese, è in profonda depressione. Ed è ancora a carico dello Stato italiano. Come tutti gli altri 32 ospiti a Carfizzi: cioè, la loro presenza in Italia permette all’ente gestore di incassare circa 35 euro al giorno per persona, 1.050 euro al mese. Fanno tre volte il contante versato dalla Germania a ciascun profugo perché possa mantenersi e, con le sue spese, contribuire all’economia locale. Degli oltre mille euro pagati dal sistema Sprar alla cooperativa di Carfizzi, però, il ragazzo siriano riceve soltanto 75 euro al mese. Per le piccole necessità: le telefonate alla famiglia, l’integrazione del cibo quando è scarso, le marche da bollo per i documenti. Dal 2011, con i primi decreti sull’ emergenza Nord Africa, questo sistema ci è costato due miliardi 287 milioni 851 mila euro: 483 milioni soltanto nel 2014 per vitto e alloggio, più 117 milioni e mezzo per l’operazione «Mare nostrum». Trenta-trentacinque euro al giorno per persona non sono affatto pochi. Un esempio è l’albergatore napoletano Pasquale Cirella, 49 anni: grazie ai 614 profughi che le prefetture campane gli hanno affidato, incassa 19 mila euro al giorno. Così la sua società Family srl è passata dai 44 mila euro di fatturato del 2009 al milione 853 mila euro del 2012. Con utili annuali cresciuti da 676 euro a 170 mila euro. Un altro imprenditore a Monteforte, in provincia di Avellino, ha messo a dormire 107 rifugiati in tre appartamenti: tagliando sulle spese di assistenza, come interpreti e tutela legale, se le prefetture non controllano il guadagno aumenta. “L’Espresso” ha scoperto che nel 2006 il Comune di Roma riusciva a garantire ospitalità a cifre bassissime, tra i 4,70 e i 8,30 euro al giorno per persona. Se ne occupava Luca Odevaine, futuro consulente del Cara di Mineo, provincia di Catania, arrestato nell’operazione «Mafia capitale». L’aumento da allora ha raggiunto il 421 per cento. Oggi il consorzio dei Comuni, che a Mineo controlla il più grande centro di accoglienza profughi, incassa dallo Stato decine di milioni. Il direttore generale, Giovanni Ferrera, tre mesi fa ha stanziato diecimila euro del bilancio al Comune di San Cono per organizzare la “XXIII Sagra del ficodindia”. Un comunicato ci assicura che «l’integrazione è passata attraverso la partecipazione e la condivisione di iniziative popolari come la Festa del grano di Raddusa e la Sagra del ficodindia di San Cono...»: 648 parole pagate all’autore locale 720 euro, organizzazione della conferenza stampa inclusa nel prezzo. Sempre il direttore generale nel 2013 ha pagato un’altra conferenza stampa 4.514 euro: 855 parole di comunicato alla cifra di 5,27 euro a parola e incontro con i giornalisti locali compresi nella fattura. C’è anche la “Partita del Cuore” attori contro Cara: tredicimila euro di noleggio dei pullman per lo stadio e altri cinquemila per i biglietti. E l’educazione stradale ai profughi? Ventimila euro. I volontari della protezione civile? Quattordicimila 900 euro. La festa dell’uva a Licodia? Fuori altri diecimila euro. L’Estate ramacchese? Diecimila euro. Tradizioni e sapori a Raddusa? Diecimila euro. Cara estate a Mineo? Diecimila euro. L’agosto mirabellese? Diecimila euro. Il Natale dell’amicizia a Castel di Iudica? Diecimila euro. Il presepe vivente a Mineo? Diecimila euro. Tutto regolare, ovviamente. Pagano gli italiani. Nessuna obiezione dal sindaco-presidente del consorzio, Anna Aloisi. Né dal rappresentante legale delle cooperative locali che lavorano nel centro, Paolo Ragusa. Né dall’ex commissario delegato per il Cara di Mineo, Giuseppe Castiglione, attuale sottosegretario all’Agricoltura nel governo Renzi. Sono tutti e tre sostenitori del Nuovo centrodestra, il partito del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di cui Castiglione è coordinatore in Sicilia. Clifford Emeanua, 35 anni, moglie e due figli in Nigeria, faceva il muratore in Libia. Scoppiata la guerra, è scappato: sbarco a Lampedusa il 4 agosto 2011. Poi l’hanno portato al campo di Mineo: «Sono rimasto lì un anno e mezzo». Cosa ha fatto in quell’anno e mezzo? «Non c’è lavoro a Mineo. Chiedevo l’elemosina ai bianchi per strada per qualche soldo da mandare alla mia famiglia. Dentro il campo non potevamo fare niente. Solo mangiare e dormire». Ha frequentato un corso d’italiano? «Non c’era nessuna scuola quando io ero a Mineo. Se c’era, avrei imparato un po’ di italiano. Questo è il problema che ho oggi. Nessun lavoro. Niente. Sono un essere frustrato. Non so dove sto andando. Non so cosa fare. Perfino mangiare è un grande problema. Se chiedo l’elemosina per strada, mangio. Se non raccolgo soldi, non mangio». Conclusa per decreto l’emergenza Nord Africa, nell’inverno 2013, Clifford è stato messo fuori dal Cara con un permesso umanitario. E come migliaia di profughi cancellati da un giorno all’altro dal governo, si è ritrovato sulla strada. È salito a Torino e ora dorme in una stanza dell’ex villaggio olimpico al Lingotto. Quattro palazzine occupate nel 2013. Dal 2006, anno dei Giochi invernali, erano ancora abbandonate. Lui quasi si scusa: «Dormivo in un giardino. Faceva freddo. Gli amici mi hanno detto che qui c’erano appartamenti vuoti da sette anni». Un meccanico nello scantinato costruisce carri da trainare con le biciclette. Li usano per raccogliere e rivendere vestiti, elettrodomestici, metalli recuperati tra i rifiuti. Dieci ore fuori, da 50 centesimi a tre euro l’incasso. Soltanto alcuni centri sociali si occupano di loro. Mentre Lega e neofascisti chiedono lo sgombero. Stesso clima all’ex Ferrhotel: settanta profughi somali, uomini e donne, vivono nell’albergo abbandonato accanto alla stazione di Bari. Per la realizzazione di un centro per rifugiati qui dentro sono stati già stanziati due milioni, di cui quasi un milione e mezzo dall’Unione Europea. Fine lavori: 30 dicembre 2012. Proprio così: non sono mai cominciati. A Pescopagano, frazione africana di Castelvolturno, gli ultimi abitanti sono arrivati dopo il 2011. All’alba li vedi alle rotonde alla ricerca di un ingaggio. Il caporalato è ormai l’unica forma di welfare: il vero jobs act per migliaia di lavoratori. Ma la manodopera è in eccesso. Amou Otoube, 31 anni, la moglie in Ghana che non vede da 9 anni, nel 2014 ha lavorato soltanto due giorni: un guadagno annuo di 70 euro. Isaac Onasisi, 48 anni, come molti italiani disoccupati è alle prese con le bollette. Il Comune gli ha mandato la tassa sui rifiuti: 239 euro, anche se da anni non passa nessun servizio di nettezza urbana. Sul prato all’ingresso di via Parco Fabbri crescono più sacchi dell’immondizia che erba. Centri che funzionano bene esistono. Come lo Sprar dell’Ex-canapificio a Caserta: 40 ospiti in appartamenti diffusi, corsi professionali e di italiano. Fabio Ballerini, dell’associazione Africa Insieme, racconta invece che a Pisa la prefettura ha messo rifugiati perfino nell’ex tenuta presidenziale di San Rossore. Undici richiedenti asilo, erano 40 fino a qualche mese fa, li stanno ospitando a 4,6 chilometri dall’uscita del parco. Altri dieci a quattro chilometri. Con relativi appalti per le cooperative di gestione. Gli unici collegamenti con il mondo sono due o tre biciclette da condividere. L’integrazione in mezzo al nulla. Forse c’è una logica nel nascondere i profughi. Ricordate a Genova gli angeli del fango? Sono i venti ragazzi africani armati di badili che con i genovesi hanno ripulito la città dopo l’alluvione. In quei giorni erano ospitati nell’ex ospedale a Busalla. Lega e Forza nuova hanno protestato con i manifesti: «Ospedale per italiani, non ostello per africani». Anche se riaprire l’ospedale a Busalla sarebbe un oltraggio alla spesa pubblica, la prefettura ha deciso il trasferimento. Evviva la gratitudine. Gli angeli del fango sono finiti a Belpiano, in mezzo ai boschi dell’Appennino ligure: quattro ore e mezzo di pullman e treno da Genova, quasi tre ore da Chiavari, sette chilometri a piedi da Borzonasca, il paese più vicino dove trovi soltanto una tabaccheria e cinque frane che si sono mangiate pezzi di strada. Non appena hanno visto il posto, due ragazzi sono usciti dal programma di accoglienza. Questa è l’Oasi di don Mario Pieracci. Lui sale raramente. Vive a Roma ed è più facile incontrarlo in tv, ospite della Rai. L’Oasi è un villaggio vacanze della chiesa. Un tempo era aperto solo d’estate. Dagli sbarchi del 2011, funziona tutto l’anno. Centoventi profughi, asiatici e africani, conferma Caterina, la cuoca che da sola gestisce il centro e la cucina. Il corso di italiano è affidato a uno studente di ingegneria che parla inglese. Nessun aiuto linguistico per chi conosce appena arabo, pashtun o francese. Anche per questo soltanto otto ragazzi su 120 frequentano oggi la lezione. Per scendere in paese, si va a piedi. Una volta al mese. Il vecchio pullmino è rotto. Non c’è Internet. Non ci sono film in lingua straniera. La tv riceve solo i programmi della Rai. «Poveri cristi», ammette Caterina, «ci sono ragazzi che sono arrivati il 5 gennaio 2014 e sono qui ancora in attesa dei documenti». Mangiano, dormono. Si scaldano le infradito e i piedi scalzi, seduti intorno alla stufa a legna. Si riparte. Qualche ora di autostrada ed ecco Gorizia, la Lampedusa dell’Est: ogni mese la rotta balcanica scarica dai camion decine di richiedenti asilo afghani e pakistani. Gli amministratori della cooperativa siciliana Connecting People e una vice prefetto sono sotto processo con l’accusa di avere gonfiato numeri e fatture del Cara di Gradisca d’Isonzo. I dipendenti della cooperativa non ricevono lo stipendio da mesi. Molti di loro sono allo stremo, come gli africani di Pescopagano. Nonostante lo scandalo, secondo i sindacati il prefetto potrebbe presto arrivare a una risoluzione consensuale del contratto. Una conclusione amichevole: la Connecting People non perderebbe così la cauzione da 791 mila euro. Mentre i lavoratori perderebbero gli arretrati. Nell’industria dei rifugiati, tutto è possibile. All’inizio dell’inverno sempre a Gorizia, provincia con decine di caserme da anni deserte, la prefettura ha pagato come dormitorio un’officina: umidità, materassi per terra, riscaldamento scarso, 25 euro per persona e 70 profughi che al fortunato proprietario hanno reso 1.750 euro al giorno. Una velocità di 73 euro l’ora. Proprio quell’officina era il garage di una concessionaria Lancia. Curiosa parodia che riassume il destino dell’economia italiana: perse le auto, si spremono i profughi. (Ha collaborato Francesca Sironi).
Sfruttamento selvaggio, ora gli schiavi d'Italia dicono basta. Non solo Rosarno. Dalla pianura pontina al distretto del pomodoro in Puglia sfruttamento, ghetti e zero sicurezza riguardano 400 mila lavoratori. Che finalmente denunciano, scrive Floriana Bulfon e Francesca Sironi il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Picchia il sole su 400mila lavoratori impiegati senza tutele a raccogliere casse di pomodori e ceste di meloni, fino alle uve d’autunno. La cifra è fornita dall’osservatorio della Cgil sul caporalato. In inverno erano a Rosarno o Ginosa per gli agrumi. Con l’estate si trovano a Foggia come a Nardò, come in qualche località della Campania. Altro raccolto, altra schiavitù. Perché nonostante leggi, programmi e promesse, lo sfruttamento nei campi continua. Assume nuove forme, indossa maschere semi-legali: intermediazione, contratti a ore, aziende fantasma. Riceve fondi europei. Conta sulla mancanza di controlli. E non arretra. E oggi all’emergenza “storica” (in Calabria è da otto anni che le associazioni parlano di schiavitù, in Puglia la prima rivolta dei braccianti risale al 2011) se ne aggiunge una nuova. Nei centri d’accoglienza per i richiedenti asilo sono registrati 111mila migranti. Arrivano da Pakistan, Nigeria, Gambia, Senegal, Mali. Erano 33 mila in meno un anno fa. Nella tendopoli di San Ferdinando, dove un carabiniere ha ucciso, sparando, un ragazzo che lo minacciava con un coltello, il 33 per cento dei 471 stagionali curati da “Medici per i diritti umani” era un “diniegato”, un esule cioè in attesa di ricorso in tribunale. Più della metà aveva in tasca un permesso di protezione internazionale. Il 10 maggio da un’inchiesta della Digos di Prato sono stati indagati 12 pakistani: per la vendemmia di cinque aziende del Chianti - “Chianti classico”, docg e “gran riserva” - facevano il giro dei centri d’accoglienza. Caricavano su van dai vetri oscurati i profughi - cento, almeno, quelli coinvolti - per pagarli da quattro a sei euro l’ora, contro i 9 del contratto nazionale. Al telefono li chiamavano «questi schiavi negri e stronzi». Sono stati perquisiti anche tre italiani: professionisti di Prato, fornivano false buste paga e documenti. Fra quelle vigne mancavano ispezioni, prima della denuncia da cui è partita l’indagine, aiutata dal direttore della cooperativa che ospitava i rifugiati e che si era accorto che qualcosa non andava. Del resto sui campi, quando arrivano i controlli, arrivano anche le sanzioni: nelle 8.862 aziende agricole ispezionate dalle autorità nel 2015 sono stati intercettati 6.153 irregolari e 3.629 braccianti totalmente in nero. Impiegati secondo l’antica prassi di ricatti, rimborsi per il “viaggio” dovuti ai caporali, ghetti, nessuna sicurezza. Fino alla fame: meno di un mese fa i carabinieri hanno arrestato nel brindisino una madre e suo figlio. Italiani, portavano, secondo l’accusa, i braccianti fino nel barese, stipati in furgoncini; se non c’era posto, li chiudevano nel bagagliaio. «Non mangio da giorni», diceva disperata una di loro. «Ho provato vergogna. Qui mancano i diritti e non è riconosciuta la dignità». Così Camilla Fabbri, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, commentava il 24 maggio l’ispezione appena terminata nella cooperativa “Centro Lazio”, nella pianura pontina. In quattro ore di controlli i Carabinieri di Latina e gli agenti dei Nuclei Antisofisticazioni e Sanità hanno trovato nelle serre braccianti “in regola” per 12 giorni al mese quando ne lavoravano 20, per paghe da meno di quattro euro l’ora e turni da dodici ore al giorno. Raccoglievano in queste condizioni pomodori e zucchine “di alta qualità”, come pubblicizza il sito dell’azienda, che ha chiuso il bilancio del 2014 con un fatturato di 14 milioni di euro. La “Centro Lazio” ha ricevuto negli ultimi tre anni un milione e 440mila euro di fondi agricoli europei: 304mila nel 2013, altri 600 nel 2014 e 536mila l’anno scorso. Rappresentante dell’impresa è Fiorella Campa, che con la sorella Stefania (anche lei socia della cooperativa) era già stata denunciata nel 1994 per sfruttamento, riporta l’archivio dell’Agi. Il padre, Luigi, «tuttora impegnato a sostenere le figlie con una presenza costante e vigile sul campo», come si legge in un’intervista con cui le sorelle presentano i loro progetti per diventare «un colosso dell’ortofrutta», era stato arrestato nel gennaio del 1993 con l’accusa di occultamento di cadavere e violazione della legge sugli stranieri. Secondo un giovane impegnato nei campi l’amico di 31 anni si era sentito male dopo aver mangiato, ed era morto. «Se lo trovano qui succede un macello», avrebbe detto il padrone: «Buttiamolo nella discarica». La “Centro Lazio” fa parte di un grande consorzio: “Italia ortofrutta”, 140 aziende associate. Gennaro Velardo, il presidente, commenta così i risultati dell’ispezione: «Verificheremo per capire l’origine del problema. Lo sfruttamento è inaccettabile ma di certo c’è anche un problema di crisi del reddito per i produttori. Niente è giustificabile però sappiamo cosa può capitare, quando la grande distribuzione chiede prezzi sempre più bassi». L’estate scorsa un altro consorzio aveva espulso immediatamente una delle sue consociate dopo la denuncia di 14 immigrati che venivano rimborsati a 2,5 euro a cassetta. «Incontreremo la società per capire cos’è successo», dice invece Velardo, che aggiunge: «Gli autocontrolli ci sono, le irregolarità non sono così diffuse. E insisto: bisogna capire anche i bisogni degli agricoltori. Lo dico con una battuta: ma forse il cottimo non sarebbe sbagliato». Di “Italia Ortofrutta” fa parte anche “Ortolanda”, una cooperativa olandese con una lunga esperienza nella coltivazione di ravanelli. Dai Paesi Bassi è scesa fino all’Agro Pontino per coltivare in nome della qualità e dello sviluppo sostenibile. Nove lavoratori Sikh hanno presentato lo scorso agosto una denuncia: avevano un caporale, connazionale, che li convocava la sera per il giorno dopo. Per comodità aveva creato un gruppo WhatsApp intitolato “Ortolanda”: 34 utenti, lui l’unico “amministratore” che decideva chi lavorava e chi no. Le indagini sono in corso e stabiliranno chi dice la verità. Intanto nelle serre pontine si lavora senza sosta. Per reggere la fatica spesso ci si aiuta anestetizzandosi. Metanfetamine, antispastici e soprattutto oppio: la produzione è in mano agli italiani, lo spaccio agli indiani e costa pochissimo, dieci euro a bulbo. Una spirale che può portare al suicidio: pochi giorni fa è stato trovato un altro ragazzo appeso a una corda dentro un capannone nelle campagne di Borgo Hermada, a ridosso del fondo agricolo in cui lavorava. Aveva trent’anni e non c’era più niente che potesse prendere per sopportare la schiavitù. «Nel sikhismo il suicidio è vietato; la comunità lo associa allo sfruttamento lavorativo intensivo», spiega Marco Omizzolo dell’associazione InMigrazione: «La stessa comunità che affronta con una colletta per i costi per mandare la salma in India». Il caporale sbraita - «dovete muovervi, riempire i cassoni!» - e loro, per la prima volta incrociano le braccia. È l’estate del 2011 ed era il primo sciopero dei migranti contro la schiavitù. Grazie a quella protesta nelle campagne di Nardò, in Puglia, fu approvata la legge penale contro il caporalato. Cinque anni dopo «la situazione è peggiorata, i diritti sono regrediti», dice con amarezza Yvan Sagnet, il giovane ingegnere camerunense che per pagarsi gli studi al Politecnico di Torino era arrivato in Salento (un amico gli aveva parlato di “paghe da favola” e invece s’era ritrovato a rischiare di morire): «Sono stati approvati molti provvedimenti, ma rimangono inefficaci se non ci sono i controlli». «Qualche passo in avanti c’è, ma insufficiente», conferma Guglielmo Minervini, consigliere regionale in Puglia ed ex assessore: «A Rignano Garganico si sta già ri-formando il ghetto. Il “distretto del pomodoro” è stato portato a Foggia. Ma per ora non sta accadendo niente». Nel frattempo, la schiavitù si evolve. In Basilicata, dove dal 2013 i controlli sono più stretti, gli investigatori hanno scoperto cooperative fantasma che regolarizzavano cittadini italiani, pagando per loro i contributi, mentre a raccogliere andavano stranieri, ad un costo inferiore. E sono sempre più diffusi gli sfruttati “a contratto”: sulla carta le ore di lavoro sono solo tre, eppure passano l’intera giornata chinati sui campi. Ma se arriva un controllo: risultano in regola. Anche i caporali ora operano legalmente all’ombra delle agenzie interinali. In Puglia uno di loro è riuscito, da solo, a spostare da una società d’intermediazione all’altra seimila persone, rassegnate a condizioni prive di sicurezza. Spostate come merci, da buttare quando non servono più. Come è successo a Paola Clemente, uccisa lo scorso agosto dalla fatica mentre raccoglieva uva a 150 chilometri da casa. «Le agenzie interinali celano spesso i caporali del terzo millennio», nota Bruno Giordano, magistrato e consulente giuridico della Commissione: «Dovrebbero esserci maggiori controlli. E quando il reato di caporalato avviene da parte di un’agenzia bisognerebbe prevedere un’aggravante». Perché una morte come quella di Paola Clemente non si ripeta, il 27 maggio è stato firmato un “protocollo contro il caporalato” per le regioni del Sud. «È un risultato forte», dice Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil: «Il programma avrà a disposizione fondi Ue e risponderà a esigenze concrete». Ora bisogna seguirlo, però. Mentre il 25 giugno i sindacati saranno a Bari per chiedere di votare, finalmente, il disegno di legge contro lo sfruttamento in agricoltura, che «prevede una sanzione per l’azienda: fino ad oggi veniva punito solo il caporale», spiega la senatrice Fabbri, e la confisca dei beni utilizzati per lavorare, fino a tutto il patrimonio qualora si accerti che non coincide con la situazione fiscale. Leggi da modificare, ma soprattutto da applicare, rafforzando i controlli e modificando alcuni aspetti: «Da quando è stata introdotta la legge sul caporalato un solo processo è giunto fino in Cassazione», nota il magistrato Giordano. Per tutti gli altri a poco è valso il coraggio di chi ha denunciato. Per ora, ha vinto l’impunità.
Artigli e passamontagna. Ecco come i «pacifisti» aiutano i clandestini. Spranghe, coltelli e un artiglio da film horror sequestrati ai "No border" a Ventimiglia. Gabrielli: "Professionisti dell'agitazione", scrive Stefano Zurlo, Martedì 09/08/2016, su “Il Giornale”. Un'arma degna di Wolvwerine o di Freddy Krueger. Sembra di stare dentro una scena da incubo della saga horror di Nightmare, invece siamo alla frontiera di Ventimiglia. Dove l'Europa va in frantumi, i migranti si accatastano, i No Borders soffiano sul fuoco. Otto arresti, sette francesi e un'italiana residente a Parigi, ma soprattutto un catalogo impressionante di armi: un guanto con punte acuminate modello X-Men, coltello da rambo con lama di 30 centimetri, mazze, tubi di plastica da maneggiare come manganelli, cappucci. Il kit del perfetto dimostrante che si schiera al fianco dei disperati arroccati in attesa di un domani sugli scogli dei Balzi Rossi, ma poi distribuisce violenza, prima di giocare la solita parte della vittima. Insomma, il classico «pacifista» armato. Nessuno vuole colpevolizzare le idee, ci mancherebbe. Gli antagonisti e i centri sociali hanno tutto il diritto di dare voce alle proprie opinioni, ma troppe volte il copione deraglia. Qui, con 600 persone bloccate a un passo da Mentone e dall'agognata Francia, arriva l'imprevisto che sconvolge i piani di guerriglia: sabato sera un agente, Diego Turra, muore d'infarto sulla prima linea della protesta. I No Bordes, spiazzati, annullano il corteo previsto e mettono le mani avanti: «Non vogliamo cadere in trappola. Non c'entriamo nulla con quella morte, avvenuta per cause naturali mentre i suoi colleghi ci inseguivano e ci picchiavano». Fermi e fogli di via disegnano uno scenario assai diverso. Ci sono tutti gli strumenti classici per imbastire un pomeriggio di terrore, ambientato non più nel cuore di Milano o in Val di Susa, ma dove Italia e Francia s'incontrano. Al crocevia di una politica sempre più impotente. «E' lo stesso meccanismo che abbiamo visto tante volte con i Black Blok - dicono gli agenti che stanno monitorando il fenomeno - italiani o francesi non importa: si organizzano e si danno appuntamento nei luoghi più problematici per alimentare la tensione». Angelino Alfano, in un'intervista a Repubblica, sconfina attribuendosi meriti straordinari: «Se Ventimiglia non è fin qui diventata una Calais italiana lo si deve al fatto che abbiamo realizzato controlli». Ma le sue parole roboanti non tranquillizzano. Anzi. Il Governatore della Liguria Giovanni Toti denuncia «la situazione ormai insostenibile a Ventimiglia, dove serve subito un intervento fermo e deciso del governo con l'identificazione degli immigrati e il pugno duro con i No Borders che, irresponsabilmente, aggiungono tensioni a tensioni». Sulla stessa lunghezza d'onda, anzi più in là, il senatore forzista Maurizio Gasparri: «Il Governo sta drammaticamente sottovalutando la situazione a Ventimiglia. Ci aspettiamo l'allontanamento immediato dalla città di tutti i clandestini e fermezza contro i provocatori». Il capo della polizia Franco Gabrielli dosa i concetti come un politico consumato: «Intensificheremo le operazioni di decompressione, in modo da alleggerire la pressione nell'area. E alleggerire la pressione significa prendere le persone e portarle da un'altra parte». Poi si concentra sulla protesta: «I No Borders sono professionisti dell'agitazione, ma - aggiunge subito - addebitare a loro la morte di Turra è un esercizio poco serio». Un punto che tutti condividono. Ma che non cancella il malcontento: mentre l'Europa si scioglie, gli agenti sono sempre più vecchi, mal pagati, peggio equipaggiati. E devono fronteggiare, in quel lembo estremo d'Italia, anche il rischio che qualche terrorista si mescoli ai profughi.
Tra islamici e anarchici il lato «oscuro» degli attivisti. I legami internazionali del movimento anti-confini sotto la lente degli investigatori. Le prove dei video, scrive Fausto Biloslavo, Martedì 09/08/2016, su "Il Giornale". Gli attivisti «No Borders» hanno dei lati oscuri e dei collegamenti internazionali sotto la lente degli investigatori. Non si tratta solo della solidarietà estrema ai migranti «nelle loro pratiche di resistenza e violazione dei confini attraverso le frontiere interne ed esterne dell'Europa», come dichiarano gli stessi attivisti. Mohamed Lahaouiej Bouhlel, che ha falciato con un camion 84 persone a Nizza, è stato ripreso in un video e identificato dalla polizia a Ventimiglia nel giugno dello scorso anno. Il futuro stragista islamico partecipava ad una manifestazione pro migranti assieme all'associazione «Cuore della speranza» con base a Nizza. Il gruppo pseudo caritatevole era gestito da estremisti salafiti, che accoglievano e aiutavano soprattutto profughi o clandestini musulmani. Le foto sul profilo Facebook mostrano la mobilitazione a Ventimiglia e personaggi con il barbone islamico d'ordinanza che alzano un dito verso il cielo per indicare la volontà e la potenza di Allah. Nonostante l'inquietante commistione gran parte degli antagonisti «No Borders» italiani, che negli ultimi giorni si sono mobilitati dai centri sociali della Liguria, Piemonte e Lombardia hanno simpatie e agganci anti Stato islamico. I loro riferimenti sono i miliziani curdi di estrema sinistra del Ypg, che combattono nel nord della Siria contro l'Isis. Lo dimostra uno dei loro siti di riferimento, InfoAut, con tanto di stellina rossa. Sul blog di contro informazione si legge: «Il ruolo preposto dall'Unione europea all'Italia per i prossimi anni è quello di essere un deposito di materiale umano sfuggito alle guerre umanitarie dell'Occidente e alla sistematica spoliazione delle risorse dei paesi del sud globale che hanno subito gli ultimi decenni di «aiuto allo sviluppo». La «resistenza» pro migranti e contro i confini è pan europea. In marzo attivisti «No Borders», anche italiani, hanno fomentato i migranti rinchiusi nel campo greco di Idomeni distribuendo volantini con indicato un tragitto per raggiungere la Macedonia. Il risultato è stata la reazione della polizia con scontri ed arresti. Dallo scorso anno il movimento «No ai confini» influenzato dalla sinistra antagonista si è mobilitato da Ventimiglia a Calais, dove sono state arrestate e poi rilasciate tre attiviste italiane che studiano a Parigi. Chi paga proteste e mobilitazioni? Ufficialmente i soldi vengono raccolti in rete con il crowdfunding, ma da noi la campagna pro migranti è ampiamente rilanciata sul sito Melting Pot Europa. Lo sponsor del sito è l'Istituto nazionale assistenza ai cittadini (Inac). Un patronato «da oltre 40 anni impegnato nel sociale» e promosso dalla Confederazione italiana agricoltori, che fornisce assistenza gratuita agli immigrati per il rilascio del permesso di soggiorno o le pratiche del ricongiungimento familiare. Dalla scorsa estate volontari pro migranti italiani e di mezza Europa hanno fornito assistenza non solo umanitaria, grazie a mappe scritte anche in arabo con indicazioni precise sulle rotte, passaggi e sotterfugi per raggiungere soprattutto la Germania. Via twitter con gli hashtag #Crossingnomore o #marchofhope e WhatsApp hanno indirizzato migliaia di migranti verso determinati punti di frontiera per cercare di sfondarli. La rete «No Borders», infiltrata dagli anarchici, «è uno strumento per i gruppi e le organizzazioni di base a favore dei migranti e dei richiedenti asilo - si legge sul web - al fine di lottare al loro fianco per la libertà di movimento». Alcuni gruppi europei anti confini o Stop Deportation hanno piani più aggressivi. Le compagnie aeree come Lufthansa, Air France, Swissair, Sabena, British Airways, Iberia e pure le agenzie di viaggio sono finite nel mirino perché «deportano» i clandestini. I campi pro-migranti come quello di Ventimiglia, già organizzati in Slovacchia, Germania, Polonia, Sicilia e Spagna, sono un altro tassello del piano pro «invasione». Ulteriori azioni prevedono l'«evasione dai centri (di accoglienza nda), la loro distruzione o la lotta contro le nuove costruzioni». Dopo Ventimiglia il passaggio ad azioni violente è dietro l'angolo.
CRISTIANI ED EBREI. UN CONFLITTO LUNGO DUE MILLENNI.
Vittorio Feltri il 14 Settembre 2018 su "Libero Quotidiano" contro David Parenzo: "L'unico ebreo del tutto fesso". Sono un estimatore di Giuseppe Cruciani, conduttore principe della radiofonica Zanzara, programma di successo. E noi abbiamo il privilegio di averlo quale collaboratore, autore di pregevoli articoli che pubblichiamo con soddisfazione nostra e dei lettori. Ciò detto, ci giunge notizia che la ex ministro Kyenge è stata ospite della trasmissione durante la quale, come è suo costume, ha dichiarato che un individuo di colore oggi in Italia deve avere paura. Di chi? Di tutti noi che siamo razzisti. Se questa sua affermazione fosse fondata, le chiederei sommessamente, perché allora centinaia di migliaia di africani continuano a voler sbarcare nel nostro Paese? Se vengono qui in massa, pur consapevoli che siamo crudeli con i neri, mi domando come mai costoro non cessino un istante di tentare lo sbarco sulla penisola. Io se sapessi che in Senegal mi detestano, eviterei di recarmi laggiù. Mi sembra logico stare lontano da popoli inospitali e pronti ad aggredirmi. Viceversa i signori di pelle scura, pur dicendo di essere odiati da queste parti, non smettono di chiederci ospitalità. E il bello, anzi il brutto, è che seguitiamo ad accoglierli e a mantenerli ovviamente a nostre spese. O siamo scemi noi, più probabilmente, o sono scemi loro che corrono in bocca al lupo. Un lupo talmente buonino che non sbrana alcuno, come risulta dalle statistiche, ignorate da madame Kyenge. La quale avrebbe l'obbligo di rivelarci quanti negri abbiamo ucciso o almeno pestato. I dati ufficiali sono a disposizione di chiunque li voglia compulsare: gli episodi di razzismo nella nostra patria si contano sulle dita di due mani. Se su 60 milioni di connazionali, i razzisti sono una ventina - esagero - significa che accusarli in massa di xenofobia è una idiozia macroscopica che contrasta con i dati statistici. Non importa: il cervello della Kyenge forse non è in grado di elaborare in chiave sociologica i numeri ufficiali. Poco male. E non sorprende neppure il fatto che David Parenzo, aiutante di battaglia di Cruciani, sostenga questo concetto: Libero scrive che ci becchiamo le malattie quale la tubercolosi a causa degli immigrati, mentre nel Paese aumenta l'idiozia in quanto aumentano i nostri lettori. Però, che arguzia. La tubercolosi non viene dal continente nero, bensì da Zurigo o da Stoccolma. Simile idea può maturare soltanto nella testa di un cretino, con rispetto parlando. Difatti Parenzo è l'unico ebreo sciocco che abbia mai conosciuto. Non è cattivo, figuriamoci: è semplicemente privo di neuroni sufficienti per capire la realtà. In ciò è simile alla sua amica Kyenge, ex ministro inadeguato alla integrazione. Noi di Libero non disprezziamo né l'uno né l'altra: li compatiamo. P.s. Alla ex ministra scura di pelle raccomandiamo di pulire la cacca del suo simpatico cane anziché incolpare altri di spargere merda intorno a casa. Vittorio Feltri
Roma e gli ebrei, una storia lunga 22 secoli. Il libro di Riccardo Calimani, La Città eterna degli ebrei. La storia dei «giudii» a Roma dall’antichità al Novecento e alle leggi razziali in un volume pubblicato da Mondadori: ventidue secoli di aperture e feroci conflitti, scrive Gian Antonio Stella l'8 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". «Lunedi i soliti 8 ebrei corsero ignudi il palio loro favoriti da pioggia, vento et freddo degni di questi perfidi, mascherati di fango al dispetto delle gride. Dopo queste bestie bipede correranno le quadrupede domani». Rileggiamo: «queste bestie bipede». Bastano queste righe pubblicate negli «Avvisi di Roma» del 16 febbraio 1583 per capire quanto fossero radicate le ostilità anti-ebraiche nella Città eterna che ottant’anni fa si adeguò silente, per non dire di peggio, alle leggi razziali del 1938 che avrebbero aperto la strada, cinque anni dopo, alla retata nazista. Per oltre due millenni, infatti, come documenta lo storico Riccardo Calimani nella Storia degli ebrei di Roma. Dall’antichità al XX secolo appena edita da Mondadori, i rapporti tra i romani e «li giudii» erano stati segnati da periodi di conflitti e aperture, aperture e conflitti. Dalla lettera del 325 di Costantino a tutte le Chiese dell’impero («Vi esorto pertanto a non serbare nulla in comune con l’odiosissima turba giudaica») all’ordine agli ebrei di portare una «rotella gialla» sul petto, dalla bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum che istituì il Ghetto di Roma alle «prediche coatte», dalle feste per la Breccia di Porta Pia (vista da qualche ebreo come «il Giorno in cui il Signore ha tratto il suo popolo fuori dal crogiolo delle sofferenze, portandolo da schiavitù in libertà») fino alle virtuose solidarietà e alle odiose complicità negli anni della «Difesa della Razza». Nulla però spiega cosa rimestasse per secoli nella pancia del popolino quanto le infami bravate del carnevale romano, cancellato per i troppi eccessi solo da Clemente IX nel 1667. Bravate dedicate in larga parte, come ricordano quelle del marchese del Grillo, agli ebrei. «Giudate», le chiama Giovanni Mario Crescimbeni, fondatore dell’Accademia dell’Arcadia, nell’Istoria della volgar poesia: «Giudate perciocché in esse non si tratta d’altro che di contraffare e schernire gli Ebrei in istranissime guise, ora impiccandone per la gola, ora strangolandone e facendone ogn’altro più miserabil giuoco». Ed ecco «l’ebreo dentro la botte rotolato dalla plebaglia» raffigurato nella celebre incisione di Bartolomeo Pinelli. Il rito umiliante del calcio nelle natiche al Gran Rabbino prostrato davanti al «Senatore». La sommossa che scoppia, raccontata nel Meo Patacca, alla notizia (falsa) degli ebrei alleati dei turchi nell’assedio a Vienna: «Sul mezzo dì, pe’ la città si sparze / sta nova appena, e la sentì la plebbe / ch’arrabbiata de collera tutt’arze / e li Giudii già lapidà vorrebbe…». «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto», dice il «Manifesto degli scienziati razzisti» pubblicato il 5 agosto 1938 nel primo numero de «La Difesa della Razza»: «Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani». In realtà, spiega Calimani, «gli ebrei vivevano a Roma probabilmente ben prima della seconda metà del II secolo a.C. quando, in particolare tra il 161 e il 165, Roma e Gerusalemme cominciarono ad avere i primi contatti politici ufficiali». Molti altri si aggiunsero dopo le campagne di Pompeo con «l’arrivo di numerosi ebrei ridotti in schiavitù, sia a causa delle annessioni romane di territori dell’Asia minore, della Siria e dell’Egitto, dove esistevano comunità ebraiche molto numerose, sia a causa dell’occupazione della stessa Giudea». In città, «molti dei nuovi arrivati andarono a vivere in quartieri assai popolosi: gli ebrei erano numerosi nell’isola Tiberina, tant’è che al ponte Cestio fu dato il nome di pons Iudaeorum…». E non c’era solo il Ponte dei Giudei. Via via, infatti, come ricorda lo storico capitolino Claudio Rendina, si aggiunsero Piazza Giudia, l’Ortaccio degli Ebrei («detto anche de’ Giudei, sprezzante definizione del cimitero israelita alle falde dell’Aventino»), un altro Campo Giudeo a Trastevere, la Piazza delle Scòle, dove avevano sede ben cinque scuole ebraiche… Già ai tempi del consolato di Marco Tullio Cicerone, scrive Calimani, «secondo alcune fonti gli ebrei che vivevano in città erano circa 50-60.000, su una popolazione di quasi un milione di abitanti». E insomma tutta la storia degli ebrei, quando il fascismo scelse di cavalcare il razzismo, era intrecciata da oltre ventidue secoli con la storia della città Caput Mundi. Di famiglia ebraica era Tito Flavio Giuseppe, nato col nome di Yosef ben Matityahu, lo storico che dopo esser finito a Roma come prigioniero entrò nelle grazie di Vespasiano, di cui prese il nome gentilizio, per vivere fino alla morte alla corte imperiale. E così Pietro Pierleoni, eletto Papa (ma considerato antipapa) nel 1130 col nome di Anacleto II contro Innocenzo II imposto dai Frangipane. E Sidney Sonnino, romano d’adozione, più volte ministro nonché presidente del Consiglio del Regno. E il grande sindaco capitolino Ernesto Nathan che a settant’anni fu il più vecchio dei volontari decisi a combattere nella Grande guerra. Alla quale parteciparono non solo patrioti di famiglia ebraica ma addirittura dei «rabbini militari» mandati al fronte per tener su il morale ai soldatini fedeli al Talmud… Ne avevano passate tante, gli ebrei romani, già prima del 1938. Ma in quell’annus horribilis tirava un’aria davvero fetida. Scrive Calimani: «Sui giornali, per esempio sul “Popolo” di Torino, si potevano leggere articoli in cui comparivano affermazioni come: “Diecimila volontari ebrei nelle file dei rossi spagnoli”. Oppure sulla “Sera” di Milano si poteva trovare un titolo di questo tipo: “I figli dei matrimoni misti con gli ebrei sono predisposti alla tubercolosi”. Il 12 gennaio, sul “Regime Fascista”, Roberto Farinacci aveva scritto: “Chiediamo che i 43 milioni di italiani cattolici abbiano in tutti i centri più delicati dello Stato e della vita della Nazione i propri legittimi rappresentanti; essendo gli ebrei quasi la millesima parte della popolazione, bisognerebbe concludere che su mille posti uno spetterebbe agli ebrei, novecentonovantanove ai cattolici”». Va da sé che nella piccola comunità israelita montasse di giorno in giorno la paura. Pio XI, certo, non era d’accordo con questi sedicenti «cattolici» fascisti. Basti rileggere la parole nette che usò il 28 luglio 1938 davanti agli alunni del Pontificio collegio urbano De Propaganda Fide, che erano più di duecento e arrivavano da trentasette Paesi: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali… La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana. Questo è il pensiero della Chiesa». Non bastasse, fece pubblicare sull’«Osservatore Romano» una chiusa: «Ci si può chiedere quindi come mai, disgraziatamente, l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania». Il Duce, arrogante, rispose nel discorso a Trieste del 18 settembre: «Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni (di Hitler), sono dei poveri deficienti…». Cinque anni dopo dalla Tiburtina partivano i vagoni per Auschwitz. Oltre all’ottantesimo delle leggi razziali, che vennero introdotte dal regime fascista a partire dal settembre 1938, fino ai provvedimenti organici del successivo novembre, ricorre sempre in questi giorni il settantacinquesimo anniversario della razzia nel ghetto ebraico di Roma, compiuta dalle SS di Herbert Kappler il 16 ottobre 1943 durante l’occupazione nazista. Nella retata i tedeschi catturarono un migliaio di civili che furono avviati allo sterminio. Per ricordare quei tragici eventi e trarne i necessari insegnamenti dinanzi ai problemi attuali, l’Istituto nazionale «Ferruccio Parri» e la Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) hanno organizzato il 10 e l’11 ottobre a Macerata il convegno «A ottant’anni dalle leggi razziali. Una riflessione tra storia e contemporaneità». All’incontro, che si tiene presso l’aula verde del Polo Pantaleoni, partecipano tra gli altri: Michele Battini, Francesca Cavarocchi, Fabio Dei, Filippo Focardi, Valeria Galimi, Betti Guetta, Paolo Pezzino, Liliana Picciotto, Antonella Salomoni, Elisabetta Ruffini, Michele Sarfatti.
La lunga lotta di Roma contro Israele. Lo scontro con il popolo ebraico coinvolse gran parte dell'Impero, scrive Rino Cammilleri, Sabato 04/08/2018, su "Il Giornale". Quanto fossero ingestibili gli ebrei l'Impero Romano lo sapeva. Bastava che uno di loro si atteggiasse a «messia» e ai romani toccava intervenire con grande dispendio. Dopo che Vespasiano e Tito ebbero domato la rivolta del 66-70 d.C. distruggendo addirittura il Tempio, gli ebrei sopravvissuti e non venduti schiavi si rifugiarono presso i correligionari della diaspora. Ma il loro esclusivismo non mancava, neanche «all'estero», di creare problemi con gli autoctoni. Si conosce la «soluzione finale» con cui Adriano nel 135 d.C. la fece finita radendo al suolo Gerusalemme e cambiandogli pure nome. Dopo l'insurrezione del «messia» Bar Kokhba, Gerusalemme divenne colonia romana, Aelia Capitolina, piena di templi pagani e col divieto assoluto per ogni ebreo di rimettervi piede, pena la morte. Ma non tutti sanno che tra il 70 e il 135 d.C. ci fu un'altra, grande rivolta, questa volta nella diaspora. La racconta per la prima volta Lidia Capponi ne Il mistero del Tempio. La rivolta ebraica sotto Traiano (Salerno Editrice, pagg. 140, euro 14,50). Dopo la mano pesante degli imperatori Flavi, Nerva aveva abolito il fiscus iudaicus, cioè la tassa che colpiva gli ebrei in quanto tali. Ciò aveva provocato malumori in quei «greci», cioè i pagani, che con gli ebrei vivevano a contatto. Il successore di Nerva, Traiano, dopo la conquista della Dacia mosse contro l'impero dei Parti, nel quale stavano importanti comunità giudaiche. Per garantirsene se non l'appoggio almeno la neutralità, Traiano ventilò agli ebrei due golosissime opportunità: il ritorno in patria degli esuli (anche quelli di seconda e terza generazione vivevano con questo sogno) e la ricostruzione del Tempio a spese dello stato romano. Incaricò all'uopo due personaggi altolocati scelti appositamente perché discendenti dei due più importanti profanatori del Tempio: Tiberio Giulio Alessandro Giuliano e Gaio Giulio Antioco Epifane Filopappo. Il primo era figlio di Tiberio Giulio Alessandro, che aveva abbandonato la religione ebraica per far carriera nell'impero ed era stato luogotenente di Tito nell'assedio di Gerusalemme culminato nel disastroso incendio del Tempio. Il secondo discendeva da quell'Antioco IV Epifane che aveva scatenato la rivolta dei Maccabei portando l'«abominio della desolazione» profetizzato da Daniele nel Tempio. Traiano conquistò l'Armenia e la Partia, occupando nel 116 la capitale dei parti, Ctesifonte. Il Senato gli diede il titolo di Parthicus e ne decretò la divinizzazione. Primo errore. Secondo errore: Traiano fece erigere sue statue, ormai «divine», in Gerusalemme. Ma ormai le speranze messianiche le aveva sollevate e fu catastrofe: gli ebrei si ribellarono ad Alessandria, Cirene, Cipro e in tutto l'ex impero partico, costringendo Traiano a mandare legioni su legioni. Fu un bagno di sangue. La sinagoga di Alessandria, orgoglio dei giudei, fu rasa al suolo e la repressione costò centinaia di migliaia di morti. Traiano morì nel 117 e l'evento fu festeggiato per sempre dai rabbini.
Filosofia e religione s’incontrarono. La rivoluzione culturale di Cristo. La nuova fede coniugò le pratiche di culto e il discorso speculativo su Dio, scrive Marco Rizzi il 4 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Intorno alla metà del II secolo dopo Cristo, nella città greca di Corinto, un rabbino ebraico si imbatté casualmente in un cristiano ed ebbe con lui una lunga discussione sull’interpretazione delle profezie messianiche contenute nella Bibbia. Il loro dialogo venne poi messo in forma scritta dall’interlocutore cristiano, Giustino, ed è giunto sino a noi con il titolo di Dialogo con l’ebreo Trifone. Nelle battute iniziali, però, quest’ultimo identifica Giustino come un filosofo, giacché indossava un mantello con cappuccio, il pallium, caratteristico dei maestri di filosofia. Lungi dall’esserne imbarazzato, Giustino ricostruisce il suo percorso intellettuale che lo aveva visto vagare da una scuola filosofica all’altra (platonica, stoica, aristotelica…) rimanendone sempre insoddisfatto, sinché non si era imbattuto in un maestro che lo aveva introdotto alla lettura della Bibbia e alla «filosofia» cristiana, presentata come l’unica vera che permette di raggiungere con certezza le verità ultime su Dio, il mondo e l’uomo. Un paio di decenni più tardi, Melitone, vescovo della città di Sardi in Asia Minore, scrivendo direttamente all’imperatore Marco Aurelio, noto amico dei filosofi ma non altrettanto dei cristiani, segnalerà la coincidenza cronologica tra la fondazione dell’impero da parte di Augusto e la nascita della «nostra filosofia», quella dei cristiani, volendo così sottolineare il comune destino che legava entrambi. L’idea che il cristianesimo fosse una «filosofia» rimase costante nel pensiero cristiano di tutti i primi secoli, generando pensatori di spicco quali Origene e Agostino. Si tratta di una novità importante rispetto al mondo antico, che ha cambiato profondamente il significato e il ruolo stesso della religione e della filosofia. Fino alla comparsa del cristianesimo, la religione costituiva anzitutto un’attività pubblica, un «fare» che si concretizzava in riti e sacrifici, cui assistere e partecipare; nessuno vi collegava un «credere», al massimo ci si rifaceva al mito tradizionale come ad uno sfondo narrativo. Il discorso su Dio era invece proprio della filosofia, anzi di una parte specifica di essa, ovvero quella che si occupava dei principi fondamentali della realtà (in greco le archai), che ad esempio la tradizione platonica identificava nelle idee, nel numero, nella materia, oltreché appunto nel divino. Le diverse filosofie, poi, potevano ispirare una specifica etica, che si traduceva in un concreto stile di vita: la vita ritirata e al riparo dagli affanni degli epicurei, il rigoroso impegno civile degli stoici e così via. Affacciandosi nel mondo greco e romano dopo la sua genesi nell’ebraismo, il cristianesimo legò invece in unità tutti questi ambiti: la pratica cultuale (anzitutto il battesimo e la celebrazione eucaristica) si associò a un sistema di conoscenze e di credenze relative a Dio e alla sua intrinseca realtà (a partire dalla persona di Cristo, Dio incarnato, nel suo rapporto con il Dio creatore del mondo, il Padre), dal cui insieme scaturiva un’etica esigente che a sua volta si alimentava alla liturgia e alla lettura della Bibbia. Se prima la filosofia rappresentava un interesse limitato alle ristrette élite che possedevano gli strumenti materiali e intellettuali per poterla coltivare, ora essa si universalizza e si allarga a tutti gli strati sociali, attraverso la mediazione degli intellettuali e dei predicatori cristiani, che si impegnano a ridefinire gli orizzonti della speculazione tradizionale a partire dalla Bibbia e dalla sua interpretazione.
In questo modo, il cristianesimo riuscì a intercettare e a plasmare nella direzione voluta fenomeni sociali e culturali abbozzati o già in atto. Presentandosi nel mondo romano come una «filosofia», il cristianesimo si inserì efficacemente, da un lato, nella crescente vita intellettuale delle città dell’impero, specie nel periodo di pace e prosperità del II secolo, e dall’altro poté superare le perplessità suscitate dal fatto che a differenza delle religioni tradizionali e dello steso ebraismo non celebrava sacrifici o altri riti paragonabili (l’idea della celebrazione eucaristica come «sacrificio» si affermerà solo nel IV secolo). A sua volta, il cristianesimo rafforzò, fino a egemonizzarla, la tendenza della filosofia di epoca imperiale a concentrarsi sul divino quale tema metafisico centrale: con i pensatori cristiani, il discorso su Dio cessa di essere una parte, per quanto importante, della riflessione sulle archai, per acquisire piena autonomia e collocarsi al culmine dell’intero sistema delle conoscenze, cui tutte le altre discipline risultano finalizzate. La filosofia inizia così il cammino che la condurrà a essere ancilla theologiae, «serva della teologia» nel sistema medioevale delle arti liberali, scolasticamente organizzate nell’insegnamento del trivio e del quadrivio. Nella società cristiana medievale, però, sia la teologia, sia la filosofia torneranno ad essere dominio di una ristretta élite, in qualche misura rinnegando l’iniziale presentazione del cristianesimo quale «vera» filosofia e canale universale di accesso alla verità su Dio e sull’uomo.
Perchè gli ebrei sono stati sempre perseguitati, scrive il 19 agosto 2017 Lettera 43. Gli ebrei, a partire dalla tirannia degli assiri e dei babilonesi, dei greci e dei romani, fino al tragico climax del nazismo e del fascismo, sono stati, sempre, perseguitati e sono stati, sempre, oggetto di discriminazione, di isolamento, di tirannia e, in ultimo, di genocidi da parte degli altri popoli.
Un breve excursus storico. Già gli assiri, infatti, sottoposero gli ebrei sottomessi a un lungo dominio e molti di loro vennero deportati. Gli ebrei stessi, per esempio, dal 438 d.C., con gli editti di Valentiniano e di Teodosio, furono esclusi prima da ogni carica pubblica e poi dal diritto di accesso alle università. La discriminazione durò, in generale, fino al 1791, con l'intervento di Napoleone, a favore degli ebrei, che emancipò, di fatto, la popolazione ebraica. Ma alcuni divieti furono ripristinati dal Congresso di Vienna, nel 1815. Nel 1871 vi fu l'emancipazione degli ebrei da parte della Germania e di tutti i paesi europei tranne la Russia che concessero la massima libertà, di fatto, agli ebrei. In alcuni paesi si concedettero dei diritti limitati agli ebrei stessi: con la speranza che questi "cambiassero per il meglio". Fino al fascismo e al nazismo, dove si stabilì l'inferiorità degli ebrei e la "superiorità della razza ariana" e con la triste storia delle deportazioni, delle discriminazioni e dei campi di concentramento. Fino ad oggi: dove si sta registrando, negli stati europei, un'accelerazione delle partenze verso Israele: soprattutto da Francia, Ucraina e Belgio. Questo a causa di antisemitismo, instabilità interna dei tre paesi citati e difficoltà economiche. Queste molte partenze per Israele si stanno registrando, anche, dall'Italia. Quindi, un dato, anche, attuale.
Ma perchè gli ebrei sono stati, sempre, perseguitati? Ecco un breve elenco di ragioni.
Gli ebrei sono coloro che hanno tradito Gesù. Innanzitutto, c'è una ragione cristiana dell'antisemitismo. Infatti, gli ebrei sono stati quelli che hanno crocifisso Gesù. Quindi, per la loro esistenza, la popolazione ebraica era un pericolo costante nei confronti di una società (medievale) dominata dalla religione cristiana. L'idea della colpa degli ebrei per la morte di Gesù rappresentò la "condanna" per molti di essi.
Gli ebrei diffondevano la peste. Inoltre, nel Medioevo, con l'insorgere della peste, si diceva che gli ebrei avessero avvelenato i pozzi, diffondendo la stessa. Molti teologi cristiani affermavano, infatti, che gli ebrei avessero un carattere criminale. Questi erano "rei" di diffondere questa paurosa malattia: per cancellare dalla faccia della terra i cristiani.
La comune idea sugli ebrei. C'era, anche, la comune idea che gli ebrei fossero degli avari, degli usurai e che si arricchissero con i soldi degli altri. Molti ebrei erano, nelle popolazioni dove emigravano, anche dei prestasoldi e cambiamonete. Vi furono delle norme, per esempio, rilasciate da Papa Innocenzo III contro la popolazione ebraica. Infatti, vi fu questa idea di "ghettizzare" questi cittadini e di escluderli dalle associazioni professionali.
La persecuzione per la mancata integrazione nel mondo cristiano e occidentale. Un'altra ragione della persecuzione di questo popolo era (si diceva) la sua mancata integrazione nel mondo cristiano e occidentale. Relegati, infatti, da sempre nei loro ghetti: ciò causò persecuzioni e stermini nei confronti degli ebrei. Il loro modo di vestirsi, le loro abitudini quotidiane e il loro forte radicamento culturale erano, infatti, fonte di attacchi da parte delle popolazioni che li ospitavano. La loro diversità (e la loro ricchezza culturale e materiale) hanno sempre fatto paura agli stati ospitanti.
I ruoli chiave occupati dagli ebrei nei governi. Un'altra fonte di persecuzione degli ebrei fu quella più recente: secondo la quale in tutti i governi e le istituzioni si potevano trovare degli ebrei. Questo grazie, anche, alla loro intelligenza. E quindi, gli ebrei facevano paura: per la loro ascesa al potere. Fino al nazismo e al fascismo. Dove facevano paura questi ruoli di responsabilità occupati dagli ebrei stessi, ma dove l'antisemitismo doveva diventare una lotta di tutti i popoli contro un nemico enorme e universale: la popolazione ebraica. Venne stabilita la superiorità della razza ariana e gli ebrei venivano visti come degli "strozzini" e degli approfittatori dal nazismo. Quando, davanti ai negozi, si esponevano i cartelli di non acquistare presso i vari negozi ebraici.
Insomma, per concludere, questo popolo è stato, sempre, discriminato perchè è stato, sempre, una forte comunità culturale, nonchè economica e religiosa. Con gli ebrei c'è sempre stato, da parte del mondo occidentale e da parte delle varie popolazioni, un "senso di inferiorità" mascherato, che spingeva a perseguitarli, sempre e a discriminarli (vedi tutte le popolazioni e il nazismo e il fascismo). Dietro alla persecuzione agli ebrei si celava e si cela ancora paura, debolezza e, anche, inettitudine.
Perché l'odio contro gli ebrei? Sulle origini dell'antisemitismo, scrive "Viaggio-in-germania.de".
Origine n°1: "Gli ebrei sono quelli che hanno crocefisso Gesù". La più antica fonte dell'antisemitismo è cristiana: "Gli ebrei sono quelli che hanno crocefisso Gesù!". Per molti secoli la chiesa ha alimentato nel popolo questa convinzione demagogica che serviva a giustificare la persecuzione e l'eliminazione della "concorrenza" religiosa. La comunità religiosa degli ebrei era sparsa in tutta l'Europa, e costituiva sempre un corpo estraneo in una società in cui la chiesa voleva essere l'unica autorità, non solo religiosa, ma anche culturale e politica. Solo per la loro esistenza, gli ebrei erano un pericolo costante per una società medievale dominata dalla religione cristiana. Il loro costante rifiuto di farsi cristiani era una specie di delegittimazione della validità universale della fede cristiana. Così è nato l'odio e anche la spiegazione "teologica" per quest'odio. L'idea della "colpa collettiva" degli ebrei per la morte di Gesù fu praticamente la condanna a morte per decine di migliaia di essi. Questa convinzione si mantenne molto a lungo, a livello più o meno conscio, in vasti strati della popolazione.
Origine n°2: "Gli ebrei sono responsabili della peste". Questa è una variante dell'odio di origine cristiana descritta sopra. Nel medioevo, la peste fu una delle malattie più terribili e più temute capace di annientare decine di migliaia di persone e di spopolare intere regioni. L'origine era misteriosa, e dalla convinzione che fosse il diavolo a mandare la peste in terra fino a dare la colpa agli ebrei (che avrebbero avvelenato i pozzi) il passo non era lungo. Numerosi teologi cristiani (come p.e. Johannes Chrysostomos o l'arcivescovo Agobardo di Lione) avevano attribuito a gli tutti ebrei un carattere criminale e così, gli ebrei erano facilmente individuati come quelli che scatenavano periodicamente la peste per eliminare i cristiani. Un'altra teoria sosteneva che la peste era una punizione di Dio per il fatto che i cristiani tolleravano gli ebrei nelle loro città. Comunque sia, i risultati erano gli stessi: ogni volta che il flagello della peste colpì l'Europa aumentarono le sommosse popolari antisemite, i massacri e saccheggi, spesso con il tacito consenso – se non con l'appoggio attivo – delle autorità. Un esempio per tanti casi simili: nel 1349, a Strasburgo, furono sepolti vivi 2.000 ebrei ritenuti responsabili di quella terribile epidemia.
Origine n°3: "Gli ebrei sono avari, degli usurai che si arricchiscono con i soldi degli altri". Durante il Concilio Laterano del 1215 il Papa Innocente III, un nemico giurato degli ebrei, fece rilasciare una serie di norme che dovevano segnare il destino degli ebrei per molti secoli. Vietò per esempio ai cristiani di prestare soldi contro interessi e consigliò di escludere gli ebrei dalle altre associazioni professionali. Successivamente, quasi tutte le associazioni professionali, riferendosi a queste prescrizioni della chiesa, vietarono agli ebrei l'esercizio della loro professione e costrinsero questi a delle attività professionali (cambiamonete, prestasoldi etc.) che il popolo, comprensibilmente, odiava. Tutti, anche i contadini più poveri, dovevano rivolgersi prima o poi a un ebreo per farsi prestare dei soldi e ogni raccolta andata male portava a un odio crescente verso di loro. Ma anche gli imperatori avevano un gran bisogno di denaro, motivo per cui di solito i poteri imperiali erano molto più tolleranti nei confronti degli ebrei dai quali spesso dipendevano.
Origine n°4: "Gli ebrei non vogliono integrarsi nel mondo cristiano-occidentale". Relegati da leggi religiose e civili nei loro ghetti, periodicamente perseguitati e anche sterminati, gli ebrei svilupparono una forte identità culturale che li fece sopportare e sopravvivere. Ma il loro essere diversi che si vedeva anche nel modo di vestirsi e in molte abitudini quotidiane, la loro "resistenza culturale", li rese ancora più oggetto di sospetti e di attacchi ingiusti. Colui che è diverso è tendenzialmente pericoloso. E questo valeva non solo per la società medioevale, ma anche per oggi.
Origine n°5: "Gli ebrei vogliono manovrare tutti i paesi secondo i loro interessi". Questa è la versione più recente dell'antisemitismo, è quella inventata dai nazisti per canalizzare e deviare i mille motivi di scontentezza e di rabbia del popolo contro una facile preda e per dare una semplice "spiegazione" alle molte ingiustizie nel mondo che molta gente non riusciva a spiegarsi. In tutti i governi, in tutte le organizzazioni internazionali si potevano trovare degli ebrei, anche in posizioni importanti, e così era molto facile trovare delle "prove" per questa assurda affermazione. Secondo la teoria di Hitler l'antisemitismo doveva diventare così una lotta di tutti i popoli contro un nemico universale. Per essere giustificato, lo sterminio sistematico aveva bisogno di una motivazione più forte, più "politica" e non solo etnica o religiosa.
Hermann Hesse sulle origini dell'antisemitismo: "L'uomo primitivo odia ciò di cui ha paura, e in alcuni strati della sua anima anche l'uomo colto è primitivo. Anche l'odio dei popoli e delle razze contro altri popoli e razze non si basa sulla superiorità e sulla forza, ma sull'insicurezza e sulla paura. L'odio contro gli ebrei è un complesso di inferiorità mascherato: rispetto al popolo molto vecchio e saggio degli ebrei certi strati meno saggi di un'altra razza sentono un'invidia che nasce dalla concorrenza e un'inferiorità umiliante. Più fortemente e più violentemente questa brutta sensazione si manifesta nella veste della superiorità, più è certo che dietro si nascondono paura e debolezza." (1958)
La teoria razziale e l'antisemitismo di Hitler.
La teoria razziale: Al centro della teoria di Hitler sta l'idea della razza. Tutta la storia, dice Hitler nel suo libro "Mein Kampf" (1925), è solo espressione dell'eterna lotta tra le razze per la supremazia. La guerra è l'espressione naturale e necessaria di questa lotta in cui il vincitore, cioè la razza più forte, ha il diritto di dominare. L'unico scopo dello stato è mantenere sana e pura la razza e creare le condizioni migliori per la lotta per la supremazia, cioè per la guerra. E la guerra è l'unica cosa che può dare un senso più nobile all'esistenza di un popolo. Di tutte le razze quella cosiddetta "ariana" o "nordica" è, secondo Hitler, la più creativa e valorosa, in fondo l'unica a cui spetta il diritto di dominare il mondo. Tradotto nella realtà questo significava per Hitler prima l'unificazione del continente europeo sotto il dominio della nazione tedesca, per cercare poi nuovo spazio vitale all'est, cioè in Polonia e in Russia. Ma questo doveva essere, come scrive Hitler, solo il preludio dell'ultima grande sfida, dello scontro finale contro gli Stati Uniti. É un fatto singolare e molto significativo, che l'andamento reale della seconda guerra mondiale rispecchia quasi esattamente questa teoria, che Hitler aveva sviluppato 14 anni prima dell'inizio della guerra. É un esempio lampante della testardaggine con cui Hitler seguiva le proprie idee e cercava di applicarle a tutti i costi, una caratteristica che si nota spesso in lui. Ci sono numerose contraddizioni e imprecisioni nella teoria razziale di Hitler. Già il concetto di base, la "razza ariana", è un'assurdità storica. Inoltre Hitler confonde spesso "razza" con "popolo" o "nazione", confonde i concetti "tedesco", "germanico" e "ariano". Ma probabilmente tutto questo non è molto importante per Hitler, dato che alcuni capitoli più avanti scrive con molta franchezza "la propaganda non ha il compito di essere vera, ha invece l'unico compito di essere efficace." Infatti, questa propaganda doveva rivelarsi molto efficace. Sicuramente al disoccupato faceva piacere sentire che in fondo non era un piccolo disgraziato ma uno che apparteneva a una razza superiore. Parlando del suo futuro Reich Hitler promette: "Essere uno spazzino in un tale Reich sarà onore più alto che essere un re in uno stato estero".
L'antisemitismo: Il secondo elemento fondamentale è l'antisemitismo. Per Hitler gli ebrei non sono una comunità religiosa, ma una razza, e cioè la razza che vuole rovinare tutte le altre. Mescolandosi con gli altri popoli, gli ebrei cercano di imbastardirli, distruggendo la purezza della razza e eliminando così la loro forza, necessaria per la lotta per la supremazia. L'ebreo è il nemico più pericoloso, è cattivo fino in fondo. Hitler dice: "Gli Ebrei sono come i vermi che si annidano nei cadaveri in dissoluzione." L'antisemitismo diventa in Hitler una vera e propria ossessione. Pacifismo, marxismo, la democrazia, il pluralismo, persino il capitalismo internazionale e la "Lega dei popoli", predecessore del ONU, tutto questo è risultato del lavoro distruttivo e sotterraneo degli ebrei. Hitler: "L'Ebreo è colui che avvelena tutto il mondo. Se l'ebreo dovesse vincere, allora sarà la fine di tutta l'umanità, allora questo pianeta sarà presto privo di vita come lo era milioni di anni fa." Oggi queste parole suonano decisamente ridicole, e anche all'epoca molti le ritenevano tali e vedevano in esse solo uno strumento politico per incanalare la rabbia del popolo su un capro espiatorio. Ma l'odio di Hitler contro gli ebrei non era solo strumento politico, era reale con tutto il suo evidente anacronismo e la sua irrazionalità. Gli orrendi eventi degli anni 1940-1945, quando l'antisemitismo non poteva più servire come strumento politico, lo dimostrano in modo spaventoso. E nella lotta contro gli ebrei Hitler si vede come pioniere di tutta l'umanità: Nel aprile del 1945, quando Hitler presagiva già la propria fine, detta al suo segretario: "Un giorno si ringrazierà il Nazionalsocialismo del fatto che io ho annientato gli ebrei in Germania e in tutta l'Europa centrale".
Lo scrittore tedesco Hermann Hesse scrisse sull'antisemitismo: "L'uomo primitivo odia ciò di cui ha paura, e in alcuni strati della sua anima anche l'uomo colto è primitivo. Anche l'odio dei popoli e delle razze contro altri popoli e razze non si basa sulla superiorità e sulla forza, ma sull'insicurezza e sulla paura. L'odio contro gli ebrei è un complesso di inferiorità mascherato: rispetto al popolo molto vecchio e saggio degli ebrei certi strati meno saggi di un'altra razza sentono un'invidia che nasce dalla concorrenza e un'inferiorità umiliante. Più fortemente e più violentemente questa brutta sensazione si manifesta nella veste della superiorità, più è certo che dietro si nascondono paura e debolezza." (1958)
“La città senza ebrei”, il film che predice di 20 anni l’arrivo di Hitler. La pellicola, uscita nelle sale nel 1924, racconta la storia di una città in cui si decide di cacciare tutti gli ebrei. Emblema dell’antisemitismo del periodo, il film profetizza quello che avverrà, qualche anno dopo, con l’Olocausto, scrive LinkPop il 9 Aprile 2018 su "L’Inkiesta”. “È terribile espellere gli ebrei, ma bisogna anche venire incontro alle richieste della popolazione”. Chi lo ha detto? Nessuno, o quasi. La frase, mai pronunciata nella realtà da alcun capo di Stato (o dittatore), si trova in un film austriaco del 1924, “La città senza ebrei” (Die Stadt ohne Juden), in cui si prediceva, con 20 anni di anticipo, la salita al potere del nazismo. La pellicola, che conobbe un certo successo all’esordio, scomparve – insieme alla maggior parte dei film muti – all’arrivo del sonoro. Gli appassionati la davano ormai per persa per sempre e dovevano accontentarsi di qualche spezzone danneggiato trovato in Olanda nel 1991. Ben poco, per un film che, basato sul libro satirico/distopico dello scrittore austriaco ebreo Hugo Bettauer, raccontava con spirito purtroppo profetico la storia di una città in cui l’insofferenza verso gli ebrei, col passare del tempo, diventa odio, fino a quando, basandosi su accuse false e pretestuose, la popolazione decide di cacciarli in massa – nessuno (forse) immaginava, alla prima, che qualche anno dopo sarebbe accaduto davvero. Solo nel 2015, per puro caso, una versione ancora integra del film spuntò in un mercatino dell’usato di Vienna. Un colpo di fortuna che, vista anche l’importanza storica della pellicola, l’Austrian Film Archiv non si lascia sfuggire e organizza una raccolta fondi per finanziare il suo restauro. Ora è di nuovo possibile vedere “La città senza ebrei”, con tutte le scene di malcontento verso gli ebrei, le proteste, gli insulti. E poi le espulsioni, i saluti con bambini in braccio e tanti pianti. Tutte cose che, nel giro di qualche anno, sarebbero passate nella realtà. Solo la fine sarebbe stata diversa: nel film la popolazione della città chiede di riaccogliere gli ebrei, ormai resasi conto di come fossero peggiorate le cose in città senza di loro. Nella realtà lo sappiamo tutti. Anche Bettauer, l’autore del libro, pagò subito per il successo del film. Nonostante il successo nelle sale, la destra politica decise di reagire e Bettauer venne ucciso da un nazista al termine di una campagna di odio mediatico nei suoi confronti. L’uomo se la cavò con una sentenza lieve. Come spiega alla Bbc lo storico Nikolaus Wostry, “Personaggi come Hugo Bettauer cercavano di trovare un clima diffuso di tolleranza, non solo per gli ebrei ma anche per omosessuali e donne lavoratrici”. Non andò così. La destra, maggioritaria in Austria e in Europa, entrò subito in conflitto con lui e con le sue idee. Cosa accadde dopo, è storia nota. Ma, rivedendo il film, non si può più dire che nessuno fosse stato avvertito.
Perché Hitler odiava gli ebrei, scrive il 23 luglio 2018 Lettera 43. Adolf Hitler, tra i personaggi più noti della storia contemporanea, è forse uno degli uomini più folli che l’umanità abbia conosciuto. Ma perché quest’uomo, non tanto alto, con il baffo squadrato e la voce strillante, ce l’aveva così tanto con il popolo ebreo? Perché il suo sogno era lo sterminio delle altre razze, per creare un popolo formato dalla sola “razza pura”? Queste e altre, le domande, che ancora oggi gli studiosi si pongono, sull’uomo dalle mille sfaccettature e dai tanti misteri.
La Germania, una nazione antisemita. L'odio e la rabbia verso il popolo ebreo aveva da sempre aleggiato nel popolo tedesco, ancora prima che Hitler salisse al potere. Basti pensare al cosiddetto "cancelliere di ferro", Bismarck e a Guglielmo II che, con la loro politica d’espansione, diedero vita al cosiddetto “Pangermanesimo", termine di origine polemica francese, denunziante l'espansionismo tedesco che voleva unificare sotto un unico sovrano tutti i popoli di stirpe germanica, proclamando la loro superiorità biologica ed etnica. Il senso di dominio tedesco, come si può ben capire, è stato dunque sempre molto presente in Germania, e Hitler, salendo al potere, si ritrovò in un territorio già fortemente preparato in tal campo.
L'odio di Hitler verso gli ebrei: questioni di razza. Per Hitler e i nazisti, era la “razza ariana” ad essere la migliore, la più forte. Gli ebrei invece erano identificati come razza inferiore, tanto da non essere nemmeno considerati come “esseri umani”. Essi erano considerati infatti:
l'ncarnazione del male sotto ogni punto di vista;
una razza pericolosa per la tranquillità della popolazione tedesca;
portatori di malattie e quindi portatori di morte;
“quelli che hanno crocefisso Gesù”;
un popolo molto ricco, che da sempre avrebbero voluto manovrare tutti i paesi secondo i loro interessi. Questa la versione più recente dell’antisemitismo, inventata dai nazisti per canalizzare e deviare i mille motivi di scontentezza e di rabbia del popolo contro una facile preda e per dare una semplice “spiegazione” alle molte ingiustizie nel mondo che molta gente non riusciva a spiegarsi.
Hitler e lo sterminio degli ebrei: le ragioni personali. Gli ebrei in realtà da sempre hanno fatto parte della vita del Fuhrer: nelle vene di Hitler scorreva sangue ebreo. A tal proposito due, le ipotesi:
la nonna paterna, domestica presso una famiglia di ricchi ebrei avesse avuto una relazione clandestina, con un ebreo appunto, dalla quale sarebbe nato Alois, il padre di Hitler;
la nonna paterna fosse un'ebrea convertita. Il suo cognome, Schicklgruber, era difatti comune fra gli ebrei ai quali, l’imperatrice Maria Teresa concesse la cittadinanza austriaca dopo la loro conversione al cattolicesimo.
Il padre, con il quale il rapporto non fu dei migliori, era dunque per metà ebreo. E fu proprio il rapporto di Hitler con il padre, un ubriacone che in casa era autore di atti di violenza, specialmente contro i figli, a far nascere in lui, quel profondo odio non solo verso di lui, ma verso ciò che lui rappresentava, ovvero il popolo ebreo. A rafforzare la sua convinzione vi fu anche l’aspetto psicologico e sociale che si respirava in quel periodo, durante il quale l’antisemitismo era un fenomeno di intolleranza diffuso in tutta la Germania, nonché le letture antisemite che Hitler ebber modo di fare a Vienna e che fecero gli davano la visione del popolo ebreo come iniziatore del male e capace di sovvertire l’ordine della società, e che aveva come unico scopo, quello di voler governare la Germania al posto dei tedeschi. L’antisemitismo diviene man mano una vera e propria ossessione per Hitler, il suo unico e solo obiettivo, soprattutto dopo la morte del padre. Un forte desiderio di cancellare il suo passato che lo porta a creare “la soluzione finale”: la repressione di ciò che per lui era stata causa di sofferenza. In realtà c'è anche chi, come il «cacciatore di nazisti» Simon Wiesenthal, ha sostenuto che, così tanta avversione fu dovuta al fatto che una prostituta ebrea contagiò il giovane Adolf con la sifilide al tempo del suo soggiorno viennese; e chi invece la riconduce al rancore ad un medico ebreo, Eduard Bloch, che sottopose a cure sbagliate la madre Klara. Ma sarebbero queste, ipotesi molto meno accreditate.
La storia della Shoah inizia da una fake news e finisce con l'Olocausto. Dall'antisemitismo all'Olocausto: ecco come si è arrivati alla pagina più nera della storia dell'umanità, scrive il 26 gennaio 2018 Giuliana Rotondi su Focus. Per "Shoah" comunemente si intende la morte di quasi 6 milioni di Ebrei, uccisi tra il 1939 e il 1945. Un'interpretazione più ampia di Olocausto include anche soldati sovietici morti nei lager (tra i 2 e i 3 milioni), i polacchi (quasi 2 milioni), gli zingari (90.000-220-000), i disabili (150.000), i testimoni di Geova (2.000) e gli omosessuali - il cui dato certo non è noto. In principio furono dicerie: fumosi proclami in nome di una presunta superiorità della razza ariana. Poi, con l'ascesa di Hitler al potere (1933), gli slogan lasciarono posto a leggi discriminatorie. Così, in un crescendo, si arrivò ai ghetti, ai primi massacri e alla pianificazione della famigerata soluzione finale: il progetto che istituiva i campi di sterminio, luoghi deputati alla morte seriale di milioni di ebrei, le principali vittime della Shoah - anche se un'interpretazione più ampia di Olocausto contempla anche altre vittime: Rom, Sinti, comunisti, testimoni di Geova, gay e disabili.
PRIMA DEL III REICH. La propaganda antisemita in Europa non iniziò con il terzo Reich, ma molti secoli prima. In origine aveva basi soprattutto religiose (i cristiani attribuivano agli ebrei la responsabilità della morte di Gesù). Dopo la rivoluzione francese (1789), con la secolarizzazione della società, i partiti nazionalisti diedero all'antisemitismo una connotazione politica: ritenevano gli ebrei responsabili di una cospirazione giudeo-bolscevica che minacciava i valori della società tradizionale cristiana. A gettare benzina sul fuoco fu, nel 1903, la divulgazione di una delle più celebri fake news della storia: i Protocolli dei Savi di Sion, un falso documento "ritrovato" nella Russia degli zar che parlava di una cospirazione ebraica e massonica per impadronirsi del mondo. Il presunto complotto fu poi presentato per la bufala che era nel 1921, dal Times, con alcuni articoli che ne svelavano genesi e falsità.
CAPRI ESPIATORI. Hitler intercettò l'odio verso gli ebrei e ne fece la sua bandiera politica. Il malcontento in Germania, dopo la disfatta della I Guerra mondiale, stava mettendo a dura prova la tenuta sociale del Paese. Lui ebbe l'intuizione e la capacità di farsene carico e nel suo Mein Kampft (1925) disse di chi era la colpa: principalmente (ma non solo) degli ebrei. "Se gli Ebrei fossero soli su questa terra, essi annegherebbero nella sporcizia e nel luridume, combattendosi ed eliminandosi in lotte gonfie d'odio" scriveva. Il futuro Führer con queste parole sapeva di guadagnare consenso tra un popolo ridotto in miseria e di aprirsi la strada al cancellierato (1933).
DALLE PAROLE AI FATTI. L'obiettivo politico iniziale del regime nazista fu l'allontanamento degli ebrei dal Paese. Il Reich creò quindi le premesse per il loro isolamento. Prima proclamò le cosìddette Leggi di Norimberga (1935), che escludevano gli ebrei dalla vita sociale e dagli incarichi pubblici; tre anni dopo impose la arianizzazione delle attività ebraiche autonome, dei servizi, dell'industria e del commercio. La notte dei cristalli, infine, li segregò: tra il 9 e 10 novembre 1938 su impulso del Ministro della propaganda Goebbels, in Germania, Austria e Cecoslovacchia furono distrutte le sinagoghe, i cimiteri e i luoghi di aggregazione della comunità ebraica. Migliaia di negozi e di case vennero oltraggiate e circa 30.000 ebrei furono privati dei beni e portati in campi di concentramento.
NEI GHETTI. A quel punto, chi potè lasciò il Paese. Chi rimase andò incontro all'inferno. Nel 1939 con l'invasione della Polonia e lo scoppio della II Guerra mondiale la condizione di vita degli ebrei divenne ancora più critica. Molti finirono in ghetti sovraffollati, come quello di Varsavia, istituito nel 1940, che arrivò a contare 400.000 persone in uno spazio di quattro chilometri per due. La vita all'interno del ghetto di Varsavia era terribile: la fame e le malattie decimavano la popolazione, e per qualunque cosa a dominare era la microcriminalità: la presenza dei Judenräte (kapò locali) e di una polizia ebraica al servizio dei tedeschi divideva la comunità in bande fratricide, tra recriminazioni e guerre senza quartiere. Nel frattempo il "commissariato del Reich per la difesa della razza tedesca", guidato dal comandante della polizia Himmler, pianificava le operazioni di pulizia etnica con l'obiettivo di svuotare dagli ebrei la Germania e i nuovi territori annessi (solo in Polonia erano 3 milioni): dove metterli tutti?
IN ETIOPIA O IN MADAGASCAR? Himmler propose di creare una non meglio precisata colonia africana. Recuperò anche un vecchio piano di fine '800 che prevedeva la creazione di una colonia ebrea in Madagascar. Il previsto trasferimento via nave, però, presentava grosse difficoltà. Non ultima il fatto che gli inglesi, che avevano il controllo dei mari, non li avrebbero fatti passare. Mussolini propose un "piano B": la creazione di un territorio autonomo ebraico in Etiopia, che allora era colonia italiana. Probabilmente Hitler non prese neppure in considerazione l'ipotesi. Quello che sappiamo è che con l'avanzare della guerra e con l'invasione dell'Unione sovietica (1941) la situazione precipitò. I ghetti non bastavano più a ospitare i milioni di ebrei residenti nelle regioni orientali: a partire dal luglio 1941 si scatenò così un'ondata di stermini di massa.
LA SOLUZIONE FINALE. Il punto di non ritorno fu raggiunto dopo il 1942, quando durante la conferenza di Wannsee furono decise le modalità della "soluzione finale della questione ebraica". Fu allora che, nella massima segretezza furono creati i "centri di sterminio" di Chełmno, Bełżec, Sobibór, Treblinka, Majdanek, Jasenovac e Auschwitz-Birkenau. Nei campi di sterminio vennero deportati e uccisi circa tre milioni di ebrei (il 90% delle vittime totali), con una "procedura standardizzata" che ricordava il lavoro delle moderne fabbriche. Molti storici lo ritengono un evento senza precedenti: mai fino a quel momento si era pianificata con tanta lucidità la morte di milioni di uomini, donne, vecchi e bambini. La media giornaliera di morti in un campo era di 6.000 persone: chi non veniva gasato, moriva per il troppo lavoro o per gli esperimenti pseudoscientifici cui era sottoposto.
LA FINE DELL'INCUBO. Nonostante i campi di sterminio dovessero rimanere un segreto istituzionale, nei villaggi vicini iniziarono a circolare notizie inquietanti: i fumi delle ciminiere dei crematori di Auschwitz ad esempio erano sempre accesi ed erano visibili fino a 19 chilometri di distanza tra odori nauseabondi che si diffondevano nell'aria. La gente che voleva sapere, iniziò capire. Mentre gli altri chiudevano gli occhi. Dopo il loro arrivo, le forze alleate obbligarono i civili che vivevano nei dintorni dei lager a visitarli e prendere coscienza degli orrori che vi erano stati commessi. Nell'immagine, civili tedeschi costretti a passare accanto ai cadaveri di 30 donne ebree, a Volary, nei Sudeti. Non mancarono casi eroici di persone che si distinsero per coraggio e umanità, mettendo in salvo centinaia di vite, ma sono stati casi sporadici. Nella primavera del 1945, però, anche chi non aveva voluto o potuto vedere, fu costretto ad aprire gli occhi, mentre il mondo si confrontava con l'enormità dell'Olocausto.
Notte dei cristalli, cos'è, scrive il 20 luglio 2018 Lettera 43. Con l'ascesa al potere di Hitler prese il via la propaganda antisemita che, attraverso l'utilizzo di stereotipi e immagini già esistenti, dipingeva gli Ebrei come un "corpo estraneo" che viveva a spese della nazione che li ospitava, avvelenando la sua cultura. Le dimostrazioni pubbliche di antisemitismo assunsero diverse forme, da quelle contenute nei cartelloni pubblicitari a quelle pubblicate dai giornali, o emesse attraverso film e programmi-radio. Gli Ebrei non furono però gli unici ad essere esclusi dalla nuova "comunità popolare", anche i Rom (Zingari), gli omosessuali, i testimoni di Geova e tutti quei Tedeschi considerati geneticamente inferiori o pericolosi per la "salute nazionale" (come persone affette da malattie psichiche o da handicap fisici o mentali) vennero considerati "antinazionali".
Dalle leggi di Norimberga alla notte dei cristalli. La suddetta discriminazione fu ufficialmente sancita il 15 settembre 1935 dalle cosiddette "leggi di Norimberga" che presero il nome dalla città dove furono emanate e che tolsero agli ebrei, e non solo, la parità dei diritti conquistata nel 1848. Le leggi di Norimberga, rappresentanti una fondamentale tappa nel processo che condusse all’Olocausto, erano due:
la legge sulla cittadinanza del Reich, che negava agli ebrei la cittadinanza germanica. Ciò comportò la perdita di tutti i diritti garantiti ai cittadini come, ad esempio, il diritto di voto.
la legge per la protezione del sangue tedesco, che vietava i matrimoni tra ebrei e cittadini di sangue tedesco o affini e le relazioni extraconiugali tra ebrei e cittadini di sangue tedesco o affini.
La discriminazione antisemita subì un'ulteriore accelerazione a partire dal novembre 1938, quando, traendo pretesto dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un grande "pogrom" in tutta la Germania: quella tra il 9 e il 10 novembre 1938 è passata alla storia come "notte dei cristalli" per via delle numerose vetrine di negozi appartenenti agli ebrei che furono infrante dalla furia dei dimostranti. In ventiquattro ore, il bilancio di vittime e distruzioni fu sconvolgente: sinagoghe distrutte, abitazioni devastate, decine ebrei feriti e migliaia uccisi. Da allora in poi la vita degli ebrei rimasti in Germania divenne pressoché impossibile, furono infatti taglieggiati nei loro beni, privati del loro lavoro, accusati di cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove violenze e misure di repressione.
Hitler e la soluzione finale. Quanto detto, portò al concepimento da parte di Hilter, a guerra mondiale già iniziata, del mostruoso progetto di una "soluzione finale" (in tedesco "Endlösung der Judenfrage"), consistente nella deportazione in massa e nel progressivo sterminio del popolo ebraico a scopo di “purificazione razziale”, in conseguenza al mito, elaborato già agli albori del nazismo, della purezza della razza ariana, minacciata dagli ebrei e in secondo degli zingari, degli omosessuali e degli handicappati. Fu così progettato un articolato sistema, basato sul lager, in cui dapprima i deportati erano sfruttati come forza lavoro e, una volta giunti allo stremo, eliminati nelle camere a gas. Si ricorda inoltre che l'organizzazione di tale sterminio fu affidata alle SS, e i lager vennero principalmente installati in Polonia e in Germania; basti pensare a quelli di Auschwitz, Dachau e Buchenwald.
La notte del cristalli: quando il male divenne assoluto. Quattrocento i morti, 10mila tra vetrine e luoghi di culto distrutti e incendiati, la via che doveva portare ad Auschwitz e alla Soluzione finale fu imboccata in quel momento, scrive Paolo Delgado il 10 Novembre 2018. Kristallnacht, la Notte dei Cristalli: forse mai nella storia un evento tanto feroce e tanto atroce è stato ricordato con un nome così poetico. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre circa 7500 negozi ebrei furono assaltati, distrutti, spesso rasi al suolo, 1400 sinagoghe e Yeshivot, case di studio e preghiera, vennero devastate e incendiate. Le strade delle città tedesche furono cosparse dai vetri dei negozi contro i quali si era scatenato il primo pogrom della Germania nazista: erano quelli i “cristalli”. Gli ebrei furono assaliti spesso anche nelle loro case, aggrediti e picchiati a morte per strada e nelle abitazioni: le vittime accertate furono 91 ma lo storico del nazismo Richard Evans, la cui trilogia sul Terzo Reich è per ora forse la più esaustiva storia della Germania nazista, ritiene che i morti siano stati molti di più: intorno ai 400. La polizia aveva l’ordine di intervenire solo per arrestare le vittime: nella notte e nel giorno seguente, mentre gli attacchi proseguivano e si moltiplicavano, furono presi e spediti nei lager 30mila maschi ebrei tra i 16 e i 60 anni. Anche ai vigili del fuoco era stato ordinato di non muoversi a meno che le fiamme non minacciassero anche edifici ariani. Le sinagoghe e le yeshivot bruciarono letteralmente sotto gli occhi di polizia e pompieri immobili. In compenso Reinhard Heydrich, potentissimo capo dell’SD, il servizio di sicurezza delle SS, si era premurato di mobilitare sia la Gestapo che la Kripo, la polizia criminale, per proteggere tedeschi non ebrei e turisti. Il costo delle vetrine destinate a fissare nella memoria quella tremenda notte fu altissimo e ricadeva spesso sui proprietari degli stabili, quasi tutti “ariani”: 40 milioni di marchi. Furono addebitati agli ebrei, ai quali vennero anche confiscati i risarcimenti delle assicurazioni. Non bastava a compensare i gravissimi danni che la furia del pogrom aveva inflitto all’economia tedesca. Nel vertice dei gerarchi nazisti che si riunì il 12 novembre fu Goering a trovare una parziale soluzione: un miliardo di marchi di multa a carico della comunità ebraica. «Così quei porci ci penseranno bene prima di commettere un secondo omicidio», commentò. Poi aggiunse: «Non vorrei essere un ebreo in Germania di questi tempi». L’omicidio a cui alludeva Hermann Goering era quello del funzionario presso l’ambasciata a Parigi Ernst vom Rath. A sparargli era stato un ebreo diciassettenne, Herschel Grynzspan. Era nato ad Hannover, in una famiglia di ebrei polacchi trasferitisi in Germania nel 1911, ed era arrivato a Parigi due anni prima per sfuggire a una vita quotidiana già flagellata dal razzismo antisemita. Lo aveva spinto a sparare la crisi dei profughi che si era aperta in ottobre tra Germania e Polonia. Il 29 ottobre erano stati espulsi circa 12mila ebrei polacchi residenti in Germania ma la Polonia aveva aperto i confini solo per quelli con i documenti in ordine. Ottomila persone erano rimaste per giorni nella terra di nessuno tra i due confini sbarrati, sotto una pioggia sferzante. Tra loro c’erano i genitori di Herschel, che il 7 novembre aveva deciso di compiere un gesto clamoroso per imporre il dramma degli apolidi ebrei all’attenzione di un mondo che voleva tenere assolutamente gli occhi chiusi. Aveva comprato una rivoltella, si era recato all’ambasciata, aveva chiesto di parlare con l’ambasciatore o con qualche alto funzionario per richiedere il visto per tornare in Germania. L’unico funzionario disponibile in quel momento era vom Rath. Appena entrato nel suo studio Herschel gli aveva sparato cinque colpi, uno dei quali fatale, arrendendosi poi senza opporre resistenza alla polizia francese. Negli ultimi anni uno storico ha avanzato l’ipotesi che tra l’attentatore e la sua vittima ci fosse una relazione omosessuale e che ad armare la mano dell’attentatore fosse stata la passione non la politica. Sporadici attacchi contro sinagoghe in Germania, in quei casi effettivamente spontanei, c’erano stati già il giorno dell’attentato, mentre vom Rath combatteva tra la vita e la morte. Il funzionario spirò il 9 novembre, la data più sacra per i nazional-socialisti, ricorrenza del fallito putsch hitleriano del 1923 a Monaco. Il fuhrer si trovava effettivamente a Monaco per il tradizionale raduno dei vecchi combattenti ma decise di rinunciare al discorso dopo aver saputo della morte del funzionario. Al suo posto parlò Goebbels ed esortò al pogrom: «Il fuhrer ha deciso che non ci saranno manifestazioni organizzate dal partito. Ma se dovessero verificarsi spontaneamente non saranno ostacolate». Contemporaneamente venivano diramati ordini ai Gauleiter per scatenare gli attacchi in tutta la Germania e nell’Austria annessa pochi mesi prima. La disposizione era di evitare le divise delle SA e agire in borghese, mettendo fine agli attacchi entro le 5 del mattino. Contemporaneamente lo Standartenfuhrer delle SS Heinrich Muller inviava un messaggio alle sedi della Gestapo avvertendo degli imminenti assalti e ordinando alla di collaborare con la polizia evitando però i saccheggi. A mezzanotte meno un minuto arrivò la prima telefonata ai vigili del fuoco di Monaco: la vetrina di un negozio ebreo era stata infranta ed era stato appiccato il fuoco alla merce. Appena tre minuti e una seconda telefonata diede un nuovo e più grave allarme, stavolta era in fiamme una sinagoga. Per gli ebrei si erano aperte le porte dell’inferno. Nelle ore seguenti attacchi, incendi, aggressioni, pestaggi, in alcuni casi stupri si verificarono ovunque ci fosse una comunità ebraica. A decidere il pogrom era stato in realtà il solo Goebbels, con il “permesso” del fuhrer. Gli altri gerarchi nazisti restarono spiazzati e furibondi. «Suppongo che la responsabilità di aver iniziato questa operazione in un momento particolarmente difficile sul fronte diplomatico sia della megalomania e della stupidità di Goebbels». Commentò gelido il Rechsfuhrer delle SS Himmler. «Ne ho abbastanza di queste manifestazioni che non danneggiano gli ebrei ma me, in quanto responsabile supremo della tenuta dell’economia», sbottò Goering. In effetti Saul Friedlander, massimo studioso della persecuzione degli ebrei nella Germania nazista, ritiene che a muovere Goebbels fosse la necessità di risollevare le proprie quotazioni agli occhi di Hitler, offuscate dall’irritazione del fuhrer per la sua relazione con l’attrice Lida Baarova. Ma questi sono in realtà particolari. La sterzata dalla discriminazione alla persecuzione che fu inaugurata dalla Kristallnacht era in realtà già scritta, comunque imminente. I primi anni del regime nazional-socialista, dal 1933 al 1936, erano stati durissimi per gli ebrei. I nazisti erano partiti con il boicottaggio dei negozi ebrei già il primo aprile 1933, due mesi dopo essere arrivati al potere. Una settimana dopo era stato il turno della legge che proibiva agli ebrei di lavorare nell’amministrazione pubblica. Da quel momento aggressioni e discriminazioni erano state all’ordine del giorno, il numero dei paesi judenfrei, senza più ebrei, si era moltiplicato. Nel 1935 le leggi di Norimberga avevano privato della cittadinanza gli ebrei e proibito i matrimoni misti. L’obiettivo, allora, era solo spingere gli ebrei ad abbandonare la Germania e aveva avuto successo. Se ne erano andati circa 25mila ogni anno, fino a un quarto dell’intera popolazione ebraica. Ne restavano 300mila, senza contare i mischlinge, i cittadini di sangue misto. Nel 1936, in occasione delle Olimpiadi, però le manifestazioni antisemite erano state quasi messe al bando. Un’atleta ebrea era addirittura salita sul podio col saluto nazista. Anche a giochi olimpici chiusi il clima era rimasto relativamente sereno fino a tutto il 1937.La nuova ondata era iniziata con l’Anschluss, l’annessione dell’Austria. All’improvviso la Germania si era ritrovata con altri 191mila ebrei, problema che si sarebbe riproposto in forma macroscopica durante la guerra, in particolare con l’invasione della Polonia e poi dell’Urss. Il paese razzista che voleva essere judenfrei, contava d’occupazione in occupazione milioni di ebrei al proprio interno, e l’elemento ebbe il suo peso nell’ulteriore passaggio dalla persecuzione allo sterminio. Anche prima del grande pogrom il ‘38 era stato un anno terribile. Erano riprese le aggressioni per le strade, in giugno era stata incendiata la grande sinagoga di Monaco, in agosto quella di Norimberga. Il 17 agosto era stato cambiato il nome di tutti gli ebrei: doveva sempre essere preceduto da Israel per i maschi, Sara per le femmine. In settembre arrivò la proibizione di esercitare per gli avvocati ebrei, in ottobre il ritiro dei passaporti sostituiti da una speciale carta d’identità. Ma la Notte dei Cristalli fu il punto di non ritorno. Pochi giorni dopo, il 15 novembre, gli ebrei furono cacciati dalle scuole. A fine mese le varie autorità locali si videro riconosciuto il potere di imporre il coprifuoco per gli ebrei. In dicembre fu vietato loro l’accesso a gran parte degli spazi pubblici tedeschi. La “soluzione finale” era ancora lontana. Ma la via che doveva portare ad Auschwitz fu imboccata quella notte.
Leggi razziali, 80 anni fa la nascita del razzismo di Stato in Italia. Cos'erano e perché è importante ricordare i provvedimenti contro gli ebrei che portarono il nostro paese a condividere le responsabilità della Shoah, scrive Eleonora Lorusso il 5 settembre 2018 su "Panorama". Nel settembre del 1938 l'Italia fascista varò le leggi razziali, firmate senza battere ciglio dal re Vittorio Emanuele III, che macchiò per sempre di infamia Casa Savoia.
Le leggi razziali in Italia. Il Regime di Benito Mussolini, con il Regio Decreto del 5 settembre del '38, si adeguò di fatto alla legislazione antisemita della Germania nazista, che fin dal 1933, anno dell'ascesa al potere del Führer, varò una serie di provvedimenti contro gli ebrei, che portarono all'Olocausto, ovvero il genocidio di 6 milioni di persone, compresi donne e bambini, ricordati con la Giornata della Memoria, il 27 gennaio. Nel 1933 si stima che ci fossero 13 milioni di ebrei in Europa, dei quali circa 40.000 in Italia. Anche questi diventarono progressivamente vittime di un "razzismo di Stato", prima tramite leggi discriminatorie a livello sociale ed economico, poi con la violenza vera e propria.
I primi provvedimenti. Anche dopo l'introduzione delle prime norme anti-semite in Germania, in Italia non si assisteva ancora a forme di discriminazione. Dopo che i Patti Lateranensi avevano definito l'ebraismo come culto ammesso, il governo fascista nel 1930 emanò la Legge Falco, che istituiva e rendeva obbligatoria l'iscrizione all'Unione delle comunità ebraitiche italiane, vista con favore però degli ebrei come forma di semplificazione burocratica. Fu, invece, nel 1938 che la situazione cambiò profondamente. Il 14 luglio viene redatto il primo il primo documento che parlava ufficialmente di "razza ariana italiana". Era redatto da 10 docenti universitari di Neuropsichiatria, Pediatria, Antropologia, Demografia e Zoologia, e tra i firmatari figuravano anche Giorgio Almirante, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Amintore Fanfani, accanto a Pietro Badoglio, Emilio Balbo e Galeazzo Ciano.
La nascita della "razza ariana italiana". Il testo era diviso in punti e sanciva alcuni concetti ritenuti fondamentali:
1) Le razze umane esistono;
2) Esistono grandi razze e piccole razze;
3) Il concetto di razza è un concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose;
4) La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana.
Al punto 5 si definiva "leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici", affermando che "dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione;
6) Esiste ormai una pura "razza italiana";
7) E' tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti;
8) È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte, e gli Orientali e gli Africani dall'altra;
9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.
La discriminazione a scuola, nel lavoro e nella società. Dalla definizione di razze alla discriminazione ed espulsione di cittadini (e bambini) ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo fu breve. Con la Disciplina dell'esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica, del 29 giugno del 1939, venivano imposte limitazioni e divieti, in particolare per chi era "giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale". Con il Regio decreto legge N.1728 nel novembre 1938 (Provvedimenti per la Difesa della Razza Italiana) si stabilì poi il divieto di matrimoni misti tra ebrei e "cittadini italiani di razza ariana". Proibito anche prestare servizio militare o come domestici presso famiglie non ebree; possedere aziende con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni o immobili oltre un certo valore; essere dipendenti di amministrazioni, enti o istituti pubblici (quindi anche scuole di ogni grado), banche di interesse nazionale o imprese private di assicurazione. Venivano fatte eccezioni per i familiari di caduti nelle "guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola, e caduti per la causa fascista"; mutilati, invalidi, volontari di guerra o decorati, iscritti al Partito Fascista della prima ora, legionari di Fiume o per coloro che avevano ottenuto benemerenze eccezionali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, esattamente il 13 dicembre 1943, iniziò anche per gli ebrei italiani il periodo di deportazione e sterminio.
L'esempio della Germania. Le leggi razziali italiane seguirono l'esempio di quelle tedesche, emanate a partire dal 1933 e proseguite tra il '35 e il '38. Si iniziò con la Legge per il rinnovo dell'Amministrazione Pubblica, che pensionava gli impiegati pubblici non di discendenza ariana. Seguirono le leggi per la protezione dei caratteri ereditari, del sangue e dell'onore tedesco, oltre a quelle sulla cittadinanza, sui nomi, sul passaporto degli Ebrei, fino all'Ordinanza per l'esclusione dall'economia tedesca per questi ultimi.
Cibo razionato per i bambini. A gennaio del 1942, la Conferenza di Wannsee discusse invece della "Soluzione Finale" della questione ebraica, mentre il 18 settembre del 1942 venne emanato un Decreto per il razionamento alimentare per gli Ebrei, che vietava loro di ricevere carne e prodotti derivati, uova, farinacei (dolci, pane bianco, panini, fecola di grano, ecc) e latte fresco. Le uniche eccezioni erano ammesse per bambini e ragazzi ebrei fino ai 10 anni, che potevano ricevere la razione di pane uguale a quella dei "normali consumatori" e per i bambini ebrei fino ai 6 anni d'età, che potevano contare sulla razione di grassi assegnata ai coetanei tedeschi, ma senza sostituti del miele e senza cacao in polvere. I ragazzi di età compresa dai 6 ai 14 anni non ricevettero invece più il supplemento di marmellata, mentre i bambini ebrei sino ai 6 anni continuarono a poter avere mezzo litro di latte fresco scremato al giorno.
Le recenti polemiche: da Vittorio Emanuele III ad Attilio Fontana. Il 17 dicembre scorso è rientrata in Italia la salma dell'ex re Vittorio Emanuele III, non senza polemiche: la Comunità ebraica italiana ha espresso "profonda indignazione", ricordando l'ex re come "complice di quel regime fascista di cui non ostacolò l'ascesa", colui che "avallò le leggi razziali" e che con quell'atto ha "gettato discredito e vergogna su tutto il paese", come spiegato da Noemi Di Segni. E' di pochi giorni fa, invece, la bufera scatenata dalle parole del candidato di centrodestra alla Presidenza della Regione Lombardia. Attilio Fontana, parlando di immigrazione, ha sostenuto la necessità di difendere la "razza bianca" dall'invasione di migranti. Dopo essersi scusato per "l'espressione sbagliata" ha anche ricordato la Costituzione ("È la prima a parlarne")...Il riferimento è all'articolo 3, che però recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Le leggi razziali e la loro voce: "La Difesa della Razza" (1938-1943). Diretto da Telesio Interlandi, il periodico fu strumento di divulgazione dell'antisemitismo e delle teorie razziste del fascismo, alle quali si cercò di dare una pretesa base scientifica, scrive Edoardo Frittoli il 5 settembre 2018 su "Panorama". Il primo numero del quindicinale "La Difesa della Razza" uscì esattamente un mese prima della firma delle leggi razziali, il 5 agosto del 1938. Il 14 luglio precedente fu stilato il "manifesto degli scienziati razzisti", effetto della sempre più stretta omologazione ideologica con la Germania nazista. Tra i firmatari più eminenti tra gli accademici italiani furono il patologo Nicola Pende, l'antropologo Lidio Cipriani, il demografo Franco Savorgnan, lo zoologo Edoardo Zavattari, il neuropsichiatra Arturo Donaggio. Secondo alcune fonti il testo del manifesto sarebbe stato dettato dallo stesso Mussolini e affermava l'esistenza delle diverse razze umane secondo una classificazione che pretendeva di basarsi sull'esperienza scientifica. Uno dei primi articoli del manifesto accusava gli Ebrei per la loro pretesa di ritenersi una razza separata e superiore alle altre, con l'aggravante politica di aver costituito la spina dorsale dell'antifascismo. La rivista quindicinale "La Difesa Della Razza", fortemente voluta da Mussolini in funzione divulgativa delle teorie razziste nella cultura e nell'educazione degli Italiani doveva riprendere, approfondire e sviluppare i temi contenuti nel manifesto razzista, dopo essere stata legittimata, rafforzata e resa autorevole dalla firma delle leggi del settembre 1938.
Il razzismo in rotativa. Stampato a Roma dall'editore Tumminelli, il quindicinale fu diretto sin dal primo numero da Telesio Interlandi, già direttore del fasciatissimo quotidiano "Il Tevere". Intransigente verso alcuni degli esponenti più moderati degli anni del regime fascista come Balbo, Bottai e Piacentini, Interlandi espresse sulle pagine della rivista il punto di massima adesione ed omologazione al razzismo nazionalsocialista, tanto da ricevere durante gli anni della direzione alcuni rimproveri di Mussolini che desiderava distinguere il razzismo italiano da quello hitleriano. Un altro eccesso nella linea editoriale di Interlandi fu la scelta estrema di abbracciare un approccio zoologico alla teoria delle razze umane, facendo inorridire gli antropologi e aprendo un delicato fronte con la Chiesa cattolica. Nel primo numero de "La Difesa della Razza", diffuso in circa 150mila copie, era riportato integralmente il testo del Manifesto degli scienziati razzisti con una grafica chiara ed ordinata. Il punto focale degli articoli si concentrava sulla teorizzazione dell'esistenza biologica delle razze umane e di conseguenza dichiarava l'esistenza di una "pura razza italiana" di origine ariano-nordica non ben definita in termini scientifici. Tra le piccole e grandi razze europee non poteva naturalmente figurare alcuna contaminazione dall'Africa. Nel caso ad esempio dell'invasione araba della Sicilia, i redattori del manifesto si premurarono sin da subito di escludere ogni tipo di mescolanza rimasta attraverso i secoli. La volontà enunciata nelle pagine di apertura del primo numero del quindicinale era certamente quella di dare una base biologica ed ereditaria al carattere antropologico della popolazione italiana, senza dimenticare l'aspetto psicologico relativo alla formazione di una consapevolezza collettiva dell'appartenenza ad una nobile razza ariana. Per quanto riguarda gli Ebrei, il manifesto li indicava come non appartenenti alla razza italiana. Anche in questo caso l'affermazione non presentava basi scientifiche ma piuttosto la diseguaglianza si sarebbe sviluppata per una sorta di segregazione naturale dovuta alle antiche origini non-europee dei semiti.
Italiani, gente ariana. All'interno del numero 1 del periodico si affronta anche la questione delle popolazioni, o meglio razze, del continente africano con particolare attenzione alle popolazioni indigene delle colonie dell'Impero fascista. Altra teoria razzista enunciata già dal primo numero della rivista sarà quella del sangue. La divisione pseudo-scientifica delle razze umane si basava, secondo gli accademici del manifesto, sulla presunta analisi della distribuzione etnico-geografica dei gruppi sanguigni. Naturalmente la razza italiana sarebbe biologicamente analoga (teoria mancante di ogni prova scientifica abbinata) alle più pure razze ariane germaniche e scandinave. Durante gli anni della diffusione de "La Difesa della Razza", sulle pagine del giornale furono colpiti, oltre agli Ebrei, anche le razze "inquinate dal meticciato" in cui si pretese di dimostrare scientificamente il pericolo della progressiva corruzione dell'arianesimo dovuta all'origine aggressiva dei caratteri delle razze inferiori contaminanti.
L'antisemitismo per tutti. La grafica semplice e curata del quindicinale volle "aiutare" gli italiani nel processo di assimilazione dell'odio antisemita con tavole e vignette che sintetizzavano le malefatte degli Ebrei e ribadivano i divieti e le restrizioni dettati dalle leggi promulgate nel settembre 1938. Molte e variegate furono le firme che si avvicendarono sulle pagine del periodico razzista: spicca quella di Julius Evola, poi escluso da Interlandi per avere introdotto teorie vicine al razzismo esoterico caro al Terzo Reich ma sgradito agli "scienziati" fascisti e per l'esplicito desiderio di Mussolini di mantenere separati nell'approccio l'antisemitismo germanico da quello italiano. A "La Difesa della Razza" collaborarono nomi importanti della politica italiana nel dopoguerra. Tra questi ultimi figurano Giovanni Spadolini e Amintore Fanfani, tra i grandi giornalisti dell'Italia repubblicana Indro Montanelli. Per alcuni anni il segretario di redazione sarà Giorgio Almirante che- come il direttore Interlandi- diventerà esponente di primo piano del Ministero della Cultura Popolare della RSI.
La fine delle pubblicazioni e la caduta del Fascismo. L'ultimo numero del quindicinale uscì il 20 giugno del 1943, un mese prima dell'arresto di Mussolini. Lo stesso Interlandi fu catturato e rinchiuso nelle carceri del Forte Boccea di Roma. Fuggito dopo l'occupazione tedesca della Capitale, fu attivo come responsabile della propaganda radiofonica della Repubblica Sociale per l'Italia Liberata. Sarà arrestato nuovamente dopo una breve latitanza nelle campagne del bresciano l'11 ottobre 1945. Sarà graziato per gli effetti dell'amnistia Togliatti l'anno successivo. Morirà 20 anni dopo a Roma, nel 1965, portando con sè nella tomba il terribile bagaglio della corresponsabilità per aver sostenuto e divulgato quelle idee che formarono la base pseudo-scientifica dell'Olocausto degli Ebrei italiani.
L'Italia ebbe le leggi razziali. Ma non fu mai antisemita. Hannah Arendt e Gideon Hausner, procuratore generale al processo contro Eichmann, elogiarono il comportamento del nostro Paese. Che in pratica ignorò il diktat nazista, scrive Marcello Veneziani, Lunedì 27/01/2014, su "Il Giornale". Oggi è il Giorno della Memoria anche se da dieci giorni se ne parla ampiamente sui giornali e in tv. Non ha torto Elena Loewenthal, studiosa di cultura ebraica, a scrivere un libretto Contro il giorno della memoria e a proporre un intenso silenzio più che una così retorica esibizione a settant'anni dalla Shoah. Per la ricorrenza sarà proiettato oggi e domani in alcune città il film di Margarethe von Trotta dedicato ad Hannah Arendt, la principale studiosa ebrea del nazismo e dei regimi totalitari, sfuggita alle persecuzioni naziste. Il film trae spunto dal celebre testo della Arendt, La banalità del male (edito da Feltrinelli), nato dai suoi reportage per il processo al nazista Adolf Eichmann, cinquant'anni fa in Israele. La banalità del male è importante anche per le pagine dedicate agli italiani in relazione alle deportazioni. Scrive la Arendt: «L'Italia era uno dei pochi paesi d'Europa dove ogni misura antisemita era decisamente impopolare». Infatti, aggiunge, «l'assimilazione degli ebrei in Italia era una realtà». La condotta italiana «fu il prodotto della generale spontanea umanità di un popolo di antica civiltà». Un popolo che dai tempi dei Romani conviveva con gli ebrei, e continuò a conviverci, con alti e bassi, anche all'ombra della Chiesa cattolica e del Papa re pur nella considerazione degli ebrei come popolo deicida. «La grande maggioranza degli ebrei italiani - scrive la Arendt - furono esentati dalle leggi razziali», concepite da Mussolini «cedendo alle pressioni tedesche». Perché gran parte degli ebrei erano iscritti al Partito fascista o erano stati combattenti, nota la Arendt, e i pochi ebrei veramente antifascisti non erano più in Italia. Persino il più razzista dei gerarchi, Roberto Farinacci, «aveva un segretario ebreo». Si potrebbe ricordare il concordato del 1931 tra lo Stato fascista e la comunità israelitica italiana, accolto con soddisfazione dagli ebrei. A guerra intrapresa «gli italiani col pretesto di salvaguardare la propria sovranità si rifiutarono di abbandonare questo settore della loro popolazione ebraica; li internarono invece in campi, lasciandoli vivere tranquillamente finché i tedeschi non invasero il paese». E quando i tedeschi arrivarono a Roma per rastrellare gli ottomila ebrei presenti «non potevano fare affidamento sulla polizia italiana. Gli ebrei furono avvertiti in tempo, spesso da vecchi fascisti, e settemila riuscirono a fuggire». Alcuni con l'aiuto del Vaticano. Le stesse tesi aveva espresso al processo Eichmann il procuratore generale Gideon Hausner, il quale definì l'Italia «la nazione più cara a Israele». I nazisti, aggiunge la Arendt, «sapevano bene che il loro movimento aveva più cose in comune con il comunismo di tipo staliniano che col fascismo italiano e Mussolini, dal canto suo, non aveva molta fiducia nella Germania né molta ammirazione per Hitler». L'Italia fascista, secondo la studiosa ebrea, adottò nei confronti dei rastrellamenti un sistematico «boicottaggio». Nota la Arendt: «il sabotaggio italiano della soluzione finale aveva assunto proporzioni serie, soprattutto perché Mussolini esercitava una certa influenza su altri governi fascisti, quello di Pétain in Francia, quello di Horthy in Ungheria, quello di Antonescu in Romania, quello di Franco in Spagna. Finché l'Italia seguitava a non massacrare i suoi ebrei, anche gli altri satelliti della Germania potevano cercare di fare altrettanto... Il sabotaggio era tanto più irritante in quanto era attuato pubblicamente, in maniera quasi beffarda». Insomma il caso di Giorgio Perlasca, il fascista che salvò cinquemila ebrei, non fu isolato. Quando il fascismo, allo stremo della sua sovranità, cedette alle pressioni tedesche, creò un commissariato per gli affari ebraici, che arrestò 22mila ebrei, ma in gran parte consentì loro di salvarsi dai nazisti, come scrive la studiosa ebrea. Nota la Arendt, perfino eccedendo, che «un migliaio di ebrei delle classi più povere vivevano ora nei migliori alberghi dell'Isère e della Savoia». Insomma «gli ebrei che scomparvero non furono nemmeno il dieci per cento di tutti quelli che vivevano allora in Italia». Si può dire che morirono più italiani nelle foibe comuniste che ebrei italiani nei campi di sterminio? Odiosa contabilità, ma per amore di verità va detto. Certo, la Shoah nel suo complesso è una catastrofe imparagonabile. Anche per gli storici israeliti Leon Poliakov e George Mosse l'Italia boicottò le deportazioni naziste e protesse gli ebrei. Le origini culturali dell'antisemitismo per la Arendt sono riconducibili a leader, movimenti e ideologi di sinistra. Ne “Le origini del totalitarismo” ricorda che fino all'affaire Dreyfus in Francia, «le sinistre avevano mostrato chiaramente la loro antipatia per gli ebrei. Esse avevano seguito la tradizione dell'Illuminismo, considerando l'atteggiamento antiebraico come una parte integrante dell'anticlericalismo». In Germania, ricorda, i primi partiti antisemiti furono i liberali di sinistra, guidati da Schönerer e i socialcristiani di Lueger. Non si tratta di assolvere regimi né di cancellare o relativizzare le leggi razziali del '38 che infami erano e infami restano. Né si tratta di salvare il fascismo dal nazismo e dal razzismo, ma di riconoscere la pietà e la dignità del popolo italiano, che in quella tragedia si comportò con più umanità. Magari in altri casi no, si pensi alla guerra civile, al triangolo rosso, alle stragi d'innocenti o di vaghi sospettati; ma nel Giorno della Memoria della Shoah, ricordiamoci che gli italiani furono meno bestie di tanti altri. Per una volta non denigriamoci. Quanto alla Arendt, fu dura per lei la sorte di apolide, straniera nella sua terra natia, la Germania, poi vista con diffidenza per la sua relazione giovanile con Heidegger, quindi detestata dalla sinistra per la sua critica al totalitarismo e al comunismo, e pure in aperto conflitto col mondo ebraico. Dopo aver letto La banalità del male lo studioso di mistica ebraica Gershom Scholem la accusò (il carteggio è riportato in fondo a Ebraismo e modernità, edito da Feltrinelli) di avversare il sionismo e di non amare gli ebrei. «Io non amo gli ebrei - rispose lei - sono semplicemente una di loro». Una lezione di verità per tutti.
Il concordato dimenticato tra ebrei e fascisti, scrive Marcello Veneziani su Il Giornale il 27 gennaio 2015. Se questa è la Giornata della Memoria, è giusto ricordare oltre le sciagurate leggi razziali e gli orrori della Shoah, un evento positivo e obliato che riguardò gli ebrei e lo Stato italiano, nel 1930. Fu il Concordato tra Stato fascista ed ebrei. Lo Stato pontificio e poi lo Stato laico e liberale non avevano riconosciuto giuridicamente la comunità israelitica in Italia; lo fece il regime di Mussolini. Fu insediata una commissione paritaria, tre rappresentanti ebrei e tre giuristi per lo Stato italiano. In particolare se ne occupò un giurista cattolico liberale, Nicola Consiglio, che aveva avuto un ruolo importante nei Patti Lateranensi (è stato pubblicato il suo diario a cura di Luca de Ceglia). Consiglio elaborò la legge che portò al pieno riconoscimento delle comunità israelitiche. Scrive Renzo De Felice: «Il governo fascista accettò pressocchè in toto il punto di vista ebraico». A legge varata, il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge “la migliore” fra quelle emanate dagli stati. Consiglio ricevette una medaglia d’oro dalla Comunità ebraica. Poi arrivarono le sanzioni economiche per l’impresa d’Etiopia, quindi l’alleanza con Hitler e le infami leggi razziali. Poi nell’Italia antifascista, il presidente del nefasto tribunale della razza, Gaetano Azzariti, diventò collaboratore di Togliatti e Presidente della Corte Costituzionale… Gli assurdi testacoda della storia.
Cos'è il "giorno della memoria", scrive il 28 gennaio 2016 Lettera 43. Il 27 gennaio è il giorno della memoria, dedicato al ricordo delle vittime della Shoah. Nel novembre del 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituì il giorno della memoria il 27 Gennaio di ogni anno. In questa data, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, dove per la prima volta, attraverso le scoperta del campo stesso e degli strumenti di annientamento e grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, il mondo venne a conoscenza degli orrori del genocidio nazista. In Italia la giornata commemorativa era stata istituita nella stessa data cinque anni prima, su proposta del deputato Furio Colombo, che inizialmente proponeva di commemorare il genocidio il 16 Ottobre, in ricordo del rastrellamento del ghetto di Roma del 1943 in cui furono deportati oltre mille ebrei. Nel 1996 la Germania aveva scelto lo stesso giorno per commemorare le vittime del nazionalsocialismo. Nel campo di concentramento di Auschwitz furono uccise fra il 1942 e il 1945 oltre un milione di ebrei. Il campo ricopriva una superficie di 40 km quadrati, diviso in tre campi: Monowitz, il campo di lavoro, Auschwitz, il campo d concentramento, e Birkenau, adibito allo sterminio e diventato il simbolo della Shoah. Paola Sereni, per decenni preside della Scuola Ebraica di Milano, parla del valore di questa giornata.
«Il giorno della memoria fu istituito per ricordare la Shoah. Questo è il termine esatto per definire lo sterminio degli ebrei. Non Olocausto. Olocausto è una parola greco- latina che indicava un sacrificio religioso, talvolta anche volontario. Chiaramente, non è il più adatto a definire quanto è successo e il termine più adatto è Shoah, che più o meno significa sterminio.»
Parliamo del 27 gennaio.
«Il 27 gennaio è il giorno in cui l’armata russa liberò il campo di Auschwitz. C’è una scena stupenda all’inizio de "La Tregua" di Primo Levi, in cui l’autore descrive l’arrivo di quattro soldati russi a cavallo che dal bordo del campo, sbalorditi e distrutti da quello che vedevano, guardavano in giù verso il campo disseminato di cadaveri e esseri viventi più morti che vivi. Si può dire che l’orrore sia stato scoperto in quel momento, anche se in realtà qualcosa si sapeva già, e si sa anche che gli eserciti alleati e i russi non fecero niente per impedirlo. Non bombardarono mai i campi, o i binari che portavano ai campi, ad esempio. Non diffusero le notizie. Per cui si sapeva e non si sapeva, e lo sterminio continuò per anni. Il numero dei campi è impressionante. Guardando una mappa, si può vedere che tutta la Germania, buona parte della Polonia e dell’Austria sono ricoperte di segni che ne indicano la presenza. Non tutti erano campi di sterminio. Molti erano campi di concentramento, dove però ovviamente si moriva lo stesso: di freddo, di fame, di malattie, di indifferenza, di crudeltà, di tutto ciò che può provocare il vivere al freddo, ammassati uno sull’altro, in condizioni igieniche impossibili. Il significato è non solo quello di ribadire l’unicità di questo sterminio, che comprende un numero di vittime enormi che si aggira intorno ai 6 milioni. Si distingue da molti altri per aver eliminato non solo uomini o avversari politici, ma degli ebrei che avevano la sola colpa di essere nati ebrei. Oltre un milione e mezzo di bambini vennero uccisi senza motivo. Ti rendi conto di cosa significa? Bambini che, se non uccisi immediatamente, venivano sottoposti esami e esperimenti, gli venivano inoculate malattie per vederne il percorso. C’è una caratteristica di odio insensato e crudeltà gratuita. Tutti quelli che sono stati nei campi raccontano di aver subito inutili crudeltà, per esempio l’appello fatto in piedi al freddo ogni mattina e che durava ore, insulti, botte, separazione di madri dai figli. È un’organizzazione che, infatti, Primo Levi definisce una “logica perversa”, perché era tutto razionalmente organizzato ai fini della distruzione, ma anche della crudeltà. Tutto era concesso. Questo a mio avviso distingue questo avvenimento, l’inutile, cieca crudeltà, l’odio inculcato in tutti i seguaci di Hitler, perché non fu fatto da una persona ma da centinaia di migliaia, da milioni di persone assolutamente convinte e autorizzate ad esercitare ogni genere di vessazione. Non c’è una spiegazione razionale per quest’odio così terribile, che aveva portato a decidere nella riunione di Wansee del 1942, la soluzione finale, lo sterminio totale degli ebrei, che per fortuna non fu “finale”. Nonostante la strage immensa, Hitler non è riuscito nel suo intento di eliminare gli ebrei dalla faccia della terra.»
Com’è possibile che migliaia di persone si siano trasformate in dei mostri? E perchè gli ebrei non si ribellarono?
«C’è stata un’opera di plagio e convinzione incredibile, che ha coinvolto un numero altissimo di persone. È difficile capire come il fanatismo e la propaganda serrata abbiano potuto persuadere così tutti questi individui. Ci si domanda perché gli ebrei non reagirono - che poi non è neanche vero che non lo fecero mai, potremmo parlare a lungo della rivolta del ghetto di Varsavia e nel campo di Sobibor - ma non potevano reagire, erano disarmati, inermi, morti di fame di fronte ad un esercito agguerrito e spietato. Come si poteva reagire? Ti tiravano giu dal letto, nella tua casa, e ti trascinavano, armati fino ai denti, via con loro. Chi reagiva veniva ucciso sul momento. Si può leggere al riguardo il bellissimo libro “16 ottobre 1943” di Giacomo Debenedetti, che racconta la razzia nel ghetto di Roma, in cui vengono portati via donne, bambini, vecchi, senza distinzione, senza che nessuno di questi soldati mostri la minima emozione di fronte ai pianti, al terrore e alla disperazione. Come si poteva reagire? Come potevano degli inermi, di fronte a soldati crudeli e armati fino i denti, reagire? La reazione venne a volte più tardi, come in qualche ghetto, in qualche campo, ma celebre è soprattutto la rivolta del ghetto di Varsavia, perchè ormai consapevoli di essere destinati alla morte, decisero di vendere cara la pelle e ribellarsi, e fu una cosa eroica, da cui nessuno uscì vivo. In Israele c’è un kibbutz, Yad Mordechay, che rievoca il nome del capo della rivolta del ghetto. Lì fu la forza della disperazione, erano così convinti che sarebbero morti che decisero di farlo combattendo. Ma altrimenti era impossibile, erano ridotti allo stremo. Come dice Primo Levi, “dovevano non solo uccidere la vita, ma calpestare la loro dignità”, la loro umanità, la loro personalità. Erano ridotti a pezzi, non erano persone, erano numeri, il numero che avevano stampato sul braccio. Erano "stucke", come dicevano i tedeschi, "pezzi". E allora mi sembra logica la commemorazione di una simile tragedia.»
L’antisemitismo esiste ancora?
«Purtroppo serpeggia ancora, non solo nel mondo arabo, ma anche al di fuori, spesso mascherato da sentimento anti israeliano. Ma Israele non rappresenta tutti gli ebrei. Israele è uno stato, che ha commesso anche una quantità di errori che è giusto criticare. Ma non criticarlo in quanto stato ebraico, criticarlo come si può criticare l’azione di qualsiasi paese. Invece l’antisemitismo moderno ha preso le forme di un sentimento anti-Israele. Ma non tutti gli ebrei sono israeliani. Sono italiani di religione ebraica, o francesi di religione ebraica. Non sono israeliani. Se volessero essere israeliani vivrebbero in Israele. Se non vivono lì è perché si sentono tanto ebrei quanto però appartenenti alla nazione in cui vivono. E questo sentimento (l'antisemitismo, ndr) è pericoloso, per cui bisogna cercare di spiegare ai giovani, e questo lo fanno i sopravvissuti come Liliana Segre quando vanno nelle scuole, che non esistono differenze fra un essere umano e un altro - e di fronte all’immigrazione siamo di nuovo posti davanti a questi problemi -. Ma soprattutto che non bisogna girare la testa da un’altra parte, come è stato fatto durante la deportazione, nell’indifferenza totale di quasi tutti gli altri. Certo, ci furono alcuni, che poi vennero definiti Giusti da Israele, che hanno corso anche dei rischi enormi per salvare delle vite. Ma fondamentalmente regnava l’indifferenza, e lo racconta benissimo Liliana Segre. Quando fu prelevata e messa su un pulmino e portata alla Stazione Centrale di Milano dalla sua casa in zona Magenta, passò in mezzo all’indifferenza totale. Nessuno si preoccupò di capire cosa succedesse. Arrivò alla stazione e non solo tedeschi, ma purtroppo anche italiani collaborazionisti la spinsero sul treno a calci e pugni. Per questo è giusto che se ne parli, per questo è giusto che i pochi sopravvissuti che sono rimasti spieghino ai ragazzi cosa è successo e insistano, per persuaderli, dicendo loro che non devono accettare nessuna disuguaglianza, non devono sentirsi superiori a nessuno, non disprezzare chi è diverso, non essere indifferente di fronte alle sofferenze degli altri. Devono cercare di essere uomini fra uomini uguali, di essere giusti. Per questo deve essere trasmesso questo duplice messaggio: da un lato il racconto reale di quello che è successo, perché è stato unico, crudele e ingiustificato, frutto di una lunga tradizione di antigiudaismo, anche cristiano, insensato e istintivo, che durò per secoli, alimentato dell’accusa di deicidio e culminato nel razzismo feroce di Hitler. Dall’altro un insegnamento che deve trasferirsi e aprire le coscienze. Ieri sera (il 26 gennaio, ndr) ho visto in tv l’intervista alla Boldrini, che era stata ad Auschwitz con 120 ragazzi, e diceva che dopo quella visita i ragazzi non erano più gli stessi. Avevano capito. A noi interessa che capiscano. Che capiscano cos’è la barbarie, capiscano cos’è l’ingiustizia, capiscano l’orrore della violenza gratuita, capiscano soprattutto cos’è l’indifferenza e quanto può essere terribile. Nel memoriale della Shoah di Milano c’è una grande scritta all’ingresso: “indifferenza”. Vuol dire che tutto ciò, la partenza dal binario 21 da cui partivano i convogli di ebrei per Auschwitz, avvennero nella totale indifferenza dei milanesi. Questo è il messaggio che deve passare: mai più indifferenza per i mali altrui, per le ingiustizie, le sofferenze gratuite di un gruppo, mai più sentirsi superiori agli altri, perché l’indifferenza è un modo per collaborare col male. Per questo secondo me la giornata della memoria ha un senso, ha importanza. In realtà è un incitamento alla vita. A una vita migliore, più giusta, più viva. Non è solo il ricordo o il racconto di stragi e di morti, ma soprattutto l’invito che non succeda mai più e che si cambi la mentalità.»
In uno dei libri più famosi sul genocidio nazista, “La Notte” di Elie Wiesel, l’autore, davanti ad un ragazzino impiccato, con tutti i prigionieri costretti ad osservare la sua agonia, si chiede “dov’è Dio?”. E la risposta che gli sale da dentro è terribile: “Dio è lì, appeso a quella forca”. Ecco, in che modo un ebreo risponde a questa domanda davanti a quanto successo?
«Non risponde, credo. Gli ortodossi sono arrivati alla conclusione, addirittura, in un certo frangente, che la Shoah fosse una punizione per aver contravvenuto alle regole delle Torah, ma in genere la domanda resta irrisolta. È una delle domande che ci porremo sempre: perché il male? Perché tanto dolore? È la domanda che si sono posti i filosofi per secoli: perché Dio permette il male? Ognuno risponda come vuole. Io non mi permetto.»
L'uso improprio della Shoah. Quando l'Olocausto diventa arma politica, scrive Bruno Giurato il 27 gennaio 2012 su Lettera 43. Il Giorno della memoria ci porta nel cuore di tenebra della storia europea e mondiale. I campi di concentramento sono stati raccontati come «il luogo della morte di Dio», come aberrazione dell'idea di progresso, come gorgo esistenziale da cui nessuno può tirarsi fuori. E come l'evento storico che ha distrutto per sempre l'idea atemporale di poesia e di bellezza. Tanto che il filosofo Theodor Adorno si chiedeva: «Ha senso fare poesia dopo Auschwitz?». Ma spesso il destino dei grandi intenti, delle grandi idee, è quello di finire ricoperti di melassa buonista, o peggio ancora essere usati come arma impropria (molto impropria) per pigliarsela con l'avversario di turno.
RISCHIO DI VOLGARIZZAZIONE. Alvin Rosenfeld, autorevole storico Usa, ha scritto un libro contro gli “usi impropri” della Shoah. Nel suo The end of the Holocaust ha denunciato i rischi di «volgarizzazione» e di «banalizzazione» della più grande tragedia del XX secolo. Mentre Valentina Pisanty ha pubblicato Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, in cui punta il dito contro la «retorica celebrativa, consolatoria e autoindulgente» del Giorno della memoria. Prima di essere sommersi dalle foto dei campi di sterminio postate e condivise a catena dai nostri amici di Facebook, o dagli status con le lacrime agli occhi che troviamo su Twitter, e prima di trovarci senza accorgercene in una grande puntata di Uomini e donne, dove si piange in massa senza uno straccio di catarsi, forse è opportuno tornare ai classici.
«CHI È IL MIO EBREO?». Primo Levi in Se questo è un uomo racconta già dalle prime, rapide pagine, la dimensione infera del campo di concentramento: lo schizzare di urla e insulti e il tatuaggio che fa l'uomo numero. La quotidianità di un luogo dove «è vietato tutto», in cui per mangiare bisogna rubare e che, anche lavandosi la faccia con l'acqua fangosa, bisogna tenere coperta e gamella tra le gambe, perché gli altri internati sono pronti al furto.
IL CATTIVO VINCE SEMPRE. Levi, poi, spiega come l'uomo diventi cattivo coi suoi simili. Che i più cattivi, i più stupidi, i più crudeli diventano dei «Prominent». Racconta la condizione umana, oltre l'esempio dei campi di sterminio. In Sommersi e i salvati, per esempio, dove descrive la “zona grigia” fatta da coloro che nel sistema-lager sono conniventi, colpevoli senza parere. Praticamente tutti. Levi quindi non ci consegna solo pagine di memoria sulla Shoah, ma anche un modello umano ordinario fatto di crudeltà, un meccanismo di sopraffazione sempre attivo. E non solo ad Auschwitz. Quanto alle posizioni politiche, poi, quelle di Levi sono a prova di retorica: fu lui, ebreo, a dire, nel 1969: «Ognuno è ebreo di qualcuno». In occasione della ricorrenza ci sarebbe da domandarsi: «Chi è il mio ebreo personale?». Giusto per evitare di sentirsi troppo puri. Poi uno sfoglia le prime pagine dei giornali e si imbatte in titoli come quello de Il Giornale: «A noi Schettino, a voi Auschwitz». Oppure entra in Facebook e si trova davanti le foto di un bambino palestinese bruciato vivo dal fuoco israeliano, immagine usata dai filopalestinesi come arma politica. La mente va a quel Se non ora quando?, titolo di un libro di Levi diventato lo slogan di chi manifestava contro il Cav, altrimenti detto «Er Banana».
PRENDIAMOCELA CON VAURO. E ancora assiste a polemiche assurde come quella contro Vauro reo di aver tratteggiato la giornalista Fiamma Nirenstein con il fascio littorio e la stella di David. Il giornalista Peppino Caldarola in un articolo sul Riformista l'aveva subito attaccato, scrivendo che Vauro l'aveva disegnata come una «sporca ebrea». Vauro l'aveva querelato. E ha vinto la causa. Ma l'intellighenzia tutta si è rivoltata contro il vignettista toscano: Pierluigi Battista sul Corriere della Sera ha usato la questione per chiedersi «a che punto è l'antisemitismo in Italia». Nei panni di Battista forse ci preoccuperemmo più degli usi strumentali di un dibattito culturale, che trasforma una questione davvero importante in melassa, arma d'offesa politica. O magari in soggetto da barzelletta.
Shoah, l'Olocausto degli ebrei. A cura di Edoardo Angione su "studenti.it". Shoah, storia e significato dell'Olocausto, la persecuzione ed il genocidio degli ebrei avvenuto durante la Seconda guerra mondiale ad opera dei nazisti.
Significato della Shoah. La Germania nazista adottò "la soluzione finale" della questione ebraica nel 1942All’epoca della Repubblica di Weimar, quindi dal 1919 in poi, gli ebrei tedeschi si sentivano tedeschi a tutti gli effetti, ed erano riusciti ad avere successo e ad arricchirsi. Per i nazisti, gli ebrei erano un pericoloso nemico interno, colpevole di molti dei problemi che affliggevano la Germania. Non sappiamo se all’inizio la retorica di Hitlerfosse solo propaganda. Tutto quello che sappiamo è che dopo anni di atroci discriminazioni che rendevano la vita impossibile per gli ebrei tedeschi, nel 1942 la Germania nazista adoperò spazi, uomini e risorse per mettere in pratica ciò che i gerarchi nazisti avevano definito “la soluzione finale”: lo sterminio di tutti gli ebrei.
Olocausto: forma di sacrificio in cui le vittime venivano interamente bruciate. Proprio in questi anni, in cui gli ultimi superstiti della Shoahhanno più di 80 anni, e strampalate teorie cospirazioniste negano l’esistenza stessa della Shoah, è importante ricordare lo sterminio di milioni di ebrei ad opera dei nazisti, un fenomeno reale e documentato, che avvenne nel cuore d’Europa in tempi neanche tanto lontani. Alcuni storici ed alcuni sopravvissuti hanno chiamato e chiamano tuttora questo fenomeno Olocausto, una parola greca, che fa riferimento a sacrifici praticati nell’epoca antica (in particolare da greci ed ebrei) in cui le vittime - agnelli, tori e capre - venivano bruciate per intero, esattamente come migliaia di ebrei, dopo essere stati giustiziati vennero bruciati dai nazisti nei forni crematori. I sacrifici venivano tuttavia praticati per motivi religiosi, per ingraziarsi una divinità o per espiare dei peccati, e nella Shoah non c’era nulla di religioso, né tantomeno nulla da espiare. Per questo motivo si preferisce oggi il termine Shoah, una parola biblica che significa "catastrofe".
L’antisemitismo. Gli ebrei si emanciparono con la Repubblica di Weimar. L’antisemitismo, ovvero l’odio e la discriminazione nei confronti delle persone di fede e di famiglia ebraica, esisteva in Germania ed in Europa da molto prima dell’avvento del nazismo. Si trattava di un fenomeno antico, risalente al medioevo, ma che nel corso del XIX secolo si era andato acuendo, in particolare in Russia ed in Germania. Negli anni ‘20 del ‘900 tuttavia, con la Repubblica di Weimar, gli ebrei tedeschi avevano raggiunto ormai una libertà ed un’eguaglianza sociale totali, ed erano perfettamente integrati nel mondo lavorativo tedesco. Si trattava di una minoranza, corrispondente a circa l’1% della popolazione. Alcuni ebrei erano persone facoltose, inserite nell’alta borghesia, nel mondo degli affari, ma anche in politica e nelle arti. Gli ebrei tedeschi avevano combattuto nell’esercito tedesco durante la prima guerra mondiale, alcuni di loro avevano sposato tedeschi di origine non ebrea, alcuni avevano abbandonato la propria religione. 1933: Hitler scatenò una violenta propaganda contro gli ebrei. Adolf Hitler era riuscito a conquistarsi il favore dei tedeschi grazie alla propaganda, ed una delle armi della propaganda è quella di semplificare le cose, offrendo alle persone delle certezze facili. In questo caso, Hitler aveva convinto i tedeschi del fatto che la prima guerra mondiale era stata persa non per un complesso concorso di cause che tuttora, un secolo dopo, ancora studiamo. La realtà proposta dal nazismo era molto più facile: era colpa del tradimento e dell’intrigo dei politici, dei comunisti, e soprattutto degli ebrei. L’unico modo per tornare ad avere una Germania forte, ricca e rispettata internazionalmente, era la liquidazione di nemici interni: politici, comunisti, disfattisti, ed in particolare ebrei. Gli ebrei sarebbero stati colpevoli di aver inquinato la razza tedesca, che secondo le teorie del razzismo scientifico dell’epoca sarebbe stata destinata invece ad assumere un ruolo di comando nel mondo intero.
Persecuzioni degli ebrei. La persecuzione contro gli ebrei iniziò quando Hitler conquistò il potere in Germania. Le persecuzioni contro gli ebrei nella Germania nazista iniziano non appena Hitler ottiene il potere.
Nel 1933 iniziano le prime violenze contro gli ebrei in Germania, spesso perpetuate ed organizzate dalle SA di Hitler.
Nel 1935 viene approvata una legge per la cittadinanza (leggi di Norimberga, a settembre), secondo la quale gli ebrei non sono più considerati cittadini tedeschi. Da questo momento non possono più votare e non possono più sposarsi con cittadini tedeschi. Nei negozi tedeschi spuntano i primi cartelli con scritto “gli ebrei non possono entrare”. Varie leggi discriminano gli ebrei in vario modo, impedendo loro, tra le altre cose, di uscire la sera, o di possedere una bicicletta.
Nel 1936 (marzo) viene proibito ai medici ebrei di praticare la propria professione negli ospedali pubblici tedeschi. Stesso discorso per gli avvocati e gli insegnanti. Naturalmente, il provvedimento riguarda anche i professionisti del futuro: gli ebrei non possono più ottenere l’abilitazione per questi titoli.
Nel luglio del 1937 Monaco ospita una mostra di ‘arte degenerata’: un vero e proprio attacco rivolto dai nazisti all’arte moderna, ideato da Goebbels. Più che una mostra era una gogna, che metteva in ridicolo gli artisti contemporanei non conformi ai rigidi canoni nazisti, giudicando le loro opere il frutto di menti folli e malate. Naturalmente la colpa della ‘degenerazione’ veniva fatta ricadere sull’influsso ebraico.
Notte dei cristalli, 9 novembre 1938: notte in cui vennero distrutte le vetrine dei negozi, sinagoghe e case degli ebrei. Una svolta decisiva si avrà il 9 novembre del 1938 con la Notte dei cristalli, un gigantesco pogrom pilotato dalle SS, durante il quale vengono devastati negozi gestiti da ebrei, sinagoghe e case per tutta la Germania, oltre che nei territori recentemente annessi (Austria e Cecoslovacchia). Da questo momento la pesante discriminazione civile si trasforma in persecuzione di massa, volta a rendere la vita degli ebrei impossibile, spingendo molti di loro ad emigrare. Secondo Hitler, e secondo la penetrante propaganda nazista, gli ebrei stavano spingendo i paesi stranieri a muovere guerra alla Germania.
Il genocidio degli ebrei ed i campi di concentramento.
1939: gli ebrei vennero trasferiti nei ghetti nazisti con l'obiettivo di realizzare la "soluzione finale". L’inizio della seconda guerra mondiale, con l’invasione della Polonia, segna un deciso cambiamento di rotta nelle politiche dei nazisti a danno degli ebrei. Già dalla fine del 1939, dopo che hanno conquistato in modo fulmineo la Polonia, paese dove abitavano circa 3 milioni di ebrei, i nazisti iniziano a confinarli in ghetti. Si trattava di piccole aree completamente isolate dal mondo circostante, spesso recintate, dove gli ebrei venivano deportati ed obbligati a vivere in condizioni misere, senza la possibilità di lavorare. In polonia ed in Unione Sovietica i tedeschi avrebbero istituito più di 1000 ghetti. Si trattava di una misura provvisoria, in attesa di una strategia efficace per l’eliminazione totale. Un ghetto che è rimasto particolarmente famoso è ad esempio quello di Varsavia, che in meno di due chilometri quadrati ospitava 400.000 ebrei, che nella primavera del 1943 avrebbero organizzato un’insurrezione armata, soffocata sanguinosamente dai nazisti. Nei ghetti, gli ebrei erano costretti ad indossare segni di identificazione, come bracciali o targhette. Se da una parte l’ordine era fatto rispettare da una polizia interna, dall’altra i ghetti vedono numerose forme di resistenza, come l’introduzione di cibo, informazioni armi e medicine.
1941: il nazismo obbligò gli ebrei ad indossare segni di riconoscimento, una stella di David, per impedirgli di lavorare. Nell’autunno del 1941 gli ebrei, che dal settembre del ‘41 sono obbligati ad indossare una stella di David gialla cucita sugli abiti sin dall’età di 6 anni, non possono più emigrare dal Reich: tutti quelli che non erano riusciti ad andarsene prima si trovavano dunque in trappola, perché il 20 gennaio del 1942 ha luogo la Conferenza di Wannsee, presso una villa nell’omonimo quartiere di Berlino. A Wannsee si incontrano 15 importanti gerarchi delle SS, dello stato nazista e del partito nazista, per discutere del modo in cui sarebbe stata applicata la soluzione finale, nome in codice per l’eliminazione fisica sistematica degli ebrei d’Europa. Non viene auspicata un’unica soluzione, ma in generale da questo momento le politiche naziste sono apertamente indirizzate ad uno sterminio di massa degli ebrei. Vengono studiate strutture dedicate allo sterminio, approntate in luoghi come Auschwitz, dove gli ebrei saranno eliminati in massa attraverso metodi come le camere a gas. Altri prigionieri ebrei, organizzati in squadre speciali (Sonderkommando), avevano il compito di eseguire, tra le altre cose, la cremazione dei numerosi cadaveri in forni crematori industriali. Moltissimi altri prigionieri invece continueranno a perdere la vita nei campi di lavoro, obbligati a compiere sforzi disumani per sostenere l’economia bellica della Germania. Gli ebrei venivano deportati nei campi in Germania tramite le "marce della morte". Più tardi, nell’inverno tra il 1944 ed il 1945, mentre i Russi avanzeranno verso la Germania, le SS deporteranno gli ebrei russi verso i campi di concentramento ad ovest, all’interno dei confini della Germania. Molti di loro moriranno o saranno uccisi durante le devastanti marce che ricordiamo come marce della morte, e per molti di quelli che riusciranno a raggiungere i campi (come Bergen-Belsen, nella Germania occidentale), il destino non sarà migliore.
Gli ebrei in Italia. La Repubblica di Salò guidata da Mussolini collaborava con i nazisti nella deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. Nell’estate del 1943, dopo la caduta del regime fascista in Italia, Mussolini viene liberato dai nazisti e posto al comando di un nuovo regime fascista, la Repubblica di Salò, che sostanzialmente eseguiva direttive dei nazisti. Se l’Italia fascista era stata responsabile di persecuzioni e discriminazioni nei confronti degli ebrei, la Repubblica di Salò si ritrova a collaborare strettamente con i nazisti in vista della ‘soluzione finale’. A settembre iniziano gli arresti e le deportazioni sistematiche che avrebbero portato, secondo le stime degli storici, poco meno di 10.000 ebrei italiani ad essere deportati nei campi di concentramento e di sterminio nell’Europa centrale e orientale, ed in particolare ad Auschwitz, tra il settembre del ‘43 ed il febbraio del ‘45. Gli altri erano costretti a nascondersi per mesi. Piero Terracina è uno dei sopravvissuti al campo di concentramento di Auschwitz. Tra le tante testimonianze di ebrei italiani sopravvissuti ad Auschwitz (tra cui bisogna ricordare Primo Levi) abbiamo quella di Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti tuttora in vita (all’inizio del 2016), che nel 1944, quindicenne, viene arrestato e deportato insieme a tutta la sua famiglia. Sarà l’unico a sopravvivere. Terracina era stato cacciato dalla propria scuola nel 1938 in seguito alle leggi razziali, per poi iscriversi ad una scuola ebraica appositamente istituita, dove insegnavano numerosi professori a cui il fascismo non consentiva più di lavorare. Con l’occupazione tedesca, iniziata nel ‘43, la famiglia Terracina era stata costretta a nascondersi e a fuggire, senza ovviamente poter lavorare. Nel 1944, denunciati da un delatore, i Terracina vengono arrestati dalle SS. L’intera famiglia viene schedata, e dopo qualche giorno dal carcere di Regina Coeli viene deportata ad Auschwitz, prima in camion e poi in treno. Piero Terracina racconta di come, arrivati ad Auschwitz, suo padre, suo nonno e sua madre siano stati separati dai membri più giovani della famiglia, e mandati direttamente a morire nelle camere a gas, perché inadatti al lavoro. A questo punto, i prigionieri rimasti venivano denudati, rasati a zero e disinfettati, e gli veniva tatuata una matricola sul braccio sinistro, che da allora li avrebbe identificati, sostituendo i loro nomi e la loro vecchia identità. Piero Terracina era stato assegnato ad una squadra di scavatori che lavoravano senza sosta e senza acqua sotto al sole per 8-10 ore al giorno. Verrà liberato soltanto il 27 gennaio del 1945: pesava ormai 38 chili, e tutti i suoi familiari erano morti.
Le conseguenze. E' difficile stimare il numero preciso delle vittime in quanto parte della documentazione fu distrutta dai nazisti. Il termine ebraico Shoah, che si trova anche nella bibbia, significa una catastrofe, una tempesta devastante, e probabilmente non ci sono parole migliori per descrivere quella che fu una catastrofe non soltanto per gli ebrei, ma per tutta l’Europa e per tutto il mondo. Gli ufficiali nazisti non ci hanno lasciato documenti precisi con un conteggio delle vittime, e per questo motivo calcolare quante persone siano state uccise dai nazisti non è un compito facile per gli storici. Ci sono alcune buone ragioni per cui i documenti relativi alle vittime dell’olocausto sono scarsi: a partire dal 1943, quando si inizia a temere che i paesi dell’Asse avrebbero perso la guerra, buona parte della documentazione raccolta riguardo alle vittime inizia ad essere distrutta dai nazisti, che immaginavano che al termine della guerra ci sarebbero stati dei processi. Soltanto con la fine della seconda guerra mondiale i paesi vincitori iniziano ad impiegare personale incaricato di contare le vittime del nazismo. Per calcolare i danni bisogna affidarsi a stime e calcoli demografici. Per arrivare alle stime attuali, sono state utilizzate fonti di vario tipo, comprendenti non soltanto archivi nazisti e censimenti, ma anche indagini compiute alla fine della guerra, ed in particolare studi demografici. I dati riguardano esclusivamente vittime civili e disarmate. Secondo queste stime, gli ebrei sterminati sistematicamente dai tedeschi per motivi razziali ammontano a circa 6 milioni di persone. Bisogna aggiungere a questa cifra circa 200.000 zingari, e circa 250.000 disabili. I civili sovietici che possiamo considerare vittime del nazismo ammonterebbero a circa 7 milioni, ai quali andrebbero aggiunti 3 milioni di prigionieri di guerra. I polacchi sono circa 1,8 milioni, i cittadini serbi 312.000. I criminali comuni uccisi dal nazismo, che includono anche i cosiddetti ‘asociali’ (tra cui anche migliaia di omosessuali) sono circa 70.000. Alcuni leader del Nazismo furono processati a Norimberga tra il 1945 e il 1946. Non erano mancati alcuni tentativi di reazione da parte degli ebrei, come ad esempio una rivolta nel ghetto di Varsavia nel 1943. Alcuni ebrei vennero salvati grazie all’eroismo e all’altruismo di alcune persone, ebree e non: un ottimo esempio è quello raccontato nel film Schindler’s List. Dopo la guerra, alcuni tra i principali leader del nazismo vengono processati a Norimberga (1945-1946). Tra le prove utilizzate nei processi c’erano alcune copie di carte d’archivio ottenute dall’esercito americano, inglese e sovietico.
Interpretazioni della shoah: i motivi del genocidio. Il termine genocidio indica l'uccisione di un'intera popolazione senza distinzioni di età, razza e religione. Il termine "genocidio" viene utilizzato ufficialmente per la prima volta nel 1946, mentre i dirigenti della Germania nazista venivano processati a Norimberga per crimini contro l’umanità. Lo sterminio di circa due terzi degli ebrei che abitavano l’Europa è considerato appunto un genocidio, ovvero l’uccisione deliberata di un intero popolo, senza distinzioni di età, sesso, opinioni o religione. Non si tratta dell’unico genocidio della storia: soltanto nel ‘900 c’è stato quello degli armeni in Turchia durante la Prima Guerra Mondiale. Per molti storici anche la deportazione di milioni di contadini (e spesso di intere popolazioni) compiuta da Stalin tra gli anni ‘30 e gli anni ‘40, comportando veri e propri stermini, è un genocidio. Uno degli ultimi grandi genocidi del ‘900 è poi quello compiuto dalla dittatura comunista in Cambogia tra 1975 e 1976. Ma i casi non mancano neanche andando indietro nella storia: basti pensare allo sterminio degli Incas e degli Aztechi nelle americhe, o a episodi come la crociata contro gli Albigesi nella Francia del Medioevo. Cos’è dunque a rendere unica la shoah? Stabilire una classifica di quale sia stato il peggiore sterminio di massa di popolazioni inermi (inclusi i bambini) nella storia è assolutamente inutile. Forse è importante però ricordare come ciò che rende unica la ‘soluzione finale’ teorizzata dai nazisti è il suo carattere sistematico e pianificato. Nel cuore della civilissima Europa, nel periodo in cui gli europei si consideravano i popoli più ‘avanzati’, sia tecnologicamente che culturalmente, di tutto il mondo, Hitler ed il nazismo pianificavano la cancellazione totale di tutti gli ebrei dalla faccia della terra. Hitler teorizzava la distruzione degli ebrei già prima di salire al potere. Un altro fattore incerto e che in qualche modo divide gli storici è la decisione di sterminare gli ebrei. Secondo gli intenzionalisti già dal 1920, nascita del partito nazista, lo sterminio era deciso. Secondo i funzionalisti invece la shoah è il frutto di una serie di avvenimenti successivi al 1933, che avevano portato il regime nazista a radicalizzarsi e ad andare oltre quelli che erano i piani originari. Oggi si tende ad adottare una posizione intermedia, che tiene conto del ruolo fondamentale di Hitler nel teorizzare la distruzione degli ebrei già da prima degli anni ‘30, ma senza dimenticare come le decisioni, a partire dal 1933, vengono prese in stretta connessione con gli eventi della seconda guerra mondiale. La ricerca e le testimonianze dei sopravvissuti permettono di non dimenticare questi episodi drammatici. In ogni caso, grazie alla ricerca e alla testimonianza dei sopravvissuti (gli ultimi dei quali stanno sparendo in questi anni), tra cui spicca l’opera di Primo Levi (Se questo è un uomo, del 1947, e I sommersi e i salvati, del 1986), oltre che alla presenza di film, documentari e serie televisive, il negazionismo, tuttora diffuso (in particolare in rete) non ha intaccato il posto centrale che lo sterminio degli ebrei ha assunto nella memoria collettiva.
Concetti chiave
Le origini dell'antisemitismo. L’antisemitismo era un fenomeno antico, ma era incrementato in modo particolare nell’Europa dell’800. Negli anni ‘20 del ‘900, gli ebrei tedeschi si erano emancipati, riuscendo a prosperare e ad inserirsi in pieno nella Germania della Repubblica di Weimar. Facendo proprie una serie di teorie provenienti dal razzismo scientifico in voga tra 800 e 900, Adolf Hitler individua negli ebrei il principale nemico della nazione e della razza germanica.
La persecuzione degli ebrei in Germania. Con l’invasione della Polonia (settembre del ‘39), il nazismo inizia a rinchiudere in ghetti gli ebrei dei territori conquistati, obbligandoli ad indossare segni di riconoscimento, impedendo loro di lavorare:
Nel ‘41 gli ebrei non possono più emigrare dalla Germania;
Il 20 gennaio del ‘42 viene discusso il modo in cui applicare la soluzione finale;
Nel corso dell’anno vengono approntate le prime strutture per lo sterminio;
Nell’inverno tra 1944 e 1945, con l’avanzata russa, gli ebrei vengono deportati nei campi in Germania tramite le marce della morte.
Persecuzione degli ebrei in Italia. La Repubblica di Salò instaurata nel settembre del ‘45, collabora strettamente con gli occupanti tedeschi nell’arresto e nella deportazione sistematica di ebrei italiani. 10.000 di loro saranno deportati nei lager, in particolare ad Auschwitz, tra il settembre del ‘43 ed il febbraio del ‘45.
Le vittime del nazismo. Al termine della guerra, i nazisti hanno distrutto moltissimo materiale relativo alla “soluzione finale”, ed in generale agli stermini compiuti nei lager. Per calcolare i danni bisogna affidarsi a stime e calcoli demografici. Le stime più affidabili indicano circa 6 milioni di ebrei uccisi. Altre vittime del nazismo sono 200.000 zingari, 250.000 disabili, decine di migliaia di detenuti politici e di asociali. I principali leader del nazismo saranno processati per questi crimini di guerra a Norimberga tra il 1945 ed il 1946, sulla base di prove ottenute da carte d’archivio.
Diverse interpretazioni della Shoah. Il genocidio degli ebrei è stato un fenomeno pianificato dall’alto e portato avanti in modo sistematico, esclusivamente su base razziale. Hitler aveva già teorizzato lo sterminio degli ebrei da prima di andare al potere, ma allo stesso tempo gli eventi della guerra hanno influenzato le decisioni del regime. La ricerca degli studiosi e la testimonianza dei sopravvissuti alla Shoah ci permettono di non dimenticare questi episodi drammatici della nostra storia.
Pesci nel Mar Morto come nella Bibbia. "È la profezia di Ezechiele che si compie". L'immagine scattata da Noam Bedein per il Dead Sea Revival Project mostrerebbe pesci nel Mar Morto. Un fotoreporter israeliano dice di aver fotografato pesci nuotare nello specchio d'acqua più salato al mondo: è la prima volta. La circostanza è riportata nella Bibbia e sarebbe presagio della fine del mondo, scrive Nicolò Delvecchio l'8 ottobre 2018 su "La Repubblica". Immaginare vita nel Mar Morto non è cosa semplice, soprattutto per chi ha visitato il lago della depressione più profonda della Terra, a 400 metri al di sotto del livello del mare. Già nel 2011, però, alcuni ricercatori avevano scoperto che le doline - una sorta di conche - di acqua dolce sul suo fondo producevano numerose forme di vita, prevalentemente batteri. Ma ora la scoperta del fotoreporter israeliano Noam Bedin andrebbe oltre. Il fotografo del progetto Dead Sea Revival Project, avrebbe infatti immortalato dei pesci nuotare nel Mar Morto. Una circostanza che sarebbe oscuro presagio di una profezia biblica, raccolta da Ezechiele, per cui al ritorno della vita in quell'area sarebbe corrisposta la fine del mondo. "Il Mar Morto è tutt'altro che morto. È l'ottava meraviglia del mondo", ha detto. Lo stesso Bedin ha spiegato il fenomeno come la realizzazione della profezia di Ezechiele. "Venite sul Mar Morto e osservate la profezia che si compie!", ha detto. Per la Bibbia, infatti, l'area intorno al lago sarebbe stata in passato una delle più fertili della regione, fino alla distruzione di Sodoma e Gomorra che ne ha cambiato per sempre i connotati rendendola arida e priva di vita. "Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte - prima che il Signore distruggesse Sòdoma e Gomorra -; era come il giardino del Signore, come il paese d'Egitto, fino ai pressi di Zoar” (Genesi 13:10). Per la profezia, un giorno dell'acqua proveniente dall'est avrebbe ricoperto tutta la regione, riportando la vita nel mare e nel deserto circostante: "Mi disse: «Queste acque escono di nuovo nella regione orientale, scendono nell'Araba ed entrano nel mare: sboccate in mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà". (Ezechiele 47:8-9), e ancora: "Lungo il fiume, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina" (Ez. 47:12). Nonostante il taglio mistico dato al fenomeno, è proprio l'abbassamento del livello dell'acqua uno dei punti su cui Bedin cerca di sensibilizzare l'opinione pubblica. "Il Mar Morto offre scenari spettacolari grazie alle sue costruzioni di sale, ma ogni giorno perde l’equivalente di 600 piscine olimpiche di acqua, una vera e propria catastrofe ambientale”, ha detto. “La prossima generazione non potrà godere del Mar Morto come lo conosciamo oggi". Negli ultimi due anni il giornalista ha documentato i cambiamenti e i fenomeni geologici del lago con dei tour in barca per educare i visitatori sullo stato dei cambiamenti del bacino. In passato fiumi e torrenti, in particolar modo il Giordano, riversavano le acque dolci nel Mar Morto, che è diventato così salato perché l'acqua, evaporando, rilasciava sul suolo sali minerali disciolti che si accumulavano. Questo ha impedito che forme di vita più grandi, come i pesci, sopravvivessero. Negli anni Cinquanta però le autorità di Amman hanno deviato il corso del Giordano per raccogliere acqua potabile, e questo ha causato il drastico abbassamento del livello dell'acqua del lago che continua a diminuire per più di un metro all'anno. Un progetto per risolvere il problema potrebbe essere quello dell'impianto di desalinizzazione sul Golfo di Aqaba, che permetterebbe alla Giordania di ottenere acqua potabile dal Mar Rosso e di riaprire la diga del Giordano verso nord. Problemi politici hanno però bloccato il progetto, e l'impianto è in fase di stallo. Nel frattempo, lo stillicidio del Mar Morto continua. E non sarà qualche pesce a fermarlo.
L’ANTISEMITISMO ISLAMICO.
Benito Mussolini, in un libro l'amicizia tra il Duce e l'islam, scrive il 23 Aprile 2017 “Libero Quotidiano”. E' un tema poco esplorato, quello del rapporto tra Fascismo e nazismo da una parte e musulmani dall'altra. Ma negli ultimissimi tempi, due libri hanno fatto luce su questi rapporti, evidenziando come fossero forti e strutturali, in una chiave soprattutto anti-ebraica. "Bambini in fuga" di Mirella Serri racconta soprattutto del forte legame non solo ideologico tra Adolf Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme. In "Mussolini e i musulmani", invece, Giancarlo Mazzucca e Gianmarco Walch si concentrano sul fascino che islam e mondo arabo ebbero sul Duce. Un interesse che, scrivono i due autori, ebbe origine da un misto di ragioni di carattere personale e di politica estera. Nel primo caso si trattò di una affettuosa amicizia che Mussolini intrattenne con la giornalista Leda Rafanelli, detta l'odalisca, di fede musulmana, negli anni Dieci del Novecento. Nel secondo caso, negli anni Trenta, fu l'antisemitismo a spingere il capo del governo italiano e gli islamici dalla stessa parte della barricata. In quegli anni il Duce guardò con sempre maggiore attenzione ai paesi islamici, imponendo nel 1934 a Radio Bari di trasmettere programmi in lingua araba e curando i rapporti commerciali con quei Paesi, da cui, come scrive il quotidiano Il Messaggero, venne ricambiato con fervore: là nacquero infatti diversi movimenti come le Falangi Libanesi, le Camicie Verdi, il Partito Giovane Egitto e le Camicie Azzurre che seguivano il fascismo come esempio tramite il quale nazionalizzare le masse per via autoritaria. Il feeling proseguì negli anni di guerra con il progetto di costruire in Italia una legione araba fedele alle forze dell'Asse, con la benedizione del Gran Muftì di Gerusalemme, al quale Mussolini nel '36 diede la disponibilità a fornire uomini e materiale per mettere in atto l'avvelenamento dell'acquedotto di Tel Aviv, città nella quale avevano trovato rifugio gran parte degli Ebrei in fuga dalle leggi razziali in Europa. Il piano fu poi abbandonato, ma al Gran Muftì arrivarono dal governo italiano 138mila sterline, che allora erano una cifra davvero cospicua.
L'antisemitismo islamico in breve, scrive a Marzo 2014 informazionecorretta.com.
L'antisemitismo islamico. Gli studi sulla natura dell’antisemitismo islamico definiscono diversi atteggiamenti nella legge islamica e nella teologia islamica sugli ebrei. Ebrei e cristiani sono considerati monoteisti e quindi hanno diritto alla protezione sotto lo status della dhimma. Ciononostante, secondo il pensiero islamico gli ebrei sono colpevoli di aver distorto il messaggio biblico e di aver rifiutato il profeta Muhammad. Le fonti islamiche si esprimono diversamente riguardo agli ebrei: alcune descrivono gli ebrei positivamente, mentre altre li considerano manipolatori e complottardi, secondo la storia islamica e gli avvenimenti nella vita del profeta. A causa di fonti teologiche e giuridiche contrastanti, è difficile definire un pensiero coerente sugli ebrei nell’Islam. Storicamente sia gli ebrei sia altre minoranze non-islamiche sotto dominio musulmano, sono state vittime di segregazione sociale nel sistema della dhimma, che ha alimentato lo stereotipo dell’ebreo debole e infedele. Lo storico del Medio Oriente Bernard Lewis ha puntualizzato che, comunque, l’ostilità islamica verso gli ebrei non è mai stata razziale o etnica, come si è sviluppata in Europa.
Antisemitismo islamico ed europeo. Molti storici concordano nel ritenere che l’antisemitismo europeo sia stato importato nel Medioevo durante il XIX secolo. Gli stereotipi antisemiti occidentali, tra cui in particolare la paura di un “complotto giudaico” per il dominio del mondo, si sono radicati nel mondo islamico, che già riteneva l’ebreo come un potenziale pericolo per l’ordine e l’autorità islamica. Inoltre, l’influenza islamica in molti Paesi arabi negli anni ’30 e ’40 ha anche mobilizzato le masse arabe e musulmane contro le comunità ebraiche. Il Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseyni è ritenuto la figura centrale nello sviluppo del pensiero teologico islamico antisemita. Anche in questo periodo la letteratura europea antisemita è ampiamente diffusa tra i lettori arabi, compreso il “Mein Kampf” di Hitler e i “Protocolli dei Savi di Sion” che sono stati dei best-seller negli ultimi anni sia nei Paesi arabi sia tra le comunità di lingua araba in Europa.
Antisemitismo islamico e terzomondismo. La fondazione dello Stato di Israele ha consolidato la convinzione che gli ebrei siano una minaccia per l’Islam e per la nazione araba. Mentre si ritiene che il conflitto arabo-israeliano sia principalmente politico o territoriale, gran parte dell’ostilità anti-israeliana nei Paesi arabi si nutre di stereotipi antisemiti. L’antisionismo e l’odio anti-israeliano sono spesso veicoli di convinzioni profondamente anti-giudaiche, poiché l’esistenza di Israele è percepita come un affronto all’identità arabo-islamica. La retorica anti-israeliana usa un linguaggio terzomondista, mascherando l’antisemitismo con il linguaggio della lotta contro l’oppressione israeliana del popolo palestinese. Palestinian Media Watch e MEMRI documentano la diffusione capillare dell’antisemitismo nei media, nella letteratura, nella politica e nei dibattiti del mondo arabo, islamico e palestinese in particolare. L’antisionismo e l’anti-colonialismo hanno coalizzato correnti della sinistra profondamente anti-israeliana e correnti islamiste ferocemente anti-ebraiche, unendo visioni apparentemente inconciliabili. Nonostante le profonde differenze di visione rispetto ai diritti umani e alla secolarizzazione, la sinistra estrema e i movimenti islamisti condividono l’ostilità anti-ebraica, anti-israeliana e anti-occidentale che ha origine anche nel pensiero marxista, nel pensiero post-coloniale e nel pensiero islamico.
Antisemitismo islamico in Europa. L’antisemitismo islamico in Europa è un fenomeno in crescita, sia per il numero sempre maggiore di musulmani sia per gli incidenti antisemiti di allarmante gravità, che sono causati anche dall’estrema destra e dall’estrema sinistra. Gli episodi di antisemitismo islamico sono particolarmente violenti, tra cui l’attentato alla scuola ebraica a Tolosa perpetrato da Mohammad Merah, i costanti attacchi fisici e verbali agli ebrei in Belgio e in Svezia e l’incitamento all’odio anti-ebraico nelle moschee in tutta Europa. Le autorità europee, nonostante il fenomeno dell’antisemitismo islamico sia di crescente gravità, non hanno ancora adottato una politica precisa, rifiutandosi di affrontare il problema diffuso nelle comunità originarie del Medio Oriente e dell’Africa islamica. La propaganda antisemita nei media arabi diffusi in Europa così come la crescente ostilità antiebraica nelle frange dell’estrema destra e il sempre più radicale antisionismo nell’estrema sinistra fanno sorgere dubbi sul futuro dell’ebraismo europeo e delle relazioni tra Europa e Israele.
Odio verso gli ebrei ed Israele giustificato dal Corano. Se si usa l’aggettivo islamico per definire una forma specifica di antisemitismo, soprattutto oggi, s’intende un tipo di ostilità verso gli ebrei, l’ebraismo, il sionismo e lo Stato di Israele che si giustifica sulla base dell’Islam e dei suoi precetti. Questo vale in particolare per quelle correnti dell’Islam che sono spesso definite “fondamentaliste”, e che sostengono che la soluzione per i problemi dell’Islam oggi sia il ritorno ai principi base del credo islamico. Questa corrente dà particolare rilievo al precetto di guerra santa, la cosiddetta “jihad”, contro gli infedeli. Gli infedeli sono identificati principalmente come ebrei e cristiani, che in diversi modi minacciano l’identità, la cultura e il credo della “umma” islamica – la comunità transnazionale che rappresenta più di un miliardo di fedeli. La base ideologica della guerra islamica contro gli ebrei, sia retorica sia pratica, deriva principalmente da fonti islamiche, come nel Corano la guerra che il Profeta Muhammad ha mosso contro gli ebrei nel VII secolo in Arabia, negli Hadit e nelle varie tradizioni che si sono definite nel tempo con riguardo agli ebrei. In questo modo si è creato uno stereotipo che sta alla base dell’antisemitismo islamista che dipinge l’ebreo come infido, sleale, sovversivo, disobbediente verso Dio, colpevole di aver ucciso i profeti che sono stati mandati al popolo ebraico e soprattutto come nemico dell’unità e del credo dell’Islam. È un antisemitismo la cui ragion d’essere versa nell’autorità divina; pertanto il carattere degli ebrei e dello Stato di Israele è predeterminato dal Corano e il conflitto non si risolverà finché i musulmani non riusciranno a distruggere gli ebrei. Oltre a questa particolarità islamica, dal XIX secolo elementi di anti-giudaismo europeo si sono fatti strada nel mondo arabo e islamico, tra cui in particolare l’accusa di omicidio rituale, originato da fonti cristiane medievali e oggi molto diffuso nei media in lingua araba. Inoltre vi è anche la convinzione che gli ebrei cerchino di dominare il mondo, che controllino le banche, i media, il sistema capitalista internazionale, gli Stati Uniti e l’imperialismo occidentale, e che siano anche responsabili del comunismo e delle tendenze laiche in generale. Per questo i “Protocolli dei Savi di Sion” sono così popolari nel mondo arabo-islamico, in cui per anni è stato un best-seller.
Nazionalismo arabo e rivoluzione islamica come fonte ulteriore di antisemitismo. Sin dalle sue origini nel XX secolo, il nazionalismo arabo ha sviluppato una forma di esclusione verso le minoranze non-arabe e, in molti casi, ha adottato una posizione di sospetto e ostilità verso gli ebrei, che sono considerati o come agenti dell’Occidente o come una quinta colonna sionista. Dopo la fondazione di Israele nel 1948, la condizione degli ebrei nei Paesi arabi è divenuta insostenibile proprio a causa di tale ostilità, ma molto probabilmente gli ebrei sarebbero stati espulsi prima o dopo anche senza l’esistenza di Israele. È successo ai francesi in Algeria, agli italiani, greci e altri in Egitto e sta accadendo lo stesso alle minoranze non-islamiche, in particolare ai cristiani, che soffrono di discriminazione e persecuzione in tutto il Medio Oriente. Assistiamo oggi al tramonto dell’antica storia dei cristiani in Iraq e Siria, mentre vediamo che nei Territori Palestinesi i cristiani sopravvivono a fatica, che in Egitto, Pakistan sono discriminati e il loro futuro è molto incerto anche in Libano. Tutto ciò sta accadendo circa sessant’anni dopo la pulizia etnica di circa un milione di ebrei in tutto il Medio Oriente, mettendo in dubbio l’intero discorso sulla tolleranza musulmana.
Il fattore islamista ha invece assunto un ruolo primario dopo la vittoria degli ayatollah nella rivoluzione islamica nel 1979. Durante gli ultimi trentacinque anni abbiamo assistito alla diffusione di quello che chiamerei “Sciismo rosso”, propugnato dall’Iran, Hezbollah e altri movimenti legati al regime degli ayatollah, capace di essersi posto a capo della “alleanza degli oppressi” contro quello che ritengono “l’arroganza del mondo” (USA) e il “piccolo Satana”, Israele. Questa ideologia clericale, che usa un linguaggio di estrema sinistra per esportare la rivoluzione, adotta una teoria completamente antisemita che unisce il credo in una cospirazione ebraica mondiale con la negazione della Shoah, l’influenza occulta degli ebrei in tutte le sfere di potere in Occidente. L’Iran ha esteso la sua influenza sul mondo arabo, che è pronto a credere in queste idee, anche se vede con sospetto le intenzioni iraniane.
L’aspetto più pericoloso, a mio avviso, consiste nel fatto che questa propaganda tossica si è profondamente radicata nella società e nella politica del mondo islamico, creando un enorme distacco dalla realtà e rendendo difficile qualsiasi soluzione ragionevole alla questione della Palestina.
L’antisemitismo in Europa è arabo e islamico. Riflettere su questa verità incontrovertibile è scomodo per i media e la politica europea, impone di trarre conseguenze gravi, a partire dalla presa d’atto di un odio contro gli ebrei connaturato con la natura stessa del Corano, scrive Carlo Panella il 26 aprile 2018 su Lettera 43. Parole chiare sull’impressionante ondata di antisemitismo omicida che scuote l’Europa: è arabo, è islamico, non è europeo. Tutti, proprio tutti gli episodi di ferocia antisemita che hanno sconvolto l’Europa, l’omicidio della anziana ebrea Mireille Knoll poche settimane fa a Parigi, sempre a Parigi quello dell’anziana ebrea Sarah Halmi nel 2016, quello feroce (fu rapito e torturato a morte per giorni) del giovane ebreo Ilan Halmi, così come gli innumerevoli episodi di violenza in Francia, gli attentati antiebraici di Bruxelles e Tolosa e l’ultimo episodio di violenza contro un giovane a Berlino colpevole solo di portare la Kippah, sono opera di arabi e islamici, non di esponenti della estrema destra europea.
L'IPOCRISIA DEI MEDIA EUROPEI. Gli ebrei fuggono dalla Francia in Israele al ritmo di 6-8 mila l’anno perché perseguitati, uccisi, violentati da arabi e islamici al grido di «Allah akbar» o di «sporco giudeo», non da neonazisti nostrani. È questo il prodotto - nascosto ipocritamente - della società multietnica. Prodotto negato da chi sui media, con ciglio corrucciato, denuncia genericamente l’antisemitismo e non lo ricollega alla sua chiara, evidente, inequivocabile matrice arabo islamica. Matrice - sia chiaro - che nulla ha a che fare col conflitto israelo-palestinese, ma che riecheggia i tanti brani del Corano e soprattutto degli Hadith che definiscono gli ebrei «porci e scimmie» e che sostengono che «il giorno del Giudizio Ultimo non verrà sino a quando l’ultimo ebreo non sarà ucciso». Gli ebrei fuggono dalla Francia in Israele al ritmo di 6-8 mila l’anno perché perseguitati, uccisi, violentati da arabi e islamici al grido di «Allah akbar» o di «sporco giudeo», non da neonazisti nostrani. Questa matrice arabo-islamica e coranica dell’antisemitismo è la ragione per la quale le comunità musulmane “moderate” e i dirigenti della comunità araba nulla fanno per contrastarlo. Anzi. Riflettere su questa verità incontrovertibile è scomodo per i media e la politica europea, impone di trarre conseguenze gravi, a partire dalla presa d’alto di un antisemitismo islamico connaturato con la natura stessa del Corano, con la definizione degli ebrei come complottatori e traditori del patto stretto con Allah, più volte e chiaramente elevata dal Profeta in più versetti.
SERVE UNA RIFORMA DELL'ISLAM. Impone di riflettere con gravità prima di affermare che «l’Islam appartiene alla Germania», come ha fatto recentemente Angela Merkel in polemica con il suo ministro dell’Interno Horst Seehofer che giustamente affermava il contrario. Impone infatti di chiedere con fermezza ai musulmani di operare una lettura critica del testo coranico, di storicizzarlo, (Maometto abbandona l’ecumenismo nei confronti degli ebrei quando valuta che lo ostacolano nella guerra della Medina contro gli abitanti politeisti della Mecca). Impone insomma di affrontare di petto una enorme verità: l’antisemitismo è connaturato con la tradizione islamica e senza una riforma razionalista non ne verrà mai espulso. Ma l’Islam è incapace di tale riforma, se non in sue componenti minoritarie (per esempio, in Marocco). Beninteso, non vogliamo qui negare che esista e operi un antisemitismo europeo, potentemente presente in Polonia, in Ucraina e altrove (anche in Gran Bretagna e il laburista Corbyn ne è complice), ma questa tradizione non si esprime se non attraverso slogan o attacchi alle cose (lapidi, cimiteri ebraici, ecc…). L’antisemitismo violento, fisico, omicida in Europa è monopolio praticamente esclusivo della componente arabo islamica, anche di seconda o terza generazione. E va detto. Con forza.
L’antisemitismo arabo continua a diffondersi: “Il nostro odio per gli Ebrei è basato sulla nostra fede. Il Corano ci dice di odiarli, non di amarli”, scrive Emanuel Baroz il 18 novembre 2010 su focusonisrael.org.
Come parlano gli arabi degli ebrei.
Abdallah Jarbù, ministro di Hamas per gli affari religiosi alla tv Al-Aqsa (Gaza) il 28/02/10: “Gli ebrei soffrono di disordini mentali, perchè sono ladri e aggressori, un ladro o un aggressore che prende una proprietà o una terra sviluppa disordini psicologici e spasimi di coscienza, perchè ha preso qualcosa che non è suo. Loro (gli Ebrei) vogliono presentarsi al mondo come se avessero dei diritti, ma di fatto sono batteri estranei, microbi senza uguali nel mondo. Non sono io che dico questo, è il Corano stesso che dice che non hanno uguali nel mondo:” Troverai che gli uomini più potenti che odieranno i credenti sono Ebrei”. Possa Egli annichilire questo popolo immondo che non ha religione nè coscienza. Io condanno quei credenti che normalizzano i rapporti con loro, coloro che accettano di sedersi accanto a loro, e coloro che credono che essi sono esseri umani. Essi non sono esseri umani, non sono un popolo. Non hanno una religione, una coscienza o valori morali”.
Salam Abd Al-Qawi, clerico egiziano alla tv Al-Nas (Egitto) l’8 gennaio del 2009: “Il nostro odio per gli Ebrei è basato sulla nostra fede. Il Corano ci dice di odiarli, non di amarli”.
Un esponente religioso mussulmano in una tv araba: “Se gli Ebrei ci restituissero la Palestina cominceremmo ad amarli? Certamente no. Non li ameremo mai. Assolutamente no. Le vostre convinzioni sugli Ebrei devono essere che essi sono infedeli e essi sono nemici. Sono nemici non perchè hanno occupato la Palestina. Sarebbero nostri nemici anche se non avessero occupato niente”.
Muhammed Al.Kuraikhi alla tv del Qatar il 09/02/09: “Noi tratteremmo gli Ebrei come nostri nemici anche se ci restituissero la Palestina perchè essi sono infedeli”.
Wael Al- Zarrad, clerico palestinese alla tv Al-Aqsa il 28/02/08: “In breve questo sono gli Ebrei. Il nostro sangue chiede vendetta contro di loro e si placherà solo con la loro distruzione, Allah lo vuole, perchè essi hanno cercato di uccidere il nostro Profeta diverse volte”.
Masoud Anwar, clerico egiziano alla tv Al-Rahma (Egitto) il 09/01/09: “I più grandi nemici dei mussulmani – dopo Satana – sono gli Ebrei. Chi ha detto questo? Allah lo ha fatto.
Dr. Hassan Hanizzadeh, commentatore iraniano, Jaam-E Jam2 tv (Iran) il 20/12/05: “Nel 1883, circa 150 bambini francesi, vennero assassinati in modo orribile nei sobborghi di Parigi prima della Pasqua ebraica. Recenti ricerche hanno dimostrato che li uccisero gli Ebrei per prendere il loro sangue. Questo fatto provocò rivolte a Parigi e allora il governo francese si trovò sotto pressione. Un simile incidente avvenne a Londra, dove molti bambini inglesi vennero uccisi dai rabbini”.
L’antisemitismo, malattia (infantile e senile) del mondo arabo, provoca danni non solo sul campo di gioco. Un problema di mentalità che nel vicino oriente ha generato distruzione di capitale umano, guerre costose e ossessioni ideologiche. Un editoriale di Bret Stephens, scrive il 17 Agosto 2016 Il Foglio. Venerdì, alle Olimpiadi di Rio, il judoka israeliano Or Sasson ha sconfitto l’egiziano Islam El Shehaby, il quale, dopo l’incontro, ha ignorato la mano tesa del suo avversario, guadagnandosi i fischi del pubblico. Si è venuto a sapere che El Shehaby aveva ricevuto pressioni da gruppi anti-israeliani perchè si ritirasse prima dell’incontro. Dopo molte polemiche con il Cio, la federazione egiziana di judo ha deciso di rispedire in patria il proprio atleta. In un editoriale apparso sul Wall Street Journal, Bret Stephens ha spiegato che questo gesto simboleggia l’odio cieco per gli ebrei e per Israele che pervade il mondo arabo, il quale si trova in declino anche a causa di questo atteggiamento. Stephens osserva come tale aspetto della realtà mediorientale sia spesso taciuto in analisi accademiche e articoli giornalistici. Rimane il fatto che, continua Stephens, negli ultimi 70 anni il mondo arabo, “si è liberato della sua popolazione ebraica, circa 900.000 persone, senza smettere di odiarla. Con il passare del tempo questo si è rivelato disastroso: una combinazione di capitale umano perso, guerre esageratamente costose, ossessioni ideologiche mal indirizzate e un panorama intellettuale funestato da teorie del complotto e dalla ricerca costante di un capro espiatorio. I problemi del mondo arabo sono i problemi della mentalità araba, e il nome di quei problemi è l’antisemitismo.” La relazione tra stagnazione sociale e politica e antisemitismo non è una novità recente. Nel 2005 lo storico Paul Johnson, in una ricerca per Commentary, ne dava ampi esempi. La Spagna espulse gli ebrei nel 1492, “privando la madrepatria e le colonie di una classe sociale già nota per le sue capacità finanziarie”. Nella Russia zarista le leggi antisemitiche causarono migrazioni di massa degli ebrei e “un enorme incremento della corruzione nella Pubblica amministrazione”. La Germania nazista avrebbe potuto vincere la corsa allo sviluppo di armi atomiche, “se Hitler non avesse mandato in esilio negli Stati Uniti Albert Einstein, Leo Szilard, Enrico Fermi e Edward Teller”. Questi fenomeni si sono ripetuti nel mondo arabo e, contrariamente all’immaginario popolare, precedettero la creazione dello stato di Israele. “Nel 1929 vi furono sanguinosi pogrom in Palestina, replicati in Iraq nel 1941 e in Libano nel 1945. Non è accurato accusare Gerusalemme di aizzare l’antisemitismo rifiutando di cedere territori in cambio di pace. Tra gli egiziani l’odio per Israele si affievolì appena dopo che Menechem Begin restituì il Sinai ad Anwar Sadat. Tra i palestinesi l’antisemitismo aumentò notevolmente durante gli anni del processo di pace di Oslo”. Johnson aveva definito l’antisemitismo come una malattia “altamente infettiva, endemica in certe località e società, che non rimane confinata tra le persone più deboli o meno istruite”. L’antisemitismo potrà anche essere irrazionale, ma la sua efficacia sta nel trasformare l’irrazionalità personale e istintiva, offrendole uno sbocco sistematico e politico, concludeva Johnson: “Per chi odia gli ebrei ogni crimine ha il medesimo colpevole e ciascun problema ha la stessa soluzione”. Stephens nota come sia facile cedere all’antisemitismo, semplificando la propria visione del mondo, ma condannandosi a un permanente oscurantismo. A riprova di ciò, il commentatore elenca semplici fatti: “Non esiste alcuna grande università nel mondo arabo, non vi è una seria comunità scientifica locale e la produzione letteraria è minima. Nel 2015 l’ufficio brevetti degli Stati Uniti ha registrato 3.804 brevetti da Israele, e solo 364 dall’Arabia Saudita, 56 dagli Emirati Arabi Uniti e 30 dall’Egitto”. Nonostante Israele convogli acqua in Giordania per aiutare lo stato arabo e offra intelligence all’Egitto per combattere l’Isis nel Sinai, osserva Stephens, la popolazione araba non se ne rende conto, e l’unica immagine che ha di Israele è di “soldati israeliani in tenuta antisommossa che malmenano un palestinese”. La dolorosa realtà, nota Stephens, è che “le nazioni di successo provano a emulare i propri i propri vicini. Nel mondo arabo, invece, generazione dopo generazione, si è insegnato a odiare i propri vicini”. Vi è comunque qualche speranza di cambiamento. Negli ultimi cinque anni il mondo arabo è stato costretto a confrontarsi con i propri fallimenti senza poter addossare alcuna colpa a Israele. Questo però non basta conclude Stephens: “Finché un atleta arabo non può rispondere alla cortesia di una stretta di mano da parte di un suo omologo israeliano, la malattia della mentalità araba e la sfortuna del suo mondo continueranno. Per Israele è un peccato. Per gli arabi è una calamità. Chi odia soffrirà sempre più di chi è odiato”.
Ebrei perseguitati nei Paesi arabi. L’odio precede la nascita d’Israele. Esce in libreria giovedì 15 novembre il saggio di Georges Bensoussan, «Gli ebrei del mondo arabo» (traduzione di Vanna Lucattini, Giuntina, pagine 171, euro 15). Il saggio di Bensoussan (Giuntina) riporta l’attenzione su fatti tragici che molti non vogliono affrontare. In Francia l’autore ha attirato su di sé accuse di razzismo, scrive il 12 novembre 2018 Paolo Mieli su "Il Corriere della Sera". Alcuni ebrei provenienti dai Paesi arabi in un campo di raccolta allestito in Israele. La foto risale al 1950, due anni dopo la fondazione dello Stato ebraico, nel quale affluirono molti profughi dai Paesi arabi (Jewish Agency for Israel) . Sotto l’occupazione tedesca della Tunisia (novembre 1942-maggio 1943) alcune case di ebrei furono saccheggiate e alcune donne ebree furono stuprate da musulmani. «In generale gli autori di queste violenze furono incoraggiati dai tedeschi», ha scritto Norman Stillman anche se, «temendo disordini di maggiore ampiezza, il comandante tedesco intervenne per mettere fine a quegli incidenti». Quegli «incidenti», in ogni caso, furono ricondotti — in tema di responsabilità — all’occupazione nazista. Ma lo stesso Stillman notò, non senza sorpresa che «i saccheggi di case ebraiche ad opera degli arabi furono più gravi dopo che i tedeschi si ritirarono dalla città». Proprio così: le violenze antiebraiche in Tunisia nel corso della Seconda guerra mondiale sono cresciute dopo il ritiro dei nazisti. E quando arrivarono gli Alleati, Philip Jordan, corrispondente di guerra britannico, scrisse che «tutti gli ebrei della città avevano subito saccheggi dagli arabi e che erano state rubate persino porte e finestre». Anche, se non soprattutto, dopo che i soldati con la svastica se n’erano andati. Come mai? E perché subito dopo il mondo arabo si è svuotato dei suoi ebrei nel corso di appena una generazione (1945-1970)? Tra l’altro quasi senza espulsioni palesi, eccetto l’Egitto… Perché questo strappo così rapido da una terra sulla quale gli ebrei vivevano da oltre duemila anni? Georges Bensoussan ha scritto un libro, Gli ebrei del modo arabo. L’argomento proibito, che sta per essere pubblicato da Giuntina, nel quale analizza le vessazioni a cui sono stati sottoposti gli israeliti in quell’area geografica da molto prima che esplodesse il conflitto tra Israele e i palestinesi. Gli ebrei sono stati costretti ad abbandonare quelle terre in una misura davvero rimarchevole: se ne dovettero andare novecentomila persone nel secondo dopoguerra, nell’arco di poco più di due decenni. Un esodo che, secondo Bensoussan, «mise fine ad una civiltà bimillenaria, anteriore all’Islam e all’arrivo dei conquistatori arabi». Come è potuto accadere? «Più del sionismo e della nascita dello Stato di Israele», risponde l’autore, «sono stati l’emancipazione degli ebrei attraverso l’istruzione scolastica e l’incontro con l’Occidente dei Lumi a provocarne la scomparsa in quei Paesi, quindi il loro riscatto, un evento inconcepibile per l’immaginario di un mondo in cui la sottomissione dell’ebreo aveva finito per costituire una pietra angolare». Generalmente, scrive Bensoussan, «ci dicono che le società ebraiche d’Oriente sarebbero declinate con il conflitto arabo-israeliano e che l’antigiudaismo arabo sarebbe una ricaduta del conflitto palestinese». Ma «questa tesi è smentita da moltissimi testimoni occidentali riguardo agli anni 1890-1940, siano essi amministratori coloniali, militari, medici, giornalisti o viaggiatori». Tutti raccontano «della virulenza di un sentimento antiebraico, ad ogni evidenza variabile a seconda delle regioni e dei periodi, senza connessione alcuna con la questione palestinese».
Nato in Marocco nel 1952, lo storico francese Georges Bensoussan è autore di molti studi sulla Shoah, l’antisemitismo e il sionismo, tradotti anche in Italia. Bensoussan è uno storico francese ebreo nato nel 1952 in Marocco. Timido, ha sempre scelto di starsene in disparte. Non ha mai amato il palcoscenico letterario. Fino al 2015 non godeva, anzi, di grande notorietà, nonostante avesse scritto diversi libri, avesse ricevuto importanti premi, fosse stato nominato direttore editoriale del Mémorial de la Shoah. Che cosa è allora che lo ha portato alla ribalta nel 2015 quando aveva 63 anni? Nel corso di una trasmissione radiofonica su France2, Répliques, gli sfuggirono (o forse le pronunciò intenzionalmente) le seguenti parole: «Il sociologo algerino Smaïn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia — è risaputo ma nessuno vuole dirlo — l’antisemitismo arriva con il latte materno». Era la citazione di un ragionamento altrui, anche se ad ogni evidenza Bensoussan lo condivideva nel merito. Comunque sarebbe passata inosservata se non fosse sceso in campo il «Movimento contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli», accusando lo storico d’aver fatto sue «parole antiarabe e razziste» per di più «in un servizio pubblico». Il Movimento chiese alla radio nonché ai responsabili del Mémorial di prendere le distanze da Bensoussan, e lo trascinò per ben due volte in giudizio. Radio e Mémorial lo misero in quarantena assai prima della sentenza definitiva e pochi solidarizzarono con Bensoussan: tra questi meritano di essere ricordati Pierre Nora, Alain Finkielkraut e, dall’Algeria, Boualem Sansal. Dopodiché la sua vita fu praticamente distrutta. Infine nel 2018 è arrivata la definitiva assoluzione, ma ormai sarebbe stato difficile per lui recuperare una qualche serenità. Ma, con ostinazione, Bensoussan ha continuato a studiare le condizioni in cui gli ebrei vivevano nel mondo arabo quando lo Stato di Israele non era ancora neanche all’orizzonte. Mettendo in evidenza anche i (pochi) caratteri positivi di quella coabitazione con il mondo musulmano. In un quadro per il resto agghiacciante. All’inizio del XVI secolo il frate francescano Francesco Suriano descriveva con queste parole la vita degli israeliti in Palestina: «Questi cani, gli ebrei, sono calpestati, picchiati e tormentati come meritano. Vivono in questo Paese in una condizione di sottomissione che le parole non possono descrivere. È una cosa istruttiva vedere che a Gerusalemme Dio li punisce più che in ogni altra parte del mondo. Ho visto questo luogo per lungo tempo. Essi sono anche uno contro l’altro e si odiano, mentre i musulmani li trattano come cani… Il più grande obbrobrio per un individuo è di essere trattato da ebreo». E ancora: «Ovunque — scrive nel 1790 l’inglese William Lemprière a proposito degli ebrei di Marrakech — sono trattati come esseri di una classe inferiore alla nostra. In nessuna parte del mondo li si opprime come in Berberia… Malgrado tutti i servigi che gli ebrei rendono ai mori, essi sono trattati con più durezza di quanto farebbero con i loro animali». La stessa immagine che usa l’abate francese Léon Godard nel 1857, di ritorno da un viaggio: «Gli ebrei in Marocco sono considerati tra gli animali immondi… La tolleranza dei prìncipi musulmani consiste nel lasciare vivere gli ebrei come si lascia vivere un gregge di animali utili». «Se un musulmano li colpisce», prosegue Godard, agli ebrei «è proibito, pena la morte, di difendersi eccetto che con la fuga o con la destrezza». A ridosso della Seconda guerra mondiale, il Marocco fu relativamente al riparo dalle esplosioni di violenza antiebraica. Molto relativamente. Nel Maghreb, qualcuno sostiene, la popolazione musulmana non avrebbe gioito per le misure antiebraiche promulgate da Vichy. Avrebbero perfino manifestato solidarietà nei confronti dei perseguitati. Ma secondo Bensoussan (e con lui, adesso, la maggioranza degli storici) «la popolazione musulmana tutt’al più rimase indifferente». In Tunisia (finché fu una colonia) le autorità francesi fingevano di non vedere le persecuzioni antiebraiche per evitare di affrontare la maggioranza araba. Lo stesso accadde in Marocco dopo i pogrom di Oujda e Jérada (giugno 1948): le stesse autorità francesi raccomandarono a quelle locali «di usare indulgenza» (nei confronti dei responsabili degli atti antiebraici) al fine di «evitare ogni esplosione di violenza da parte araba». E nel secondo dopoguerra dopo la nascita dello Stato di Israele (1948)? Ad eccezione dell’Egitto, sostiene lo storico, non ci sono state praticamente espulsioni di ebrei dal mondo arabo. E la Tunisia è stato il Paese più tollerante. Qui la Costituzione del 1956 assicurava che gli ebrei erano cittadini come gli altri e potevano «esercitare qualsiasi professione». Tuttavia «dovevano sempre aspettare più degli altri le necessarie autorizzazioni amministrative» e, per così dire, «elargire più bustarelle». Anche sotto la guida del presidente Bourghiba, gli ebrei furono a poco a poco estromessi dai posti più importanti («eccetto che al Ministero dell’Economia dove non c’erano musulmani competenti per rimpiazzarli»).
Nel 1960 gli ebrei rappresentavano ancora il 14% della popolazione di Tunisi, ma nel Consiglio comunale della capitale ce n’erano solo due su sessanta membri (il 3%). Poi venne la «guerra dei Sei giorni» (1967) e per gli israeliti furono dolori. Scriveva — in una lettera del 7 giugno 1967 a Georges Canguilhem — Michel Foucault che all’epoca insegnava all’università di Tunisi: «Qui lunedì scorso c’è stata una giornata (una mezza giornata) di pogrom. È stato molto più grave di quanto abbia detto “Le Monde”, una cinquantina buona di incendi. Centocinquanta o duecento negozi — ovviamente i più miserevoli — saccheggiati, lo spettacolo della sinagoga sventrata, i tappeti trascinati per strada, calpestati e bruciati, gente che correva per le strade si è rifugiata in un edificio al quale la folla voleva dar fuoco. E poi il silenzio, le saracinesche abbassate, nessuno o quasi nel quartiere, i bambini che giocavano con le suppellettili rotte… Quanto successo appariva manifestamente organizzato… Se poi a questo si aggiunge che gli studenti, per “essere di sinistra” hanno dato mano (e un po’ di più) a tutto questo, si è abbastanza tristi. E ci si domanda per quale strana astuzia (o stupidità) della storia il marxismo ha potuto dare occasione (e vocabolario) a tutto ciò».
Al Cairo, nel 1927, dall’oggi al domani, la legge egiziana chiude agli ebrei l’accesso agli impieghi pubblici. Qui nel 1950 (ben diciassette anni prima di quel che si sarebbe venuto a creare dopo la guerra dei Sei giorni), Sayyd Qutb, successore di Hassan el-Banna a capo dei Fratelli musulmani, pubblicò un manifesto, La nostra battaglia contro gli ebrei, che conteneva parole inquietanti. «Gli ebrei», si poteva leggere in questo testo, «hanno ricominciato a fare il male… Allah inviò loro Hitler per dominarli; poi la nascita di Israele ha fatto provare agli arabi, i proprietari della terra, il sapore della tristezza e della sofferenza».
In Siria dopo il 1945 imperversa una violenza antiebraica che spinge la maggior parte dei 15 mila ebrei del Paese ad andarsene; tutte persone che sono poi scomparse da ogni «memoria ufficiale». Nei confronti degli ebrei rimasti si ebbero attentati come la bomba che colpì un’istituzione ebraica a Damasco nel 1948, e le altre che nel corso dell’estate di quello stesso anno, uccisero decine di israeliti. Analoghe violenze si ebbero in Yemen. In Libia rimasero solo cinquemila ebrei su trentacinquemila e questa minoranza «fu progressivamente spinta a partire, strangolata socialmente e assoggettata a un clima di paura». A Tripoli nel 1961 la legge stabilì che a ogni ebreo che intrattenesse «rapporti ufficiali o professionali» con Israele (vale a dire, per la maggior parte dei casi, con i loro connazionali trasferitisi nello Stato ebraico) sarebbero stati confiscati i beni.
Ma perché di tutto questo si comincia a parlare in modo esplicito soltanto adesso? La storia degli ebrei del mondo arabo, risponde Bensoussan «è stata a lungo confiscata». Il più delle volte è stata scritta da degli ebrei di corte ed è per questo che solo recentemente si è emancipata dalla visione irenica di un tempo. A lungo il racconto ufficiale illustrava un universo sereno di un “mondo che abbiamo perduto”, una visione storica unita a un pensiero consolatore, «tanto grande era il dolore di mettere a nudo una vita da dominato». Più si scendeva in basso nella scala sociale e «più la memoria ebraica diventava dolorosa», mentre coloro che coltivavano una memoria felice, «il più sovente provenivano da ambienti agiati, dove i contatti con il popolino musulmano erano generalmente limitati al personale di servizio». Accade così, conclude lo studioso, che «scrivere la storia degli ebrei dell’Oriente arabo mette a nudo i rapporti di servitù mascherati da racconti folcloristici». Una complicazione che ha fin qui impedito di raccontare la vera storia degli ebrei nel mondo arabo.
Bibliografia. Un testo di grande rilievo per quanto riguarda i temi trattati da Georges Bensoussan è lo studio di Bernard Lewis Gli ebrei nel mondo islamico (traduzione di Silvia Bemporad Servi, Sansoni, 1991). Riguarda invece un caso specifico, quello della Libia, il saggio di Renzo De Felice Ebrei in un Paese arabo (il Mulino, 1978). L’esperienza personale del filosofo Michel Foucault è riferita dal suo amico Paul Veyne nel libro Foucault, il pensiero e l’uomo (traduzione di Laura Xella, Garzanti, 2010). Da segnalare anche il saggio di Marcel Gauchet Il disincanto del mondo (traduzione di Augusto Comba, Einaudi, 1992) e le memorie dello storico ebreo Saul Friedländer A poco a poco il ricordo (traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1990).
EI FU…PADRE PIO.
50 anni fa moriva Padre Pio, il frate con le stigmate. La notte del 23 settembre 1968 si spegneva a san Giovanni Rotondo uno dei religiosi più venerati al mondo. Fu osteggiato da parte della Chiesa. È Santo dal 2002, scrive Edoardo Frittoli il 21 settembre 2018 su "Panorama". Quella di Padre Pio da Pietrelcina (oggi San Pio) è una delle più importanti storie di devozione collettiva della storia della Chiesa cattolica. Il suo carisma e la sua presenza nella vita dei fedeli italiani e nel mondo è tuttora fortissimo a 50 anni dalla morte, avvenuta alle prime ore del mattino del 23 settembre 1968. Ripercorriamo le tappe principali della sua vita, dalla vocazione alle stigmate, dalle alterne fortune nei confronti della Chiesa e delle istituzioni ai fenomeni miracolosi che ne hanno costituito l'immensa fama.
La fame e la Fede: dall'infanzia a Pietrelcina al convento. E' uno scenario di fame e povertà quello del piccolo paese di Pietrelcina nel cuore della campagna beneventana quando Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, nasce il 25 maggio 1887. La famiglia del futuro Santo è umilissima e religiosissima, dedita ad una devozione fervente e molto orientata ai riti collettivi delle società rurali arcaiche. Sarà l'incontro ed il dialogo con un frate cappuccino del convento di Pietrelcina, oltre all'influenza della madre Maria Giuseppa (devota a San Francesco), ad indirizzare la scelta incondizionata del figlio verso la vita monastica. Per poter pagare gli studi al figlio, il padre Grazio emigrò negli Stati Uniti, permettendo al giovane Francesco di entrare in seminario a Morcone nel Matese all'inizio del 1903. Il periodo al convento dei frati cappuccini fu caratterizzato dalla ricorrenza di sogni premonitori e visioni che avrebbero anticipato la perenne lotta contro il male, i cui segni si sarebbero presto palesati nel fisico di Frà Pio, che sin dalla tenera età fu tormentato da una grave forma di tubercolosi, patologia dovuta alle privazioni e alle cattive condizioni sanitarie del mondo contadino campano all'inizio del secolo XX. Ordinato sacerdote sette anni più tardi, nel 1910, iniziò per il frate un periodo di malattia che più volte lo mise a rischio della vita. Costretto a rientrare a Pietrelcina, ebbe spesso visioni durante gli accessi di febbre altissima e i primi segni dolorosi delle stigmate a mani e piedi, per quanto ancora invisibili. Nel 1915 sarà chiamato alle armi nel Corpo di sanità a Napoli, ma congedato dopo numerose visite per la grave patologia polmonare in corso. Nel 1916 è assegnato al convento di San Giovanni Rotondo nel Gargano, da dove non si muoverà più sino alla morte.
Le stimmate, i dubbi della Chiesa, l'ascesa del fascismo. Il dolore sofferto negli anni precedenti e l'immedesimazione nella Passione e nel Crocifisso si manifestarono nel fisico di Padre Pio la mattina del 20 settembre 1918, durante uno dei periodi di maggiore sofferenza per l'Italia decimata dalla guerra e dalla furia dell'influenza spagnola. Il francescano fu trovato esanime nella sua cella dai frati cappuccini, le mani i piedi ed il costato grondanti sangue. La seconda vita di Padre Pio, segnata dall'apparizione delle stigmate e dal continuo manifestarsi di visioni e prodigi. Presto il frate di Pietrelcina divenne famoso, e cominciò a ricevere la visita di migliaia di fedeli che attendevano presso il convento di San Giovanni Rotondo la confessione del "frate con le stigmate". Il fenomeno non tardò ad attirare l'attenzione delle gerarchie ecclesiastiche sotto il pontificato di Papa Pio XI negli anni che precedettero il Concordato. In particolare modo fu quella élite in seno alla Chiesa più vicina all'approccio razionalista e scientifico ad esercitare il dubbio sull'autenticità dei prodigi dell'umile e ruvido frate del Gargano. Il più illustre rappresentante di questa corrente fu Padre Agostino Gemelli (il fondatore dell'Università Cattolica di Milano). Con lui si mossero anche il Vescovo di Manfredonia Andrea Cesarano, una delle figure più ostili al frate campano. Prima ancora dell'azione del Sant' Uffizio lo stesso Gemelli si recò a san Giovanni Rotondo per incontrare Padre Pio nell'aprile 1920, ma gli fu impedito di esaminare le stigmate ricevute due anni prima. Sarà nominata anche una commissione mista composta da un medico, uno psichiatra e un teologo al fine di investigare su un fenomeno di venerazione che, negli anni del primo dopoguerra, stava diventando un evento di massa. Alla fine del processo istruttorio, il Sant'Uffizio ritenne la relazione di Padre Gemelli la più attendibile. Un giudizio, quello del medico e teologo, tra i più spietati nei confronti di Padre Pio: il fenomeno delle stigmate veniva ricondotto ad una forma di isterismo psicosomatico. Recentemente, sulla base di studi effettuati su materiali d'archivio conservati in Vaticano, parte della storiografia ha ridimensionato il ruolo di Padre Gemelli come persecutore di Padre Pio, relegandolo ad una posizione marginale nella vicenda. Contemporaneamente all'azione investigativa degli organi ecclesiastici, approvata da un Pio XI da sempre scettico, si verificò nel paese di san Giovanni Rotondo un grave fatto di sangue che sarà all'origine dei sospetti di clericofascismo a carico di Padre Pio. La vittoria dei Socialisti alle elezioni comunali fu all'origine di scontri tra manifestanti e Carabinieri, i quali volevano impedire ai vincitori di issare la bandiera rossa sul pennacchio del Municipio. La situazione degenerò in uno scontro a fuoco nel quale persero la vita 13 civili ed un Carabiniere. Secondo gli accusatori del frate di Pietrelcina (tra i quali lo storico torinese Sergio Luzzatto) i disordini sarebbero nati a causa dell'azione provocatoria di un gruppo di ex combattenti locali, i cosiddetti "Arditi di Cristo", con i quali il frate dei miracoli avrebbe intrattenuto rapporti per tramite del segretario della locale Associazione Mutilati ed Ex Combattenti. L'ascesa del fascismo non fermò, almeno nei primi anni del regime, l'azione coercitiva dell'autorità ecclesiastica nei confronti di Padre Pio, in quegli anni già meta di incessanti pellegrinaggi alimentati dal perdurare delle manifestazioni miracolose del frate come estasi, transverberazioni, preveggenza. L'ombra gettata dal Vaticano sl convento di San Giovanni Rotondo si spingerà fino al divieto per Padre Pio di officiare la Messa in pubblico, limitando al massimo i contatti con i devoti. Durante la lunga fase investigativa emergeranno quelle che saranno forse le più gravi accuse nei confronti della veridicità delle stigmate. In particolare la confidenza raccolta dal farmacista di San Giovanni Rotondo, che avrebbe rivelato di avere venduto dietro promessa di segretezza numerosi flaconi contenenti acido fenico, dalle note caratteristiche anticoagulanti. Una relazione medica svolta nel periodo indicò anche la possibile presenza attorno alle ferite di Padre Pio di tracce di tintura di iodio che, in caso di applicazione prolungata nel tempo, risulterebbe fortemente caustica. Riguardo al fenomeno dei segni del Crocifisso, la scienza medica si dividerà sulla questione, poichè i difensori della veridicità del fenomeno sostengono la ragione che 50 anni di ferite auto-inferte avrebbero portato ad una grave insufficienza funzionale degli arti, cosa non evidente nell'anamnesi su Padre Pio. La sempre crescente popolarità di Padre Pio al di fuori delle mura del convento del Gargano fece progressivamente allentare la morsa alle autorità fasciste, che vedevano nella accanita difesa del frate da parte della massa dei fedeli un grave turbamento dell'ordine pubblico negli anni della cosiddetta "normalizzazione" del regime. Nel 1933 tutte le restrizioni saranno abolite, e Padre Pio riabilitato nella sua piena funzione. Sei anni più tardi veniva eletto Pontefice Eugenio Pacelli (Papa Pio XII) e l'atteggiamento del Vaticano ebbe un totale cambio di rotta essendo il nuovo Papa un estimatore del frate di Pietrelcina.
Storia del "frate che vola". Gli anni della guerra. Quando l'Italia entrò in guerra Padre Pio era ormai venerato e visitato anche da personalità di primissimo piano come Maria José di Savoia o la famiglia reale del Belgio, mentre le terribili privazioni e sofferenze si abbattevano sull'Italia e sul Gargano così come le bombe alleate. Proprio i bombardamenti aerei saranno protagonisti di uno dei più incredibili prodigi attribuiti a Padre Pio. Durante la prima fase dell'occupazione alleata gli Americani del 464th Bomb Group avevano occupato l'aeroporto di Pantanella (Foggia). Al ritorno da diverse missioni nei cieli del Sud Italia, gli aviatori raccontarono di un fenomeno ricorrente vissuto collettivamente nel cielo sopra San Giovanni Rotondo. Gli avieri dissero che, giunti sopra la cittadina pugliese, videro apparire in cielo la figura di un frate barbuto con le braccia aperte e le mani segnate dalle stigmate. Poco dopo la visione, gli aerei avrebbero invertito la rotta da soli e sganciato le bombe in aperta campagna. In quei mesi era presente uno dei più alti ufficiali della 15th Air Force, il Generale Nathan Twining. Venuto a conoscenza dell'incredibile fenomeno il Generale volle investigare di persona prendendo parte ad una missione che aveva per obiettivo un deposito di munizioni proprio nei pressi di San Giovanni Rotondo. Giunti in formazione a poca distanza dal bersaglio, Twining raccontò di aver visto con i suoi occhi il frate con le stigmate fluttuare nel cielo. Dopo la fine della guerra il Generale si recò in visita al monastero di San Giovanni Rotondo e riconobbe in Padre Pio il frate volante. Accolto con sarcasmo dal francescano, che lo accolse sogghignando con la frase "tu sei dunque quello che voleva eliminarci tutti!" il Generale Twining rimase da allora amico del futuro Santo.
Gli anni '50 e gli anni '60. L'apoteosi di Padre Pio e le nuove accuse. La fama di Padre Pio ebbe un'impennata decisiva negli anni del dopoguerra e del "boom" economico. Amplificata dalla larga diffusione dei mass media negli anni '50, la figura del frate di Pietrelcina fu celebrata oltre che per i miracoli ed i prodigi, anche per la realizzazione di un grande centro di assistenza fortemente desiderato dal frate che provò malattia, dolore e miseria negli anni della sua gioventù. Il 5 maggio 1956 fu inaugurata a San Giovanni Rotondo la "Casa Sollievo della Sofferenza", un centro ospedaliero polispecialistico ad oggi fiore all'occhiello della Sanità italiana ed europea. Durante la prima metà degli anni '50 l'attività spirituale del Frate di Pietrelcina raggiunse l'apice, con l'organizzazione dei cosiddetti "Gruppi di Preghiera" a lui dedicati, che a partire dall'Anno Santo 1950 si diffusero capillarmente. Quando la gloria di Padre Pio fu universale, la morte di Papa Pio XII segnò un nuovo periodo di ostilità da parte delle gerarchie ecclesiastiche e del nuovo pontefice Giovanni XXIII, che non esiterà a definire Padre Pio un "Idolo di Stoppa". Nel 1960 il Sant'Uffizio richiese nuovamente una relazione su quanto accadeva a San Giovanni Rotondo, dopo che nel dossier erano state aggiunte prove giudicate "compromettenti" come alcune registrazioni di presunti rapporti fisici tra il frate e le "pie donne" a lui più vicine nelle funzioni quotidiane. Monsignor Carlo Maccari interrogò Padre Pio nell'estate 1960 e con lui quanti ebbero stretti rapporti personali con il frate dei miracoli. La relazione presentata al Sant'Uffizio fu assolutamente negativa e al rapporto seguiranno dure misure restrittive soprattutto riguardo alle apparizioni pubbliche di Padre Pio, alla mancata osservazione regole monastiche, alla riduzione dell'orario delle Messe officiate dal frate di Pietrelcina fino alla revoca delle azioni della "Casa Sollievo della Sofferenza" che verranno passate allo Ior, la banca vaticana. La decisione del Vaticano provocò dure forme di protesta nella massa dei fedeli e l'organizzazione di manifestazioni di piazza. L'isolamento di Padre Pio terminò con la repentina morte di Papa Roncalli, sostituito dall'ex Arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini (Paolo VI), che ebbe occasione di incontrare Padre Pio e dimostrare stima e riguardo nei confronti della sua figura. Nel 1964 le restrizioni furono tolte e Padre Pio poté ritornare in mezzo alla massa di fedeli che ogni giorno si recava a San Giovanni Rotondo per confessarsi.
Morte di Padre Pio. Nonostante la relativa tranquillità degli ultimi anni della vita di Padre Pio, la sua figura non sarà mai abbandonata dai sospetti di impostura che lo accompagnarono per gran parte della prodigiosa vita. Parallelamente peggiorò il suo quadro clinico, da sempre caratterizzato da una salute decisamente precaria. Non presenziò neppure alla Messa solenne in onore del cinquantesimo anniversario dell'apparizione delle stigmate e il 22 settembre 1968 fu colto da grave insufficienza respiratoria causata da una forma di asma bronchiale acuto. L'ultima apparizione in pubblico avvenne quella stessa domenica, quando stravolto nel fisico e con un filo di voce, intonò la Praefatio prima di collassare sull'altare. Confortato dalla presenza al capezzale di Padre Pellegrino da Sant'Elia, Padre Pio esalò l'ultimo respiro seduto sulla poltrona nella sua cella alle 2:30 del mattino del 23 settembre 1968.
I miracoli prima e dopo la morte. Alle esequie a San Giovanni Rotondo parteciparono più di 100.000 fedeli, mentre nei giorni dell'ostensione del corpo le stimmate erano sparite dalle mani e dai piedi del frate. La fine della vita terrena di Francesco Forgione non sarà tuttavia motivo di obliò nel culto del francescano dei prodigi. Molti saranno infatti i fedeli a ritenersi miracolati dopo la preghiera rivolta al futuro San Pio. Impossibile elencare tutti i casi, dalle guarigioni alla salvezza da pericoli mortali (come nel caso di numerosi soldati durante la guerra) fino alla preveggenza, alla capacità di "leggere nel cuore" e ad una straordinaria ipertermia corporea nelle fasi di estasi. Molti di questi fenomeni sono rimasti nella storia, in particolare nei frangenti in cui la scienza medica ha evitato di pronunciarsi. E' questo il caso di una bambina siciliana nata senza pupille nel 1940 alla quale fu ridonata la vista dopo la guerra in occasione dell'incontro con Padre Pio. Tra le testimonianze sull'attività soprannaturale del frate, molte si concentrano sulla facoltà di bilocazione, ossia di apparire in luoghi molto lontani da San Giovanni Rotondo. Uno dei casi più famosi è certamente quello vissuto e raccontato dal Beato Don Orione, il quale sostenne di aver incontrato Padre Pio in San Pietro in occasione della cerimonia di beatificazione di Santa Teresa di Lisieux mentre il frate si trovava fisicamente nel convento di san Giovanni Rotondo. Non mancheranno nella lunga lista dei fenomeni legati all'ubiquità di Padre Pio testimonianze illustri come quella del Generale Luigi Cadorna, che avrebbe tentato il suicidio in seguito alla disfatta di Caporetto. Quando il comandante supremo fu sul punto di premere il grilletto gli sarebbe apparso un frate che con parole suadenti lo avrebbe convinto a desistere. Anni dopo Cadorna sarebbe andato in visita a Padre Pio, che lo accolse con la consueta semplice ironia che lo contraddistingueva, esclamando "L'abbiamo scampata bella quella notte, Generale!".
Da frate a Santo. Giovanni Paolo II e la canonizzazione di Padre Pio. Karol Wojtyla incontrò personalmente Padre Pio nel 1948, anno del trentennale dell'apparizione delle stigmate. Il futuro Papa (che si racconta ebbe la preveggenza del frate di Pietrelcina sulla sua elezione e sull'attentato) fu uno dei massimi estimatori del frate dei miracoli. Nel 1974 visitò la sua tomba quando era Arcivescovo di Cracovia, subito dopo aver introdotto la causa di beatificazione. La visita si ripeterà nel 1987 per il disappunto di buona parte delle gerarchie ecclesiastiche, nella anno in cui da San Giovanni Rotondo erano passati più di un milione di fedeli a quasi 20 anni dalla morte di Padre Pio. I gruppi di preghiera durante gli anni '90 supereranno i 2.500 in tutto il mondo. Un fenomeno di devozione collettiva incrollabile, che porterà prima alla cerimonia di beatificazione il 2 maggio 1999 e infine alla canonizzazione del 16 giugno 2002, per la quale fu decisivo il riconoscimento del miracolo della guarigione di un bambino di San Giovanni Rotondo, Matteo Pio Colella, i cui sintomi di una fatale forma di meningite batterica fulminante. Il piccolo miracolato avrebbe riconosciuto in Padre Pio la figura del frate barbuto che venne a visitarlo e rassicurarlo durante il coma.
I TESTIMONI DI GEOVA.
Testimoni di Geova. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I Testimoni di Geova sono un movimento religioso cristiano, teocratico, millenarista e restaurazionista; originariamente denominati "Studenti Biblici", derivano dalla congregazione di un gruppo di studenti della Bibbia fondata nel 1870 in Pennsylvania da Charles Taze Russell, e sostengono di praticare il ripristinato cristianesimo del I secolo. Secondo il rapporto del Corpo direttivo, al 2017, sono 8.457.107 i testimoni di Geova attivi in tutto il mondo.
Denominazione. In origine i testimoni di Geova erano noti come Studenti Biblici. Il nome attuale fu adottato ufficialmente il 26 luglio 1931 all'assemblea svoltasi a Columbus, durante la quale Joseph Franklin Rutherford, secondo presidente della Watchtower Society, pronunciò il discorso Il regno, la speranza per il mondo, con l'accettazione della risoluzione Un nuovo nome, nella quale si dichiarava: "Desideriamo essere conosciuti e chiamati con il nome, cioè, testimoni di Geova". La scelta di quel nome si ispirava a Isaia 43.10, passo che, nella traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture edizione 2017, recita: «"Voi siete i miei testimoni", dichiara Geova, "...Prima di me non è stato formato nessun Dio, e dopo di me non ce n'è stato nessuno".» Il nome "Geova" è la resa italiana del tetragramma biblico, la sequenza di lettere che compongono il nome del dio giudaico-cristiano, con l'aggiunta delle vocali di "Adonai". Occorre precisare che la corretta pronuncia del nome di Dio (יהוה, YHWH), contenuto nel solo testo ebraico 6.827 volte, nel corso dei secoli è andata perduta. La ragione di ciò va individuata nell'atteggiamento degli scribi e dei Masoreti, i quali temevano che l'uso del nome proprio di Dio comportasse la violazione del divieto biblico di nominare il nome di Dio invano; pertanto evitarono di utilizzarlo, sostituendolo con il termine "Signore". Il nome Geova d'altronde, pur vantando un uso addirittura antecedente alla fondazione del movimento dei Testimoni di Geova ad esempio presso i teologi medioevali non rappresenta neppure per i testimoni l'esatta pronuncia del nome di Dio. Questi affermano che il non conoscere la giusta vocalizzazione del nome divino non autorizza a non usarlo. Per essi l'uso del nome di Dio ha valenza teologica per identificare e santificare il Dio della Bibbia; l'importante per loro è che tale nome sia usato e conosciuto nella propria lingua e per questo accettano l'uso del termine "Geova".
Storia. Fondazione e crescita. Il Movimento Studenti della Bibbia è stato fondato da Charles Taze Russell nel 870 in Pennsylvania. Russell formò con pochi conoscenti di Pittsburgh e di Allegheny, fra cui il padre, un gruppo di studio della Bibbia, i cui membri vennero chiamati in seguito Studenti Biblici. L'inizio del movimento seguì ad un periodo di crisi spirituale di Russell, il quale era stato educato alla religione presbiteriana dai genitori, ma si era unito successivamente alla Chiesa congregazionalista. Egli, non riuscendo a conciliare l'insegnamento del tormento eterno predicato da tutte le chiese dell'epoca con la descrizione della Bibbia di un Dio amorevole, stava perdendo la fede. Una predica di Jonas Wendell, ministro della Chiesa cristiana avventista di George Storrs, lo aiutò a superare tale crisi, ristabilendo in lui la fede nell'ispirazione divina della Bibbia. Convinto della necessità di studiare la Bibbia in quanto unica fonte riportante la parola di Dio, e convinto che nessuna delle religioni esistenti fosse depositaria della verità, ma che ognuna fosse partecipe di una sua parte, nel 1870 fondò il movimento da cui sarebbero derivati gli attuali Testimoni di Geova, adottando la Bibbia come unico libro di testo per le loro credenze. Russel collaborò con l'avventista Nelson H. Barbour, direttore della rivista Herald of the Morning di Rochester e membro della Chiesa cristiana avventista di George Storrs, che finanziò, in qualità di condirettore per via di alcune comunanze di vedute religiose, nella pubblicazione del libro Three Worlds, and the Harvest of This World[34] nel quale si esponeva un dettagliato parallelo tra le forme di governo succedutesi a Roma nel corso dei secoli e quanto riportato nelle profezie bibliche degli ultimi tempi. Nel luglio 1879, a seguito di disaccordi dottrinali sul riscatto di Cristo, si dissociò e fondò una propria rivista, la Zion's Watch Tower and herald of Christ's presence (in italiano La Torre di Guardia di Sion ed araldo della presenza di Cristo), iniziando un'opera di divulgazione delle sue dottrine che ebbe eco anche in Canada ed in Inghilterra. Russell ne fu direttore ed editore e fu aiutato da cinque collaboratori. Del primo numero furono stampate 6000 copie. Nel 1884 fondò una società per la pubblicazione dei suoi scritti, la Zion's Watch Tower Tract Society (Società del libro della Torre di Guardia di Sion), in conformità alla legge sugli enti non lucrativi del Commonwealth di Pennsylvania e, nel 1914, la International Bible Students Association. Russel fu presidente della società, la moglie ne fu segretaria; ad essi si aggiunsero un vice presidente e 7 direttori. Verso la fine degli anni novanta del XIX secolo l'attività di evangelizzazione e di promozione della congregazione iniziò ad essere perseguita anche attraverso assemblee pubbliche, mentre dall'inizio del XX secolo ebbe eco anche su molti quotidiani americani, canadesi ed inglesi del tempo, che pubblicarono regolarmente i sermoni di Russell. Secondo le fonti ufficiali del movimento nel 1913, tramite 2000 giornali, i sermoni di Russell raggiunsero quindici milioni di lettori. In poco tempo, come rileva anche il CESNUR, Russell diventò uno dei più noti predicatori degli Stati Uniti. Nel 1912 gli studenti biblici produssero un film chiamato "Fotodramma della Creazione", un insieme di diapositive e filmati sincronizzati con registrazioni musicali e discorsi incisi su dischi. Nel gennaio 1914 ne venne presentata la prima a New York e, secondo le fonti dei testimoni, fu visto gratuitamente da circa 9.000.000 di persone. Alla morte di Russell, avvenuta nel 1916, gli succedette alla presidenza della Società Torre di Guardia il giudice Joseph Franklin Rutherford. Rutherford rilanciò le profezie bibliche in cui credeva Russell, quindi riorganizzò gli studenti biblici per un'opera di predicazione mondiale.
Dopo la morte del fondatore. Dopo la morte di Russell l'organizzazione divenne sempre più teocratica e basata sulla nozione di ubbidienza alla volontà di Dio e sul fervore missionario. Nel corso degli anni venti le innovazioni introdotte da Rutherford provocarono la separazione dal movimento di alcuni gruppi, tra cui la Chiesa del Regno di Dio (conosciuta in alcuni paesi come Assemblea Filantropica degli Amici dell'Uomo), la Chiesa cristiana millenarista e la Dawn Bible Students Association. Alcune delle innovazioni erano legate alla predicazione di casa in casa, che con Rutherford divenne requisito fondamentale per ogni appartenente del gruppo compresi gli anziani, ovvero coloro i quali avevano compiti di responsabilità all'interno della comunità. Nel 1921 gli Studenti Biblici, attraverso le pubblicazioni Watch Tower, presentarono in modo negativo le vaccinazioni. Solo il 1º novembre 1953 la Torre di Guardia si espresse sull'argomento, spiegando che la decisione di vaccinarsi è una questione personale e non religiosa. Il fatto che le vaccinazioni fossero di fatto proibite negli anni venti del secolo scorso è ancora oggetto di discussioni al di fuori del movimento. Nel 1925 Rutherford pubblicò il libro Milioni ora viventi non moriranno mai[45]: in esso esponeva 477 prove, tratte da personali interpretazioni della Bibbia e della storia, sulla base delle quali sosteneva che il mondo sarebbe presto finito e che a molti in vita in quell'anno sarebbe stata offerta l'opportunità di non morire, ma di entrare nel pacifico governo di Geova. Rutherford narrava l'imminente risurrezione dei fedeli dell'antichità, come Abramo, Giuseppe e Davide, che sarebbero stati "principi in tutta la terra". Per fornire un degno alloggio ai patriarchi della fede cristiana, Rutherford donò nel 1930 alla WTBTS Beth Sarim, la villa di San Diego dove passava l'inverno, mantenendone l'usufrutto. L'idea dell'imminente resurrezione dei "principi" venne modificata nel 1950, a partire dal quale i Testimoni ritengono che queste persone saranno risuscitate dopo "Har-maghedon", il giudizio finale di Dio. Tra il 1926 ed il 1927 i testimoni di Geova abbandonarono il formale abito scuro da cerimonia con cui fino ad allora gli oratori della congregazione tenevano discorsi pubblici. Nel 1927 sulla base dell'interpretazione del testo biblico di Levitico 3:17 ed Atti 15:20,29, iniziarono un percorso esegetico che nel 1945 li porterà a definire la propria posizione di rifiuto del sangue sia come cibo infatti non mangiano sanguinacci o cibi preparati con il sangue animale sostenendo che questo era il rifiuto dei cristiani del I secolo come fa rilevare Tertulliano nel suo Apologetico e Marco Minucio Felice in Ottavio, sia nelle trasfusioni. Dal 1928 cessarono di festeggiare il Natale, ritenuto festa pagana, in quanto derivante dalla festa di Saturno, di Mitra e del Sol Invictus, e ritenuto non indicante il giorno esatto della nascita di Gesù. Allo stesso modo anche i compleanni non furono più osservati. Fu inoltre messo in discussione il simbolo con "croce e corona", che era stato stampato sulla copertina della Torre di Guardia dal numero di gennaio 1891 e che cessò di essere usato nel 1931. Dal 1930 furono introdotte una serie di rettifiche dottrinali. Fu ribadito che Russell non era lo schiavo fedele e discreto predetto nel Vangelo di Matteo. Venne affermato che questa profezia era riferita non ad un singolo ma ad un gruppo di persone, ovvero i 144.000 santi descritti nel libro di Rivelazione 7:4 e 14: 1-3 che sarebbero andati in cielo dopo la morte. Nel 1931, durante un Congresso a Columbus, fu adottato ufficialmente il nome di Testimoni di Geova. Dal 1933 i testimoni di Geova furono oggetto di persecuzione da parte della Germania nazista. Il loro movimento fu bandito, principalmente a causa del rifiuto di servire nell'esercito - circa 250 furono giustiziati per renitenza alla leva - e di riconoscere lo Stato come suprema autorità. Dei circa 25.000-30.000 adepti componenti l'allora comunità tedesca dei testimoni di Geova, diecimila furono arrestati; 1650 di essi (compresi quelli provenienti dai paesi occupati) perirono nei lager e nei campi di sterminio e nelle prigioni naziste[50]. Per essere scarcerati, a differenza di ciò che accadde con altri gruppi di internati, i testimoni di Geova potevano firmare un documento di abiura con il quale attestavano di non far più parte della loro organizzazione, cosa che rifiutarono di fare. Nel 1935 la grande folla descritta nel capitolo 7 del libro della Rivelazione fu identificata con coloro che avevano la speranza di vivere per sempre sulla terra: si affermò che, dopo la distruzione totale degli attuali regni terreni, i sopravvissuti al Giudizio e i risorti avrebbero continuato a vivere sulla Terra eternamente in condizioni paradisiache in un mondo perfetto retto da un governo teocratico divino. Durante la celebrazione della Cena del Signore, chiamata Commemorazione, solo i membri scelti per la vita celeste - i 144.000 descritti nel libro di Rivelazione, attualmente circa 8.000 persone in tutto il mondo - avrebbero potuto prendere il pane e il vino. Il ritorno di Israele in Palestina, annunciato da Russell, fu considerato simbolico e non più letterale. Dal 1936 adottano l'interpretazione secondo cui Gesù fu ucciso non su una croce di legno, bensì su un albero o palo. Dal 1942 pubblicarono la Bibbia di Re Giacomo, attualmente la versione più diffusa nel mondo anglosassone, essendo la versione ufficiale autorizzata dalla Chiesa anglicana. Questa versione in lingua inglese è ancora stampata e diffusa fra Testimoni di Geova come opera di comparazione per lo studio delle Scritture. Nel 1950 fu pubblicata la prima parte (Il Nuovo Testamento) di una loro traduzione biblica ovvero Traduzione del Nuovo Mondo delle Scritture greco-cristiane in inglese e l'opera completa venne pubblicata nel 1961 e successivamente tradotta in italiano. I Testimoni di Geova da allora utilizzano principalmente questa versione della Bibbia (tradotta e redatta da autori anonimi, come avviene per tutte le pubblicazioni del movimento, «al fine di non richiamare l'attenzione sulla persona», deviandola dal testo). Questa traduzione ha alcune particolarità che hanno attirato critiche da parte di studiosi appartenenti ad altre confessioni religiose. Nel 1953 abbandonarono ufficialmente l'idea che il trono di Geova Dio fosse localizzato nelle Pleiadi, considerato da molti il centro dell'universo fino agli anni trenta. Nel 1968 assunsero un atteggiamento critico nei confronti del trapianto degli organi, non esplicitamente vietato ai membri del movimento, rivisto nel 1980 dove si metteva in evidenza che era una questione di coscienza individuale. Nel 1973 condannarono, sulla base dell'interpretazione del passo biblico 2 Corinti 7:1, la pratica di fumare, considerando il fumo una "contaminazione di carne e di spirito" e pertanto un atto impuro spiegando che un associato poteva essere per tale atto disassociato (espulsione dalla congregazione cristiana). Nel 1982 i testimoni concepiscono il MEPS, un sistema editoriale multilingue, non commerciale, per la gestione simultanea di più di 700 lingue diverse per la diffusione della Bibbia e di pubblicazioni bibliche nel mondo. Nel 2017 nell'edizione per lo studio della Torre di Guardia di febbraio, alla pagina 26, paragrafo 12, si afferma pubblicamente che il Corpo direttivo non è ispirato e nemmeno infallibile.
Dottrina. I testimoni di Geova affermano di professare il cristianesimo del I secolo. Il loro movimento pone l'accento su una interpretazione delle Sacre Scritture, considerate come parola di Dio infallibile. L'attività interpretativa è svolta dal corpo direttivo dei Testimoni di Geova nella sede centrale dei testimoni di Geova a Warwick, New York.
Interpretazione della Bibbia. Il metodo dello Studio personale della Bibbia. La Traduzione del Nuovo Mondo, e una pubblicazione ausilio per lo studio biblico, Cosa insegna realmente la Bibbia? La questione della corretta interpretazione della Bibbia è centrale nel movimento dei testimoni di Geova: la sua stessa fondazione si deve alla volontà di ritornare ad una lettura considerata più esatta del testo biblico attraverso il suo studio da parte di un gruppo di devoti, quando il movimento non aveva ancora un nome ufficiale, studenti biblici. Essendo lo studio della Bibbia l'esigenza principale di ogni fedele, vengono stampate e diffuse gratuitamente copie della Bibbia in tutte le principali lingue del mondo (più di 149 lingue). I testimoni hanno inoltre un sito web ufficiale[59] che consente sia la lettura della loro traduzione della Bibbia on-line in moltissime lingue sia il raffronto di ogni singolo passo con analoghe citazioni in ogni altro punto della Bibbia. Inoltre per i testimoni di Geova è il corpo direttivo (che è lo "schiavo fedele e saggio" menzionato nei vangeli Matteo 24:45 e Luca 12:42) a dare l'interpretazione delle Sacre Scritture, i fedeli accettano tali interpretazione. Il corpo direttivo si riunisce collegialmente quando si tratta di riesaminare insegnamenti biblici che includono l'esatta comprensione delle profezie dei tempi di Dio riguardanti il suo proposito per la terra, che si realizza dopo il giorno del giudizio, ad Armaghedon. Non hanno la pretesa di essere depositari di verità, sulle profezie, ma si ritengono usati da Dio per discernere al suo tempo stabilito le istruzioni, che essi ritengono provenire dallo spirito santo, dal quale si ritengono guidati, non hanno un leader, all'interno del gruppo, né esiste un voto di maggioranza per modificare intendimenti preesistenti o produrne di nuovi, ma aspettano che tutti siano concordi prima di mettere sulla pagina stampata quello che loro ritengono debba essere l'illuminazione di provenienza divina per quelle scritture esaminate , nell'agire così soddisfano i requisiti espressi nei passi delle lettere di San Pietro: "Nessuna profezia della Scrittura sorge da privata interpretazione" Questo significa che anche se i cambiamenti ritenuti necessari sono rimessi all'approvazione del collegio, nessuno è estromesso dal proporre suggerimenti migliorativi purché ci sia certezza che tale intendimento sia in perfetta sintonia con le scritture e in esso vi si riconosca la guida dello spirito santo. L'umiltà del Corpo Direttivo concede con la rubrica domande dei lettori, mediante lettere, a tutti di dimostrare se in quella determinata situazione sono stati usati da Dio, in base al principio biblico che tutte le sue creature sono considerate come argilla nelle mani di un grande vasaio, supposto che questo vasaio sia Dio stesso. La posizione dello Schiavo fedele e saggio resta però massimamente autorevole, in altre parole, chiunque sia la persona che dimostra inesatto o incompleto un intendimento su un versetto biblico, sarà poi sempre il corpo direttivo a dover decidere in ultima analisi, prima di passare ad una effettiva pubblicazione su Torre di Guardia o su libri. Tale posizione deriva dalla convinzione che lo Spirito Santo guidi i suoi servitori tramite l'organizzazione dei testimoni di Geova. I testimoni sono per questo vivamente incoraggiati a studiare la Bibbia ogni giorno sia attraverso la lettura diretta del testo sia attraverso i testi pubblicati dalla società dei testimoni stessi. In queste pubblicazioni, corredate da versetti della Bibbia (principalmente tradotti sulla base della versione nota come Traduzione del Nuovo Mondo) e con domande predisposte, viene esplicato il punto di vista biblico dei testimoni agli aderenti. L'attività di studio riveste tale importanza (poiché ritenuto edificante per la fede) che vengono indicati quattro modi per fare rifornimento regolarmente: «Primo, dobbiamo studiare a livello personale e conoscere bene la Bibbia leggendola ogni giorno. Certo, non basta semplicemente leggere; dobbiamo capire ciò che leggiamo. Secondo, è necessario che facciamo buon uso della sera per l’adorazione in famiglia. Ogni settimana ci fermiamo a fare il pieno o mettiamo solo pochi litri di carburante nel serbatoio? Terzo, dobbiamo assistere alle adunanze di congregazione. Quarto, abbiamo bisogno di meditare con calma, in un ambiente tranquillo, su Geova e sul suo modo di pensare e di agire.» (La Torre di Guardia, 15 giugno 2010, p. 7). Inoltre settimanalmente, ad una loro adunanza studiano un argomento biblico specifico basato sulla loro rivista La Torre di Guardia, partecipando con commenti basati su domande prestabilite dall'articolo della rivista e ampliando i concetti con versetti in tema all'argomento trattato. Le versioni bibliche relative a questi articoli "Torre di Guardia" contemplano oltre che la loro Traduzione del Nuovo Mondo, anche diverse versioni di altre confessioni religiose.
Trinità. I testimoni di Geova credono all'unicità di Dio e rigettano la dottrina trinitaria, secondo la quale Dio sarebbe uno e allo stesso tempo trino (Padre, Figlio e Spirito Santo), sulla scorta di un'analisi della Bibbia che né esplicita né lascia supporre il concetto trinitario. Essi affermano che il Padre ovvero Geova, è la Causa Prima, auto-esistente, eterno, onnisciente ed onnipotente. Egli non è onnipresente, ma ha un corpo spirituale che risiede in un luogo specifico[62]. Ha creato il mondo con il Figlio, Gesù, il quale è la prima delle creature del Padre oltre che unigenito creato direttamente da Lui. Affermano questo sulla base dei seguenti passi: nell'Apocalisse viene chiamato "il Principio della creazione di Dio" Apocalisse 3:14 e dall'apostolo Paolo nella lettera ai Colossesi "Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura" Colossesi 1:15). Prima di incarnarsi, Gesù era noto come il logos o "la Parola". Incarnatosi, perì per riscattare i peccati del genere umano. Inoltre i testimoni identificano Gesù con l'arcangelo Michele, (Letteralmente dall'ebraico: "Chi è simile a Dio?") capo dell'esercito angelico che combatterà contro Satana e i suoi demoni "alla fine dei tempi", nel momento indicato dal libro Apocalisse (o Rivelazione). I testimoni asseriscono che lo Spirito Santo di Dio è la sua forza attiva e non una persona distinta da Lui quindi né il Figlio coincide con il concetto biblico di Dio né lo Spirito Santo. Il Giovanni 1:1 viene tradotto dai testimoni di Geova: "In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era un dio". Sostengono che tra "il Dio" e "un dio" c'è una netta distinzione, l'appellativo utilizzato per il padre, τον θεον (ton theon), differisce da quello utilizzato per la parola, θεος (theos) che ne sottolinea la natura divina e spirituale ma non l'eguaglianza a Dio. Sostengono inoltre che molte altre traduzioni traducono il passo di Giovanni come lo traducono i testimoni (dio con d minuscola; inglese: The Word was a god). L'opuscolo Cosa richiede Dio da noi dice testualmente
«Trinità: Geova è forse una Trinità, tre persone in un Dio? No! Geova, il Padre, è il solo vero Dio» (Giovanni 17:3; Marco 12:29)
«Gesù è il Figlio primogenito di Dio, e gli è sottomesso» (1 Corinti 11:3)
«Il Padre è maggiore del Figlio.» (Giovanni 14:28)
«Lo spirito santo non è una persona; è la forza attiva di Dio.» (Genesi 1:2; Atti 2:18).
Inferno e immortalità dell'anima. Una delle principali dottrine che distingue i testimoni di Geova dalle altre chiese della cristianità[72], è la dottrina dell'inferno e il relativo tormento eterno per tutti coloro che nella vita terrena sono stati peccatori impenitenti e commesso peccati mortali e che quindi l'anima sopravviva alla morte del corpo. I testimoni di Geova asseriscono che anche questa credenza trova radici nel paganesimo e, secondo il loro punto di vista, «risale alle antiche civiltà mesopotamiche dei sumeri e dei babilonesi. In seguito fu adottata dai greci, i cui filosofi, come Platone, perfezionarono la teoria. La loro raffinata credenza dualistica in “corpo e anima” entrò a far parte delle credenze apostate degli ebrei». Il pensiero dei testimoni su questa dottrina è espresso in molte loro pubblicazioni. La loro rivista ufficiale, La Torre di Guardia parlando dell'inferno e del tormento eterno osserva: «Cosa dice la Bibbia? “Quelli che sono vivi sanno che moriranno, mentre i morti non sanno nulla [....] poiché non c’è alcuna azione, né progetto, né conoscenza, né sapienza nello Sceòl, dove tu stai andando”. — Ecclesiaste 9:5, 10, La Bibbia Concordata. Il termine ebraico Sceol, che si riferisce alla “dimora dei morti”, è tradotto “inferno” o “inferi” in alcune versioni della Bibbia. Cosa rivela questo passo sulla condizione dei morti? Vanno a soffrire nello Sceol per espiare i loro errori? No, visto che “non sanno nulla”. Ecco perché il patriarca Giobbe, in preda a terribili sofferenze dovute a una grave malattia, implorò Dio: “Oh, ti piacesse nascondermi nell’inferno [ebraico, Sceol]”. (Giobbe 14:13, Sales) Giobbe 14:13Questa richiesta non avrebbe senso se lo Sceol fosse un luogo di tormento eterno. In senso biblico l’inferno è semplicemente la comune tomba del genere umano, dove ogni attività cessa. Questa definizione di inferno non è forse più logica e in armonia con le Scritture? Quale delitto, per quanto orribile, potrebbe indurre un Dio di amore a torturare una persona in eterno? (1 Giovanni 4:8) Ma se il concetto di un inferno di fuoco è errato, che dire della vita in cielo? Confrontate questi versetti biblici: Salmo 146:3, 4; Atti 2:25-27; Romani 6:7, 23» (La Torre di Guardia 1º novembre 2009, pag. 2). Inoltre il pensiero dei testimoni sulla dottrina della immortalità dell'anima è riassunto nella rivista La Torre di Guardia del 1º luglio 2011, pag. 7 da ciò che essi considerano «tre verità fondamentali contenute nella Bibbia: È proposito di Dio che la terra sia l'eterna dimora dell'umanità, non un temporaneo banco di prova atto a stabilire chi merita di vivere con lui in cielo. Se Adamo ed Eva avessero ubbidito alle leggi di Dio sarebbero ancora vivi qui su una terra paradisiaca. — Genesi 1:27, 28; Salmo 115:16. Mentre quasi tutte le religioni insegnano che l'uomo ha un'anima, una sorta di entità immateriale che risiede dentro di noi, la Bibbia insegna qualcosa di più semplice. L'uomo è “un'anima vivente” tratta “dalla polvere del suolo”. (Genesi 2:7) La Bibbia non dice mai che l'anima sia immortale. Dice che può essere uccisa o distrutta, cessando completamente di esistere. (Salmo 146:4; Ecclesiaste 9:5, 10; Ezechiele 18:4, 20) La prima anima, Adamo, morì e tornò alla polvere da cui era stata creata. Tornò a uno stato di inesistenza. — Genesi 2:17; 3:19. Le prospettive di vita futura dell'uomo non dipendono dall'avere un'anima immortale che va in un mondo spirituale, ma dalla promessa divina di risuscitare i morti su una terra paradisiaca. — Daniele 12:13; Giovanni 11:24-26; Atti 24:15.»
Predicazione. Predicazione casa per casa (Sofia). Ogni testimone di Geova attivo della congregazione dedica del tempo, come servizio volontario, alla predicazione di ciò che è definita la buona notizia del Regno, ovvero l'annuncio della speranza biblica di un nuovo mondo giusto e migliore, agendo in qualità di proclamatore della Parola di Dio. La predicazione è svolta di "casa in casa", ovverosia mediante il recarsi fisicamente di abitazione in abitazione per parlare con i residenti ed informarli del contenuto del messaggio biblico. Questa modalità di predicazione è stata scelta perché ritenuta praticata dai primi cristiani[75]. In queste circostanze si avvalgono della Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture e di pubblicazioni come La Torre di Guardia, Svegliatevi!, opuscoli, libri e volantini che lasciano gratuitamente a chi li ascolta. Inoltre, parlano del loro messaggio anche in maniera informale, facendo chiamate telefoniche o scrivendo lettere a persone del territorio assegnato alla Congregazione.
Separazione dal mondo. Espositori mobili con in mostra alcune tra le principali pubblicazioni dei testimoni di Geova. Oltre alla predicazione di casa in casa i testimoni di Geova predicano nelle piazze e nei centri urbani - Milano 2013, Corso Buenos Aires, Italia. «I Testimoni di Geova vivono in mezzo alla società umana, devono amare gli altri loro simili come fa Dio; Ma il vero cristiano non ama le loro azioni malvagie. Non ne adotta i modi di pensare e di agire e non ne condivide le aspirazioni. Non partecipa affatto alla loro religione e alla loro politica corrotta. E anche se deve lavorare nel mondo commerciale per guadagnarsi da vivere, non ricorre a pratiche disoneste, né fa dell'acquisto di beni materiali lo scopo principale della sua vita. Essendo a favore del nuovo sistema di Dio, evita la cattiva compagnia dei sostenitori del mondo di Satana. (1 Corinti 15:33; Salmo 1:1; 26:3-6, 9, 10) Di conseguenza, vive nel mondo di Satana ma non ne fa parte». I testimoni di Geova predicano la separazione dal "mondo" sulla base della loro interpretazione della Bibbia, intendendo con tale parola la società umana estraniata da Dio, più specificatamente:
1) Tutte le organizzazioni religiose diverse dalla loro, che, secondo i testimoni, insegnano dottrine false. Per questo motivo vengono chiamate secondo quanto afferma Rivelazione 16:19: Babilonia la Grande che identificano come l'impero mondiale della falsa religione[81] non sostenendo né partecipando ai movimenti per l'unione delle fedi.
2) Le organizzazioni e i governi politici, che si propongono come soluzione ai problemi dell'umanità comprese le Nazioni Unite (alla quale tuttavia hanno aderito come ONG per alcuni anni). Per le stesse ragioni - ma anche per il rispetto di ulteriori prescrizioni bibliche in tal senso - si astengono dall'uso delle armi e dall'adesione a corpi militari, praticando l'obiezione all'uso delle armi. Si astengono dall'esprimere il proprio voto politico, perché solo la legge di Dio è capace o degna di governare il mondo. Rispettano le decisioni prese dalle autorità governative, in quanto ritengono che esse derivino la loro autorità da Dio. I testimoni mostrano quindi sottomissione relativa alle autorità governative, ma riconoscono che solo Dio merita sottomissione assoluta. Quando una legge umana contrasta con una legge divina contenuta nella Bibbia, rispettano la divina;
3) Il sistema commerciale avido e corrotto. A tal proposito è opportuno segnalare che la vita dei fedeli è principalmente incentrata sulla spiritualità, per cui gli stessi sono invitati a mantenere una condotta frugale per "non essere distratti dalle cose materiali".
Millenarismo, escatologia, salvezza. È ricorrente nei testimoni di Geova, che si muovono entro un orizzonte di pensiero creazionista, il riferimento millenaristico agli "ultimi giorni" di questo mondo, dopo i quali sorgerà un nuovo "Regno di Dio" retto da Cristo, il quale dominerà la terra con giustizia e pace[88] ed abbatterà il "mondo malvagio". Geova interverrà per riportare il mondo allo stato precedente alla prima disubbidienza, adempiendo così, nella concezione dei testimoni, quello che Gesù ha insegnato nella sua preghiera, il Padre nostro: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà anche in terra come è fatta in cielo (Matteo 6:9-10). Cristo, presente oggi solo come governante in cielo in attesa di intervenire, nel giorno denotato nell'Apocalisse come Armageddon giudicherà quale Re e Sommo Sacerdote investito da Geova le persone di questa terra. In merito agli eventi attesi del ritorno di Gesù e della fine del "mondo malvagio" i testimoni di Geova non parlano di fine del mondo bensì di "fine del sistema di cose". Infatti, per i testimoni di Geova, la fine non significherà la distruzione del pianeta Terra o della vita su di essa, come inteso ad esempio da alcune altre confessioni, ma più semplicemente la fine di un sistema di vita basato sull'egoismo, la fine della malvagità con l'annientamento di tutti gli esseri umani che non hanno voluto riconoscere l'autorità e la sovranità del loro creatore Geova e che saranno da Lui giudicati, la distruzione di tutti i sistemi politici, economici e religiosi oggi esistenti e l'avvento letterale del Regno teocratico di Dio sulla Terra. Più specificatamente, secondo la loro dottrina, nel 1914 Gesù Cristo avrebbe cominciato a regnare come re del celeste governo di Dio: da questa data il mondo è negli "ultimi giorni", che concludono un periodo di millenni dell'intero sistema mondiale. Appena divenuto tale, Gesù avrebbe scacciato Satana e i suoi angeli malvagi dal cielo, scagliandoli sulla Terra, determinando a partire dal 1914 un peggioramento progressivo della situazione dell'umanità sulla medesima. La scelta della data del 1914 è dovuta al fatto che il fondatore del movimento Russell, influenzato dall'Avventismo, riteneva che il secondo avvento di Cristo con la loro ascesa al cielo avrebbero avuto luogo nel periodo tra l'ottobre 1914 e l'ottobre 1915, basando tali datazioni sullo studio delle profezie bibliche. Una di queste profezie è riportata nel libro biblico di Daniele, dove i Testimoni di Geova basandosi su date storiche tracciano la Cronologia dei 7 tempi, servendosi di avvenimenti profetici come punti di partenza e di arrivo nel contare gli anni di questi tempi, al termine dei quali è possibile pervenire al 1914 come anno in cui terminano i tempi dei gentili, menzionati da Gesù, nel libro di Luca, questi tempi dei gentili vengono definiti anche "tempi fissati delle nazioni". Successivamente Rutherford, soprannominato "il giudice" poiché era stato giudice nel Missouri, nel suo libro Milioni ora viventi non moriranno indicò nel 1925 l'anno della venuta di Armageddon; in un discorso radiofonico del 1969 Nathan Knorr indicò nell'anno 1975 la fine di 6000 anni dalla creazione del primo uomo, Adamo e la possibilità di Armaghedon. Dopo il 1975 i testimoni riconobbero l'impossibilità di stabilire una data di cui perfino Gesù Cristo dichiarava di non conoscere durante la sua esistenza umana. I testimoni continuano fino ad oggi a dare enfasi al 1914 indicando l'anno, come l'inizio di "un tempo di afflizione" che porterà alla fine del sistema malvagio di cose. Anche se si è spesso insistito su alcune date, soprattutto il 1975, indicate dai testimoni di Geova come il termine dell'attuale sistema di cose, l'interpretazione posteriore che questi danno delle pubblicazioni precedenti a quegli anni, afferma che su alcune date si è trattato di speculazioni più o meno diffuse tra i testimoni, ma mai veramente confermate dalla Torre di Guardia. In questa rivista, rilevano gli stessi testimoni di Geova, il Comitato Direttivo ha in realtà avuto un atteggiamento possibilista su queste date, senza prendere una posizione definitiva. I testimoni sostengono oggi che in realtà avevano assunto e consigliato di essere possibilisti e non dogmatici, ma che i testimoni di allora non seguirono quel consiglio e vennero pertanto pubblicate e diffuse altre dichiarazioni sull'argomento, in forma più specifica di quanto fosse consigliabile. Per quanto concerne la generazione che avrebbe assistito alla distruzione del "mondo malvagio", pur tra discordanze in alcune pubblicazioni dei testimoni[106], fino al 1995 era comune la credenza che essa fosse quella già in vita nel 1914. Nel 1995 un'ulteriore ricerca interpretò il termine "generazione" usato da Gesù in Luca 21:32 come connotazione morale e non solamente temporale e pertanto includente tutti i contemporanei che osservavano i segni degli "ultimi giorni" ma non agivano prontamente per trovare il favore di Dio. Recentemente, dopo un ulteriore approfondimento dottrinale, è stato nuovamente reinterpretato il termine "generazione", che farebbe riferimento agli "unti" ancora in vita qui sulla terra in grado di comprendere i segni degli "ultimi giorni". Inoltre, per i testimoni, è assodato quanto segue, sulla base dell'interpretazione dei passi biblici indicati:
Il regno di Dio porterà sulla terra condizioni di vita ideali (Riv. 7:9, 10, 13-17)
La Terra non sarà distrutta o spopolata (Eccl. 1:4; Isa. 45:18; Sal. 78:69)
Dio eliminerà l'attuale sistema di cose (Dan. 2:44, Isa. 34:2; 55:10, 11)
I malvagi saranno distrutti per sempre (Matt. 25:41-46;)
Le persone che Dio approva riceveranno la vita eterna (Giov. 3:16; 10:27, 28; 17:3; Mar. 10:29, 30).
Per ottenere la salvezza è necessaria una forte fede arricchita dalle opere (Giacomo cap.2 versetto 26), poiché "per ottenere l'approvazione da parte di Geova", spiega This Good News of the Kingdom (Questa buona notizia del Regno), bisogna "restare fedeli a Geova fino all'Armageddon e poi nel nuovo mondo" (Matteo cap.24 versetto 13; Rivelazione e Apocalisse cap. 19): se si "desidera essere fra queste persone, si deve dimostrare di essere il tipo di persona che Geova vuole già in questo mondo". Con riferimento alla Salvezza, secondo i testimoni:
C'è una sola via che conduce alla vita. (Matt. 7:13, 14; Efes. 4:4, 5);
L'anima umana alla morte cessa di esistere, non esiste dicotomia tra corpo e anima: l'uomo stesso è un'anima. (Ezechiele 18:4; Ecclesiaste 9:10; Salmi 6:5; 146:4; Giovanni 11:11-14; Genesi 2:7);
L'inferno di fuoco non esiste, il vero significato in greco (tradotto poi in latino) del lemma italiano "inferno" corrisponde alla comune tomba del genere umano. (Giob. 14:13, Martini; Apoc. (Riv.) 20:13, 14);
La speranza per i morti è la resurrezione che è di due tipi: il risveglio dalla morte alla vita sulla terra restaurata per la grande folla dei Testimoni o in cielo come co-regnanti di Gesù Cristo per i 144.000. (1 Cor. 15:20-22; Giov. 5:28, 29; 11:25, 26);
La morte scioglie il matrimonio. I resuscitati "non si sposano né le donne sono date in matrimonio": Gesù, con queste parole, si stava riferendo in particolare a coloro che hanno la speranza di vivere in cielo. (Matteo 22:30);
Soltanto un piccolo gregge di 144.000 unti avrà una risurrezione celeste per regnare con Cristo. (Luca 12:32; Riv. 14:1, 3; 1 Cor. 15:40-53; Riv. 5:9, 10);
Solo i 144.000, una volta morti verranno rigenerati come figli spirituali di Dio sotto forma di un corpo, appunto, spirituale. (1 Piet. 1:23; Giov. 3:3; Riv. 7:3, 4)
Più specificatamente, con l'Armageddon si avrà la resurrezione dei "giusti" con la ricompensa per le loro buone azioni; la Terra, trasformata in un paradiso, accoglierà i "giusti", mentre si avrà l'assunzione in Cielo del "piccolo gregge", ovverosia 144.000 "santi" o "unti", i migliori tra i "giusti". Per i "malvagi" non ci sarà né inferno né altro, in cui i testimoni non credono ma la distruzione, cioè l'estinzione di tutti gli esseri umani che non sono testimoni di Geova.
Satana. I testimoni di Geova affermano che Satana (identificato da alcune traduzioni della Bibbia anche come Lucifero, sia un personaggio reale e «non un'invenzione dell'uomo per giustificare la propria peccaminosità»; i testimoni affermano che Satana esiste realmente in quanto considerano la Bibbia priva di errori. La risposta di Gesù famosissima: - "Va via Satana", nel racconto biblico del vangelo nelle altrettante famose 3 tentazioni, dimostrano che Gesù fu contattato da un'entità soprannaturale. Il racconto evangelico che pone Gesù di fronte al diavolo e le successive dichiarazioni di Gesù fatte al suo discepolo Giovanni, ci parlano di un potere retto da qualcuno, un individuo con una mente pensante e un corpo spirituale esattamente come lo ha Geova, gli angeli e lo stesso Gesù, è da escludere dunque qualsiasi possibile riferimento al male come fosse un'entità impersonale, o una condizione che coesiste dentro l'anima di una persona capace di farle compiere azioni cattive, ma tali riferimenti convergono tutti verso la conclusione che il male è prodotto da identità di persone, ed il suo ispiratore primo è Satana, il governante dell’autorità dell’aria, lo spirito che ora opera nei figli di disubbidienza. In origine Satana era un angelo perfetto che si ribellò a Geova e le sue calunnie fatte tramite "un serpente" nell'Eden contribuirono alla disobbedienza di Adamo ed Eva. Sarebbe lui la causa indiretta del peccato originale. Il peccato viene al mondo a causa della disobbedienza delle creature un tempo fedeli a Dio. Il peccato produce la morte. Secondo i testimoni Satana sollevò una contesa che riguardava la supremazia universale e quindi la sovranità stessa di Dio. I testimoni affermano che venne cacciato dai cieli insieme ai suoi demon, data in cui terminarono "i tempi dei gentili" o "i tempi fissati delle nazioni" secondo i testimoni. I testimoni sono convinti del fatto che Satana sia il Signore che domina con il suo spirito l'odierno ordine delle cose e del mondo, che la società umana sia influenzata e ingannata da lui e dai suoi demoni, e che essi sono anche la causa della sofferenza per gli umani. Inoltre sostengono la sua influenza sui governi del mondo basando questa convinzione sul libro biblico di Apocalisse (capitolo 12), ma allo stesso tempo egli non controlla direttamente ogni singolo capo di Stato umano. Secondo i testimoni, Geova tramite il suo seme (Gesù Cristo) distruggerà Satana e i suoi demoni e il mondo abitato da uomini perfetti non subiranno più, per i secoli dei secoli, la sua diabolica influenza.
Sessualità e proibizioni. I testimoni di Geova condannano apertamente rapporti sessuali prematrimoniali, adulterio, rapporti omosessuali (considerati una perversione), e non praticano l'aborto. Testimoni che hanno rapporti sessuali prima del matrimonio, oppure extraconiugali, in caso di mancato pentimento possono anche essere espulsi dalla congregazione. La struttura familiare è basata sull'operato e le decisioni dei genitori. Il padre e la madre sono considerati responsabili della educazione dei figli, dei loro fabbisogni materiali, della loro spiritualità e degli aspetti emotivi dei figli. I matrimoni devono essere monogami e registrati legalmente alle autorità. Il matrimonio insieme ad un non-credente, cioè una persona che non fa parte dei testimoni di Geova, viene fortemente disapprovato. Vi è una forte opposizione da parte dei testimoni di Geova anche nei confronti del divorzio, e la possibilità di risposarsi è totalmente proibita se il divorzio non viene ottenuto per adulterio come causa di divisione, che dai testimoni viene considerato un "divorzio scritturale". Se il divorzio viene ottenuto per un'altra ragione qualsiasi, il secondo matrimonio viene considerato adultero, a meno che il partner precedente non sia morto oppure viene considerato a partire da quel momento sessualmente immorale. In casi quali maltrattamenti ed abusi fisici estremi, la volontà di non supportare la famiglia, e ciò che in termini religiosi i testimoni di Geova chiamano "assoluta messa a rischio della spiritualità", può essere considerata la separazione legale tra i coniugi. I testimoni consentono l'uso solo di alcuni metodi e presidi contraccettivi esclusivamente all'interno della vita sessuale matrimoniale e, in ogni caso, negano la possibilità per le donne di ricorrere alla pillola del giorno dopo perché considerata alla stregua di un'interruzione di gravidanza.
Fumo, droghe, alcool e suicidio. Ritenendo la vita sacra, essi rifiutano il consumo di tabacco, l'utilizzo non terapeutico di sostanze stupefacenti illegali, e non fanno abuso di alcool. Il suicidio viene considerato dai testimoni di Geova come un "omicidio auto-inflitto" e un peccato contro Geova.
Ricorrenze. L'unica ricorrenza religiosa dei testimoni di Geova è la celebrazione dell'ultima cena, definita la Commemorazione o Pasto serale del Signore. Viene celebrata una volta sola all'anno, il 14 del mese ebraico di Nisan, ossia nel giorno in cui ricorre la Pasqua ebraica. Durante la commemorazione i testimoni utilizzano pane non lievitato e vino rosso non adulterato, che richiamano l'ultimo pasto di Cristo. Pane e vino vengono fatti passare di mano in mano tra i presenti, ma vengono consumati solo dagli "unti", ovverosia da quei membri della congregazione considerati parte dei 144.000 "santi" che "andranno a regnare in cielo assieme a Cristo dopo l'istituzione del "nuovo sistema celeste e terreno". I fedeli non festeggiano ricorrenze legate ad altre religioni o considerate di origini pagane, come i compleanni, ma non è fatto divieto di creare altre occasioni di ritrovo.
Organizzazione. Struttura della congregazione. La sede centrale dei testimoni di Geova è a Warwick, New York: qui vi ha sede la Società Torre di Guardia, principale soggetto giuridico del movimento, oltre al corpo direttivo della medesima, che sovrintende alle attività mondiali della congregazione. L'organizzazione dei testimoni di Geova "è guidata e diretta in modo teocratico da questo corpo direttivo. La legittimazione dello stesso all'esercizio di tale funzione deriva dal fatto che, secondo la dottrina dei testimoni, esso è portavoce dello "schiavo fedele e discreto".
Esso è deputato tra l'altro a fornire le indicazioni dottrinali e disciplinari ai membri del movimento, che vengono diffuse attraverso la cosiddetta "letteratura biblica", costituita di pubblicazioni periodiche a cura della congregazione. La "letteratura biblica" ha grande peso presso i testimoni, per quanto, come asserito entro le varie pubblicazioni che ne fanno parte, né gli scrittori né gli editori delle medesime pretendono che quanto scritto sia divinamente ispirato od infallibile. Tale ruolo è riconosciuto al corpo direttivo perché credono che esso rappresenti il biblico "schiavo fedele e discreto", formato da cristiani "unti" incaricati da Geova di provvedere "cibo spirituale a suo tempo" che fornisce sotto forma di pubblicazioni per lo studio biblico. Il movimento opera internazionalmente sotto la supervisione del corpo direttivo attraverso diverse associazioni religiose no-profit, tra cui ad esempio la Watchtower Bible and Tract Society of New York Inc e la Watch Tower Bible and Tract Society of Pennsylvania per gli Stati Uniti e l'International Bible Students Association per il Commonwealth delle nazioni. In Italia l'ente opera come ente morale con il nome di Congregazione cristiana dei testimoni di Geova. I passi da fare per diventare un componente della congregazione Cristiana dei testimoni di Geova consistono, innanzitutto, nell'acquistare conoscenza di Geova e di suo Figlio, Gesù Cristo, questo contribuisce ad accrescere la fede. Invocare regolarmente Geova in preghiera, comprendere la necessità di riunirsi regolarmente con chi condivide la stessa fede; indispensabile il pentimento dei peccati e la conversione, respingendo perciò le pratiche malvagie, la fede spingerà a predicare pubblicamente. Altro passo importante la dedicazione a Geova per fare, a imitazione di Gesù, la sua volontà per ultimo, ma solo in ordine di tempo, simboleggiare la dedicazione con il battesimo in acqua. Il battesimo avviene per immersione, a seconda dei luoghi, in piscine, in vasche, in fiumi o in qualunque adeguato specchio d'acqua. Non viene stabilito un limite d'età ma viene preso in considerazione il requisito principale: essere un discepolo di Cristo mentre per un figlio, o una figlia, molto giovane, saranno i genitori a valutarne i requisiti, anche se alla fine saranno i responsabili della "congregazione", qualsiasi sia la loro età, a stabilire se hanno assorbito i principi biblici a tal punto da avere messo la loro vita in conformità con essi. In ogni congregazione coloro che ricoprono incarichi di responsabilità vengono chiamati "anziani"; si tratta di uomini spiritualmente maturi il cui compito primario è guidare la congregazione e svolgere l'opera pastorale, così come svolgono altri compiti meno evidenti. Per permettere agli anziani di concentrarsi sull'insegnamento e sull'opera pastorale, altri fratelli assolvono responsabilità nella congregazione, aiutano il corpo degli anziani svolgendo servizi di utilità pratica, e sono i "servitori di ministero". Entrambi, al pari di tutti i proclamatori, svolgono attività di predicazione. Vari "anziani", da diverso tempo nel servizio continuo, vengono impiegati come "sorveglianti viaggianti", ovvero come responsabili itineranti con il fine di sovrintendere all'attuazione delle direttive della congregazione a livello transnazionale. Alcuni componenti delle congregazioni operano nel servizio definito continuo e vengono chiamati "pionieri". Quelli che compiono quest'opera per uno o più mesi all'anno sono nominati "pionieri ausiliari" a seguito di una richiesta scritta fatta dallo stesso interessato e, nei mesi relativi ad avvenimenti particolari, vi è la possibilità di compiere lo stesso servizio con un minor numero di ore offrendo così, anche a chi non ha, per svariati motivi, circostanze favorevoli, la possibilità di svolgere questo tipo di attività. Mentre quelli che la compiono per uno o più anni sono definiti "pionieri regolari", anche questi nominati a seguito di una richiesta scritta, dedicano alla predicazione un numero maggiore di ore. Altri, già nel servizio continuo da alcuni anni, vengono scelti per servire come "pionieri speciali" e per essere inviati dove il bisogno è maggiore, questi ultimi impegnano ancora maggior tempo per l'opera di testimonianza. Tutta l'attività del movimento viene sostenuta tramite contribuzioni volontarie.e risoluzioni contabili portate all'attenzione della comunità durante una delle adunanze e approvata con alzata di mano.
Luoghi di culto. I testimoni di Geova utilizzano come locali di culto le Sale del Regno oppure sale di maggiori dimensioni chiamate "Sale delle Assemblee". Queste costruzioni vengono utilizzate unicamente per fini religiosi. Tengono adunanze settimanali con la possibilità per il pubblico di parteciparvi; dal 1º gennaio 2009 vengono raggruppate in due giorni la settimana. Ognuna inizia e termina con un cantico e una preghiera, seguiti dalla trattazione di argomenti biblici e talora di interventi dei presenti. Le preghiere vengono rivolte solo a Geova; nel corso delle loro cerimonie i testimoni non fanno uso di immagini del divino. Tre volte l'anno si radunano in 2 assemblee di circoscrizione di un giorno tra le comunità presenti in un dato territorio (l'equivalente delle parrocchie presenti nell'ambito di una diocesi cattolica) ed un congresso di 3 giorni per leggere passi biblici e ascoltare discorsi biblici. In Italia i testimoni si sono a lungo avvalsi di strutture non proprie e solo recentemente hanno iniziato ad acquistare edifici per adibirli a luogo di culto o a costruire locali nelle loro proprietà, similmente a quanto fatto in altri paesi. Una simile opera viene realizzata e finanziata principalmente con il lavoro volontario e non retribuito dei membri della zona unito alle loro contribuzioni volontarie. Nei raduni religiosi e nelle adunanze organizzate dai testimoni l'ingresso è libero e non avvengono prevedono collette.
Provvedimenti disciplinari. I testimoni di Geova possono essere soggetti a provvedimenti disciplinari: possono essere ammoniti come "disordinati" o "segnati" oppure possono essere disassociati, ovverosia espulsi, come "trasgressori". Possono inoltre liberamente dissociarsi dalla congregazione. Il segnato è ancora considerato un testimone di Geova, a differenza del disassociato e del dissociato, che comunque, stante una certa condotta e cammino spirituale, possono essere riammessi. La disassociazione è un provvedimento disciplinare con il quale il "corpo degli anziani", qualora rilevi gravi mancanze di natura morale o errori dottrinali e qualora constati la mancanza di un reale pentimento, espelle un testimone dalla congregazione. Tale organo ha infatti la responsabilità di correggere chi segua una condotta o dottrina errata: può intervenire dando consigli in privato, oppure, se la condotta viene considerata un pericolo spirituale per il resto della congregazione, mediante un discorso rivolto alla comunità locale e basato sulle Scritture nel quale, senza far nomi, indicano ciò che essi ritengono ragioni bibliche per evitare un tale comportamento e, solo come extrema ratio, può procedere con la disassociazione. Seguendo la loro interpretazione del passo biblico di 2 Giovanni, versetti 8, 9 e 10, i testimoni non intrattengono rapporti sociali con i dissociati ed i disassociati salvo si tratti di familiari stretti, con i quali vengono interrotti solamente i rapporti spirituali: a costoro non rivolgono il saluto né tanto meno possono mangiarvi insieme. Se il familiare non è convivente ma esistono obblighi familiari (es. figli o genitori anziani) i rapporti sociali con l'espulso sono mantenuti, ma si cerca di limitarli al minimo indispensabile. Nel caso di familiare non prossimo o di persona non legata da vincoli familiari, si interrompono tutti i rapporti sociali non indispensabili. I disassociati possono, comunque, frequentare le adunanze nella Sala del Regno e contattare gli anziani per ricevere aiuto e poter analizzare la loro posizione (All'atto stesso del procedimento di espulsione, questi riceve dettagliate istruzioni bibliche sulla metodica necessaria per essere riammesso). Una volta all'anno inoltre gli anziani della congregazione visitano i disassociati per incoraggiarli a ravvedersi e confermare loro la possibilità di ritornare all'interno della Congregazione come membri a tutti gli effetti[180]. Secondo statistiche, un certo numero di espulsi è stato riammesso nella congregazione dopo aver cambiato la propria condotta e aver dato chiari e inequivocabili segni di pentimento. La disassociazione può operare anche senza particolari formalità quando è di pubblico dominio, portando così biasimo sull'Organizzazione, un comportamento che denota una mancanza di fede e costituisce un tradimento dell'organizzazione di Geova, ad esempio la partecipazione alle attività della vita politica, associarsi a un'altra organizzazione religiosa, commettere atti illegali, o commettere immoralità sessuale. Distinto dai dissociati e disassociati è il "disordinato", ovvero l'inadempiente nei confronti di un principio differente da un comando perentoriamente espresso dalla legge di Geova. Attualmente viene ammonito con un "discorso di segnatura", ovvero reso oggetto di un discorso basato sulle cattive conseguenze della condotta errata da lui tenuta così come indicate dalla Bibbia, nel quale si fa leva sulla disattesa lealtà a Geova e alla sua santa organizzazione. Nell'ammonizione si evita di pronunciare pubblicamente il nome del disordinato. I motivi di ammonizione, documentabile nelle pubblicazioni della rivista La Torre di Guardia, è il fidanzamento od il legame emotivo con una persona non testimone di Geova, in accordo con un'interpretazione delle parole di San Paolo, che si espresse dicendo che una vedova cristiana era libera di risposarsi "solo nel Signore", il modo di acconciarsi i capelli e di vestirsi, alcune forme di svago, e altre condotte che imitino in modo palese condotte non in armonia con i principi biblici. Il disordinato, ovverosia colui che è nella "condizione di segnatura", può, se reitera nel tempo con gravità crescente e senza pentimento i comportamenti per il quale è stato ammonito, essere disassociato. In definitiva, il disordinato, al contrario del componente meritevole di disassociazione, non commette atti di per sé gravi, mostrando un atteggiamento "trascurato", più che "impenitente", proprio di chi merita l'espulsione. Ciò non toglie però, che a lungo andare, la trascuratezza, come in ogni altro campo, porti ad una totale perdita di aderenza a quei principi cui aveva asserito di attenersi, commettendo azioni gravi senza rammaricarsene. Attualmente, alla congregazione locale, per garanzia della privacy, si annuncia la "cessata appartenenza di un elemento alla comunità dei Testimoni di Geova", non specificando se tale appartenenza è avvenuta per espulsione o per allontanamento volontario (dissociazione).
Diffusione. Nel mondo. I testimoni di Geova considerano come tali coloro che sono considerati attivi predicatori, ovverosia che svolgono almeno un'ora di predicazione al mese. Nel caso di persone con seri impedimenti, dovuti ad età avanzata o salute cagionevole, si può essere considerato attivo predicatore anche se si dedica ad essa almeno 15 minuti al mese. A partire da metà del Novecento fino ad oggi, il tasso annuo di crescita dei membri attivi è stato del 2,5%. Secondo dati forniti dal movimento, nel 2017 nel mondo i testimoni di Geova attivi nell'opera di predicazione erano 8.457.107, organizzati in 120.053 congregazioni presenti in 240 paesi o territori. Nel 2017 sono state spese 2.046.000.202 ore nella predicazione; gli studi biblici tenuti ogni mese nel 2017 sono stati 10.071.524. Nel 2017 hanno assistito nel mondo alla commemorazione della morte di Gesù Cristo 20.175.477 persone.
Diffusione. In Italia. In Italia i testimoni di Geova hanno costituito un ente con il nome Congregazione cristiana dei testimoni di Geova. Essa è riconosciuta dallo Stato come "ente di culto" ai sensi dell'art. 2 L. 1159/1929 e dell'art. 10 R.D. 289/1930. È stata riconosciuta come ente morale con personalità giuridica con DPR 31 ottobre 1986, n. 783, su conforme parere del Consiglio di Stato. Tra la Repubblica Italiana e la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova è stata stipulata un'intesa ai sensi dell'art. 8 della Costituzione. Il testo, datato 18 novembre 1999 ed approvato a maggioranza dal Consiglio dei ministri il 21 gennaio 2000, è stato sottoscritto dal Governo il 20 marzo 2000. A questo schema di intesa non è ancora seguita però la legge di approvazione ed esecuzione, di competenza parlamentare, il che implica che non se ne può assumere l'immediata efficacia nel diritto statuale. In data 4 aprile 2007 è stato firmato a Palazzo Chigi un nuovo testo dell'intesa[184], che dovrà essere sottoposto al Consiglio dei ministri per la successiva trasmissione al Parlamento per la conseguente ratifica. Nel 2017, secondo dati forniti dal movimento, in Italia i testimoni di Geova attivi nell'opera di predicazione sono 251 192[186] organizzati in 2.955 congregazioni, 21 in meno rispetto al 2016, anno in cui in Italia sono state battezzate come testimoni 4.915 persone e alla commemorazione della morte di Gesù Cristo hanno assistito 438.412 persone. Secondo una ricerca del CESNUR del 2002, i testimoni di Geova sono la seconda religione in Italia, se si considerano solo i cittadini italiani, o la terza, dopo i musulmani, contando anche gli immigrati. La loro crescita più significativa è avvenuta in Italia nel periodo dagli anni 1960 agli anni 1980 (più 317%), quando sembravano, secondo le parole del CESNUR stesso, "l'unica alternativa al Cattolicesimo". La presenza dei testimoni in Italia risale al 1903. In questo anno fu edita per la prima volta l'edizione italiana della rivista La Torre di Guardia. Per la stampa delle loro prime opere si affidarono da principio alla Tipografia Sociale, sita in Pinerolo. Originariamente aventi sede a San Germano Chisone, si trasferirono dal 1909 a Pinerolo in provincia di Torino. Durante il fascismo i testimoni di Geova vennero perseguitati venendo incarcerati e messi al confino; nell'aprile del 1940, 26 membri furono processati dal Tribunale Speciale Fascista e condannati ad oltre 180 anni di carcere[193]. Dopo lo Sbarco a Salerno alcuni furono rinchiusi nei campi di concentramento nazisti, dove almeno un Testimone italiano, Narciso Riet, trovò la morte.
Organizzazioni scismatiche. Varie organizzazioni si sono separate nel tempo dai testimoni di Geova. Nel 1920 nacque per iniziativa di Alexander Freytag, precedentemente per 5 anni responsabile della filiale svizzera della Società Torre di Guardia, la Chiesa del Regno di Dio, conosciuta anche col nome di Associazione filantropica degli amici dell'uomo; è presente in Italia, ove pubblica due giornali, il Monitore del Regno della Giustizia ed il Giornale per tutti, e conta secondo stime interne alla chiesa circa 6000 aderenti di cui 1000 attivi. Nel 1921 nacque il Movimento interiore laico fondato da Paul S. Johnson, ex oratore degli studenti biblici e collaboratore di Russell, privo di rappresentanza in Italia. Nel 1928 nacque la Chiesa cristiana millenarista, originatasi quando gli studenti biblici del Connecticut, poi confluiti nella Dawn Bible Student's Association, abbandonarono la Società Torre di Guardia per dissensi dottrinali; presente in Italia, ha sede a Pescara e vi pubblica il giornale trimestrale La nuova Creazione. In Romania è presente un gruppo chiamato La Vera Fede i Testimoni di Geova, che contesta alcuni aspetti dottrinali propri del movimento principale. Negli Stati Uniti d'America sono presenti altri tre piccoli movimenti scismatici: sono la House of Yahweh che considera Yahweh il nome sacro di Dio, poi i "Servitori di Yah", che considerano invece Yah come il nome sacro di Dio, e gli "Amici del Nazareno". In Italia esiste invece l'"Assemblea di Yahweh del Settimo Giorno".
Aspetti controversi e critiche. I testimoni di Geova sono stati oggetto di critiche e controversie:
la Chiesa cattolica e altre confessioni cristiane non riconoscono la dottrina dei Testimoni di Geova come cristiana a causa, principalmente, del loro antitrinitarismo, del rifiuto di considerare Gesù uguale a Dio ma di identificarlo con l'arcangelo Michele, della negazione della natura spirituale e immortale dell'anima;
la loro interpretazione della Sacra Scrittura è stata accusata di essere "letterale e fondamentalista, e persino falsificante" dalla Conferenza Episcopale Italiana. I Testimoni di Geova non partecipano al Consiglio Ecumenico delle Chiese (l'organo principale che raduna le differenti Chiese cristiane nel mondo) e non accettano di aderire ad alcuna forma di ecumenismo organizzato, ritenendo preferibile ad esso il solo colloquio con le singole persone;
sono stati accusati di condizionare pesantemente l'individuo all'interno della congregazione;
sono stati criticati per l'astensione dalla vita politica e la conseguente accettazione passiva di ogni forma di Governo;
le interpretazioni della Bibbia date dal Comitato direttivo sono state tacciate di arbitrarietà, poiché, secondo i critici, prive di fondamento letterale e/o contestuale. Oggetto di perplessità è in particolare la Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture, che presenterebbe errori e sarebbe stata realizzata in modo infedele al testo originale; si afferma, infatti, che sia stata realizzata cambiando il significato della Bibbia al fine di adattarla alla dottrina del movimento;
la concezione millenarista dei testimoni ha suscitato controversie per quanto concerne l'attendibilità delle relative predizioni sull'Armageddon (la Società Torre di Guardia indicò con precisione alcune date, come il 1914, il 1915, il 1918, il 1925 ed il 1975), non realizzatesi;
la pratica del rifiuto delle trasfusioni di sangue;
altra critica riguarda la disassociazione. Con questo termine si intende la prassi di espellere dalla congregazione gli associati battezzati che, secondo i testimoni di Geova, trasgrediscono i principi biblici con la loro condotta. Ai testimoni di Geova è predicato di evitare contatti di qualsiasi tipo con chiunque si allontani dai principi della congregazione, solo con i familiari stretti o conviventi possono continuare le attività quotidiane ma non quelle di natura spirituale.
I testimoni di Geova e i casi di pedofilia non denunciati. Casi insabbiati ed espulsioni per chi non si allinea. Le inchieste in Australia e Stati Uniti e Gran Bretagna sollevano dubbi in Italia, scrive Antonio Castaldo il 23 maggio 2016 su "Il Corriere della Sera". «Sono un testimone di Geova battezzato da molti anni». Comincia così la lettera inviata da Raffaele Di Martino ai vertici della sua organizzazione religiosa. Una richiesta di informazioni, e al contempo un modo per prendere le distanze. Il segno di una inquietitudine che accomuna il camionista 34enne di Ancona a molti altri «fratelli» in tutto il mondo dopo l’esplosione di un caso internazionale legato a episodi di pedofilia non denunciati. In Australia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e a cascata in molti altri Paesi del mondo, sono spuntate storie di bambini abusati e di mancate denunce, se non proprio di vicende taciute alle autorità giudiziarie. La questione è finita nelle aule dei tribunali. Ed è rimbalzata su forum, blog, profili Facebook di migliaia di fedeli che hanno cominciato a chiedersi se la naturale attitudine alla riservatezza di chi professa il credo di Charles Taze Russel non sia in passato degenerata nella sistematica copertura di pedofili e predatori sessuali.
La lettera alla Betel per prendere le distanza. Anche la famiglia Di Martino si è posta gli stessi dubbi e li ha messi nero su bianco nella lettera spedita alla Betel, l’equivalente del Vaticano per i quasi 248mila battezzati nel nome di Geova in Italia. «Chiedevamo la cancellazione dei nostri dati dagli archivi della congregazione - spiega Raffaele - perché vogliamo prendere le distanze, pur restando fedeli a questa religione che per noi è tutto. Per tutta risposta ci hanno convocato per un comitato giudiziario, il nostro tribunale interno. Noi abbiamo spiegato che avremmo risposto solo a comunicazioni scritte e loro, gli anziani, ci sono venuti a trovare una seconda volta a distanza di due giorni per comunicarci che non eravamo più testimoni di Geova. Cacciati via e cancellati dal ricordo e dalla frequentazione di tutti gli altri fratelli. Ai loro occhi non esistiamo più». È l’ostracismo, la procedura che vieta ai fedeli qualsiasi rapporto con chi è stato «scomunicato». Una punizione che equivale alla «morte sociale» di individui nati e cresciuti all’interno di comunità che scoraggiano qualsiasi contatto esterno. Improvvisamente si ritrovano gettati nel «mondo degli infedeli», invisi ad amici e parenti, madri, padri, figli e fratelli, rimasti all’interno con l’obbligo di chiudere la porta in faccia a chi è uscito dal gregge. Un destino di solitudine e sofferenza per chi è stato educato a vivere sempre e soltanto all’interno dell’organizzazione. Per loro, per i «disassociati», sono nate alcune associazioni, come la Quo Vadis, dello stesso Rocco Politi, e l’associazione Vittime della Torre di Guardia di Francesco Sarais, che offrono assistenza psicologica e legale.
L’inchiesta australiana. «Da alcune settimane — scriveva lo scorso novembre Di Raffaele — sto seguendo con molta attenzione le vicende giudiziarie che coinvolgono la Watchtower australiana». Dall’altra parte del mondo, infatti, una commissione d’inchiesta ha individuato 1006 casi nel corso degli ultimi 70 anni non segnalati alla magistratura. Nel corso della deposizione davanti alla Commissione Reale sulla pedofilia, istituita a Sidney la scorsa estate, Geoffrey Jackson, membro del corpo direttivo della Watchtower, uno dei 7 «papi» dei testimoni di Geova, ha ammesso che le procedure adottate fino ad allora si erano rivelate inadeguate: «Altrimenti - ha spiegato - non le avremmo modificate». Negli ultimi anni il libro degli Anziani, il testo di riferimento per chi guida le comunità di fedeli sul territorio, è stato progressivamente emendato. Fino al 2010 i testimoni di Giustizia non potevano ritenersi a tutti gli effetti «liberi di denunciare» abusi sui minori. Fino a quella data, era necessario avere almeno due testimoni per ritenere veritiero un fatto penalmente rilevante. «Ma nei casi di violenza sessuale come si fa ad avere due testimoni? Se non c’è confessione del colpevole, l’unico testimone è la vittima. E da sola non basta», spiega Rocco Politi, fino al 2001 anziano a Modena e anche sostituto sorvegliante. «Nel corso della mia esperienza — aggiunge Politi, oggi commentatore per Radio Maria — ho trattato almeno dieci comitati giudiziari che avevano per tema casi di molestie su minori. In nessun caso abbiamo riferito all’autorità giudiziaria».
La regola dei due testimoni. Come ogni dettaglio della vita spirituale (e non) dei testimoni di Geova, anche la regola dei due testimoni è mutuata da una minuziosa lettura della Bibbia. In questo caso si tratta di alcuni versetti del Deuteronomio: «Nessun testimone singolo deve levarsi contro un uomo rispetto a qualunque errore o a qualunque peccato, nel caso di qualunque peccato che egli commetta. La questione dev’essere stabilita per bocca di due testimoni o per bocca di tre testimoni». La regola nel 2010 è stata modificata, i fedeli sono liberi di denunciare e gli anziani sono invitati a non interferire con la scelta delle famiglie. Questo almeno è il dettato del libro degli anziani, un «codice» per chi guida le comunità. Per entrare più nel dettaglio delle procedure adottate in casi come questi, bisogna consultare però le lettere agli anziani, circolari aggiornate periodicamente che costituiscono una sorta di manuale pratico. In una lettera del 2012 si legge chiaramente: «Se gli anziani vengono a sapere di un’accusa su abusi su minori, dovrebbero chiamare immediatamente il Reparto Servizio», ovvero la Betel, la sede centrale della congregazione a Roma. E allo stesso modo, in altre lettere viene più volte rimarcata la centralità dei responsabili romani su ogni delicata questione legale. Lo scorso 18 febbraio, «Le Iene» hanno raccontato la vicenda di Riccardo Maggi. Venuto a conoscenza di un presunto abuso sessuale ai danni di un bambino di 9 anni, ha cercato di convincere gli altri anziani della congregazione a presentare denuncia. Dinanzi al loro rifiuto, ha deciso di denunciare da solo il fatto ai carabinieri che hanno avviato le indagini. E inoltre ha avvisato anche le altre famiglie della comunità dei rischi legati alla presenza tra di loro di un presunto pedofilo. Per tutta risposta, gli anziani lo hanno disassociato. Condannandolo alla «morte sociale» che spetta agli scomunicati di Geova.
La replica dei testimoni di Geova. A una richiesta di intervista di CorriereTv, l’ufficio informazione pubblica della Betel ha risposto con una lettera: «I testimoni di Geova ripudiano la pedofilia e gli abusi all’infanzia, reati perpetrati purtroppo a tutti i livelli della società. Per noi la salvaguardia dei bambini è di importanza capitale. Da decenni sia le nostre riviste sia il nostro sito web pubblicano articoli rivolti tanto ai testimoni di Geova che al pubblico in generale che trattano come proteggere i bambini dagli abusi», si legge nel comunicato, che spiega poi le modalità con cui i bambini partecipano alle attività: «Non sono mai separati dai genitori». Riguardo poi al nodo fondamentale del rapporto con l’autorità giudiziaria in caso di molestie, il testo specifica: «La vittima o i relativi genitori hanno il sacrosanto diritto di denunciare i casi di abuso alle autorità competenti. Gli anziani di congregazione non celano alle autorità chi compie abusi o eventuali pedofili, né cercano in alcun modo di evitare a costoro le conseguenze delle loro azioni. Chi si macchia del peccato di abuso all’infanzia è passibile di espulsione dalla congregazione e, se ha una posizione di responsabilità, decade dall’incarico». Riguardo all’inchiesta australiana, i vertici dei Testimoni di Geova italiani rimandano alla memoria difensiva presentata nel corso del procedimento, in cui si ribadisce che «i testimoni di Geova non perdonano né coprono» gli abusi su minori, ed anzi sono stati parte attiva «nelle indagini e nella documentazione» di casi di questo tipo. Per gli avvocati della Watchtower, inoltre, casi reali di molestie non sarebbero 1006, ma molti di meno. E in almeno 200 circostanze riguarderebbero fatti commessi da persone prima del loro battesimo. Infine, per quanto riguarda le accuse di Riccardo Maggi, i funzionari della Betel italiana aggiungono: «Aspettiamo di conoscere l’esito delle indagini avviate».
La precisazione. A distanza di tre giorni dalla pubblicazione del servizio, dall’Ufficio Informazione Pubblica dei Testimoni di Geova è arrivata una cortese richiesta di precisazione. Dopo aver ribadito quanto già enunciato e riportato nel testo dell’articolo, ovvero che i Testimoni di Geova ripudiano la pedofilia, la Congregazione centrale puntualizza che «rispondiamo a tutte le richieste di accesso ai dati personali nel pieno rispetto della normativa vigente e nei termini prescritti dalla legge. Mai nessun testimone di Geova è stato espulso per il motivo di aver richiesto l’accesso ai propri dati personali, richiesta che, si ribadisce, è pienamente legittima».
Il servizio de Le Iene su Testimoni di Geova e pedofilia, scrive il 27 gennaio 2016 Next Quotidiano". Ieri Le Iene hanno mandato in onda un servizio di Luigi Pelazza sui Testimoni di Geova e su uno scandalo di pedofilia. Nel servizio si è parlato anche del CESAP, Centro Studi sugli Abusi Psicologici (Ce.S.A.P.), associazione senza fini di lucro, aconfessionale ed apolitica che si occupa in generale delle sette in Italia. Avevamo parlato qualche tempo fa dello scandalo pedofilia nei Testimoni di Geova in Australia. Ne ha parlato il Sydney Morning Herald citando le conclusioni di un’inchiesta giudiziaria nel paese. La chiesa, che conta in Australia 70mila membri attivi, ha seguito la politica di gestire le accuse all’interno come per tanti anni ha fatto anche la Chiesa cattolica. La Commissione ha sentito i responsabili della Chiesa in un’interrogazione istituzionale sugli abusi sessuali sui minori, in particolare su due casi di anziani dell’istituzione accusati di pedofilia. Secondo le loro regole chi abusa di bambini può essere espulso dalla chiesa se le accuse sono dimostrati, ma tra i requisiti è necessario che almeno due testimoni parlino davanti a un comitato giudiziario interno, davanti al quale però molti accusati non sono stati interrogati. Angus Stewart della commissione che indaga sugli abusi ha detto che i testimoni di Geova hanno registrato 1006 casi di autori di presunti abusi all’interno dell’organizzazione a partire dal 1950, ma la Chiesa ha seguito pedissequamente l’indicazione di non denunciare le accuse di abusi alle autorità secolari. La commissione ha sentito che la Chiesa aborrisce abusi sessuali su minori, che riconosce come “un peccato grave e un crimine”. “I testimoni di Geova credono che l’unico modo per porre fine finalmente gli abusi sui minori è, come dicono loro, ‘abbracciare il regno di Dio retto da Cristo’ e ‘amare Dio con tutto il tuo cuore e il tuo prossimo come te stesso’, in modo da essere salvati quando arriverà la fine del mondo”, ha detto Stewart.
IENE. TESTIMONI DI GEOVA, DUE TESTIMONI PER PUNIRE UN ABUSO SESSUALE, scrive il 02.03.2016 Giornalettismo. La comunità dei Testimoni di Geova – spiega il servizio de Le Iene – non ammette relazioni degli associati con l’esterno e, per provare la veridicità di fatti gravi come un abuso occorre la testimonianza di due persone. Senza considerare che viene vietata la possibilità di denunciare il fatto all’Autorità giudiziaria. Ogni decisione e sanzione (nella peggiore delle ipotesi la disassociazione) spetta ad una sorta di tribunale interno. La regola (che deriva dalla Bibbia, dal Libro del Deuteronomio, capitolo 19) è scritta in una circolare interna della congregazione: in casi di abusi sessuali su minori gli anziani (i membri più autorevoli della comunità) «non sono autorizzati dalle Scritture a intraprendere alcuna azione […] fino a che non ci sarà una confessione o la testimonianza di due testimoni credibili». «Comunque uno se abusa su minore, non penso che lo fa alla vista di due persone», è il commento di uno degli associati ai Testimoni di Geova che ha deciso di parlare alle Iene in forma anonima per svelare i criteri interni di decisione. «Non penso – aggiunge il ragazzo – che gli anziani abbiano capacità o qualifiche professionali per poter valutare dei casi di questo tipo. Non è normale comportarsi così». Il rischio è che diversi casi di abusi compiuti da Testimoni di Geova non siano stati mai denunciati nonostante prove o sospetti. In Australia è stato scoperto che gli associati avrebbero distrutto prove di mille abusi sessuali compiuti su minori. Qualcosa di ugualmente grave potrebbe essere successo anche in Italia. «Una sera – è una delle testimonianze raccolte e pubblicate da Le iene – mi mandarono a dormire a casa di alcune persone di quella congregazione che noi frequentavamo. Avevo nove anni. Mi hanno mandato al piano di sopra per andare a letto. Quando sono entrata in camera è entrato un anziano. Cominciò a farmi una specie di predica. Dopodichè, mi attiro a sè prendendomi prima il braccio e poi la testa. Mi costrinse a fare quello che un bambino non dovrebbe neanche immaginare, il sesso orale». E dopo la confessione alla mamma di quanto accaduto? «Mi diede della bugiarda», racconta la vittima. «Lei voleva che lo denunciassi, ma non all’Autorità, perché loro non fanno così. Voleva che io trattassi la questione con gli anziani. Loro avrebbero parlato con lui. Ma se vanno a chiedere a lui, lui mica ammette?». Per loro – dice ancora la donna parlando della congregazione e di come reagisce agli abusi – la punizione di un pedofilo vuol dire, portarlo, quelle volte che succede, davanti al tribunale interno. Ma sono normali due testimoni in un abuso su minore?». E se lo condannano? «Al massimo lo disassociano». «Ho scoperto che c’erano anche altri miei familiari che avevano avuto la mia stessa sorte», è invece il racconto di una donna denuncia abusi sessuali e violenze del padre all’età di 13 anni. «Siamo andati a parlare dagli anziani. L’unica cosa che mi è stata detta: ‘Tuo padre non è pedofilo’. E che comunque questa storia non dovevo raccontarla in giro, perché era una vergogna per gli altri miei familiari». E anche dopo la confessione del padre davanti agli anziani sarebbe cambiato poco: «È stato fatto un Comitato Giudiziario ed è stato disassociato. Poi è stato riassociato dopo due anni». Nessuno avrebbe mai chiesto, davanti alle storie di violenze e abusi, di presentare una denuncia. «Hanno le mani macchiate del sangue di innocenti. Tutti quelli che vengono a conoscenza non fanno niente, sono complici». E la risposta della congregazione? «Noi ripudiamo gli abusi. Si documenti bene e si accorgerà che è nel totale errore», si limita a dire telefonicamente un addetto stampa rispondendo a Luigi Pelazza. Che infine si chiede: «E se a fare le stesse domande fosse un magistrato?»
Le Iene e i ragazzi ex testimoni di Geova cacciati dai genitori, scrive Giornalettismo. Dopo il servizio della settimana scorsa, un nuovo filmato realizzato de Le Iene firmato da Luigi Pelazza raccoglie ancora testimonianze di persone dissociate dai Testimoni di Geova. La trasmissione di Italiauno ha raccolto, in particolare, la testimonianza di due ragazze stufe di essere condizionate dalla congregazione in ogni aspetto della loro vita. «Tantissime persone si sono svegliate, sono stufe di essere condizionate in ogni minimo aspetto della loro vita, solamente che si trovano nella nostra stessa situazione», hanno affermato alle telecamere di Mediaset nel corso di un’intervista rilasciata senza rendere il proprio volto riconoscibile. «Vorrebbero uscire, ma sanno – hanno continuato – che nel momento in cui abbandonano questo culto perderanno tutti i loro affetti, per via di questa regola interna inflessibile». «Sarebbe la fine per noi…», hanno poi affermato relativamente al rischio di essere scoperte.
I BAMBINI VITTIMA DI UN «PLAGIO MENTALE» – Si parla, dunque, di regole rigidissime da rispettare, fin da giovanissimi. Nella scuola teocratica s’insegna «come dobbiamo accattivare la persona, quindi capendo i punti deboli e automaticamente lavorare su quelli», spiegano le ragazze. I bambini di pochi anni, affermano nell’intervista, «devono giocare con i bambini della congregazione, perché gli altri sono sempre una minaccia, anche se si tratta di persone perbene». I fanciulli, secondo le ragazze intervistate, sarebbero vittima di un vero e proprio «plagio mentale». Lo dimostrerebbe anche un cartone animato distribuito all’interno della comunità dei Testimoni di Geova per spiegare ai figli che non tutti i giocattoli sono adatti al divertimento, ma solo quelli che «rendono felici» Geova.
L’ALLONTANAMENTO FORZATO DALLA FAMIGLIA – Ma a preoccupare diversi fratelli della congregazione sarebbe anche e soprattutto l’allontanamento forzato dai propri cari nel caso di abbandono del loro credo. «Io penso – racconta ancora una delle ragazze alle Iene – che se tutti quanti prendiamo coraggio, alziamo la testa e acquistiamo la nostra libertà magari un domani potrà cadere l’ostracismo. Io me lo auguro con tutto il cuore per tutti quelli che in questo momento stanno soffrendo come noi». Alle telecamere di Italiauno, è stata ascoltata anche una ex testimone di Geova, Marcella, che ha raccontato di essere stata costretta ad allontanarsi dai genitori. «Sono stata dissociata – ricorda la ragazza – quando avevo 22 anni, perché nel luogo di lavoro avevo conosciuto un ragazzo. Dopo che c’eravamo frequentati… lui voleva avere dei rapporti sessuali ed io comunque mi ero rifiutata, perché comunque sapevo che stavo andando contro le regole rigide che c’erano nella mia religione». Ad ordinare la dissociazione di Marcella sarebbero stati gli anziani della congregazione, alla quale la ragazza si era rivolta per la sua situazione! Qualcosa doveva essere successa per forza!». Dunque, dopo l'allontanamento dai Testimoni di Geova, Marcella dice di essere rimasta sola, lontana da genitori, fratello e zii. Respinta. Rifiutata. «Questo calvario dura da 12 anni», afferma a Le Iene.
I GENITORI CHE RESPINGONO I FIGLI – Un calvario, quello vissuto in famiglia dagli ex testimoni, che la stessa Marcella ha deciso di raccontare in prima persona registrando con una telecamera nascosta una conversazione con i propri genitori del disperato e inutile tentativo di riallacciare un dialogo. In un video diffuso da Le Iene la ragazza incontra madre e padre per spiegare che la loro vita di litigi non può continuare e che sarebbe meglio avere un rapporto normale. Ma la risposta dei genitori, quasi straniti per la visita della figlia, è lapidaria: «Tu non hai capito niente allora? Tu hai fatto la tua scelta, ti sei allontanata da Geova. Lo sai che Geova mette un muro». Il papà afferma: «Lo sapevi che con i dissociati non dobbiamo avere niente a che fare, compresi i figli». Poi, la mamma aggiunge: «Tu hai lasciato Geova, a me non appartieni più! Quando tornerai da Geova allora le cose ritorneranno come prima, lo sai. Tu sei andata contro Geova. Io non voglio la maledizione di Geova! Io amo Geova, punto e basta!».
LA CONGREGAZIONE NON RISPONDE – Ma cosa pensa la congregazione di tutto ciò? Stefano Papanzian, uno dei responsabili dell’informazione pubblica dei testimoni di Geova davanti alle telecamere di Italiauno si rifiuta di commentare le testimonianze di dissociati e ripete di rispettare a pieno le regole della Bibbia. Chiede di ricevere domande via mail per un’intervista alla quale fornire risposte scritte. E degli ex fratelli dice: «Non ho interesse ad incontrarli, frequentarli o ascoltare le loro accuse».
Testimoni di Geova. Video, Le Iene e la manipolazione degli adepti, la denuncia: non è la prima volta, il precedente del 2014 (oggi, 27 gennaio 2016). Testimoni di Geova, 27 gennaio 2016, le Iene denunciano la manipolazione mentale shockante che subiscono i membri della setta, video del servizio con l'inviato Pelazza sulla pedofilia, scrive il 27 gennaio 2016 "Il Sussidiario". Il giorno dopo il video choc sui Testimoni di Geova mostrato dalle Iene fa discutere, sia per il contenuto di quanto rivelato sulla manipolazione dei alcuni adepti, sui presunti abusi, e sia per la particolare presa di mira di un’intera religione da parte del programma di Mediaset. Questo servizio tra l’altro non è il primo in cui Le Iene si occupano del caso Testimoni di Geova: già nel 2014 un servizio aveva cercato di raccontare e denunciare alcune pratiche strane. Due ragazze avevano raccontato alla trasmissione di Italia 1 di essere stufe di essere condizionate dalla congregazione in ogni aspetto della loro vita. Ecco le loro parole dell’epoca, riportate in un articolo di Giornalettismo: «Tantissime persone si sono svegliate, sono stufe di essere condizionate in ogni minimo aspetto della loro vita, vorrebbero uscire ma sanno che nel momento in cui abbandonano questo culto perderanno tutti i loro affetti». Problemi, manipolazioni e soprattutto minacce di abbandono. Sono passati anni ma la questione è sempre così: la domanda è se si tratta di alcuni casi isolati o se la quesitone è più diffusa di quanto si pensi o di quanto mostrano le Iene. Sta sicuramente facendo discutere il servizio sui Testimoni di Geova realizzato da Luigi Pelazza è trasmesso ieri a Le Iene Show per svelare quello che succede dentro il loro Comitato Giudiziario e la manipolazione subita dagli adepti. Un video che ha sicuramente fomentato l'odio verso i seguaci di questa religione, ma che ha anche diviso il pubblico sui social, visto che non tutti si sono sentiti di condannare a priori queste persone: "Basta pensare che secondo le leggi di Geova non si può donare il proprio sangue ad un figlio/a morente. Genitori/persone/religione di m*rda!", "Il prossimo testimone di Geova che mi viene a bussare, gli butto un bel secchio di urina dal balcone. Sono ufficialmente razzista verso queste latrine!", "Io nn sono testimone di Geova...ma quello che scrivete voi mi fa abbastanza schifo...facile credere alle cazzate che dice la televisione.. io ho alcuni amici e sono delle brave persone...conosco anche infermieri e dottori quindi nn è vero niente il fatto dell'Università...conosco TG con figli gay e che cmq stanno in. casa mangiano con i genitori ecc quindi TT stronzate", "Bisogna conoscerli prima di guiducarli...vergogna. Nn sono testimone di Geova ma nn si può fare di un erba un fascio!!! Quante famiglie cattoliche coprono cose oscene e orribili?". Nella scorsa puntata, Le Iene Show ha trasmesso un servizio sui Testimoni di Geova, denunciando la mancanza di libertà in cui vivrebbero gli adepti di questa religione. In Italia i membri sono 500 mila membri e da diversi anni la Cesap, l’associazione italiana di medici e psicologi, indagano sul plagio che subiscono i Testimoni di Geova. L’inviato Pellazza, come si può vedere in video, intervista la dottoressa Lorita Tinelli, psicologa del Cesap, che afferma che i membri di questa religione subiscono costantemente “manipolazione mentale altamente nociva” da parte dei livelli ‘alti’. Uno degli aspetti del plagio parte dall’omologazione degli adepti, costretti ad indossare gli stessi vestiti, fare gli stessi gesti ed usare le stesse parole. Il servizio ci mostra anche due episodi, entrambi con al centro due maggiorenni che compaiono di fronte ad una commissione di anziani volta a giudicarne il comportamento. I due ragazzi hanno avuto rapporti sessuali consenzienti con altre due persone e le rispettive madri li hanno portati di fronte ai ‘giudici’ della setta, costringendoli a rivelare anche i dettagli più intimi. Alla fine i due ragazzi sono stati espulsi come membri e come ci spiega la dottoressa Tinelli, questo implica anche che non possono avere nessun contatto anche con i propri familiari. Anche se abitano nella stessa casa. La seconda parte del video tocca un tema molto più forte, quello della pedofilia. Un ex anziano riferisce alle telecamere di essere stato allontanato dalla setta quando ha denunciato un presunto atto di pedofilia che sarebbe stato compiuto da un membro. Il ragazzo sarebbe stato sorpreso in macchina con un bambino ed il provvedimento preso dagli anziani è stato di impedirgli di parlare pubblicamente ai confratelli durante le riunioni. La setta vieta espressamente di denunciare alle autorità qualsiasi confratello, anche se ha commesso i reati più gravi come questo. L’inviato ha anche cercato di parlare con il padre del bambino ma il plagio è tale che l’uomo, come mostra il servizio, non si rende nemmeno conto di essere manipolato. La dottoressa Tinelli ha confermato che secondo gli studi molte persone, una volta estromessi dalla setta, arrivano anche a commettere il suicidio. Sempre secondo la dottoressa, quindi, l’eventualità quindi di non poter far più parte del gruppo diventa un deterrente e dimostra fuori da ogni dubbio il soggiogamento che tali persone sono costrette a subire.
14 ottobre 2011. L’udienza preliminare. Nell'aula Alessandrini del Palazzo di giustizia di Taranto è cominciata l'udienza preliminare dinanzi al gup Pompeo Carriere per l'omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010. Tredici gli imputati. La Cassazione ha stabilito che il processo si terrà a Taranto, rigettando la richiesta di rimessione del processo e trasferimento a Potenza avanzata dai difensori di Sabrina Misseri.
L'udienza preliminare si svolge - come di norma a porte chiuse. In aula ci sono Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, entrambe detenute e accusate in concorso tra loro di omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Presenti anche Michele Misseri, il fratello Carmine e il nipote Cosimo Cosma, tutti e tre accusati con le due donne della soppressione del cadavere di Sarah. Non c'è Concetta Serrano, madre di Sarah: i legali della famiglia, Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, hanno annunciato una conferenza stampa di Concetta ad Avetrana, una volta conclusa l'udienza odierna.
Sapientemente, come una partita a scacchi, che non si gioca nelle aule dei tribunali, ma nei salotti mediatici. Poi ci si lamenta che il popolino, ingenuo, ne venga influenzato.
Stretta ai lati dai suoi avvocati, Valter Biscotti e Nicodemo Gentile, abili registi di un processo mediatico, e assediata da giornalisti e telecamere che ha accolto nella sua casa, Concetta Serrano Spagnolo, la mamma di Sarah Scazzi, ha voluto sfogarsi come non faceva da tempo. Sotto il fuoco incrociato delle domande dei cronisti la donna dai capelli rossi e lo sguardo senza pianto né sorrisi ha voluto puntare subito sulla nipote Sabrina: «Dico a Sabrina che se dice la verità, starà bene lei stessa. Se la verità non continua a dirla, sono certo che Dio Geova farà parlare persino le pietre per far uscire fuori la verità. Perché se Sarah ha sofferto pochi istanti, la sofferenza che lei potrà provare a non dire la verità sarà un tormento senza pace. Mia figlia ha sofferto pochi minuti, ma se lei non parla e dice la verità vivrà nel tormento per tutta la vita». Ricordando i tempi in cui sua figlia frequentava chi l’avrebbe poi uccisa, mamma Concetta ha parlato di una Sabrina diversa da come lei stessa si vuole presentare. «Mia figlia si lamentava per come Sabrina la usava e la chiamava solo quando voleva aiuto mentre spesso la lasciava a casa da sola». Parole dure anche nei confronti della sorella Cosima. «Non riesco ancora ad inquadrare il suo ruolo. Lei che non parla mai – ha detto Concetta – sarebbe ora che parlasse e che dicesse finalmente quello che certamente sa. Se è vero che mamma e figlia hanno aiutato Michele a gettare Sarah nel pozzo, vuol dire che hanno anche ucciso. Provo tanta rabbia per loro e non riesco a capacitarmi di come abbiamo potuto uccidere una bambina per di più loro parente». A proposito della sorella Cosima, poi, la mamma di Sarah ha ricordato un episodio accaduto il giorno della scomparsa di sua figlia: «Eravamo in caserma per la denuncia e ricordo che trattenendo le lacrime disse così: “questa volta Sarah l’ha fatta veramente grossa”. Fu allora che cominciai a pensare che mia sorella sapesse qualcosa». Parole di sdegno anche per il cognato Michele. «Prima mi faceva solo pena ora mi fa schifo lui e la sua famiglia; mio cognato ha sempre fatto quello che hanno voluto gli altri ed ora è un bugiardo; se deve venire a parlarmi per dire le sciocchezza che sta dicendo è meglio che resti dov’è, perché quando dice quelle cose mi fa schifo». La donna non ha risparmiato accuse «a certi giornalisti – ha detto – che invece di concentrarsi sulla giustizia e sulla verità, si concentrano su altro, per esempio quando sono andati a casa di Michele quando è stato scarcerato: quella è stata una cosa di pessimo gusto». Come «squallida – ha aggiunto – è stata la messinscena dell’altarino di mia figlia sotto al garage dove è stata uccisa. Tutta l’attenzione ora è rivolta a queste persone squallide mentre di mia figlia che non c’è più sembra se ne siano dimenticati. Provo rabbia e dolore quando sento che Michele parla e piange parlando di mia figlia. In questo modo non fa che infangare il suo nome e il suo ricordo». Dopo mesi di silenzio è tornata a parlare Concetta Serrano Spagnolo, la madre di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa ad Avetrana (Taranto). La donna ha incontrato i giornalisti, perché «voglio conoscere la verità, voglio sapere chi ha ucciso mia figlia. Se non ci fosse stata la stampa Sarah non sarebbe stata mai trovata. Ma non tutti i giornalisti fanno il loro lavoro con coscienza. Certi giornalisti li disprezzo, perché invece di ricercare la verità si concentrano su altro. Si concentrano tutti su questi possibili criminali, sembrano dei miti, mentre Sarah viene dimenticata da tutti. La sogno spesso come se fosse viva. Tutti la conoscevamo come una ragazza allegra, solare, sorridente. Questa tragedia mi ha lasciato sinceramente allibita: chi si aspettava una cosa del genere da familiari? C’è tanta rabbia perché non riesco a capire come siano riusciti a uccidere una bambina, dei familiari poi!?! Mi rendo conto che sono state delle persone che non solo hanno ucciso Sarah, ma hanno ingannato anche me con la loro presenza. A tante domande devono rispondere loro. Per questo dico sempre che devono dire la verità, una verità che ancora non è venuta fuori. Io mi faccio mille domande, penso a tante cose. Non posso escludere che Sarah abbia sentito discorsi o visto quello che facevano in casa». Quanto a ricucire i rapporti con la famiglia Misseri? «Questo sarà difficile che avvenga. Loro non hanno mai detto la verità, nemmeno ai giudici. Hanno paura che esca fuori la verità. Michele mi faceva pena prima, oggi mi fa schifo come il resto della sua famiglia. Lui ha un suo bagaglio di bugie e si carica anche di quelle di moglie e figlia. Mia figlia non sarebbe mai entrata nel garage, perché Sarah ha paura del buio. Michele fa quello che gli dicono di fare. Sta recitando solo una parte per compiacere i suoi famigliari. E' un uomo che non ha il senso della giustizia, della moralità. Quell'altarino nel garage è una cosa squallida. Vuole chiedermi perdono? Che la smetta di dire tutte quelle cretinate e racconti solo come è morta mia figlia».
Dopo circa tre quarti d’ora di domande e risposte Concetta ha chiuso l’incontro con un desiderio: «Voglio che sia fatta giustizia, ma non voglio un colpevole – ha detto – ma il vero colpevole che ha ucciso mia figlia».
Partiamo dall’aspettativa di giustizia che hanno le vittime (ed i loro familiari). La mamma di Sarah, Concetta Spagnolo Serrano, non crede nella giustizia. «La morte di Sarah è un segreto che si porteranno sempre dentro Cosima e Sabrina». Queste alcune delle parole di Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, raccolte dall'inviato di Quarto Grado e in onda su Retequattro alle 21.10 del 7 settembre 2012. «Quel 26 agosto - racconta Concetta Serrano parlando con l'intervistatore del giorno della scomparsa della figlia quindicenne - ho avuto l'impressione che a Sarah fosse accaduto qualcosa di grave, ma non sapevo di preciso cosa. Mai avrei immaginato nulla del genere». «Mia figlia - afferma la donna - è stata vittima della cattiveria di Sabrina e Cosima. Il fatto che mia sorella, insieme alla figlia, abbiano rincorso Sarah, mi fa pensare a qualcosa di più squallido della gelosia. Secondo me oltre a quello ci sono altre cose». «In questi mesi non ho mai avuto il desiderio di parlare con loro semplicemente perché tanto, vigliaccamente, non si assumono le loro responsabilità dicendo la verità. Continueranno sempre con quella versione all'infinito. È una pugnalata quando mi guardano con quegli occhi indemoniati e pieni di scherno. Mi sento tradita e penso che un tempo erano altre persone». «Non so se ci sia ancora poco o molto da scoprire sull'omicidio di mia figlia.
L'importante - dice ancora la donna - è che si arrivi alla verità.
Questo è un segreto che si portano dentro Cosima e Sabrina e non so come facciano a sopportare questo peso atroce sulla coscienza, ammesso che ne abbiano una». La donna conclude parlando del processo e del suo stato d'animo quando si trova in aula: «Quando sono in aula - racconta - mi sembra di perdere il contatto con la realtà. In questi mesi ho assistito alle udienze e sono rimasta profondamente turbata. Mi sembra un processo assurdo, tant'è che spesso mi pongo degli interrogativi e dico: ma questo processo perché si svolge? A chi serve? Chi se ne avvantaggia? La vittima? Non direi proprio». «Se la giustizia deve rendere a ciascuno il suo - conclude Concetta Serrano - a Sarah cosa verrà corrisposto?»
La domanda che sorge spontanea è: cerchiamo giustizia o piuttosto pretendiamo vendetta? Ed una persona di fede che crede nella misericordia divina, può perseguire la vendetta e non la giustizia? E poi quale giustizia: quella pretesa dai media; quella pretesa dalle parti; quella imposta dai magistrati?
Nella trasmissione "Quarto Grado", in onda su Rete 4, è intervenuta la mamma della povera Sarah, la bimba uccisa due volte: prima dall’omicida e dopo dai media. Pur comprendendo il dolore di una madre a cui viene uccisa una figlia, in modo crudele e da parenti, c'è da dire che la signora ha lanciato una serie di nefandezze. Nessuno le toglie il diritto sacrosanto di pretendere giustizia giusta e vedersi risarcita per la perdita della figlia.
Tuttavia, questo non la autorizza, in pubblico via Tv, a lanciare proclami di vendetta con parole forti e ancor di più fare ingiusta pubblicità alla setta dei Testimoni di Geova. Proprio lei che afferma che chi invita "zio Michele" nelle trasmissioni tv, lo invita in cerca audience a buon mercato. Concetta Spagnolo Serrano più volte ha detto che vuole vendetta, che questa vendetta è gradita a Dio Geova. Insomma, un Dio vendicatore e giustiziere, una vera eresia mandata in diretta, senza che nessuno degli ospiti avesse avuto il coraggio di contraddirla. A parere della mamma di Sarah Scazzi, Dio dovrebbe mandare fulmini e saette sugli assassini. Una concezione eretica e blasfema, perché detta da una persona di fede. Quel Dio a cui la signora si riferisce forse è il Dio del vecchio testamento, adorato dai Testimoni di Geova, dagli ebrei e dai mussulmani. Il Dio di Gesù Cristo è Dio fatto da amore puro e misericordia e sa perdonare, se pentito, anche il peggior delinquente. Se Dio fosse stato come dice la signora, non sarebbe morto di Croce, avrebbe sterminato facilmente i suoi aguzzini.
Bisogna distinguere: Dio non manda mai il male, ma lo permette, quando questa specie di catechismo del male, serve per ottenere un bene. La sparata della signora Scazzi, ci fa riflettere su come la Tv esageri con dibattiti relativi ai delitti, alle morti. Si ascoltano parole in libertà, interviste che potrebbero anche essere frutto di contrattazione e teorie spesso senza fondamento, in quanto nessuno dei soloni, ha letto le carte processuali. Non sarebbe ora di smetterla con questi catechizzatori mediatici, senza arte, ma di parte, che ci lavano il cervello?
Nei fatti di cronaca nera si impreca contro il mostro sbattuto in prima pagina, spinti dall’impeto dell’odio ed in base alle informazioni date per un interesse, quindi spesso distorte od artefatte. Al presunto autore si scaglia l’anatema più grave: affinché egli bruci all’inferno per tutta l’eternità. Inferno è il termine con il quale in ambito religioso, si indica il luogo metafisico (o fisico) che attende, dopo la morte, le anime (o i corpi) degli uomini che hanno rifiutato Dio scegliendo in vita il male ed il peccato. l'Inferno è caratterizzato da estremo dolore, enorme disperazione e tormento eterno. Può essere visto come un luogo metafisico o spirituale che ospita le anime incorporee dei morti, oppure come luogo fisico sede di tormenti altrettanto fisici. L'Inferno costituisce una condizione di dannazione eterna e questa condizione è solitamente assegnata in base alla condotta morale e spirituale che la persona ha tenuto in vita. Certo è che nessuno sa che l’inferno in terra si chiama carcere e che lì dentro vi sono persone, spesso, che non meritano di starci.
E’ una discarica di rifiuti umani, spesso frutto di raccolta differenziata (poveri ed indifesi), la maggior parte senza colpa, o colpa apparente, o comunque non tanto grave da giustificarne la reclusione. Di questo tutti stanno attenti a non parlarne, tanto i delinquenti sono sempre gli altri e meritano quella pena. Ce ne rammarichiamo solo quando in discarica ci andiamo noi, ben pensanti. Solo allora scopriamo che l’inferno in terra è ingiusto, specie se esso a noi perviene dalla giustizia terrena e non da quella divina.
La mamma di Sarah come non si era mai raccontata prima intervistata da Nazareno Dinoi per il settimanale Di Più e per “La Voce di Manduria”.
Come per liberarsi di un pesante fardello che la opprimeva da quella terribile notte del 6 ottobre in cui la figlia fu trovata morta nel pozzo in contrada Mosca, appesantito dalle lunghe udienze del processo in Corte d’assise, Concetta Serrano Spagnolo, mamma di Sarah Scazzi, mi rilascia una lunga intervista in cui si apre come mai aveva fatto prima, parlando di tutti i dubbi accumulati in questi due anni.
In questi anni, ha mai pensato che forse avrebbe potuto salvare sua figlia Sarah?
«No. Più che altro avrei voluto che avesse seguito la mia religione. Io appartengo ai Testimoni di Geova e avrei voluto che restasse tra noi fratelli, come noi Testimoni di Geova ci chiamiamo l’un l’altro: tra noi sarebbe stata più al sicuro. Noi Testimoni di Geova nemmeno nella fantasia possiamo pensare di uccidere una persona, figuriamoci realmente. Lo dicevo sempre a mia figlia che chi non ama Dio non può amare te. Non l’ho mai obbligata a seguirmi, forse in questo ho sbagliato? ».
I suoi parenti le stanno vicino?
«I miei parenti? E dove sono? Nella mia congregazione dei Testimoni di Geova ho sorelle, figli, nonni, nipoti, quella ora è la mia famiglia. Nessuno dei miei parenti è più presente, sono come morti. Le mie sorelle, piuttosto che stare vicino a me che ho perso una figlia in quel modo atroce, hanno subito parteggiato per l’altra sorella che invece ha la figlia in carcere».
Si è mai sentita in colpa di ciò che è successo?
«L’unico rammarico è non essere riuscita a convincere mia figlia a seguire la mia religione di Geova. Le dicevo sempre che gli uomini sono cattivi e solo con Geova si è al sicuro».
Questa storia le ha portato via una figlia e, in maniera differente, anche una parte dei parenti. Che rapporto ha con gli altri suoi familiari?
«I miei parenti sono le consorelle e i confratelli di Geova. Tutti gli altri hanno preferito stare con la sorella che ha la figlia in carcere e non con me che una figlia non ce l’ho più».
Eppure, nonostante la sicurezza di Concetta, senza alcun ombra di dubbio, troviamo d’altro canto la certezza di Michele Misseri.
IL SATANISMO.
Scorsese: «Io, che volevo fare il prete, vi racconto Dio». Da giovedì nelle sale “Silence”, tratto dal libro di Shusaku Endo. Dopo la presentazione in Vaticano alla presenza del Papa, arriva il nuovo film del regista statunitense, scrive Chiara Nicoletti l'11 gennaio 2017 su "Il Dubbio". È dal 1988 che Martin Scorsese voleva girare Silence, ma il regista premio Oscar ha dovuto aspettare ben ventinove anni per poterlo realizzare. Presentato negli Stati Uniti lo scorso 23 dicembre e nelle sale italiane dal 12 gennaio Silence si basa sul romanzo del 1966 di Shusaku Endo da cui prende il titolo, libro arrivato nelle mani di Scorsese grazie all’arcivescovo Paul Moore incontrato proprio in quel lontano 1988 a New York in occasione della proiezione speciale di L’ultima tentazione di Cristo tenutasi per dei leader religiosi. Sul bestseller e capolavoro di Endo, Scorsese ha dichiarato: «Il tema che Endo analizzava nel suo libro era presente nella mia vita da sempre, fin da quando ero molto, molto giovane. Sono cresciuto in una famiglia profondamente cattolica ed ero molto coinvolto nella pratica religiosa. I miei principi e le mie idee sono ancora basati sulla spiritualità del cattolicesimo in cui ero immerso da bambino, una spiritualità che ha a che fare con la fede». Pochi sanno che Martin Scorsese voleva farsi prete ed ha studiato per diventare tale. Lo ha ricordato spesso nelle interviste, anche recentemente al New York Times e i più attenti al suo cinema sapranno rilevare un sottotesto religioso in ogni sua opera. In alcuni film è più evidente, in altri meno, ma la lotta continua tra bene e male, peccato e moralità, violenza e spiritualità è sempre presente nelle sue opere e sembra condensarsi pienamente in Silence. Per un uomo cresciuto in una Little Italy dove le scelte obbligate erano la malavita o la carriera ecclesiastica, risulta evidente come sia stato fondamentale per Scorsese, utilizzare proprio gli elementi che ha vissuto in prima persona per affrontare più grandi temi. Così, come in un lungo processo di crescita, da film estremamente autobiografici come Mean Streets Domenica in chiesa, lunedì all’inferno in cui si raccontava di un gangster in conflitto tra vita religiosa e malavitosa, Scorsese si è spesso apparentemente allontanato dalle crisi di coscienza ma le ha invece affrontate in maniera estrema, attraverso la pazzia da rifiuto e abbandono in Taxi Driver o il declino della fama e del successo in Toro Scatenato. Come forse a voler concludere un cammino, Scorsese ha voluto ricevere una sorta di approvazione “divina” prima di far uscire il film e il 1 dicembre 2016 è giunto in Vaticano per mostrarlo a Papa Francesco ed a una comunità di maggioranza gesuita. Ambientato nel XVII secolo, Silence racconta infatti di due missionari della Chiesa Cattolica Romana, i padri gesuiti Sebastian Rodrigues (Andrew Garfield) e Francisco Garupe (Adam Driver) nel loro arduo e pericoloso viaggio in Giappone, intrapreso per ritrovare il loro maestro e mentore, padre Cristóvão Ferreira (Liam Neeson) ed al contempo diffondere il cristianesimo. A quel tempo, il Giappone era profondamente anti- cattolico e anti- cristiano. I signori feudali e i Samurai erano decisi a sradicare il cristianesimo dal paese e quindi tutti coloro che si professavano cristiani erano arrestati e torturati, costretti a rinnegare la loro fede o ad essere condannati a morte.
Fede e spiritualismo. Come queste due componenti non fisiche possono mettere in conflitto l’uo- mo tra sé e sé e con gli altri. Martin Scorsese, regista e sceneggiatore di Silence, riflette su un silenzio più grande e inspiegabile, quello di Dio di fronte alle brutalità umane. Un silenzio che non scalfisce e non mette in dubbio l’esistenza di Dio, ma non trova risposta se non nella quiete privata e personalissima. Come lui stesso ha scritto: «Silence è la storia di un uomo che impara – molto dolorosamente – che l’amore di Dio è più misterioso di quanto lui pensi, che Lui lascia più spazio agli uomini di quanto crediamo e che è sempre presente… anche nel Suo silenzio». Martin Scorsese porta il romanzo giapponese nei paesaggi di Taiwan, e confonde tra i colori morti e la forza scenica della natura una crisi profonda che non risale esclusivamente al 1600. Scappare dalla persecuzione e continuare nel proprio credo o rinnegarlo e andare avanti? In questa situazione estrema, Scorsese affida al carisma di Liam Neeson il ruolo più importante e metaforico, quello di un prete costretto a sacrificare il suo credo per un fine più grande. A chiusura del cerchio ed a porre la parola fine all’analisi che negli anni Scorsese ha portato avanti per la sua crescita personale e spirituale oltre che artistica, il continuo binomio tra spiritualità e peccato è visibile nell’alternarsi o fondersi del simbolismo e le grandi metafore sulla fede con una violenza nel film che non è mai celata, anzi estrema e viscerale. Silence con i suoi silenzi sospesi e le parole urlate insieme alle lacrime dei personaggi, non offre consigli, non giudica, non persuade a una verità. Lascia il silenzio della riflessione, per un tema complesso e per un cinema a cui non siamo più abituati.
Satanismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Satanismo è un termine generale che ricopre un'ampia gamma di significati, principalmente letterari, artistici, poetici, religiosi e filosofici, che hanno come punto di riferimento la figura di Satana, inteso e rappresentato in numerosi modi, non necessariamente biblici; talvolta come un simbolo o un archetipo, altre volte come un personaggio immaginario, e ancora come un essere realmente esistente. Originariamente indicava un genere immaginativo poetico-letterario, con iconografie caratteristiche, attestato per la prima volta come fenomeno letterario nell'ambito della letteratura inglese del romanticismo nel XIX secolo; diffusosi poi in Europa, si ritrova anche in alcuni autori del decadentismo come P. B. Shelley, Lord Byron, Oscar Wilde, Charles Baudelaire e vari altri.
Età antica. «L'ascendenza di Satana è il risultato di un elaborato incrocio di tradizioni che è durato millenni.» (Chris Mathews, Modern Satanism: Anatomy of a Radical Subculture, p.1.) La figura occidentale di Satana o del demonio risale a numerosi secoli antecedenti rispetto alla nascita della cultura giudaico-cristiana: si possono ritrovare le sue origini nella zona del Medio Oriente, in particolare nelle mitologie e religioni del Vicino Oriente antico, mesopotamiche, egizia, zoroastriana, caldea e cananea, caratterizzate da un pantheon o dalla credenza in divinità o spiriti malvagi e crudeli, ma anche neutrali o associati a catastrofi naturali (si confronti con Set). Fu principalmente a causa dell'influenza zoroastriana sull'élite ebraica di Gerusalemme, avvenuta durante l'esilio babilonese, che l'ebraismo del Secondo Tempio iniziò a sviluppare una complessa teologia morale sul dualismo dell'eterna lotta tra bene e male, le cui tracce si possono abbondantemente ritrovare nell'apocalittica giudaica e nel giudaismo enochico (corrente di pensiero ebraica a cui vanno attribuiti numerosi apocrifi dell'Antico Testamento). L'influenza zoroastriana e caldea tuttavia fu molto importante anche per il passaggio dal concetto di Sheol a quello dell'Inferno (insieme alla visione greca del Regno dei Morti), del giudizio divino, della punizione per i malvagi, dell'identificazione del male con il serpente[6], e, infine, con la nascita della demonologia nel giudaismo rabbinico.
Nel Tanakh e nell'ebraismo del Secondo Tempio. Il Tanakh o "Bibbia ebraica" è molto povero di riferimenti a Satana (viene citato solo quattro volte), e comunque viene relegato ad un ruolo minore nei pochi libri in cui compare[6]. La maggior parte dei demoni che vengono citati sono in realtà delle divinità presenti nei pantheon cananei ed egizi, che sono stati "demonizzati" in seguito alla divisione degli antichi israeliti dal popolo di Canaan e dalle altre popolazioni che all'epoca risiedevano in Palestina e nel Levante, per ragioni di carattere nazionalistico e indipendentista. Nonostante Satana venisse già citato nel libro di Zaccaria, il primo manoscritto biblico in cui Satana fa la sua vera comparsa è il libro di Giobbe, uno dei testi prodotti dalla corrente del giudaismo sapienziale, la quale, così come gli apocalittici, cercava un modo per spiegare l'origine del male e la sofferenza umana. L'esempio ebraico si esplica nello Tanakh e svolge sempre il ruolo di angelo subordinato a Dio ed esegue gli ordini di quest'ultimo, senza mai ribellarsi. L'interpretazione teologica che vede Satana nel serpente di Genesi è in realtà molto tardiva, e non venne formulata dagli ebrei ma dai cristiani, che ancora oggi utilizzano questo modo di considerare il suddetto animale nel mito in questione. Sta di fatto però che nella cultura ebraica il serpente non ha nessun significato particolare. Dopo la scomparsa della corrente apocalittica giudaica e la fine del periodo del Secondo Tempio, i cui unici rimasugli furono le sette del giudeo-cristianesimo e una minore influenza sull'ebraismo rabbinico, gli ebrei rabbinici abbandonarono le idee apocalittiche e tornarono a considerare l'esistenza di un esclusivo Dio benevolente, usando come basi gli insegnamenti dei rabbini del Talmud, e l'impossibilità di ribellione da parte degli angeli, in quanto creati senza peccato. Nonostante ciò le tradizioni ebraiche su Samael, che comprendono racconti, leggende ecc. riportati nell'Aggadah (ereditate anche dai cristiani) e le spiegazioni sull'esistenza del male presenti nella Qabbalah continuarono in momenti diversi a far riemergere la figura di un angelo ribelle. Ma nell'ebraismo il diavolo (costruito soprattutto su religioni e tradizioni straniere) rimane un'allegoria delle inclinazioni o comportamenti negativi che fanno parte della natura umana.
Nel Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento presenta Satana, o il diavolo, molto più di frequente rispetto al Tanakh, in una maniera del tutto nuova e assolutamente negativa di questo personaggio. Egli acquisisce un ruolo molto importante nelle narrazioni su Gesù come suo tentatore o accusatore. Viene inoltre associato a numerosi demoni-divinità straniere del Tanakh, come Baal o Beelzebub, e a figure mostruose della mitologia ebraica, come il Leviatano, soprattutto nell'Apocalisse di Giovanni. Il Nuovo Testamento contiene una sorprendente agitazione di forze demoniache. Nel cristianesimo, Satana assume definitivamente il ruolo di spirito maligno e portatore dell'oscurità, contrapposto al Dio buono della luce, in questo caso Ahura Mazdā. Nel giudeo-cristianesimo, prodotto del giudaismo enochico così come l'essenismo e influenzato anche da quest'ultimo (cfr. Rotoli del Mar Morto), Satana assume definitivamente negli scritti evangelici lo stesso ruolo che Angra Mainyu ricopre nello zoroastrismo, cioè di spirito maligno e portatore dell'oscurità contrapposto al Dio buono della luce, in questo caso Ahura Mazdā. I vangeli hanno contribuito enormemente a costruire una identità malvagia vera e propria di Satana, attribuendogli la totalità del male, molto distinta dal suo ruolo di angelo obbediente inviato da Dio, come invece era raffigurato nel Tanakh.
Età apostolica e patristica. Il primo scrittore cristiano a identificare il serpente di Genesi con Satana fu probabilmente Giustino, nei capitoli 45 e 79 del Dialogo con Trifone. Altri padri della Chiesa a menzionare questo punto di vista furono Tertulliano e Teofilo. Ulteriori interpretazioni errate cristiane sul Tanakh riguardo alla presenza o riferimenti a Satana sono ad esempio il passo biblico 14,12-15 del libro di Isaia, nel quale viene citata la "stella del mattino", cioè il pianeta Venere, che però in questo contesto diventa una metafora per la sconfitta del sovrano babilonese Nabucodonosor II, nemico degli israeliti, presente anche lui nel medesimo capitolo. Questa interpretazione cristiana e la sua erroneità va attribuita a san Girolamo, che tradusse, verso il 408, la Bibbia dal greco al latino, quindi dal termine Φωσφόρος (Phosphoros, cioè "portatore della luce") dedusse quello di Lucifer ("Lucifero"), il quale era già ricco di significati e proveniente da una tradizione letteraria e mitologica greco-romana affermata, che lo metteva in relazione con il leggendario Prometeo. A causa di questa traduzione, la Vulgata, ma più che altro della sua interpretazione letterale, nella quale Girolamo considerava la "stella del mattino" di Isaia un angelo ribelle che cade dal cielo, egli pensò che si riferisse a Satana, e non al sovrano Nabucodonosor II, facendo entrare il termine "Lucifero" nel linguaggio cristiano come uno dei nomi di Satana. Allo stesso modo anche altri passi del Tanakh; ad esempio il 28,14-15 del libro di Ezechiele viene interpretato dai cristiani come un riferimento a Satana, perché narra di un cherubino che, nonostante la sua perfezione, cade in disgrazia. Il passo in questione, insieme all'intero capitolo, è però riferito al re di Tiro. La concezione dualistica tra bene e male del paleocristianesimo venne influenzata anche dal contrasto tra materia e spirito dell'orfismo e platonismo greci. Già dal 94-97 i cristiani del Mediterraneo concepivano Satana come un antagonista il cui obbiettivo è di condurre la cristianità alla dannazione. Ignazio di Antiochia affermava nelle sue lettere che Satana regna sul mondo da quando quest'ultimo è nato e che, grazie all'incarnazione di Gesù e all'imminente parousia, la fine del suo dominio sarebbe arrivata molto presto. È chiaro quindi che Ignazio, così come la stragrande maggioranza dei successivi padri della Chiesa e leader cristiani, prendeva la Bibbia alla lettera invece di interpretarla. Ad ogni modo, le opere di Ignazio sono importanti dal punto di vista linguistico, poiché egli utilizza per primo per riferirsi a Satana la parola ρχων("arconte"), termine che avrebbe assunto un particolare significato nello gnosticismo. L'insistenza di Ignazio per Satana era dovuta al suo continuo e incessante pensiero verso il martirio, ed era tale da considerare persino un'iniziativa ecclesiastica priva dell'autorizzazione di un vescovo come un atto effettuato da un adoratore del diavolo. In seguito venne bollata come un'opera di Satana la comparsa di scismatici ed eretici, contro i quali la Chiesa pronunciava anatemi sull'impossibilità di raggiungere il regno di Dio. Dopo il I secolo diventò una misura standard da parte della Chiesa, accusare gli eretici o gli eterodossi di essere alla mercé del diavolo.
Età moderna e contemporanea. Le origini dei movimenti culturali e filosofici aventi come culto la figura di Satana non possono essere fatte risalire anteriormente al XIX secolo: in particolare, secondo Dawn Perlmutter, la nascita del Satanismo, inteso come fenomeno religioso, potrebbe essere fatta risalire alla figura di Aleister Crowley e ai suoi scritti. A cominciare dal XV secolo si era tuttavia diffusa la credenza, in ambito cristiano, dell'esistenza di fenomeni organizzati di devozione a Satana, che furono pesantemente condannati in opere sulla stregoneria quali il Malleus maleficarum (1486 circa) e il Compendium maleficarum (1620 circa). I movimenti aventi come culto la figura di Satana hanno avuto sorti alterne di repressione e di revivescenza «a partire dai tempi di Luigi XIV, alla cui corte vengono celebrate le prime messe nere per ottenere favori e vantaggi materiali fino al Satanismo contemporaneo, che nasce con Aleister Crowley, un facoltoso inglese vissuto nella seconda metà dell'Ottocento, che dedicò la sua vita all'occultismo. Crowley fondò la prima congregazione satanista della storia, a cui, nel 1911, fornì un'abbazia in Italia, a Cefalù, dove Crowley visse per qualche anno. Nella storia del Satanismo riveste grande importanza la figura del regista underground di Hollywood, Kenneth Angaer e il suo amico Anton Szandor LaVey — pseudonimo di Howard Stanton Levey (1930-1997) — e con il cineasta underground di Hollywood Kenneth Anger, fondatori del Magic Circle nel 1961 e della Chiesa di Satana nel 1966». Nel 1966 il californiano Anton LaVey fondò a San Francisco la Chiesa di Satana, diffondendo questo culto prima negli Stati Uniti e, successivamente, in Europa, durante il periodo della cosiddetta controcultura. In questo contesto venne proposto il "mito" dell'esistenza di un "Satanismo antico" che andava recuperato al fine di generare un autentico "Satanismo moderno". La stessa biografia "leggendaria" di Anton Lavey è oggi messa in discussione. Nel 1975 Michael Aquino, il quale aveva aderito nel 1969 alla Chiesa di Satana fondata da Lavey, se ne distaccò per fondare un movimento satanista alternativo, il Tempio di Set. Il tramonto della controcultura ha progressivamente ridotto il proselitismo delle Chiese sataniche anche se non ha ridotto l'interesse per il Satanismo. Durante gli anni ottanta negli Stati Uniti d'America, in Canada e in Europa le autorità pubbliche, allarmate da una serie di episodi criminali, sospetti o presunti rinvenimenti di sacrifici umani o animali, nonché da numerose testimonianze di psicoterapeuti che riferivano di abusi satanici durante l'infanzia da parte di loro pazienti, nonché testimonianze di bambini maltrattati, hanno avviato una serie di indagini coinvolgendo le chiese sataniste e creando "allarme sociale" intorno ai loro culti. David G. Bromley[35] evidenzia tuttavia che non vi è alcuna prova del coinvolgimento della Chiesa di Satana e del Tempio di Set in questi presunti accadimenti, i quali, peraltro, sono stati frequentemente via via spiegati diversamente. Questi accadimenti, occorsi negli anni ottanta, hanno ridotto drasticamente, sempre secondo David G. Bromley, la diffusione delle Chiese di Satana.
Caratteristiche del Satanismo. Il Satanismo in senso stretto è un movimento che ha come perno della propria filosofia il culto di Satana, e ne fa il punto di riferimento principale della sua ritualità. Secondo lo scrittore decadente Joris Karl Huysmans (1848-1907), il Satanismo è un atteggiamento che «consiste in una pratica sacrilega, in una ribellione morale, in un'orgia spirituale, in un'aberrazione per nulla ideale e cristiana; risiede anche in un godimento temperato dal timore... la gioia proibita di trasferire a Satana gli omaggi e le preghiere dovute a Dio; consiste nell'inosservanza dei precetti cattolici che vengon seguiti all'incontrario, commettendo, per oltraggiare più gravemente Cristo, i peccati che egli ha più espressamente maledetti: la contaminazione del culto e l'orgia carnale».
Movimenti e sette sataniche. Esistono differenti tipi di movimenti e sette sataniche. Il sociologo delle religioni Massimo Introvigne ed il CESNUR hanno classificato diverse tipologie di satanismo. Per una disamina più dettagliata sulla storia del satanismo, si veda l'introduzione al satanismo di Introvigne sul sito ufficiale del CESNUR.
Dalla varie sette, Satana viene concepito in diverse maniere: come archetipo di uno stato di coscienza superiore dell'uomo (Satanismo gnostico), che talora tende verso l'ateismo materialista (Satanismo razionalista); come una divinità a tutti gli effetti (Satanismo luciferiano e spirituale), o come un'entità spirituale preternaturale (Satanismo occultista).
Satanismo occultista. Il satanismo occultista rappresenta la corrente più "nera" del Satanismo, comprendendo quel particolare percorso denominato "via della mano sinistra" che per secoli è stato concepito, appreso e trasmesso su base individuale.[senza fonte] Il Satanismo tradizionale è occultista proprio poiché segue il sentiero oscuro tracciato dalla via della mano sinistra, che è molto legato all'uso della magia nera, la quale assorbe molti concetti proposti dalle divulgazioni di John Milton, Eliphas Lévi e Aleister Crowley. Croce rovesciata (o di San Pietro), simbolo sia anticlericale che dell'anticristo molto usato nell'ambito del Satanismo. Il Satanismo occultista rappresenta la corrente più tradizionale ed ha una forte connotazione di stampo anticlericale. In questa corrente Satana viene considerato in grado di premiare chi si schiera con lui. Gli adepti tengono ben presente il racconto riportato dalla Bibbia giudeo-cristiana che descrive Satana come "principe delle tenebre", "angelo caduto" o "anticristo", e ne fanno un uso stereotipato del loro antagonismo. Tra i vari satanisti presenti sul territorio italiano, soprattutto a Torino, la tendenza comune è quella di venerare Satana compiendo rituali magici finalizzati ad ottenere il suo aiuto e la sua protezione. Il Satanismo tradizionale occultista è quello che può contare sul maggior numero di adepti. In questo ambito Satana è venerato come un'entità spirituale antica, non malvagia, in grado di dare conoscenze occulte e poteri terreni ai maghi più preparati. La ritualistica occultista è molto complessa e ha molte fonti, come ad esempio la Clavicula Salomonis, il Grimorium Verum, o la Cabala ermetica. Questa corrente pratica l'oscura via dell'Ars goetia. Il satanismo tradizionale occultista opera anche sul piano sociale, andando contro le sovrastrutture consuete della società, dalmonoteismo al materialismo, passando per tutti quei riti, considerati vuoti e inutili, delcerimoniale religioso odierno. Gli occultisti nei loro rituali trattano con demoni di varia natura, riconosciuti dalle caratteristiche peculiari di ognuno, che spesso sono opposte a quelle rivelate dalle religioni monoteiste. Il panorama italiano dei satanisti occultisti si concentra soprattutto nel torinese, dove tra i tanti, dal 2013 è presente il Tempio di Satana. Alla corrente occulta del satanismo appartengono i seguaci del Tempio di Set di Michael Aquino, il quale, ex sostenitore dell'ateismo materialista propinato dalla Chiesa di Satana di Anton LaVey, si rese protagonista di uno scisma da quest'ultima, per concepire una visione più concreta di Satana, riconoscendolo come essere reale. A questa corrente di satanismo appartiene anche l'Ordine dei Nove Angoli che è stato il primo gruppo a descrivere il suo occultismo come "Satanismo tradizionale" nel suo Libro Nero di Satana, pubblicato nel 1984, e che rappresenta il gruppo più estremo di tale corrente.
Satanismo razionalista (o ateo). Il satanismo razionalista nasce negli anni sessanta per opera del musicista Anton S. LaVey, che, attraverso La Bibbia Satanica, tentò di dare un fondamento razionale e compiuto alla sua visione del Satanismo. LaVey è stato il fondatore della Chiesa di Satana. Il satanismo razionalista è ateo ed è concepito in chiave estremamente materialista, edonista, anticristiana e umanista: i suoi adepti, pur non credendo in alcuna divinità, adottano il nome "Satana" — considerato il "ribelle" contro il dio cristiano, e dunque, Satana viene visto semplicemente come una figura emblematica di ribellione contro il sistema di valori cristiani — in contrapposizione alla dottrina cristiana, che ritengono essere oscurantista, in quanto mortificherebbe l'uomo togliendogli ogni valore. I razionalisti propongono una visione antropocentrica della realtà.
Satanismo spirituale (o teista). Il satanismo spirituale nasce nei primi anni duemila con la creazione del sito internet Joy of Satan (abbreviato: JoS) per opera di Andrea Herrington (nota anche come "Maxine Dietrich"), moglie di Clifford Herrington, entrambi militanti del Partito Nazista Americano, un'organizzazione neonazista, neofascista, antisemita e omofoba che promuove la segregazione razziale e la supremazia della razza bianca negli Stati Uniti, iscritta all'Unione Mondiale dei Nazional-Socialisti; la dottrina di JoS è quasi completamente basata sull'ideologia del Partito, eccetto che per una maggiore enfasi sul rifiuto delle religioni abramitiche,[46] una forte componente antiebraica e anticristiana, e la conseguente simpatia per le religioni pagane, in particolare le religioni sumero-babilonesi, e per un estremo monoteismo sincretistico secondo il quale Satana sarebbe da identificare con tutte le divinità pagane delle religioni antiche non più esistenti, che, secondo JoS, sarebbero state occultate dagli ebrei; nello specifico, Satana viene spesso identificato da JoS con il dio sumero Enki e con Melek Taus, dio degli Yazidi (quest'ultimo per influsso degli scritti di LaVey). La dottrina di JoS, che si ispira alla mitologia sumero-babilonese e la riformula a proprio piacimento, mescolandola al razzismo scientifico di derivazione nazista e ad un'ampia gamma di teorie del complotto di vario genere (complotto giudaico, alieni, antichi astronauti, rettiliani, ecc.), in particolare quelle degli scrittori complottisti David Icke e Zecharia Sitchin, sostiene che l'universo sia invischiato in una battaglia cosmica tra una razza di "alieni illuminati" e una di alieni malvagi, i rettiliani. Enki (Satana), uno degli alieni buoni, fu colui il quale "creò" insieme ai suoi collaboratori la razza umana formata solo da esseri umani "nordico-ariani"[46] sul pianeta Terra, attraverso un processo di ingegneria genetica e le diede la conoscenza. I rettiliani invece crearono gli ebrei, combinando il loro DNA con quello di alcuni animali semi-umanoidi. Dopo che gli alieni buoni lasciarono la Terra più di diecimila anni fa, gli ebrei, in quanto discendenti dei rettiliani, crearono delle false religioni per nascondere la verità, incluso il cristianesimo; attraverso queste religioni, gli ebrei-rettiliani avrebbero demonizzato gli alieni buoni, instaurando un clima di terrore, specie la fobia per il sesso, per poter controllare e "programmare" gli umani nordico-ariani. Tuttavia, Enki (Satana) si sarebbe rivelato direttamente ad Andrea Herrington tramite il Black Book of Satan, per poter fondare il sito Joy of Satan e affinchè i suoi adepti "collaborino direttamente con Satana"[46] attraverso meditazione, rituali per evocare demoni e magia sessuale. Un'organizzazione nata in Italia da una costola di JoS è l'Unione Satanisti Italiani (USI), fondata nel 2010 da Jennifer Mezzetta (detta "Crepuscolo"), che promuove l'indipendenza e la libertà individuale dei fedeli rispetto ad organizzazioni o istituzioni religiose di qualunque tipo, comprese quelle sataniste, delle quali è fortemente critica, sebbene la dottrina, la propaganda neonazista e l'odio antisemita dell'USI siano uguali identiche a quelle professate da JoS, eccetto che per un leggero interesse verso il neo-paganesimo, dal quale comunque l'USI mantiene sempre le distanze. Tuttavia, nel 2014 un gruppo dissidente guidato da Giulia Conti si separa dall'USI e fonda il movimento Satanismo Razionalista, che, come si evince dalla sigla adottata, rifiuta interamente il satanismo spirituale e abbraccia il satanismo ateo di LaVey. Entrambi i gruppi sono attivi soprattutto su Facebook.
Satanismo gnostico. Il satanismo gnostico è una corrente spesso confusa con il Luciferismo; in questo ambito Satana non è visto come il malefico descritto nella Bibbia, ma come una divinità che ha dato all'uomo la capacità di evolversi e tornare al suo stato divino originario. Prende molti concetti dalle dottrine dello gnosticismo, anche se rinnega la visione gnostica del mondo materiale inteso come una prigione da cui fuggire. Il fondatore di questa corrente, Dean Joseph Martin, riordinò tutta una serie di idee riferendosi agli aspetti religiosi mistici del pitagorismo, dello gnosticismo, dell'ermetismo e della Cabala esoterica. Il tratto distintivo di questo lavoro di riordino e di unione di idee in apparenza dissimili tra loro è anche la principale chiave di lettura della corrente gnostica: ovvero che sia spiegabile anche il cosiddetto "dio" o "soprannaturale" con lo studio e le leggi scientifiche, in quanto parte di una realtà superiore, ma non per questo priva di logica, anzi strettamente soggetta alle leggi scientifiche. Si prefigge l'evoluzione dell'uomo fino al ritorno a uno stato di divinità, da cui proviene, utilizzando gli strumenti di cui è stato dotato, e che Satana ha contribuito a rendere utilizzabili concretamente. L'ignoranza, intesa come mancanza di conoscenza, è vista come un vero e proprio peccato, una condizione da cui l'uomo deve riscattarsi mediante lo studio e la conoscenza in senso lato, che si ottengono con il costante ragionamento sia sulle esperienze spirituali, sia su quelle fisiche. La vita stessa è intesa come una sorta di aula di studio, le cui esperienze sono una fonte inestimabile di conoscenza ed illuminazione. Vita che quindi, secondo il Satanismo gnostico, va vissuta pienamente, senza condizionamenti esterni quali superstizioni o convenzioni sociali, ma nel rispetto di se stessi, degli altri e della legalità. Alcuni di questi principi del Satanismo gnostico risultano, quindi, molto simili a quelli della corrente razionalista di LaVey, per il quale Martin ammise sempre di avere rispetto e ammirazione. L'organizzazione satanista gnostica mondiale di riferimento è il Capitolo italiano del TST (The Satanic Temple) che ha la sua sede aTorino.
Satanismo luciferiano. In questo contesto del satanismo è più corretto parlare di "Luciferismo" in quanto qui si collocano la figura e il culto di Lucifero, considerato nella dottrina catara, l'angelo che era stato ingiustamente cacciato dal Cielo e di cui si attendeva il ritorno in Terra. Lucifero viene venerato come principio del "bene" in opposizione al dio del male e creatore del mondo: il Demiurgo. Questo perché Dio ha voluto negare agli uomini la conoscenza, che invece ha offerto Lucifero sotto forma di serpente dell'Eden. Lucifero, per inciso, non viene neanche identificato come Satana, bensì come l'Eone della Conoscenza, chiamato anche Sophia. Gli aderenti a questa corrente, detti luciferiani, non si definiscono neppure satanisti; proclamano che la salvezza si raggiunge tramite la conoscenza che viene ostacolata dai dogmi e dalla "cieca" fede. Un esempio di Luciferismo venne fornito dalla Process Church of the Final Judgment fondata negli anni sessanta dall'inglese Robert De Grimston (oggi scomparsa). Oggi il Luciferismo è rappresentato da due congregazioni strutturate: la Greater Church of Lucifer e la Neo-Luciferian Church.
Satanismo acido. In questo contesto sarebbe più appropriato e corretto parlare di "Acidismo", poiché più che una corrente satanica, questo è in realtà un fenomeno del tutto indipendente dal movimento satanista, da interpretare e connettere più propriamente alla sottocultura giovanile; ossia a quei gruppi di giovani disadattati, dediti a episodi criminosi di vario tipo, tra cui: le azioni violente, la profanazione di cimiteri, l'abuso e lo spaccio di sostanze stupefacenti, che loro dichiarano di compiere nel nome di "Satana" e contro il dio cristiano. In Italia un gruppo di tal natura furono le cosiddette, famigerate e tristemente note, bestie di Satana, una banda criminale giovanile dedita alla pratica di pseudo-messe nere e omicidi rituali, ispirata proprio all'Acidismo (e a nessuna corrente propriamente appartenente al Satanismo). Analogamente, negli Stati Uniti e in altri Paesi, criminali solitari e leader carismatici come Ricky Kasso e Charles Manson rientrano nei diversi casi di notorietà mediatica dedicati a tale subcultura. Non essendo quindi l'Acidismo una corrente satanica vera e propria, gli acidisti sono privi di una filosofia o di un'escatologia che ne tracci una fisionomia comune; e infatti, a riprova di questo, a tutt'oggi non hanno mai avuto né saputo organizzarsi in una congregazione di riferimento.
Mappa del satanismo in Italia, scrive "La Repubblica". Secondo il sociologo Massimo Introvigne, uno dei maggiori esperti italiani dei culti esoterici, si possono distinguere quattro correnti di satanismo, a ciascuna delle quali si ispirano poi i vari gruppi, anche se poi, nella pratica la distinzione non è mai così netta e spesso riti e motivazioni si mescolano:
1) Satanismo razionalista: Satana è semplicemente il simbolo del Male, di una visione del mondo anticristiana, edonista e immorale;
2) Satanismo occultista: accetta la visione del mondo descritta dalla Bibbia, la stora della Creazione, la cacciata dal Cielo degli Angeli ribelli poi divenuti demoni, però schierandosi "dall'altra parte", al servizio del diavolo;
3) Satanismo acido: i riti si basano sull'uso di sostanze stupefacenti, orge e abusi psicologici e sessuali. Il culto del diavolo è semplicemente una scusa per eccessi e depravazioni;
4) Luciferismo: è il satanismo di derivazione maniche o gnostica. Lucifero e satana sono oggetto di venerazione all'interno di cosmogonie che ne fanno un aspetto "buono", o comunque necessario, del sacro.
Ecco di seguito le principali sette attive anche in Italia:
Bambini di Satana: è quella più famosa, per le recenti vicende giudiziarie che hanno coinvolto il suo leader, l'ex guardia giurata Marco Dimitri (la "Bestia 666", come si autodefinisce). Può contare su circa 60 adepti e ha sede a Bologna. Come impostazione il gruppo si riallaccia alla Chiesa di satana fondata a San Francisco da Anton La Vey nel 1966. I seguaci americani sono stati più volte cinvolti in vicende di abuso di minori e violenze sessuali, ma nella maggior parte dei casi l'adorazione del demonio segue rituali innocui, legati all'occultismo.
Chiese di Satana di Torino: il capoluogo piemontese vanta la comunità di satanisti più attiva d'Italia, 40 mila seguaci secondo il responsabile di una delle sette cittadine, molti di meno secondo le indagini del professor Introvigne, che parla di non più di 5-600 adepti, divisi in due Chiese. Le loro messe nere hanno un rituale meno macabro di quello di altri gruppi: niente orge o abusi sessuali, ma celebrazioni nel corso delle quali viene gridato l'odio a Dio, attraverso la profanazione del Crocifisso e l'uso di amuleti.
Confraternita Luciferiana: con sede a Roma, questa setta guidata dall'occultista Efrem del Gatto segue il culto di Lucifero, ritenuto il "principe perfetto" di gran lunga superiore a Satana. Nei riti si eseguono flagellazioni liberatorie e durante le messe nere si tagliuzzano mani e braccia per offrire sangue al loro signore. Gli adepti sono circa 150.
Cerchio satanico: una setta clandestina, ispirata al pensiero e alle azioni di Charles Manson, con sede a Bassano del Grappa.
Figli di Satana: setta clandestina, attiva in Piemonte, e dedita soprattutto alla profanazione dei cimiteri di campagna.
Ierudole di Ishtar: un misterioso gruppo satanista tutto femminile, di cui si è scoperta traccia a Pescara.
Tempio di Set: è il più importante gruppo satanico americano, fondato nel 1975 da Michael Aquino. La filiale italiana si trova a Napoli, ed è stata accusata di aver organizzato una messa nera nei sotterranei dello Stadio San Paolo.
Sette sataniche: boom di violenze rituali. Ogni giorno il numero verde anti sette della Comunità Giovanni XXIII riceve quindici telefonate di vittime, oltre 5mila l’anno. Storie di bambini abusati: come Luca, violentato anche dai nonni. In Italia, oltre ai Bambini di Satana, sono presenti le Chiese di Satana a Torino, la Confraternita Luciferiana, fondata a Roma, il Cerchio satanico (ispirato al pensiero a Charles Manson con base a Bassano del Grappa), i Figli di Satana in Piemonte, Ierudole di Ishtar a Pescara e il Tempio di Set la cui filiale italiana è a Napoli, scrive il 15/04/2018 Andrea Malaguti su La Stampa. Questa storia comincia molte volte per non finire mai, perché è costruita su un orrore che va avanti da secoli e si fonda sugli istinti più feroci e bassi degli esseri umani. È una storia che si ripete quotidianamente e sconvolge le vite di intere famiglie, segnando per sempre l’esistenza di bambini con un’età compresa tra i quattro e i dodici anni. A volte anche più piccoli. Bambini abusati sessualmente da pedofili che, nell’85% dei casi, vivono in famiglia. Bambini sfruttati e fotografati per il mercato nero di internet. Bambini utilizzati come marionette sacrificali nelle notti delle messe nere e dei riti satanici. Riti che la coscienza popolare tende a negare, che la giustizia fatica a perseguire e a condannare, che un esercito internazionale di Orchi vorrebbe normalizzare. Secondo il dottor Luigi Corvaglia, membro della Federazione Europea dei Centri di ricerca e informazione sul settarismo, sono almeno dieci le sette sataniche («strutturate e organizzate») presenti in Italia. «Ciascuna con almeno cento adepti». Ed è impossibile calcolare il numero delle sette fai da te. «Gruppi che spesso sono responsabili di fatti di sangue, mutilazioni di animali e atti vandalici».
Famiglia-modello. Per capire di che cosa parliamo, partiamo da un caso che somma pedofilia, abuso familiare e abuso rituale. Un caso aperto, che potremmo intitolare: distruzione di una famiglia modello. Ci sono volute settimane per trovare le persone giuste ed è stato necessario dare molte garanzie, a cominciare da quella dell’anonimato. Poi il dottor Claudio Foti, psicoterapeuta che dirige il centro Hansel e Gretel di Torino, ha telefonato: «D’accordo, andiamo». Partiamo per il Veneto. Il treno si ferma in un paese collinare, in una stazione piccola, vicina a un capoluogo di provincia. Arriva a prenderci una macchina azzurra. L’uomo al volante si chiama Marco, ha poco più di quarant’anni, un bell’aspetto, anche se i capelli sono diventati precocemente bianchi. È un piccolo imprenditore. Ha una moglie, Anna, e due bambini che potrebbero stare in uno spot televisivo di una marca di biscotti. Fino a quattro anni fa la sua vita era perfetta. Un fratello ingegnere a cui è legato visceralmente, un padre e una madre, imprenditori a loro volta, presenti, amorevoli e collaborativi. Una famiglia benestante e piuttosto nota. Una famiglia unita. Anzi, d’acciaio. Di quelle che si pranza insieme la domenica e non si fa niente senza dirlo agli altri. Una meraviglia. E invece è un bluff. Peggio è un inferno.
Le prime crepe. Luca, il figlio più grande di Marco, ha otto anni, è nervoso e nessuno capisce perché. Urla, si ribella, insulta i genitori quando lo lasciano a casa dei nonni, o dello zio, li chiama «bastardi». Da qualche settimana si tocca i genitali e fa gesti dal contenuto esplicitamente sessuale. Eppure va bene a scuola, ha il cervello rapido e in casa è amato come raramente succede. Solo che un giorno, arrivando dai genitori di Anna, salta addosso alla nonna e le infila una mano sotto la gonna, poi schizza sul divano dove è seduto il nonno, e gli mette una mano tra i pantaloni. Marco, suo padre, sbianca. Lo porta in bagno e gli grida: «Adesso basta, dimmi che cos’hai». Luca diventa rosso, abbassa la testa e poi, inciampando sulle parole, dice: «Non te lo posso raccontare, è un segreto tra me e zio Gabriele». Marco non capisce bene. Lo accarezza sulla testa: «Luca, non ci sono segreti tra me e te, tu mi puoi dire tutto». Luca parla: «Zio fa delle cose che non vuole che ti racconti». A Marco si gela il cuore. Quali cose? «Il gioco che mi fa strusciare il pisello». Prende l’asciugamano, lo arrotola e comincia ad accarezzarlo. Marco mantiene la calma: «Ma tu lo vuoi fare?». «No». «E allora perché lo fai?». «Perché zio dice che poi mi dimentico tutto. Ma io non mi dimentico niente». Nella testa di Marco si accendono mille lampadine. Collega una serie di episodi apparentemente secondari che diventano la sua nuova mappa della verità. Capisce che Luca non mente. «Dillo anche a mamma». Luca sembra sgretolarsi, si prende la testa tra le mani, grida: «Nooo, basta». Il cervello di Marco si annebbia. La rabbia sale. Carica in macchina due taniche di benzina e una spranga per andare ad ammazzare il fratello. La moglie lo ferma. Abbraccia Luca davanti a lui. Marco allora corre dal padre a raccontargli ogni cosa. Il nonno non lo lascia finire. Si butta a terra come se gli avessero sparato. Piange. È sconvolto. E allora Marco lo tranquillizza, mentre suo padre lo implora: «Non dire niente a mamma, non lo sopporterebbe». Tornando a casa Marco cerca di ricordare quante volte ha lasciato soli i bambini con lo zio. Un sacco di volte. Gli torna in mente una mattina. Anna non c’era e i bambini erano nel lettone a dormire. Gabriele suona alla porta, sale, lui gli dice: «Vado a spostare la macchina e a fare colazione, bada tu a Luca e Gianni». Tornando senta delle urla. Sale di corsa e trova Luca con il pannolino abbassato. Piange come un disperato. «Che succede Gabriele?». Lo zio risponde: «Niente, si è svegliato di colpo e invece di vedere te ha visto me. Si è spaventato. Capita». Capita. Marco gli crede. Ovvio che gli crede. Adesso vede quell’episodio sotto una luce diversa. Vuole denunciare il fratello, ma il padre gli chiede di non farlo. Lui lo fa lo stesso. In casa la tensione si alza, perché Luca racconta che anche Gianni ha subito abusi dallo zio. Gianni ha solo tre anni.
I segni dell’orrore. Luca peggiora ogni giorno. Lecca i muri, si barrica in camera, dice e fa cosce oscene. È come se dovesse spurgarsi dallo schifo. Fa anche dei disegni. Uno più spesso degli altri. Una casa nera con le finestre che sanguinano. E dentro la casa uno zombie verde. Quello zombie è lo zio. È un orrore. Ma non è ancora tutto l’orrore. A tre giorni dalla prima udienza contro lo zio, Luca aggiunge al disegno anche una strega. Marco gli chiede: «Chi è la strega Luca?» e Luca dice: «La nonna». Si può scendere più in basso di così? Si può. Perché Luca ha un’altra domanda da fare a suo padre: «Tu lo sai chi è il più cattivo di tutti, papà?». Marco traballa. «Lo zio?». «No, il nonno». Cioè il padre di Marco. Cioè l’uomo al quale Marco si è appoggiato fin da bambino. «In quell’istante ho dubitato della sanità mentale di mio figlio», dice Marco. «Mi ha convinto con tre particolari che non poteva inventare. Il mio mondo è crollato». Luca e Gianni violentati. Dallo zio. Dalla nonna. Dal nonno. Tutta la sua famiglia. Altre lampadine che si accendono. Altri episodi che tornano alla mente. «Ricordo una sera. Arrivo dai miei per riprendere i ragazzi. Era una giornata felice perché mi era andato bene un lavoro. Sento Luca urlare. Corro in camera. E lui è lì con mio padre. Che mi aggredisce: “Tu non sai educare i tuoi figli, piangono sempre, urlano sempre”. Esco dalla camera e vedo mia madre che si picchia sul viso e dice: “Non lo sopporto più, non lo sopporto più”. Una scena assurda. Che ora mi spiego benissimo». L’avvocato di Marco e Anna suggerisce di non coinvolgere i nonni per il momento. Il processo è troppo vicino. Bisognerebbe rifare tutto da capo. I piccoli testi non sarebbero ritenuti attendibili. Ai bambini è difficile credere in generale. Figurarsi in un caso come questo. Marco e Anna accettano. Forse sbagliano. Forse. Ma sono devastati e di qualcuno si devono pure fidare, persino di questo avvocato mezza tacca.
Gli abusi dell’infanzia. Ogni volta che si addormenta Luca piange, da sveglio non lo fa mai. I suoi occhi si riempiono di lacrime. I suoi sogni sono pieni di sofferenza. Ma i suoi racconti non terminano. Anzi, si moltiplicano. E diventano sempre più duri. I dettagli sono schifosi ed è inutile raccontarli, il contesto è un abisso di sporcizia e di cattiveria. Luca racconta di essere stato portato assieme a Gianni in un canile. Di essere stato chiuso in una gabbia. Racconta dei cani, forse morti, buttati sul suo corpo. Di uomini con le maschere. Di calici riempiti di urina e sperma che è obbligato a bere. Disegna anche il profilo di un uomo, identico al capo di suo zio. Sono abusi rituali, quelli di cui gli avvocati non si vogliono occupare, perché quasi impossibili da dimostrare a giudizio. I bambini sono vittime perfette. Per i carnefici. Imperfette. Per la giustizia. Pochi riscontri. Molti pensieri confusi. Contraddizioni. In più c’è il trauma. Che li porta alla dissociazione. Alla necessità di far sparire dalla testa questa valanga di fango. Paura. Dolore. Incapacità di capire. Sono dilaniati. Anna e Marco scopriranno che le violenze su Gianni e Luca andavano avanti da anni. Scopriranno che anche Gabriele era stato abusato da bambino dal padre. E Marco si chiede ancora adesso perché lui no e suo fratello sì. «Forse mi usava da alibi». Anna e Marco scopriranno anche che i vecchi amici di fronte a storie come questa spariscono e che alla giustizia servono anni prima di arrivare a un giudizio. Non alla verità. A un giudizio. Scopriranno anche che l’elaborazione dei traumi è lenta e straziante, che ti costringe a vedere tuo figlio che si fa del male, che si stacca a morsi sette unghie su dieci senza che il suo corpo reagisca al dolore perché ormai è anestetizzato a tutto. E scopriranno anche che la nuova realtà del loro matrimonio. Una realtà fatta di sensi di colpa. Di tensione. Di angoscia. Eppure si va avanti. Per Luca e per Gianni. Col terrore che possano diventare come il nonno. È quasi impossibile non credere al racconto di Marco e di Anna, perché non hanno un solo motivo per distruggere la famiglia. La storia è coerente, piena di dettagli e di sofferenza. O sono dei romanzieri da Nobel o dicono la verità, anche se alla giustizia potrebbe non bastare. Il dottor Foti aggiunge dei particolari. «Quando Anna e Marco raccontano che Luca ha fatto esplodere il suo malessere in modo plateale dopo la confessione, confermano un dato che la letteratura scientifica conosce bene e che loro non possono maneggiare. Quando un bambino inizia un sofferto processo di rivelazione, manifesta subito una grande fioritura di sintomi. Io stesso ho fatto con Luca e Gianni un percorso di terapia e i sintomi hanno cominciato a sparire quando i loro racconti e i loro sentimenti sono stati ascoltati e presi sul serio. E per esperienza so una cosa: un mitomane si gonfia come una rana e aggiunge dettagli incredibili. Una vittima invece piano piano si sgonfia, perché è come se si liberasse». Basta per la giustizia? No. Per questo Foti dice che «i bambini sono testimoni sconvolti, fragilissimi, facilmente non credibili e quindi indifendibili: l’impunità dei colpevoli è assicurata. In sintesi, sappiamo che il fenomeno c’è, ne abbiamo le prove documentali e ne vediamo i danni nell’attività clinica. Eppure ciò che è inimmaginabile vince sulla realtà e il riconoscimento sociale è per ora impensabile». Per ora è impensabile.
Indifesi contro gli Orchi. La psicoterapeuta bolognese Maria Rosa Dominici la pensa allo stesso modo. «I bambini abusati difficilmente vengono creduti e spesso portano incisa nella memoria corporea una ferita che continuerà a sanguinare. Per loro non è prevista nessuna pietà». Mentre lo Stato resta a guardare, nei tribunali italiani trovano ancora accoglienza teorie respinte dalla comunità scientifica internazionale come la Sindrome da Alienazione Parentale, che attribuisce le denunce dei bambini a una manipolazione operata su di loro dai genitori nella guerra per divorziare. I bambini sarebbero dunque usati e non abusati. «Ma noi sappiamo perfettamente che su cento casi di abusi denunciati, sono al massimo cinque quelli in cui i genitori manipolano i ricordi dei piccoli», dice l’avvocato Andrea Coffari, presidente del Movimento per l’Infanzia e autore di un libro in uscita sul potere delle lobby pedofile. Ogni giorno il numero verde anti sette (800-228866), voluto dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, e diventato ben presto strumento prezioso per le forze dell’ordine, riceve quindici telefonate di vittime. Oltre cinquemila l’anno. Molti sono genitori di bambini abusati, che davanti alla legge non riusciranno mai ad ottenere giustizia.
Massimo, schiavo della setta. Nella stanza dell’associazione Hansel e Gretel di Moncalieri, Massimo tossisce piano, come se un grumo di polvere gli fosse entrato in gola. «Mi succede tutte le volte». Tutte le volte quando, Massimo? «Quando parlo della mia storia». Solleva la manica della maglia. «Mi viene anche la pelle d’oca. Non posso farci niente». È teso, come se andasse continuamente a sbattere contro gli spigoli di un oggetto che non riesce a vedere. Ha 57 anni ed è un imprenditore di successo. Guadagna bene. E tra poche settimane si sposa. Per la seconda volta. «Mia moglie l’ho conosciuta qui al centro». E finalmente si sente padrone della sua vita. L’associazione Hansel e Gretel gli ha ridato un baricentro. Lo aveva perso da bambino. Violentato dai quattro ai dodici anni. Prima dal padre. Poi dagli amici del padre. Poi da una setta. Abusi rituali. E adesso che lo dice sa bene che non potrà mai avere giustizia. I tribunali fanno fatica a credere a quelli come lui. Ma a Massimo basta avere un po’ di pace. Accettare quello che è successo. Convincersi che non è stata colpa sua. «Ho rimosso ogni cosa fino ai diciotto anni. Cancellato. Come se non esistesse. Credevo di avere avuto una vita normale. Solo che non riuscivo a entrare in contatto con le mie emozioni. E anche il mio corpo aveva delle reazioni strane. Al dolore, per esempio, era come se non lo sentisse. All’improvviso i ricordi hanno ricominciato ad affiorare. È stata dura». Anche adesso il suo corpo reagisce in modo strano al dolore. Nel maggio scorso, durante una grigliata con amici, del grasso bollente gli era finito su una mano. Non se n’è accorto. Finché non gli hanno detto: Massimo, sei tutto gonfio. «Il dolore è arrivato solo quattro giorni dopo». Il primo ricordo a ripresentarsi è stato quello del pavimento di una chiesa. In marmo. «Ero sdraiato, con la faccia in giù, e un prete vestito di verde mi stava sopra». È stato come aprire un rubinetto. I ricordi hanno cominciato a inseguirsi con cattiveria. Gli è tornato in mente il padre, che lo chiamava in cantina e abusava di lui. Faceva l’operaio. E qualche volta portava un amico. Poi sono ritornate anche le immagini di un tunnel polveroso - quello che ancora oggi gli fa sentire l’amaro in bocca - e le maschere degli uomini che si approfittavano di lui. Calici pieni di sangue e di sperma. Animali sgozzati. E lui che chiude gli occhi. Che cerca di non vedere. «Adesso mi è tutto chiaro». Come gli è chiara la volta in cui l’hanno portato all’ospedale dopo che due pedofili l’avevano sbattuto in macchina per abusare di lui. «Avevo dodici anni e nel quartiere quella gente mi considerava un giocattolo». Dal primo matrimonio ha avuto due figli. Li ha sempre trattati con distacco ma senza aggressività. Un giorno, in bagno, ha avuto però l’impulso di affogare il più piccolo. «Stavo andando verso di lui per ucciderlo, ma nello specchio ho visto un’immagine che non ero io. Era mio padre. Ho capito che mi dovevo fermare». Ci sono voluti anni di terapia per riuscire a guardare il mostro negli occhi, per riprendersi la vita in mano, per accettare che sono sempre i legami forti a essere traditi. E che noi non siamo quello che ci fanno.
Sesso, violenza, perversioni: satanisti, parla la donna della setta, scrive il 14 Settembre 2018 Azzurra Noemi Barbuto su "Libero Quotidiano". Vengono considerati adoratori del Male e si ritiene che compiano ogni genere di nefandezza, dai sacrifici sia umani che animali agli stupri, al fine di onorare il loro dio, descritto come un essere bestiale dotato di corna e forcone acuminato, eppure non tutti i satanisti sono cattivi. Anzi, coloro che agiscono in modo turpe e malefico sono disprezzati dagli autentici cultori di Satana. Ce lo assicura Jennifer Crepuscolo, 29 anni, fondatrice e attuale presidente dell'Unione Satanisti Italiani, associazione attiva da 8 anni che mira a contrastare la disinformazione intorno ai seguaci di Belzebù «al fine di difendere i diritti di una minoranza da sempre inascoltata». Netta è la distinzione che Crepuscolo fa tra satanismo e frange criminali. «Violenza, aggressività, odio gratuito non rientrano nella nostra natura. Se uno delinque in nome di Satana, non è uno di noi, bensì un pessimo cristiano, poiché, anziché seguire gli insegnamenti di Satana, agisce per violare quelli di Cristo», dice il presidente, che sottolinea come continuare ad alimentare certi pregiudizi e generalizzazioni favorisce la discriminazione religiosa di cui sono vittime tutti coloro che confidano nel diavolo. «Il vero satanista sa lottare in modo nobile e leale, con onore. Chi uccide, chi prevarica, chi fa soffrire gli altri, non ha niente a che vedere con noi», continua Crepuscolo che condanna altresì la dipendenza da sostanze stupefacenti, in quanto costituisce «una forma di schiavitù», contraria quindi al principio cardine della sua religione, ossia la libertà dell'individuo. Insomma, le parole di Jennifer sgretolano in un attimo l'immagine del sostenitore del demonio che ognuno di noi ha in testa, cioè quella di un soggetto da cui stare alla larga, che fa uso di droghe pesanti, che si dedica a bizzarri riti nonché ad orge con vergini innocenti. Anche la figura del diavolo è ben diversa da quella dell'iconografia cristiana: «Rappresentarlo come un mostro è solo una strategia per creare uno spauracchio e fare in modo che le persone se ne tengano a distanza, evitando che possano scoprire la verità sul suo conto». Dunque sembra quasi che, se solo lo conoscessimo davvero, il demonio non ci dispiacerebbe. E per quanto riguarda i sacrifici di sangue, Jennifer assicura: «Satana li trova grotteschi, poiché è un dio evoluto ed elegante». Bene e male - Di una cosa ci tocca dare atto a Belzebù, e non per questo facciamo gli avvocati del diavolo: i peggiori delitti sono stati perpetrati da sempre in nome di Dio ed ancora oggi per ossequiare Allah vengono trucidati ogni anno centinaia di esseri umani, bambini inclusi, in tutto il mondo. Senza dubbio nella psiche degli uomini regna un po' di confusione riguardo le categorie di Bene e Male, dato che troppo spesso sotto l'insegna di nobili valori viene sparso copioso sangue. Il che fa presumere che sia Dio che Satana vengano usati a proprio piacimento da coloro che devono trovare una giustificazione al proprio operato ingiustificabile. Li cerchiamo all' esterno, eppure Bene e Male vivono in noi. Ci tocca scegliere cosa fare trionfare. Certo è che, se davvero esiste un Regno dei Cieli, in esso troverebbe posto più facilmente un satanista dell'USI che un cristiano che ammazza in nome del Signore. Quest' ultimo non se lo prendono neanche all' inferno. E non perché gli inferi siano sold-out, anche se - a quanto sembra - sono molto affollati. «Il satanista non prega, dialoga. Affronta da solo i suoi problemi, senza chiedere interventi divini. Satana stesso non si sostituisce all' uomo, bensì aspira a rafforzare il suo erede», illustra Crepuscolo. Insomma, anche l'idea che i seguaci del diavolo gli vendessero l'anima è una bischerata: Belzebù non la vuole. «Molti si rifugiano nella religione per trovare conforto in "qualcosa", altri nell' ateismo poiché delusi da "qualcosa". Il satanista invece incentra la sua ricerca non su "qualcosa", ma su "qualcuno", ossia su se stesso», continua la ventinovenne. Sette pericolose - A spiegarci gli amanti di Mefistofele è anche Edmondo Capecelatro, criminologo, avvocato penalista e docente universitario di criminologia, il quale specifica che oggi le sette più pericolose non sono le sataniche bensì quelle psichiche, che impongono all' adepto uno stile di vita che implica la rinuncia alla carne, o al sesso, o ai farmaci, e che mirano ad isolarlo, per renderlo vulnerabile e tenerlo sotto scacco. «I cultori del diavolo si distinguono in: razionalisti, i quali venerano il male e predicano il piacere sfrenato; occultisti, meno innocui dei precedenti perché portati alla profanazione di tombe, alla commissione di reati di tipo sessuale nonché al sacrificio umano; acidi, i quali utilizzano stupefacenti», dichiara Capecelatro. Al satanismo acido appartenevano, ad esempio, le Bestie di Satana, un gruppo di assassini seriali della provincia di Varese, autori di omicidi di matrice satanista compiuti tra il 1998 e il 2004. Sette segrete sono attive anche nel Bel Paese, come testimoniano le tracce di rituali che vengono rinvenute di frequente. Gli adepti hanno soprattutto tra i 15 ed i 35 anni e difficoltà di inserimento sociale, all' interno del gruppo si sentono realizzati e forti. Non destano preoccupazione i satanisti luciferini, impegnati nell' adorazione di Lucifero, un angelo che avrebbe tradito Dio e che per questo sarebbe stato scaraventato all' inferno. «I luciferini ritengono che tale rottura sia avvenuta nel paradiso terrestre, quando Lucifero ha donato la conoscenza, ossia la mela, all' essere umano e il Signore non ha gradito il gesto», conclude il criminologo. Insomma, adesso sappiamo che il fan club di Satana non vanta partecipanti meno virtuosi del nostro gruppo parrocchiale. Azzurra Noemi Barbuto
Credo in Satana e vi spiego perché il satanismo non è quello che vi hanno sempre raccontato. TPI ha provato a fare chiarezza chiedendo a Jennifer Mezzetta, fondatrice dell'Unione Satanisti Italiani, cosa sia per loro il satanismo e come funzioni questo culto, scrive il 12 Settembre 2017 TPI. Un sedicente “mago” di 69 anni e due suoi complici, di 73 e 19 anni, sono stati arrestati il 14 marzo 2017 dalla polizia di Torino con l’accusa di violenza sessuale di gruppo, aggravata dall’uso di sostanze stupefacenti e dalla minore età della ragazza. La vittima, una studentessa di 17 anni, era stata convinta dall’allora fidanzato a partecipare a sedute spiritiche, alle quali – secondo diverse fonti e media – la ragazza prendeva parte per “liberarsi dal demonio”. Non è stato ancora chiarita la natura di quegli incontri e se fossero realmente legati al mondo del satanismo. Quel che è certo è che, anche in questo caso, uomini privi di scrupoli hanno fatto leva sulla debolezza psicologica di una persona millantando poteri magici e arricchendo l’immaginario spaventoso legato alla religione del satanismo. Già, perché anche se a molti di noi sembrerà di difficile comprensione, il satanismo è a tutti gli effetti una religione. Religione della quale si sa molto poco e che viene nominata esclusivamente quando emergono macabri fatti di cronaca. Ma perché si dovrebbe venerare il diavolo e chi sono queste persone che rivendicano questa volontà? Cercando informazioni in rete è difficile riuscire a comprendere da chi sia realmente composto questo culto: i siti in circolazione sono tantissimi e – sorprendentemente – esistono pagine e pagine web che illustrano le modalità per diventare satanisti, le pratiche da compiere; veri e propri vademecum, anche molto inquietanti, da seguire pedissequamente per dedicare la propria vita a satana. Consultando il sito del Cesnur (Centro studi nuove religioni), i siti di associazioni sataniste italiane sono tre: Unione Satanisti Italiani, I bambini di Satana e La loggia nera. I primi due sono dei gruppi che non professano un Satanismo inteso come adorazione del Diavolo, ma come stile di vita, di pensiero e di esaltazione dell’individualità del singolo mentre l’ultimo, del quale in realtà non vi è un sito vero e proprio ma una sorta di manifesto del gruppo, sembrerebbe improntato verso una concezione satanica di stampo e anticristiano. TPI ha provato a fare un po’ di chiarezza chiedendo a Jennifer Mezzetta, conosciuta come Jennifer Crepuscolo, fondatrice dell’Unione Satanisti Italiani, cosa sia per loro il satanismo e come funzioni questo culto.
Che cos’è il satanismo?
«Per capire il satanismo ci vogliono tempo e studi approfonditi. Nel corso del tempo il movimento ha subito molte frammentazioni al suo interno ed è stato fatto preda di tante visioni meno nobili. Possiamo definirlo un culto ma non è un culto dottrinale, nel senso che non abbiamo dogmi, non abbiamo una dottrina, non abbiamo libri rivelati o dettami, regole e divieti. O sei satanista o non lo sei, è una questione di natura».
Il satanismo è una fede?
«Bisogna prestare attenzione nel parlare di fede: noi amiamo, ci fidiamo del nostro dio, ma non si può parlare di fede nel senso di cieca accettazione fideistica. Ci sono dei momenti, ovviamente, in cui le cose non le capisci, ma hai fiducia che le capirai. Il dubbio ce l’hai sempre: il dubbio, il desiderio di scoprire non si ferma mai, non esiste la stasi, non si resta immobili ad aspettare che dio faccia qualcosa per te».
Il vostro dio è satana?
«Il nostro dio è satana ma non siamo monoteisti, abbiamo un pantheon di dei. Quello che noi definiamo satana non è il diavolo biblico, quello rosso con le corna creato dal cristianesimo. Per noi satana si riferisce a quelli che oggi vengono chiamati demoni in senso mistificatorio, ma che in realtà sono gli antichi dei pagani, gli antichi dei delle origini. L’istituzione della chiesa e l’ebraismo li hanno poi connotati di un senso negativo».
Ma esiste una vera e propria celebrazione del diavolo?
«Ogni iniziato fa di testa sua: ci sono fratelli che amano celebrare e fare rituali di ringraziamento, e fratelli che preferiscono meditare nell’intimità. Esistono comunque dei rituali ma non hanno niente a che vedere con le messe nere e con quelle attività macabre come introdurre ostie nelle vagine o terribili violenze. Sono le attività che fanno gli acidi, gli anti cristiani, non c’entra niente con il satanismo perché il nostro non è il culto del male. Noi onoriamo il nostro dio, non ci interessa di bistrattare l’altro».
Colpisce vedere che su internet esistono moltissimi siti che spiegano come si fa a diventare satanista. Sono attendibili?
«Io so solo che sette anni fa non c’era niente, poi da quando è nata l’Unione, molte persone hanno deciso di cavalcare l’onda, e ognuno si è fatto il suo orticello andando a snaturare alcuni valori del culto. Si è fatta confusione. Posso dirti che non esiste un libretto di istruzione per diventare satanista, una persona può al massimo informarsi sul satanismo e riconoscersi tale, rendersi conto che quella verità era già dentro se stesso».
Su internet si legge di una procedura per un rituale di consacrazione…
«Noi non abbiamo un percorso guidato che ti dice cosa fare: l’iniziato è solo con dio, nel suo abisso personale. Esiste la dedica, ma la consacrazione è una cosa individuale. La dedica annulla qualsiasi altro sacramento».
Come raffigurate satana?
«La forma è relativa, dio potrebbe apparirti in qualunque modo, anche se ad alcuni affascina l’iconografia classica magari più grottesca. Noi diciamo sempre che satana è bellezza e ad alcuni piace il lato più oscuro».
C’è comunque un legame con tutto quello che è nascosto, con le tenebre…
«Il culto di satana, è un culto completo, noi osserviamo la natura e impariamo dalla natura: c’è il giorno e la notte, non si può essere solo la notte e non si può essere solo il giorno. Questo vuol dire che non associamo le tenebre al male, noi non pensiamo che il buio sia il male».
Cos’è il male per voi?
«Ognuno ha la sua visione, per noi tutto quello che è contro natura, che non è armonia.
La natura è stata creata dal vostro dio?
«La realtà che vediamo sì, la forma è creata dagli dei, l’essenza, l’anima, il principio sono cose che nessun sa».
Non è una difficoltà in più credere in un dio che è spesso associato a qualcosa di negativo?
«Oltre a una facciata sociale, cerchiamo di dare informazioni, c’è tanta cattiva informazione sul satanismo. Esiste una componente iniziatica nel nostro credo: ogni persona che si ferma davanti alla paura di un termine come “satana” e non ha il coraggio di andare oltre un nome, non è una persona che merita la verità. Non voglio parlare come se fossimo profeti con grandi rivelazioni, però voglio dire che se una persona comincia a capire perché satana è stato demonizzato, cosa si nasconde davvero dietro il nome satana, è come se fosse in possesso di una chiave di volta che riesce ad aprire molte altre porte. C’è un motivo per cui usiamo in termine satana: se si va a vedere la lingua più antica, il sanscrito, Satana ha molti significati molto più nobili».
Cosa c’è dietro la parola Satana quindi?
«Per i testi sanscriti, Satana vuol dire il “cui nome è verità”. Sarebbe una sorta di participio presente di “essere”. C’è difficoltà nel superare le distorsioni. Perché c’è cattiva informazione. Se si fa passare un messaggio scorretto, se si dice alle persone che il satanismo è il culto del male, è normale che poi ci saranno persone che odieranno il satanismo e altrettanti ignoranti anche che andranno ad alimentare le menzogne».
E quelli che si definiscono santoni?
«In tutti questi anni di attività con l’unione satanisti italiani a me non interessava elargire verità assolute, però se c’è una cosa su cui ho sempre battuto il chiodo, è che ogni iniziato, specialmente quelli giovani, deve imparare ad essere indipendente. Se c’è una cosa che sempre ho detto alle persone è di non fidarsi di nessun santone, di nessuna psico-setta, di percorrere la propria via iniziatica spirituale ma da asolo, senza maestri, senza intermediari tra se stesso e il divino. Perché si possono incontrare persone per bene che ti aiutano, e persone che se ne approfittano, come negli ultimi fatti di cronaca».
Si usa praticare l’esorcismo?
«Sono rarissimi i veri casi di possessione, non ho mai sentito che un dio possiede una persona con un demone. È terrorismo psicologico: fanno leva su queste cose, con film e documentari, per allontanare le persone da questa religione. Si vuole ignoranza».
Il satanismo vive in aperta contrapposizione alla religione cattolica?
«Non ho in simpatia la chiesa cattolica perché è un religione che ha demonizzato il nostro dio, è una dottrina che castra la natura umana, però posso anche trovarmi d’accordo su certi principi. Non nasciamo in funzione antitetica al cristianesimo. Non esistiamo in virtù di questo».
Ti è capitato di essere contattata da persone, anche molto giovani, che sentivano di appartenere a questa religione ma avevano difficoltà a dirlo?
«Sì, questo è un problema che riscontrano sia i ragazzi molto giovani, a scuola, sia le persone adulte: ho amici che hanno avuto problemi a lavoro, ostacoli nelle cause giudiziarie per l’affidamento dei figli. Il punto è che anche se in Italia c’è libertà di culto poi bisogna fare i conti con la legge del popolo e con il pregiudizio sociale, che è difficile da scalfire. Dico sempre alle persone di evitare di nascondersi. Ai ragazzi giovani consiglio di parlare con i genitori, perché con quello che si vede in televisione oggi è ovvio che se genitore scopre un figlio con una pagina sul satanismo resta impressionato. Meglio parlare, meglio spiegare. Satana deve portare qualcosa in più nella tua vita, non deve toglierti quello che già hai».
Nel corso del tempo le cose però sono migliorate…
«Il miglioramento è evidente, ci sono famiglie che stanno capendo, non è il culto del male. Da quando esiste questa unione, molti maestri millantatori e santoni vari sono stati allontanati dai ragazzi che stanno imparando il valore dell’indipendenza».
IL VATICANO E LA MASSONERIA.
L'inquietante flirt tra Chiesta e massoni: un dialogo pericoloso perché contro la Fede. Il pontificato di Bergoglio ha scelto una pastorale che sta svuotando la dottrina, scrive Riccardo Cascioli, Domenica 11/11/2018, su "Il Giornale". In principio fu il cardinale Gianfranco Ravasi, con un articolo sul Sole24Ore il 14 febbraio 2016. «Cari fratelli massoni» era il titolo che peraltro rendeva bene il tono e il senso dell'articolo. Apparentemente era una semplice recensione di un volumetto dedicato ai rapporti tra Massoneria e Chiesa cattolica, in realtà è stata l'occasione per lanciare un messaggio ben preciso: basta chiusure e pregiudizi, è l'ora del dialogo, cerchiamo quello che ci unisce e non quello che ci divide. E infatti ecco che da allora sono iniziati una serie di incontri nelle diocesi italiane con l'attiva partecipazione del Grande Oriente d'Italia (Goi). In realtà cercare quel che unisce non è così semplice, perché dalla fondazione della Gran Loggia di Londra del 1717, la Massoneria ha collezionato ben 586 condanne da parte della Chiesa, la prima nel 1738, l'ultima nel 1983: un record assoluto. Il motivo è semplice: la Chiesa ha sempre ravvisato il carattere satanico del progetto massonico e quindi la sua pericolosità per i fedeli cattolici. Si comprende dunque perché per la Chiesa resti sempre valida l'incompatibilità di un cattolico con l'ordine dei liberi muratori e la scomunica automatica per chi aderisce a una loggia. E allora? Allora si segue semplicemente il metodo del «pastoralismo», che sembra essere la chiave interpretativa del pontificato di Francesco. Vale a dire: non ci interessiamo della dottrina, diciamo che resta sempre valida, però nella pratica dobbiamo andare incontro alle persone quindi libertà anche di fare l'opposto. È il primato della prassi, di fatto uno svuotamento della dottrina, al grido di «Abbattiamo i muri, costruiamo ponti». Infatti il cardinal Ravasi nell'articolo riconosce l'incompatibilità formale tra le due appartenenze, ma condanna la demonizzazione dei massoni e intanto sottolinea i punti in comune. Quali? «La dimensione comunitaria, la beneficenza, la lotta al materialismo, la dignità umana, la conoscenza reciproca». Agli osservatori più attenti, come la storica Angela Pellicciari, non era sfuggito che l'articolo di Ravasi non voleva essere una semplice recensione ma un vero segnale di via libera a una nuova era, tanto da invocare un nuovo pronunciamento ufficiale della Santa Sede contro la Massoneria. Richiesta per ora non accolta, in compenso i pontieri sono scesi in campo, dall'una e dall'altra sponda. Ha cominciato il Grande Oriente d'Italia in Sicilia, organizzando un convegno a Siracusa il 12 novembre 2017, a cui ha partecipato il vescovo di Noto, Antonio Staglianò: «Chiesa e massoneria, così vicini così lontani», il titolo provocatorio. Qualche polemica c'è stata, anche per quell'immagine di Cristo col compasso (in realtà un'opera medievale che con la Massoneria non aveva nulla a che fare) che campeggiava sulla locandina. Ma il vescovo Staglianò se l'è cavata con disinvoltura dicendo che lui avrebbe solo ribadito l'insegnamento della Chiesa. Ed è in qualche modo ciò che ha fatto, si sa però che in certi casi il gesto conta ben più delle parole, e il ghiaccio quindi è stato rotto. Così poi l'iniziativa è passata alla Chiesa e si è intensificata, praticamente è diventato un format che certamente vedremo replicato in altre parti d'Italia. Alla fine di ottobre l'incontro si è svolto a Gubbio, organizzato dalle Acli e dalla sezione umbra del Grande Oriente, sponsorizzato però dalla vicina diocesi di Assisi, che ha fatto marcia indietro solo dopo che la notizia è rimbalzata su giornali nazionali. All'inizio di novembre la replica a Matera, con tanto di «benedizione» del vescovo locale, Pino Caiazzo. In entrambe le occasioni hanno partecipato teologi e religiosi cattolici, ovviamente convinti della bontà di questo dialogo. A sottolineare l'importanza dell'evento sta la presenza sia a Gubbio sia a Matera del Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Stefano Bisi, che infatti non ha mancato di collegare tutti questi appuntamenti all'articolo del cardinale Ravasi, tutto parte di un lavoro per creare «ponti tra gli uomini». Bisi non ha neanche dovuto nascondere il carattere esoterico e iniziatico della Massoneria, che non è ostacolo di poco conto con la Chiesa cattolica. Ma oggi nella Chiesa sembra prevalere una voglia di religione universale che affratelli tutti gli uomini, a cui sacrificare la propria identità. Non a caso gli organizzatori cattolici di questi incontri se la prendono con una visione identitaria della Chiesa, che sarebbe superata con l'avvento di papa Francesco, come se la Verità che Cristo rappresenta sia un ostacolo all'incontro con gli altri. Per cui tornano d'attualità le tesi che il massone Albert Lantoine, 33° e ultimo grado del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato di Francia, scrisse nel 1937 nella lunghissima lettera a Pio IX, chiedendo al Papa di smettere di combattere la Massoneria nell'ottica della «conciliazione degli opposti»: secondo Lantoine, la Massoneria e la Chiesa, Lucifero e Dio sarebbero necessari l'uno all'altro. Una prospettiva che è stata ovviamente condannata dalla Chiesa, ma oggi sembra esserci una folla di teologi e prelati che ardono dal desiderio di abbandonare la via di Cristo per confondersi con il mondo, e soprattutto con il Potere di questo mondo.
Chiesa & Massoneria, incontro manda in tilt due diocesi, scrive il 18-10-2018 "La Nuova Bussola Quotidiana". Prosegue l'Operazione loggia lanciata dal cardinal Ravasi per avvicinare Chiesa e Massoneria. Dopo Siracusa tocca a Gubbio. Le cattoliche Acli e il GOI domani insieme per un "dialogo possibile" dove la dottrina cade sotto i colpi di una prassi conciliante. Imbarazzo in diocesi ad Assisi, che, dopo la telefonata della Nuova BQ, cancella la notizia dal sito. E irritazione a Gubbio, il cui vescovo ha provato, invano, a non pubblicizzare l'evento a cui presenzierà il Gran Maestro Bisi. Ora però serve una posizione chiara per fermare l'agenda cattomassonica. Chiesa e Massoneria, ci risiamo. Chi pensava che l’evento organizzato lo scorso anno a Siracusa fosse stato solo un esperimento isolato, dovrà ricredersi e iniziare a valutare che l’agenda della neo Chiesa punta anche a sdoganare grembiulini & logge. D’altra parte bisogna tenere presente che tutto è partito con la lettera del cardinal Ravasi al Sole 24 Ore che si era rivolto ai “cari fratelli massoni” iniziando così il lungo cammino di sdoganamento, che ora passa inevitabilmente da incontri ambigui come quello di cui parliamo oggi. La seconda tappa del processo di avvicinamento con la Massoneria fa sosta a Gubbio dove venerdì si terrà un incontro che nel titolo e nella locandina, anche nell’immagine scelta del Dio col compasso, è del tutto simile a quello di Siracusa di un anno fa: Chiesa e Massoneria. Un dialogo possibile? Dove il punto di domanda serve in forma retorica per orientare già affermativamente il giudizio. Vediamo. E’ organizzato dall’Acli di Fossato di Vico, diocesi di Assisi, ma si svolgerà a Gubbio, che è un’altra diocesi. Dunque, un’associazione che nel nome richiama la sua appartenenza cristiana. La diocesi di Assisi, nel cui territorio ricade il comune di Fossato pubblica la nota stampa dell’evento sul suo sito, facendo così sembrare la cosa in tutto e per tutto sponsorizzata dal vescovo Sorrentino. Il comunicato è pieno di ambiguità e trappole. A cominciare dalla motivazione con la quale si organizza l’incontro che vedrà la presenza del vertice del GOI italiano, Stefano Bisi (in foto), il pastore valdese Pawel Andrzej Gajewski e un religioso cattolico, Don Gianni Giacomelli, Priore del Monastero di Fonte Avellana. “La manifestazione – si legge sul sito dell’Acli e della diocesi di Assisi - suscita particolare interesse in un momento storico nel quale, a fronte della posizione ufficiale di inconciliabilità tra fede ed iscrizione alla Massoneria da sempre affermata dalla Chiesa Cattolica, al suo interno si riaffacciano posizioni più dialoganti ed aperte, quale quella espressa di recente dal Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura”. Ecco spiegato perché, a fronte di decine e decine di encicliche, documenti, lettere e prese di posizione con le quali la Chiesa in tre secoli ha comminato alla Massoneria più capi di scomunica del comunismo, ci si fa forza per ribaltare l’orientamento negativo utilizzando una lettera maldestra di un cardinale a un giornale. Operazione che non sta in piedi dal punto di vista della ratio e della logica, ma che viene spacciata come magisteriale. Non poteva mancare, poi, il coinvolgimento dell'aneddotica letteraria su Papa Francesco nel giustificare l’evento: “In una fase delicata del Pontificato di Francesco, Papa di un cristianesimo egualitario più che identitario, e in un momento di rinnovata propensione dei credenti verso l’apertura a nuovi mondi ed alle diversità, l’incontro promosso dal Circolo A.C.L.I. e Grande Oriente d’Italia potrebbe far ripartire la costruzione di “ponti” i cui cantieri, in passato, avevano aperto possibilità di riconciliazione poi mai maturate”. Quando si dice che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi: per dialogare sotto copertura della diocesi di Assisi, le Acli hanno scelto un'obbedienza Massonica apertamente laicista, progressista, antidogmatica ed esoterica, come si può evincere dalle costituzioni del GOI. Che dialogo potrà mai essere possibile con tale realtà? E ancora: "Dialogo", "costruzione di ponti", "riconciliazione". Si tratta dell’ennesimo tentativo che vede congiunti due mondi apparentemente diversi, quello catto-liberal-progressista e quello massonico. La loro mèta: dal dialogo allo sdoganamento della Massoneria all'interno della Chiesa. La strategia è chiara: prima si diffonde tra i cattolici un pensiero massonico o simil-massonico, quale appunto quello liberal-progressista, che oramai ha conquistato una larga fetta del cattolicesimo "alla PD" e poi con questa nuova mentalità, si arriva a giustificare tutto. Non solo la comunione ai divorziati risposati che non vogliono vivere casti e indulgenza-tolleranza-simpatia verso la prassi LGBT, ma anche la doppia appartenenza a Chiesa e a Massoneria. Significativo poi il passaggio in cui si ribadisce la contrarietà della dottrina, ma si accettano le posizioni più dialoganti. E’ l’ormai onnipresente stile utilizzato anche per altre vicende della prassi sganciata dal Magistero di sempre, che sovrasta la dottrina fino ad annacquarla o anestetizzarla. E’ dunque la riconciliazione l’obiettivo ufficiale di questi incontri? Messa nero su bianco da una diocesi italiana che ne promuove la diffusione? E il dialogo è possibile con realtà che sono apertamente nemiche della Chiesa? No, in realtà il dialogo non è assoluto, non è un comandamento evangelico né un modus operandi cattolico, soprattutto quando le finalità del dialogo sono così smaccatamente ambigue. Significativo poi è il fatto che, mentre a Siracusa la Chiesa era ospite di un evento promosso dalla loggia locale, a Gubbio invece l’evento è promosso e organizzato di concerto dalle Acli e dal GOI. Con la benedizione della diocesi di Assisi. Possibile? Per scoprirlo la Nuova BQ ha iniziato a indagare e ha scoperto che in realtà l’evento è il risultato di una somma di gaffe e pressapochismo su cui facilmente si sono innestate le logge. “L’evento viene fatto a Gubbio perché qui c’è una forte tradizione muratoria – ci spiega Sante Pirrami, presidente dell’Acli di Fossato – noi abbiamo fatto girare la cosa e sono felice che la diocesi abbia deciso di pubblicarla sul suo sito, ma formalmente le due diocesi, quella di Assisi e quella di Gubbio non figurano tra i promotori che siamo noi e il GOI”. Chiediamo: "Ma i vescovi erano informati?". “Sì abbiamo informato tutti i vescovi della zona attraverso i nostri canali comunicativi – ha proseguito Pirrami -. Non vedo dunque il perché di eventuali critiche, anzi abbiamo avuto incoraggiamenti da parte di ambienti universitari”. In quanto all’esoterismo nascosto negli statuti del GOI, Pirrami è tranchant: “Noi non parleremo di queste cose, anzi parleremo anche degli elementi di inconciliabilità, ma accanto a questi ci sarà spazio per discutere anche della figura dell’architetto dell’Universo. C’è chi lo chiama Dio e chi lo chiama Grande architetto, non vedo dove sia lo scandalo. E’ su questo che verterà il confronto”. Con premesse di questo tipo è chiaro che l’incontro di domani sarà ad alto tasso esplosivo. Ma che cosa ne pensano le due diocesi che vengono lambite e tirate in ballo dalla conferenza? Qui inizia il secondo tempo della nostra inchiesta. A Gubbio il clima non è dei migliori. Fonti vicine al vescovo Luciano Paolucci Bedini ci parlano di un’iniziativa controversa che non è piaciuta per nulla al pastore di Gubbio. “Per quanto riguarda l'organizzazione, il vescovo non ne sapeva nulla – ci spiega una persona informata dei fatti -, ma posso dirle che il nostro vescovo non era affatto felice tant’è vero che ha provato a far togliere l’avviso dal settimanale delle diocesi umbre. Ma ormai, la notizia era in stampa…”. Ad Assisi invece la reazione è di stupore e imbarazzo: “No, la diocesi non c’entra nulla – ci risponde l’ufficio stampa – infatti non c’è il nostro logo”. Facciamo notare che la notizia è stata data sul sito della diocesi che si presume condivida dunque l’incontro. “No, in realtà…no. Insomma, non sappiamo perché la cosa sia finita sul sito diocesano”. L’imbarazzo nella cittadella di San Francesco è palpabile. Così palpabile che poche ore dopo la nostra telefonata, come d’incanto, la notizia sparisce dal sito diocesano. Arriva anche una telefonata chiarificatrice: “Abbiamo chiesto al vescovo Domenico Sorrentino e ha detto di non sapere nulla di questo incontro. Tanto più che, anche recentemente, ha scritto proprio contro la Massoneria. Ci dispiacerebbe se il nome della diocesi venisse associato a questo evento di cui non condividiamo le finalità”. Perché allora la notizia è finita sul sito? La risposta però è un misto di scuse maldestre e sviste. E’ mancato dunque un controllo? O forse la diocesi, dopo aver ricevuto la nostra telefonata e informatasi sulle polemiche che su internet stanno iniziando a montare, ha pensato bene di smarcarsi? Chissà, quel che è certo è che l’agenda cattomassonica prosegue nonostante un vescovo, quello di Gubbio, non abbia mancato di manifestare in privato la sua contrarietà e quello di Assisi, abbia provato con imbarazzo a fare marcia indietro e smarcarsi. L’incontro però, al momento è confermato, garantiscono le Acli, che portano avanti il buon nome del cattolicesimo così a la page. Se ci dovessero essere sviluppi ulteriori, questi non potranno che arrivare dai due vescovi coinvolti, i quali, a questo punto devono decidere da che parte stare: se prendere le distanze e condannare l’incontro portato avanti da una realtà che si definisce cattolica o se invece fare finta di niente, ma di fatto, lasciando che l’agenda dell’Operazione loggia prosegua inarrestabile con il placet del potente Prefetto della Cultura, Ravasi. In questo caso si moltiplicheranno sul territorio iniziative di questo tenore. E’ una scelta di campo che potrebbe portare a sviluppi deleteri e di totale annichilimento dell'identità cattolica.
CHE RAPPORTI CI SONO TRA CHIESA E MASSONERIA? Scrive il 03/02/2017 su famigliacristiana.it Maurilio Guasco. La massoneria determina le politiche di molti Paesi. Ma non è in contrasto con le regole della Chiesa cattolica? Andrea R. La Chiesa non ha modificato i testi di condanna della massoneria. Vi è per esempio l’enciclica di Leone XIII, Humanum genus, del 20 aprile 1884, che la condanna in modo forte. È bene ricordare che essa era allora in alcuni Stati la vera nemica della Chiesa. La Congregazione per la dottrina della fede il 26 novembre 1983 ha ribadito le condanne nella “Dichiarazione sulla massoneria”, per rispondere a chi chiedeva delucidazioni, notando che il nuovo Codice di diritto canonico non ne parla in modo esplicito. Rimane, quindi, il giudizio negativo. La ragione è chiara: contiene princìpi inconciliabili con la dottrina della Chiesa. Non va, però, dimenticato che esiste una forma di massoneria che utilizza mezzi anche illegali per raggiungere il proprio scopo (vedi la P2), e una forma ben diversa, che rappresenta un’associazione di aiuto reciproco fra gli aderenti, dato alla luce del sole e senza illegalità. Per questo, in genere, si tende a parlare della massoneria solo in certe occasioni. Quanto all’appartenenza, è sempre difficile fare nomi. In molti elenchi figurano anche Pio IX e molti cardinali. Credo sia fuori luogo fornire elenchi senza prove. Si tratta di accuse infondate da cui è bene astenersi.
Chiara inconciliabilità. Chiesa e Massoneria lo «scandaloso» dialogo, scrive Ennio Stamile, *Sacerdote, referente regionale di Libera Calabria, mercoledì 1 novembre 2017 su "Avvenire". "Caro direttore, un dibattito che si cerca di mantenere vivo da diverso tempo, quello sul rapporto tra Chiesa e Massoneria. Da circa quarant’anni, da quando la Congregazione per la dottrina della fede ha emanato la Dichiarazione sulla Massoneria, chiarendo che se bene nel nuovo Codice di diritto canonico essa non viene espressamente menzionata come nel Codice anteriore «rimane immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro princìpi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita». Veniva ribadita, quindi, a chiare lettere la scomunica latae sentiae nei confronti di essa. Nessuna novità se periodicamente vengono riaccesi i riflettori sulla vexata questio. Questa volta, però, il dibattito dal titolo 'Chiesa e Massoneria, così vicini e così lontani' organizzato dal Grande Oriente d’Italia a Siracusa ha suscitato molto scalpore, addirittura scandalo in alcuni, per ragioni che francamente non mi sento di condividere. Intanto, per l’immagine utilizzata sul manifesto. È stato raffigurato un Cristo con il compasso in mano, a voler rappresentare che 'anche' Cristo per i massoni può essere considerato «il Grande architetto dell’universo». È arcinota la strategia della fratellanza massonica tesa a utilizzare particolari simboli, messaggi e attività filantropiche per diffondere messaggi che non hanno nulla a che fare con un corretto approccio alla fede cristiana. Per noi Dio non è una sorta di vago noumeno kantiano o 'G.A.D.U', che possa essere veicolato da tutte le religioni del mondo, purché infinitamente e indefinitivamente distante dall’uomo. Insomma, una sorta di neo-arianesimo sempre latente. Senza dover richiamare alcun 'assioma rahneriano', le nostre verità di fede si fondano su quel volto Unitrinitario di Dio che l’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù ci ha rivelato. Come ci ricorda la stessa Congregazione per la dottrina della fede, con la Riflessione ad un anno di distanza dalla Dichiarazione sulla Massoneria: «Solo Gesù Cristo è il Maestro della Verità e solo in Lui i cristiani possono trovare la luce e la forza per vivere secondo il disegno di Dio, lavorando al vero bene dei loro fratelli». Non abbiamo bisogno né di essere massoni, né di maestri, venerabili e no, con tanto di grembiulini colorati! L’altro motivo che ha suscitato scandalo è il fatto che a questo dibattito vi partecipino il vescovo di Noto monsignor Antonio Staglianò e monsignor Maurizio P. Aliotta. Intanto vorrei ricordare che si tratta di due noti e apprezzati teologi. Il primo, poi, lo conosco molto bene, visto che è stato mio docente di teologia sistematica. Per usare una metafora calcistica, se l’intenzione fosse strumentalizzatrice, gli organizzatori massoni avrebbero fatto un autentico 'autogol'... I numerosi testi e le lezioni del vescovo Staglianò mi hanno fatto gustare la bellezza e la profondità della fede cristiana. Al di là di possibili e risibili malizie, mi pare ovvio e importante che a simili dibattiti debbano partecipare persone in grado di motivare anche teologicamente le ragioni della «inconciliabile lontananza» tra Chiesa e logge massoniche. Ma su questo è davvero troppa la superficialità (a volte, ahinoi, anche l’ignoranza) che serpeggia indisturbata in molti ambienti anche ecclesiali. Infine, vorrei richiamare non solo l’importanza di quel fides quaerens intellectum (e viceversa), tanto dimenticato anch’esso soprattutto nella prassi omiletica, ma anche dell’invito al dialogo con tutti – nessuno escluso, quindi – che papa Francesco ha sin da subìto fatto suo e indicato ai cattolici. Ho l’impressione che spesso si abbia paura di dialogare, quasi con il timore di perdere la propria identità. Il dialogo, invece, rimane l’unica strada da percorre, affinché, nonostante le differenze, si possano intraprendere percorsi autentici di servizio al bene comune e all’impegno trasparente e responsabile per la giustizia sociale. Perché scompaia finalmente la metastasi delle 'lobby di potere'. Realtà tutte incentrate non solo alla ricerca e alla custodia del potere politico ed economico con i soliti e gravissimi intrecci con le mafie, ma anche a creare logiche di appartenenza a scapito di meriti e competenze delle quali nessuno, neppure la Chiesa in alcune sue realtà, può dirsi estraneo.
IL VATICANO E GLI SCANDALI.
La terribile resa del Papa. Socci, rabbia su Bergoglio: "Islam e migranti, la verità", scrive il 16 Dicembre 2018 Antonio Socci su "Libero Quotidiano". I cristiani del Medio Oriente, finora martirizzati, perseguitati, dispersi e ignorati da tutti, hanno finalmente un difensore. Non si trova in Vaticano, ma a Washington, precisamente alla Casa Bianca. Il presidente Donald Trump ha infatti firmato l'Iraq and Syria Genocide Relief and Accountability Act (HR390), cioè una legge che riconosce il «genocidio» in corso, perpetrato dai gruppi Jihadisti ai danni di cristiani e yazidi. È una legge che obbliga formalmente il governo americano ad andare in soccorso di queste popolazioni anche con progetti umanitari che difendano le minoranze religiose e stabilizzino quelle aree. Inoltre tale legge permette all' amministrazione Usa di intervenire contro i persecutori, per dare la caccia ai terroristi che si macchiano dei crimini più efferati. Per la firma di Trump, a questo atto solenne, hanno esultato i cristiani del Medio Oriente e quelli americani, insieme con i loro vescovi. Gelida invece la reazione negli ambienti vaticani: è il Vaticano di papa Bergoglio, dove si detesta Trump, dove non si muove un dito per i cristiani perseguitati e dove invece si preferisce caldeggiare - quotidianamente e ossessivamente - le migrazioni di massa (specie musulmane) in Italia e in Europa. Il cinismo del Vaticano bergogliano nei confronti dei cristiani perseguitati si è reso evidente in una recente dichiarazione del Segretario di Stato di Bergoglio, il cardinale Parolin, una dichiarazione che ha dell'incredibile. Come riporta l'agenzia dei vescovi italiani, Sir, Parolin è stato interpellato sulla tragedia di Asia Bibi, la donna pakistana, madre di cinque figli, che, per la sua fede cattolica, era stata accusata falsamente di blasfemia. Asia ha sopportato quasi dieci anni di carcere durissimo, rifiutando di convertirsi all' Islam, è stata condannata a morte in due gradi di giudizio e infine è stata assolta dalla Corte Suprema del Pakistan. Com' è noto la donna e la sua famiglia ora vivono braccati dai fanatici e suo marito ha chiesto asilo politico in diversi Paesi. La famiglia è poverissima ed è ad altissimo rischio in Pakistan.
I SILENZI DI PAROLIN - Ebbene Parolin, il numero 2 della Chiesa di Bergoglio, interrogato su questo caso, che ha commosso e indignato il mondo intero, ha dichiarato che attualmente non c' è nessuna attività diplomatica della Santa Sede per Asia Bibi e la sua famiglia. Poi ha testualmente aggiunto: «È una questione interna al Pakistan, spero possa risolversi nel migliore dei modi». Come dire: chi se ne frega, la cosa non ci riguarda. La sconcertante dichiarazione dell'uomo di punta del Vaticano ha scandalizzato molti, pur essendo passata in sordina sui media. Infatti le gravi violazioni dei diritti umani non sono mai un affare interno di un regime, ma chiamano in causa tutti gli uomini e tutti i popoli. Lo proclama quella «Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo» di cui proprio in questi giorni il mondo ha celebrato i 70 anni (dall' approvazione all' Onu). Ma soprattutto è sconcertante che sia il vertice della Chiesa a lavarsi le mani così platealmente della sorte di una donna condannata a morte per la sua fede cattolica e oggi minacciata con tutta la sua famiglia. Sono parole inaudite che cestinano pure il Vangelo, oltre al semplice senso di umanità.
NON DISTURBARE - Purtroppo però la scelta di questo pontificato sembra proprio quella di non disturbare i regimi che perseguitano i cristiani, "sacrificando", all' abbraccio con i dittatori, i diritti fondamentali dei perseguitati per la fede: lo dimostra anche il recente accordo del Vaticano con il regime comunista cinese che ha scandalizzato sia i cattolici perseguitati della Cina, sia i cattolici del mondo libero. Peraltro lo stesso cardinale Parolin - contraddicendosi platealmente - ha poi rilasciato un'altra dichiarazione sconcertante. Intervistato da Rai News il 13 dicembre scorso sul Global Compact sull' immigrazione, ha sostenuto, a nome del Vaticano, che «poter migrare è un diritto», mentre, per gli Stati come l'Italia, «il diritto a non accogliere non c' è». Un' idea del genere, grottesca fino al ridicolo (oltreché inquietante), di per sé distrugge la sovranità di qualunque Stato, perché se uno Stato non può controllare le sue frontiere ed è costretto a subire qualsiasi emigrazione di massa, non esiste più come Stato. Basti pensare all' Italia che dovrebbe rassegnarsi, senza poter fare nulla, alla potenziale emigrazione sul suo territorio di centinaia di milioni di persone dall' Africa. Sarebbe davvero un'invasione e con effetti apocalittici. L' aspetto surreale delle posizioni espresse dal numero 2 di Bergoglio è questo: mentre il Vaticano non intende disturbare i regimi dove sono violati i diritti umani fondamentali (perché sono questioni interne), lo stesso Vaticano nega a paesi liberi e democratici di esercitare una loro fondamentale prerogativa, quella di controllare le proprie frontiere, e decidere se e quale politiche migratorie praticare. Tutto questo, peraltro, mentre il Vaticano, circondato da alte mura, è l'unico Stato che non ha accolto e non accoglie nessun migrante e nessun profugo. Tanto meno accolgono la famiglia di Asia Bibi che, per la fede cattolica, è gravemente a rischio. Eppure Oltretevere vi sono grandi palazzi e lussuosi appartamenti, occupati da prelati che poi fanno prediche agli altri sul dovere dell'accoglienza. Gesù così tuonava contro alcuni esponenti del potere religioso del suo tempo: «Dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23, 3-4). Si ha la netta sensazione che a questo Vaticano importi assai poco pure dei migranti, ma li usa ideologicamente secondo l'Agenda Obama che poi è l'Agenda Onu. Nella stessa direzione del Global compact for migration"che produrrebbe una destabilizzazione globale, colpendo le identità dei popoli. Per l'Italia, per l'Occidente e per la Chiesa le posizioni di Bergoglio sono devastanti. Anche sul Global Compact - come sui cristiani perseguitati - meno male che c' è Trump. Antonio Socci
Il concerto di Natale interculturale. E in chiesa intonano "Bella ciao". Polemiche per il concerto natalizio in una parrocchia a Bologna. In chiesa il coro intona "Bella Ciao", scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 17/12/2018, su "Il Giornale". Prima il coro dei bimbi sulle note natalizie, poi "bella ciao" e le reprimende per "la limitazione della libertà" che stiamo vivendo "in questo momento storico". Potrebbe sembrare tutto normale, se ci trovassimo alla festa di Natale del circolo del Pd o in una vecchia casa del popolo. E invece si tratta di una normale domenica pomeriggio di dicembre nella parrocchia di Santa Teresa del Bambin Gesù a Bologna. Due bandiere della pace a sinistra, l'immagine della vergine a destra, il crocifisso al centro. Un gruppo di cantori degli adulti intona (in chiesa) l'inno dei partigiani quando (forse) ci si attenderebbe solo un normale "Tu scendi dalle stelle". E tutti applaudono. Se ci fosse stato don Camillo di Giovannino Guareschi, a concerto concluso avrebbe chiesto al crocifisso cos'ha provato nel trovarsi alle spalle di un coro che ha voluto infilare "Bella ciao" nella scaletta natalizia. "Gesù, lo vedete fin dove siamo arrivati? - diceva don Camillo in uno dei celebri film all'elezione di Peppone a sindaco - io le dico che un giorno verranno fin qui dentro e ci pesteranno sotto i piedi". Forse oggi ci siamo davvero arrivati. Ieri sera nella parrocchia bolognese del quartiere Savena era in programma un "concerto corale" per il "Natale più interculturale che ci sia". E già il manifesto lasciava intendere (forse) il tono dell'evento. A scaldare le corte vocali erano presenti il "Mikrokosmos" (coro multietnico di Bologna), il "Coro ad Maiora: la bottega della voce", il "coro giovanile Bassi&co." e il "Mikrokosmos dei piccoli". Direttore della serata: Michele Napolitano. "Sembrava tutto normale - racconta al Giornale.it una ragazza presente alla serata - prima ho sentito cantare i bimbi canzoni natalizie, poi è stato il turno degli adulti". Ad un certo punto la "sorpresa". "I coristi hanno intonato Bella ciao - continua la testimone - e non mi sembra faccia proprio parte del repertorio di Natale". Il video della performance partigiana (guarda qui) sta scatenando le più svariate reazioni. "Sono rimasta sconvolta e sconcertata - aggiunge la ragazza - È pazzesco che in chiesa si mettano a cantare quelle canzoni". Non solo. Perché a quanto pare "il maestro del coro" dopo aver "parlato dei partigiani" avrebbe anche "utilizzato una allusione chiarissima: non ha citato l'attuale governo, ma ha detto che ci troviamo in un momento storico dove si sta verificando una limitazione di libertà". Il tutto con il Santissimo Sacramento poco distante. Esplode immediata la polemica politica. "I parroci 'rossi' non sono certo una novità - attacca Umberto Bosco, consigliere comunale della Lega - ma, da quando Salvini ha compromesso gli interessi economici e ideologici di chi operava nell'accoglienza indiscriminata, le cooperative rosse e quelle bianche hanno rinforzato il sodalizio contro il governo in carica. In questo modo pensano di allontanare l'elettorato cattolico della Lega ma resteranno nuovamente delusi". Per l'onorevole Galeazzo Bignami si tratta di "uno schifo" in una città dove sempre più "Dio ti vede e Stalin ti sente": "Non starò qui a ricordare le decine di preti ammazzati da partigiani che intonavano quella stessa canzone - dice al Giornale.it - Non starò nemmeno a discutere sul significato politico di quella canzone. Ma ritengo inaccettabile che un canto di guerra e divisivo, connotato evidentemente e notoriamente da un significato politico, non dovrebbe essere ascoltato in quel contesto e in questo momento". Non è chiaro se parroco di Santa Teresa fosse a conoscenza della scaletta o se abbia solo messo a disposizione la chiesa (abbiamo telefonato alla parrocchia, ma il don non era disponibile e siamo in attesa di essere ricontattati). Resta però l'inequivocabile video. E quel canto che stona col crocifisso costretto suo malgrado ad ascoltare.
Don Gallo canta ''Bella ciao'' in chiesa, scrive il 22 gennaio 2013 Repubblica TV. Sacro e profano. Non capita spesso di veder intonare una canzone partigiana da un sacerdote e dai fedeli al termine di una messa. Sarà per questo il grande successo in Internet di un video in cui il prete genovese, don Andrea Gallo, canta "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso, alla fine della messa celebrata lo scorso 8 dicembre nel capoluogo ligure in occasione del 42esimo anniversario della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova. In poco più di un mese il video, girato da Sergio Gibellini ha già superato le 200 mila visualizzazioni su YouTube.
Don Ciotti ricorda don Gallo e canta Bella Ciao in chiesa, scrive l'8 dicembre 2013 Repubblica TV. E' il primo Natale senza don Gallo e per celebrare la Messa dell'Immacolata nella piccola chiesa di San Benedetto, 43 anni dopo la nascita della comunità, è venuto a Genova un amico del "prete di strada" scomparso: don Luigi Ciotti, il sacerdote che combatte le mafie d'Italia. E come fece don Andrea Gallo, anche don Ciotti, all'altare, ha intonato Bella Ciao: "In queste stanze, esattamente 43 anni fa, don Gallo fondò la comunità per aiutare gli ultimi. Non dimentichiamolo".
Preti, transessuali e partigiani cantano “Bella Ciao”. In ricordo di don Gallo, scrive lunedì 8 dicembre 2013 Gabriele Farro su Secolo D’Italia. Rieccoli, i preti rossi. Alla fine della messa anche padre Alex Zanotelli ha intonato con gli altri fedeli Bella Ciaoper ricordare l’amico don Andrea Gallo, il prete morto l’anno scorso. E’ successo nella chiesa di San Benedetto a Genova dove la omonima comunità per gli emarginati nata 44 anni fa ha ricordato il fondatore. Una messa fuori dagli schemi, con “La canzone del maggio” e altre liriche di De Andrè, poi tante testimonianze in ricordo del “gallo”. Padre Zanotelli, il missionario comboniano tra i fondatori dei ‘Beati i costruttori di pace’ ha detto che “il ricordo più bello di Andrea riguarda l’epoca delle polemiche più dure quando Nigrizia divenne caso nazionale per la denuncia di tangentopoli con sei anni di anticipo. Mi telefonò dandomi piena solidarietà e invitandomi a Genova. Ci siamo sempre sentiti in profonda sintonia e quindi sono venuto oggi a Genova per un dovere”. Alex Zanotelli ha invitato la Comunità di San Benedetto al Porto ad andare avanti: “non è facile proseguire dopo la morte di un personaggio così carismatico come Don Gallo” ha detto. In chiesa tantissime persone, i ragazzi della comunità, i transessuali, le bandiere dei partigiani dell’Anpi e, sull’altare, un quadro di Don Gallo e la sua bandiera della pace.
I precedenti delle tonache rosse. Le tonache. Gli episodi sono tanti. Si ricorda la performance di don Paolo Farinella, sacerdote della Diocesi di Genova, che è stato ospite del programma di Radio2 Un giorno da pecora. Contro chi si è scagliato? Naturalmente contro Berlusconi che «fa soldi solo con la corruzione e se ne frega della fede». Poi ha aggiunto: «Se lui non fosse così vigliacco da scappare dai tribunali e venisse fuori che è colpevole, deve andare dentro». Torniamo a don Gallo, il fu sacerdote antagonista, fede vendoliana. Record di visualizzazioni per il video in cui si vede il prete, nella Chiesa di San Benedetto a Genova, sventolare il paramento sacro che aveva sulla tonaca come se fosse una bandiera rossa e cantare Bella Ciao. Il tutto davanti ai fedeli. Don Gallo nel 2009 partecipò al Genova Pride e dichiarò che «sarebbe magnifico avere un Papa gay». Da ricordare anche don Giorgio, il parroco di Monte di Rovagnate, che creò un mare di polemiche per una sua frase («prego il Padreterno che mandi un bell’ictus a Berlusconi facendolo rimanere secco») che nulla aveva di cattolico. Tutti “figli” di don Vitaliano, che tutti ricordano come il prete no-global: insieme con Vittorio Agnoletto (ex parlamentare di Rifondazione comunista) piombò nella sala stampa del Festival di Sanremo munito di bandiere pacifiste.
De Simone. "Bella ciao? Era un canto religioso", scrive Stella Cervasio il 30 giugno 2018 su "La Repubblica". Il musicista mette in dubbio le radici della canzone- simbolo della Resistenza e compone sul suo tema una "lauda musicale" per Padre Pio Il 7 luglio l'anteprima nel Duomo di Amalfi. "Era già nota negli anni Venti". Con la consueta eresia che ne fa un grande e scomodo personaggio del nostro tempo, Roberto De Simone mette in dubbio le radici del canto simbolo della Resistenza: "Bella ciao". Lo fa con un progetto di grande effetto su Padre Pio, che sarà anticipato da un concerto in prima assoluta il 7 luglio nel Chiostro del Duomo di Amalfi. Il maestro della Gatta Cenerentola ha scritto e musicato una "Lauda per frate Francesco de Pietrelcina", che prende il nome dai versi medioevali di argomento religioso composti su arie profane. È un brano in 24 strofe, quante sono le stazioni della Via Crucis. Il tema è quello di "Bella ciao", su cui però il musicista ha creato una orchestrazione con variazioni e ponti strumentali suggestivi. Visivamente, padre Pio viene trasferito sulla scena della Passione di Cristo accanto ai personaggi di sempre: le pie donne e i protagonisti della crocefissione nelle 24 ore della Passio Christi, una partitura dove le 12 tonalità, alternandosi, si ripetono per due volte, arrivando dunque a 24 come le ore precedenti la morte del Salvatore. «La base dell'operazione è culturale — spiega De Simone — il risultato musicale però è sinfonico. L'ho composta in un mese e la dedico alla vera cultura napoletana. Non è assolutamente rivolta alle istituzioni e ai politici, che vivono nel degrado culturale. Il testo si basa su un altro originario che registrai prima del 1970 al santuario di San Michele del Gargano in Puglia durante una processione del santo di cui dalla chiesa rupestre viene portata fuori soltanto la spada e immersa nell'acqua del mare. A cantarlo erano i devoti, ricordo che facevano riferimento all'"alma pellegrina" di Padre Pio. Doveva essere il periodo in cui la Chiesa, scettica sul frate, gli aveva chiuso le porte, vietandogli anche di dire messa in pubblico. La sua vita si apre a molti interrogativi e dubbi, ma la sua figura è grande, è comunque un mito e anche se oggi è inserito tra i mass media del consumo, rimane un personaggio sacrale impossibile da giudicare». Il santo beneventano quindi soppianta i patrioti della Resistenza, perché la musica è pur sempre quella che conosciamo come "Bella ciao". Un brano che ha una storia controversa. Alan Lomax, lo scopritore del blues, ne registrò una versione negli anni Venti: era un canto yiddish dove ricorreva il tema noto, ma che commemorava i fuochisti del Titanic, morti sul lavoro colati a picco con la nave a causa di un incendio scoppiato a bordo, e che poi — secondo una recente scoperta giornalistica — sarebbe stata la vera causa del suo affondamento, ancora prima dello scontro con l'iceberg. «Penso che sia un canto funerario che torna nella tradizione delle mondine. E credo che sia stato trasferito in quell'ambito da zingare assoldate per lavorare nelle risaie, che cantavano la storia di una di loro morta per amore. Un motivo musicale che ricorreva anche nei giochi di bambini». Dunque i partigiani c'entrano poco? «L'equivoco — replica De Simone — è nato all'epoca dello spettacolo di Dario Fo "Ci ragiono e canto" nel 1966. Mi pare difficile che un canto di lavoro, religioso o funebre venisse assunto dai partigiani». De Simone è intervenuto sulla musica rendendola antica, rispettandone la forma ma portando all'estremo, con modernità, la struttura: «Ho scelto tonalità che non avessero ponti armonici». E ha collegato il tutto alla struttura vocale di Raffaello Converso, voce che collabora con il maestro dai tempi della Nccp. «Ho scritto la lauda con le regole che partono da Pergolesi, dove le parti d'orchestra non toccano mai la voce, sennò la musica non sarebbe arte. Ho voluto che tutta questa operazione non sfiorasse né il folklore nè la napoletanità». Musica europea e brividi che corrono lungo la schiena. Ad Amalfi Raffaello Converso interpreterà la "Lauda", e altri brani tratti dall'album del 2015 "L'armonia sperduta", dove De Simone, attraverso la voce dell'interprete, ribadiva la sua concezione storica e ortodossa della canzone napoletana, contro le mille contaminazioni odierne. Ad accompagnarlo, un'orchestra di fiati, archi, organo, pianoforte e percussioni, diretta da Luigi Grima. Il 10 replica nell'Arsenale della Repubblica di Amalfi.
Papa Francesco, il dossier da incubo: scatta la censura in televisione, l'ultimo scandalo in Vaticano, scrive il 18 Dicembre 2018 Libero Quotidiano". E' stato un anno difficile per Papa Francesco. Lo scontro interno al Vaticano, gli scandali della pedofilia nella Chiesa, le riforme promesse ma di fatto mai realizzate. E, infine, il calo mai visto prima di preti in televisione per censurare le notizie che stanno spaccando il clero in questo ultimo periodo. Riporta il Fatto Quotidiano che la presenza della chiesa cattolica in tv ha cominciato a discendere. Con l'unica, vistosa eccezione del Tg1 che nell'anno precedente aveva raggiunto il record del 98,23 per cento e quest'anno il 98,93, tutti gli altri telegiornali registrano un calo. In particolare a Mediaset. La presenza di preti nel complesso delle trasmissioni sono passate da 616 a 244: Porta a Porta da 48 a 19, Uno mattina da 178 a 64, Agorà da 169 a 94, Omnibus da 44 a 20.
Papa Francesco, l'omelia di Natale: "Uomo vorace, insaziabile e ingordo", scrive il 25 Dicembre 2018 Libero Quotidiano". Un'omelia che invita alla condivisione, quella di Papa Francesco nella messa della notte di Natale. L'uomo, denuncia il Pontefice, "è diventato avido e vorace. Avere, riempirsi di cose pare a tanti il senso della vita. Un'insaziabile ingordigia" che porta "ai paradossi di oggi, quando pochi banchettano lautamente e troppi non hanno pane per vivere". E spiega che Gesù "lancia un nuovo modello di vita: non divorare e accaparrare, ma condividere e donare". "Betlemme - insiste - è la svolta per cambiare il corso della storia". Ma per andare verso Gesù "la strada, anche oggi, è in salita: va superata la vetta dell'egoismo, non bisogna scivolare nei burroni della mondanità e del consumismo. Voglio arrivare a Betlemme, Signore, perché è lì che mi attendi. E accorgermi che tu, deposto in una mangiatoia, sei il pane della mia vita. Ho bisogno della fragranza tenera del tuo amore per essere, a mia volta, pane spezzato per il mondo". Quindi ancora l'invito a condividere con chi è in difficoltà e l'esortazione a vivere "nell'attesa di Dio e non nella pretesa", a non aspettare Dio "sul divano", come "chi si sente arrivato e non ha bisogno di nulla". Solo andando incontro a Dio, come hanno fatto i pastori con Gesù, non dormendo ma rischiando, si può cogliere l'essenza del messaggio di Natale. "Infatti - sottolinea - i pastori si muovono: “andarono senza indugio”, dice il testo. Non stanno fermi come chi si sente arrivato e non ha bisogno di nulla, ma vanno, lasciano il gregge incustodito, rischiano per Dio. E dopo aver visto Gesù, pur non essendo esperti nel parlare, vanno ad annunciarlo, tanto che 'tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori'. Attendere svegli, andare, rischiare, raccontare la bellezza: sono gesti di amore".
Il destino delle nostre Chiese vuote. Il Papa annuncia che i luoghi sacri, senza fedeli, vanno riconvertiti per l'accoglienza. Il segno di una crisi profonda, scrive Marcello Veneziani il 24 dicembre 2018 su Panorama. Alle soglie di Natale la Chiesa annuncia che chiuderà per mancanza di preti e di fedeli. Non era mai capitato di sentire una cosa del genere, e non da gente qualunque o da un sacerdote irriverente ma dal Vicario di Cristo in terra, il Papa in persona. Molte chiese, ha detto Bergoglio, «fino a pochi anni fa necessarie, ora non lo sono più, per mancanza di fedeli e di clero». La Chiesa deve adattarsi ai tempi cambiati, ha proseguito Francesco, deve dismettere le chiese e aiutare i poveri, giacché «non ha valore assoluto il dovere di tutelare e conservare i beni culturali della Chiesa, perché in caso di necessità devono servire al maggior bene dell’essere umano e specialmente al servizio dei poveri». Un annuncio storico, per giunta sotto Natale, ma è passato quasi inosservato. Siamo alla liquidazione dell’esercizio? In passato avevamo sentito i papi denunciare la scristianizzazione della società ma nessuno si era mai spinto a parlare di chiese senza devoti e senza sacerdoti da riadattare come ospizi per barboni e migranti, o da cedere allo stesso scopo filantropico. Che regalo di Natale...Un patrimonio religioso diventa patrimonio immobiliare, la religione della fede diventa «religione dell’umanità», avrebbero esultato i positivisti e i socialisti. Un luogo sacro e santo che si trasforma in ostello è lo specchio di una Chiesa che diventa Organizzazione umanitaria. Come una qualsiasi ditta, la Chiesa con Papa Francesco sta cambiando la sua «ragione sociale»? E noi qui a discutere del presepe, del crocifisso nelle aule pubbliche, o delle moschee. E la gente applaude a Matteo Salvini e ai ministri Lorenzo Fontana e Marco Bussetti che sollevano il tema della difesa della civiltà cristiana e dei suoi simboli millenari, la croce, il presepe. A proposito, non bastava l’annuncio papale ma a cancellare il Natale ora ci sono anche i preti d’assalto: il genovese don Paolo Farinella non celebra il Natale in odio a Salvini e alla politica sui migranti. E il prete padovano don Luca Favarin si rifiuta di fare il presepe perché gli dà fastidio il suddetto fronte presepista di Diopatriaefamiglia. Su una cosa però hanno ragione: non si può diventare cattolici solo a Natale, e andare a messa e farsi i selfie col presepe. Il ministro della cultura della Chiesa, il cardinal Ravasi dice che i cattolici sono ormai una minoranza in Occidente, nell’Occidente cristiano, e non solo nel mondo, c’è ormai apatia religiosa e le chiese vuote, se non vogliamo che finiscano come pizzerie, diventino almeno musei o luoghi di dibattito. Come dire, non più luoghi di culto ma di cultura; la fede lascia la chiesa in eredità agli intellettuali. Soluzione illuminista. Intanto, in giro, le chiese sconsacrate diventano resort, trattorie, teatri, luoghi polifunzionali. O peggio, come si stava facendo a Bergamo con la chiesa dei Cappuccini, rischiano di essere comprate dagli islamici per farne una moschea; una specie di nemesi religiosa, se si considera che molte chiese cristiane sorgono su luoghi di culti precristiani. Ah, se li sentisse il cardinal Carlo Caffarra che ha fatto in tempo a morire nel 2017. Si chiedeva l’arcivescovo di Bologna - di cui è uscito ora un libro postumo Scritti su etica, famiglia e vita (ed. Cantagalli) - «è rimasta solo la Chiesa a farci sentire il respiro dell’eternità nell’Amore umano. E se anch’essa rinunciasse a farlo sentire?». L’impressione è che la Chiesa vi abbia rinunciato. Ma se le chiese vanno dismesse per mancanza di utenti e trasformate in centri d’accoglienza, «il respiro dell’eternità» non cede all’affanno dei tempi? Se i papi nei secoli avessero distribuito i soldi ai poveri del loro tempo anziché edificare altari, conventi e cattedrali, oggi non avremmo capolavori d’arte né luoghi di preghiera in cui viene consacrata e affidata la nascita, la morte, il matrimonio. In ogni chiesa è riflesso il travaglio di popoli e di generazioni, il sacrificio e la fede di chi l’ha edificata, amata, vissuta; c’è il ricordo dei santi e dei martiri, il legame sacro di una comunità, la sua anima, la sua storia, la sua identità. È desolante vedere le chiese vuote ma si può liquidare una fede cambiandole la destinazione d’uso, riducendola a pura assistenza sociale? Magari per aiutare i poveri si potrebbe usare il vasto patrimonio immobiliare della Chiesa. Meglio cedere un edificio per usi profani piuttosto che una chiesa. Ed è meglio che le chiese celebrino il Natale e allestiscano il presepe, piuttosto che ridursi a sedi per assemblee di migranti. Qualche anno fa ebbi la fortuna di visitare le parti del Vaticano non aperte al pubblico: in 200 metri vidi la più alta concentrazione di capolavori che ci sia al mondo: la Cappella paolina di Michelangelo, le sale del Bernini per ricevere i sovrani, le logge dipinte dalla scuola di Raffaello, la prima carta geografica con l’America collocata a Oriente, vidi perfino un minuscolo e magnifico bagno del segretario di Stato dipinto dallo stesso Raffaello. Non c’è al mondo tanta densità di grazia e di bellezza in uno spazio così intensamente popolato d’arte, contiguo alla Cappella Sistina: in quegli affreschi era descritta la condizione umana, il viaggio di anime e corpi tra cielo e terra, luce e tenebra. Là c’era tutto l’uomo, nella sua massima grandezza e nel nudo confronto con la sua miseria di mortale. Se al posto di tutta quella bellezza, la Chiesa avesse soccorso i poveri, sfamato un po’ di gente, cosa avrebbe lasciato alle generazioni seguenti, quali risposte avrebbe dato alla vita, alla morte, alla speranza? Certo, sconforta vedere sotto Natale le chiese vuote. Ma ancor più sconforta l’annuncio dei saldi di fine cristianità.
Tonache pulite. L'editoriale del direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, dedicato all'altro volto dell'inchiesta su Chiesa e pedofilia e al servizio sui baby transgender, scrive Maurizio Belpietro il 24 dicembre 2018 su "Panorama". Mi ha scritto l’ex direttore di Verona Fedele, il settimanale della diocesi scaligera. Don Bruno Fasani è un amico e voleva farmi gli auguri, per Panorama e per Natale. Tuttavia ha colto l’occasione per rimproverarmi, segnalandomi che i preti non sono tutti come quelli che abbiamo raccontato nell’inchiesta su Chiesa e pedofilia. Non ce n’era bisogno: so bene che la maggioranza dei sacerdoti sono persone per bene, che hanno scelto una vita di sacrificio e di preghiera in nome della fede. Lo so per esperienza diretta, perché, nonostante abbia sessant’anni, ho nitido il ricordo della mia adolescenza. Al pari di molti miei coetanei, quegli anni li ho trascorsi tra la parrocchia e l’oratorio, a stretto contatto con un giovane curato. Si chiamava Piergiorgio, era piccolo, calvo e pignolo. Non era un trascinatore di folle e neppure un brillante oratore. Anzi, diciamoci la verità: le sue prediche erano noiose, perché parlava come un libro di catechismo. Con il senno di poi, però, posso dire che era un bravo prete: uno che ci credeva e che - se mi è permessa la battuta - ci metteva l’anima. Io sono cresciuto in mezzo ai preti. Don Piergiorgio era il curato della mia parrocchia, ma poi c’era don Giacomo, l’insegnante di religione delle medie, uno che arrivava su una coupé 850 Fiat di colore azzurro elettrico e storpiava la canzone di Gian Pieretti, un cantante dell’epoca. Invece di «Tu sei bello e ti tirano le pietre» lui entrava in classe canticchiando: «Tu sei bello e ti tirano l’uccello, tu sei brutto e te lo tirano del tutto». Come potrete immaginare era amatissimo, anche perché tra la spiegazione di una parabola e l’altra ci infilava qualche barzelletta. Quando se ne andava sulla sua rombante macchinetta, raccontava che ai vigili che l’avevano fermato per eccesso di velocità, si era giustificato dicendo che stava correndo da un fedele per impartirgli l’estrema unzione. Indossava la tonaca e allo stesso tempo un tono scanzonato e simpatico. Così come simpatico era don Silvio, il prete delle superiori, anche lui un barzellettiere nato, che aveva la stessa faccia del don Camillo di Guareschi versione Rai. Poi ho fatto in tempo a conoscere anche padre Francesco, un comboniano secco come un grissino che studiava portoghese con l’intenzione di partire per il Mozambico, ex colonia di Lisbona, dove era in corso una guerra tra fazioni marxiste o più semplicemente fra bande che dopo anni di dittatura non riuscivano ad adeguarsi alla democrazia. Se vi racconto tutto ciò non è però per rendervi noti i fatti miei, ma solo per dire che i preti li conosco da vicino. Ho fatto il chierichetto e il lettore di sacre scritture (all’epoca i brani del nuovo testamento li leggeva una specie di chierichetto più grande e non un fedele che lasciati i banchi sale verso l’altare) e tuttavia nessuno fra i sacerdoti che ho frequentato ha mai molestato me o qualcuno dei miei compagni. La parrocchia e l’oratorio erano luoghi protetti, che ai genitori garantivano sicurezza oltre che insegnamenti. Di sesso o di approcci sessuali neanche a parlarne. Anzi, un giorno, avendo scoperto nella biblioteca della parrocchia una copia de Il prete bello di Goffredo Parise, storia di un parroco di provincia conteso e coccolato dalle donne del quartiere, vicenda grottesca e scandalosa che finisce con la morte del sacerdote dopo che questi ha messo incinta la bella Fedora, don Piergiorgio sequestrò il volume, facendolo a pezzi e gettandolo nel cestino. Come dicevo però, tutto ciò accadeva molto tempo fa. Quella era un’Italia molto diversa. Certo, don Dino aveva scelto di lasciare la tonaca per mettersi con una donna, ma nei luoghi che ho frequentato io di preti pedofili non c’era ombra. Direte: erano altri tempi. Sì, certo, all’epoca non di discuteva neppure di baby transgender, ovvero di ragazzini che a sette o 12 anni vogliono cambiare sesso, l’argomento che abbiamo scelto di mettere in copertina. È un fenomeno sommerso, ma come potrete leggere nell’inchiesta di Terry Marocco, molto più diffuso di quanto riteniate. Sono centinaia i bambini e adolescenti che in Italia vengono sottoposti a cure che li aiutano a diventare altro rispetto a quello che sono. Gli esperti descrivono un fenomeno che sta crescendo con percentuali inimmaginabili, mentre una psicoterapeuta che li ha in cura parla di contagio sociale. Non so se sia così. So che il gemello di un dodicenne di Ravenna supplica il fratello: «Sei nato maschio come me, rimani maschio». (Editoriale pubblicato nel n° 1 di Panorama in edicola dal 19 dicembre 2018)
Chiesa ed abusi, nessuna responsabilità. Don Ruggero Conti è stato condannato in via definitiva per violenza sessuale ma non è mai stato in carcere, scrive il 24 dicembre 2018 Panorama. Fascicolo 4866 del 2008. L’asettico numero seriale cela il più fragoroso processo italiano a un prete per abusi su minorenni. Sette vittime, decine di testimoni e migliaia di atti. Da cui, ancora una volta, affiorano le reticenze e le omissioni della curia. L’imputato si chiama don Ruggero Conti: lombardo di Legnano, amico di politici ed economo della sua diocesi. A quel tempo è il carismatico e influente parroco di una chiesa di Selva Candida, al di là del Grande raccordo anulare che abbraccia la capitale. L’inchiesta della Procura di Roma si trasforma in un eclatante caso giudiziario. Che porta, nel 2015, alla più grave condanna definitiva mai comminata dalla giustizia italiana a un sacerdote accusato di pedofilia: 14 anni e due mesi di carcere. Eppure il sacerdote non è mai entrato nelle patrie galere. Anzi, a settembre 2017 è perfino evaso dai domiciliari, concessi in una clinica laziale, tentando una rocambolesca fuga in taxi. Infine, le ultime aggravanti: nessun risarcimento versato alle vittime e nemmeno una parola di conforto per i minori violati. Nonostante tutto sia accaduto alle porte del Vaticano. O, magari, proprio per questo. Chiesa della Natività di Maria Santissima, periferia di Roma, 30 giugno del 2008: don Conti, 54 anni all’epoca, viene arrestato mentre è in partenza, con alcuni ragazzi, per la Giornata mondiale della gioventù di Sydney. La Procura di Roma, nei mesi seguenti, comincia a sentire testimoni. Scoprendo, sotto gli orrori, un manto di protezione. Emerge già dalla deposizione di Gino Reali, il vescovo di Porto-Santa Rufina, la diocesi romana sotto cui ricade la chiesa di Selva Candida. Il 1° dicembre 2008 il pm Francesco Scavo Lombardo convoca il monsignore. Il prelato ammette di aver appreso già nel settembre 2006 dei comportamenti equivoci di don Conti. E due mesi dopo, il vice parroco della Natività di Maria Santissima, Don Claudio Peno Brichetto, gli aveva confermato le accuse. Che il vescovo, però, considerò inaffidabili. Anche le parole di altri tre ragazzi, tra i quali il responsabile dell’oratorio e alcuni dei giovani abusati, furono prese con le molle. «È chiaro che non posso nemmeno andar dietro a tutte le voci» si giustifica monsignor Reali con il magistrato, riferendosi a quegli incontri. «Io faccio il vescovo, non è che faccio il giudice istruttore... Non sono riuscito a trovare dei riscontri che potessero portarmi a un provvedimento di trasferimento». E aggiunge: «Noi oggi abbiamo anche l’impegno molto grande di salvare la buona fama della Chiesa. Lei non ha idea di quante accuse vengono fatte. E alcune non hanno alcun “fundamentum in re”, come si diceva una volta». Già, «la buona fama della Chiesa». Nessuno, quindi, viene avvertito. E don Conti continua ad abusare dei giovani parrocchiani. Persino in seguito al suo arresto, la curia non prende provvedimenti. «Da un punto di vista canonico noi aspettiamo quello che viene fuori dalle indagini della Procura» spiega il vescovo al pm Scavo Lombardo. «Quindi, in questo momento, siamo perfettamente fermi». Riassumendo: nel 2008 la diocesi, nonostante l’arresto per supposta pedofilia di un suo influente sacerdote, decide di stare a guardare. Fino a quando la giustizia non dimostrerà le violenze: al di là di ogni ragionevole dubbio. Una Chiesa, dunque, che interviene solo dopo la giustizia penale. Ovvero: quando non può farne a meno. Una condotta che negli anni scorsi è diventato metodo. Come dimostrano i casi raccontati da Panorama nelle scorse puntate di questa inchiesta. Nella deposizione di monsignor Reali, l’eccesso di cautela trabocca. Nel settembre 2005 alcuni genitori avevano informato monsignore che un altro prete, don José Poveda Sanchez, molestava telefonicamente alcuni ragazzini. In udienza il pm romano chiede al vescovo anche di questo precedente. Ci sono messaggi dall’inequivocabile tenore: «Pezzo di culo, vieni stasera». Oppure: «Ciao, culetto d’oro». Reali, ricevuta la scomoda segnalazione, spiega al magistrato, di aver convocato il religioso spagnolo. «Mi promise che sarebbe cambiato... Ma qualche mese più tardi fui avvisato che c’era stato invece un nuovo messaggio. Lo richiamai e lo invitai a lasciare la parrocchia. Lui allora chiese di rientrare in Spagna». Anche questa, una prassi consolidata: i preti sospetti vengono spostati da una sede all’altra, sperando di sopire denunce e scandali. Monsignor Reali, quindi, invia nel 2005 una lettera a Joaquín María López de Andújar, all’epoca vescovo di Getafe, la diocesi vicino Madrid che accoglierà don Poveda Sanchez. Ma si guarda bene dal segnalare i precedenti del sacerdote. Anzi, spiega il pm in udienza, «scrive una sorta di raccomandazione al suo pari grado a Madrid: “Persona a posto, brava, che si recava in Spagna per accudire la madre malata”». Tre anni dopo emerge che il prete iberico viene indagato per gli abusi sessuali su quattro ragazzini. Il parroco è così costretto ad ammettere i suoi precedenti con la curia di Getafe. I pm romani ricostruiscono però anche l’omissione di un altro monsignore: Carlo Galli, all’epoca prevosto di Legnano. A lui, nel 2005, un uomo aveva raccontato di aver subito violenza sessuale proprio da don Conti. Un’informazione che, però, il monsignore aveva tenuto per sé. Salvo poi riferirla al vescovo Reali, dopo aver appreso dell’arresto del parroco di Selva Candida. Il processo a don Conti comincia nel giugno 2009. Tra le parti civili c’è la onlus «Caramella buona», che ha contribuito ad avviare l’inchiesta, con il suo presidente, Roberto Mirabile. Così come Mario Staderini, consigliere municipale romano e futuro segretario dei Radicali italiani: rappresenta il Comune di Roma, che ha rinunciato a entrare nel procedimento (lo farà solo in seguito). All’epoca il sindaco della capitale è Gianni Alemanno: e in campagna elettorale, don Conti è stato il suo garante «per la famiglia e le periferie». Il 1° dicembre 2009 M.Z. È sul banco dei testimoni. Rivela di essere andato da Reali, assieme al responsabile dell’oratorio. E di avergli raccontato degli abusi subiti. Ma il vescovo gli avrebbe replicato: «Non fatevi mettere idee in testa dalla voci che sentite». Il giovane, in Tribunale, aggiunge: «La risposta non c’era piaciuta, il modo in cui l’aveva detto. Quasi per dire: “Non hai le prove, come fai a sostenere una cosa del genere?”. Ma la prova ero io. E quindi mi sono sentito abbandonato». Insomma, sintetizza: «Lui non ci credeva». Lo stesso 1° dicembre 2009 depone M.F.. Ricorda di aver scritto una lettera, in cui ricostruiva le violenze a cui era stato sottoposto, e di averla portata al monsignore. Che gli suggerì «di fare una denuncia alle autorità». Una strada che, però, il parrocchiano non aveva voluto intraprendere. È lo stesso Reali a spiegarlo ai giudici nell’udienza del 20 maggio 2010. Il monsignore chiarisce anche di non aver voluto avviare un’«indagine previa» interna. E di avere contattato «solo informalmente» la Congregazione per la dottrina della fede, l’organismo vaticano che istruisce i processi canonici contro i preti pedofili. I giudici romani sentono pure il primo accusatore di Ruggero Conti, don Peno Brichetto, suo vice nella chiesa di Selva Candida: nel 2007 aveva scritto una lettera alla stessa Congregazione per segnalare i comportamenti del parroco. Viene però convocato in Vaticano solo dopo l’arresto del sacerdote: «Mi hanno detto che loro operano solo se c’è l’invio di una documentazione. Infatti hanno confermato che Reali non ha mandato nulla: né prima né dopo il 2008». Morale: solo nel 2011 il sacerdote sarà sospeso «a divinis» dal sacerdozio. Quasi un buffetto. A maggio dello stesso anno, infatti, l’ex parroco della Natività di Maria Santissima viene condannato a 15 anni e 4 mesi: violenza sessuale aggravata su sette minori tra il 1998 e il 2008. Deve anche pagare 271 mila euro alle parti civili. In appello, nel maggio 2013, prescritti alcuni reati, la pena scende a 14 anni e due mesi. Due condanne, nessun risarcimento. Così il 28 giugno 2013 gli avvocati Giacomo Tranfo e Guido Lombardi, che assistono uno dei ragazzi, scrivono al cardinale Agostino Vallini, vicario del Papa per la diocesi di Roma, chiedendo un appuntamento. La replica del prelato arriva dieci giorni dopo: «Rispondo alla sua cortese lettera relativa alle difficoltà che incontra il giovane F.B., che dice di essere vittima di abusi da parte di don Ruggero Conti». Consiglia poi di rivolgersi al vescovo Reali, che però non darà mai riscontro ai due legali. «Dice di...», scrive il cardinale Vallini: evidentemente due gradi di giudizio non sono ritenuti sufficienti alla Chiesa per dubitare di uno dei suoi pastori. Anche la Cassazione, però, nel maggio 2015 conferma la condanna all’ex parroco di Selva Candida: 14 anni e due mesi. Una delle pene più severe mai comminate dalla giustizia italiana alla Chiesa. Eppure don Conti non è mai entrato in carcere. Precarie condizioni di salute. Che però non gli impediscono di tentare la fuga nel settembre 2017 da una casa di cura. I carabinieri lo ritrovano a Milano, in un’altra struttura sanitaria. Da quel momento, di lui s’è persa ogni traccia. Niente galera, niente risarcimenti, niente scuse. E quella frase, pronunciata in aula da un vescovo, a far da epitaffio: «Dobbiamo salvare la buona fama della Chiesa».
Vittorio Feltri bombarda il Vaticano: "Papa Francesco caccia i preti gay? Vuol dire che in sacrestia...", scrive il 13 Dicembre 2018 Libero Quotidiano". No, Papa Francesco non vuole preti gay nella Chiesa. Ovvio, quando sei a capo del Vaticano. E sulla presa di posizione del Pontefice interviene Vittorio Feltri. Lo fa su Twitter, con un parere sintetico e durissimo. Il direttore di Libero, infatti, cinguetta: "Il Papa non vuole preti gay. Ma se li caccia tutti, la chiesa rimane con tre etero che non bastano nemmeno per fare una partita a tressette in sacrestia". Al solito, senza peli sulla lingua.
Gli abusi (nascosti) ai chierichetti del Papa in Vaticano. Le anticipazioni in esclusiva per Panorama dell'inchiesta sugli abusi subiti da alcuni giovani che servivano Messa in Vaticano, scrive Gianluigi Nuzzi il 18 dicembre 2018 su "Panorama". Dopo sei mesi d’indagini riservatissime si sta per chiudere in Vaticano l’inchiesta sugli abusi sessuali che avrebbero subito alcuni chierichetti del Papa, alunni del pre-seminario san Pio X all’interno del piccolo Stato. L’istituto, voluto da Pio XII dal 1956, ospita gli studenti delle scuole medie inviati dalle diocesi di tutto il mondo per il cosiddetto «discernimento vocazionale», ovvero capire se esprimono una predisposizione al sacerdozio. A questi giovani, tra l’altro, è affidato un compito davvero privilegiato, ovvero quello del servizio liturgico nella basilica di san Pietro. Da qui l’appellativo di «chierichetti del papa», visto che spesso come piccoli ministranti servono le messe officiate dal pontefice in persona. I fatti risalgono al periodo tra 2010 e 2011. Di giorno gli alunni frequentavano la scuola privata parificata Sant’Apollinare nella Capitale, per poi ritirarsi nelle camerate del pre-seminario, ospitato nel corpo interno di palazzo san Carlo. Qui si sarebbero consumate le violenze ai danni di alcuni seminaristi minorenni. Uno scandalo emerso nel novembre del 2017, quando nel saggio Peccato Originale veniva raccontata la storia di un ex alunno, il polacco Kamil Jarzembowski, entrato in collegio nel settembre del 2009 e che dall’estate del 2014 aveva denunciato alle autorità ecclesiastiche gli abusi dei quali sarebbe stato testimone oculare, compiuti ai danni di un suo compagno di stanza, un ragazzino che chiameremo Paolo. La vicenda si amplificò: altre vittime - tutte frequentanti l’ex seminario - si fecero avanti. In diverse interviste in tv vennero indicati almeno due «carnefici»: uno studente già grande, alloggiato anche lui nella struttura e che frequentava l’università, e un monsignore assai noto in curia e messo in disparte da Francesco poche settimane dopo la sua elezione a pontefice. Tutte accuse smentite da chi gestiva e gestisce il pre-seminario, ovvero l’opera don Folci di Como, e anche dalla diocesi di Como che aveva ricordato come le accuse nei confronti del seminarista presunto molestatore, ora sacerdote, fossero «già state oggetto di accertamento da parte delle competenti sedi ecclesiastiche» ed evidentemente ritenute infondate.
La decisione di Bergoglio. Invece, negli ultimi mesi, la nuova indagine ha preso consistenza, grazie anche alla denuncia penale presentata a marzo scorso proprio da Paolo. Il promotore di Giustizia, Gian Piero Milano, con l’aggiunto Roberto Zanotti, entrambi docenti universitari in atenei italiani, hanno sentito decine e decine di testimoni (in tutto circa 30) tra presunte vittime e potenziali carnefici, chierichetti testimoni, sacerdoti confessori e monsignori. Nel fascicolo sono finite anche numerose lettere di denuncia scritte da Jarzembowski a cardinali e alti prelati (da Angelo Comastri a Giovanni Angelo Becciu), dvd di puntate di programmi televisivi che seguirono la storia (da Quartogrado alle Iene) e persino alcune registrazioni con testimonianze e accuse. Il procedimento si è così sviluppato ipotizzando diversi reati (dagli abusi sessuali all’omissione di atti d’ufficio al favoreggiamento) a carico di più persone. Sui nomi degli indagati c’è ancora il massimo riserbo, anche se è destinato a durare poco. Appena conclusa l’indagine, questione ormai di giorni se non di ore, il promotore di Giustizia chiederà o l’archiviazione o il processo. Sarà poi il tribunale vaticano a decidere anche se in curia è chiaro che l’ultima parola sullo sviluppo processuale di questa storia imbarazzante sarà quella pronunciata da Bergoglio. Essendo il Papa monarca assoluto nel piccolo Stato, a lui spetta la decisione finale.
Vittime e carnefici. Di certo l’indagine conquista alcuni rilevanti primati. Innanzitutto è la prima che viene condotta su diversi episodi che si sarebbero tutti consumati non in qualche polveroso sottoscala di oratori di provincia, ma addirittura all’interno delle mura leonine, negli inviolati sacri palazzi, cuore pulsante della curia romana. L’altro primato riguarda certamente la profondità degli accertamenti svolti. Francesco ha chiesto che venisse portato avanti un accertamento non di facciata ma approfondito, senza sconti e indulgenze. Si è quindi partiti proprio dalla lunga testimonianza di Kamil, sentito più volte come testimone in Vaticano: «A settembre 2011, cioè al mio rientro in Vaticano dopo le vacanze estive, il rettore mi assegnò una stanza-dormitorio da dividere con Paolo, anch’egli alunno del pre-seminario. Nel corso dell’anno scolastico 2011/2012 e, più precisamente, dalla fine del mese di settembre 2011 fino all’inizio del mese di giugno 2012, sono stato testimone di atti sessuali che Antonio (nome di fantasia, ndr) esigeva da Paolo, atti sessuali che si compivano nonostante la mia presenza. Gli atti venivano svolti sempre di sera, intorno alle ore 23. Antonio, dopo che tutti gli altri alunni si erano già coricati, accedeva nella stanza-dormitorio condivisa da me e Paolo. Qui avvenivano rapporti di sesso orale, mentre, alcune volte, i due si recavano insieme nella stanza di Antonio per proseguire il rapporto». Altri episodi si sarebbero consumati ai danni di un altro ragazzo, vittima di abusi a casa di un potente monsignore che, pur non essendo nell’organico del Pio X, aveva modo di frequentare gli allievi dell’istituto e di adescarli. Questo stando almeno alla presunta vittima che ha raccontato in tv delle vessazioni subite e di come pur essendo trascorsi diversi anni dai fatti, ancora oggi si fa numerose docce al giorno, come per «pulire» quel senso profondo di vergogna. Quest’ultima vittima ha tra l’altro anche tentato più volte il suicidio, mentre il presunto carnefice ancora oggi è monsignore e frequenta liberamente i sacri palazzi.
Servirà L’incontro al vertice di febbraio? La decisione sul futuro di questa inchiesta cade in un momento assai particolare, essendo in Vaticano il tema della pedofilia sempre più di attualità, dopo gli esposti su presunte coperture presentate da monsignor Carlo Maria Viganò la scorsa estate. In più sono ormai in corso i preparativi per gli incontri che si terranno a Roma dal 21 al 24 febbraio 2019, quando Francesco incontrerà i presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo per discutere proprio della questione della pedofilia e della protezione dei minori. Un appuntamento senza precedenti, visto che gli alti prelati saranno chiamati proprio a studiare misure efficaci ad arginare il fenomeno della pedofilia nella Chiesa. Misure non solo sociali, di diritto canonico ma anche penali. C’è poi da colpire quella rete di protezioni, insabbiamenti che hanno spesso garantito l’impunità ai molestatori e ai violentatori. Un sistema «Spotlight», dal nome del recente film e ben raccontato di recente proprio su Panorama da Antonio Rossitto. Del resto solo qualche settimana fa è stato Georg Ganswein, storico collaboratore di Benedetto XVI, a paragonare per gravità questa piaga all’11 settembre quando Al Qaida attaccò le Torri gemelle a New York: «La Chiesa» ha spiegato «guarda con sconcerto al proprio “11 settembre”, anche se questa catastrofe purtroppo non è avvenuta in una sola data, ma in tanti giorni, mesi, anni, che hanno creato innumerevoli vittime. Non fraintendetemi: non confronto né le vittime né gli abusi con le 2.996 persone che persero la vita in quegli attentati. Nessuno sinora ha attaccato la Chiesa cattolica con aerei passeggeri, la basilica di San Pietro è ancora in piedi, e tuttavia tutte queste anime ferite mortalmente, per noi sacerdoti è un messaggio più terribile della notizia che fossero crollate tutte le chiese della Pennsylvania e la Basilica del santuario nazionale dell’Immacolata concezione di Washington». È anche vero che la celebrazione di un simile processo non ha precedenti nella storia d’Oltretevere, a eccezione di quando nel settembre del 2014 venne arrestato e processato l’ex nunzio Jozef Wesolowski, sotto inchiesta per pedofilia. In verità, quella storia si concluse ancor prima di iniziare. Infatti, rinviato a giudizio il 15 febbraio del 2015, Wesolowski ebbe un malore tanto da rinviare la prima udienza, che si sarebbe dovuta celebrare nel luglio successivo. Ma il processo non ebbe mai luogo perché il nunzio morì nella sua stanza del collegio dei penitenzieri nella sera del 27 agosto 2016 per un problema di cuore. Dovesse essere celebrato un processo sarebbe quindi, di fatto, la prima volta.
Chiesa: i preti pedofili e la pericolosa generalizzazione indiscriminata. "I giudici servono per il reati, non per governare il clero". Il commento di Giuliano Ferrara dopo le dimissioni collettive dell'episcopato del Cile, scrive Giuliano Ferrara il 28 maggio 2018 su "Panorama". L'illusione era che con l'avvento di papa Francesco il mondo secolare riconoscesse alla chiesa, che rinunciava a rivendicare uno spazio pubblico per i criteri e la cultura della fede cristiana, abbracciando un discorso più aperto al modo di vita nella modernità e nella postmodernità, una sua autonomia evangelizzatrice e un certo rispetto.
Dopo Benedetto XVI l'illusione del cambiamento. Benedetto XVI aveva motivato con la stanchezza dell'età ingravescente la sua Renuntiatio, ma è certo che il suo pontificato, anche per la campagna contro il relativismo etico da lui sostenuta (e dal suo predecessore san Giovanni Paolo II), era sotto assedio. Dai tempi dell'inchiesta del Boston Globe sulla diocesi guidata dal cardinale Bernard Law, poi sceneggiata nel film Spotlight, si era diffusa in tutto il mondo la generalizzazione indiscriminata delle accuse al clero in fatto di perversioni pedofile e di coperture irriguardose per la condizione delle vittime degli abusi. Ma l'illusione che le cose fossero cambiate con il nuovo Papa buono, conciliare senza riserve, capace di affascinare i popoli e le élite secolari con i suoi discorsi critici del liberalismo, ambientalistici e tolleranti verso ciò che la chiesa ha sempre censurato nei modi di vita relativisti, è durata poco.
Le dimissioni collettive dei vescovi in Cile. Le dimissioni collettive di una intera nazione o conferenza episcopale sono qualcosa di integralmente e scandalosamente nuovo nella storia canonica di quel possente e fragile organismo che è la chiesa cattolica di rito latino. Il Cile non è periferia, è il Paese che in un continente segnato dalla disperazione e dall'insuccesso nell'organizzazione sociale, dalla miseria e dalla deriva caudillista, è riuscito per vie traverse e drammatiche a darsi un profilo e una prospettiva di democrazia in sviluppo, capace di temperare i tradizionali e ben noti squilibri di un continente quasi privo di una classe media e di istituzioni protette da procedure democratiche. La sua autodecapitazione ecclesiastica è un segno dei tempi numinoso, un tuono, una grande ombra. I laudatori del Papa di tendenza progressista e riformista, quelli che credono nella fine del celibato dei preti, e a questo collegano la loro adesione fiduciosa all'idea di una corruzione clericale diffusa testimoniata dalla vastità e dal rango dei coinvolti nelle accuse di abuso, non escludono che le dimissioni collettive siano non una messa a disposizione ma una sfida al pontefice, e questo dopo una storia tortuosa di ricognizione sul campo che aveva indotto Francesco prima a contrattaccare contro la calunnia, poi a scusarsi sotto pressione mediatica e a fare il processo interno nel segno della tolleranza zero. Difficile dire, quasi tutto ormai si fa ambiguo nel regno del Papa gesuita che era venuto a portare un approccio di riconciliazione al mondo. Il viaggio apostolico in Cile era stato funesto, un fallimento su tutta la linea; il Papa non è mai andato in Argentina, il Paese fine di mondo da cui proviene; il Venezuela è nella condizione che si sa; il più popoloso continente cristiano rischia travolgenti passi indietro nella stessa evangelizzazione: e ora il vertice intero di un Paese-chiave se ne va, innescando le delicatissime procedure di un traumatizzante ricambio all'interno di quella catena che è la sostanza stessa della chiesa, l'idea di una successione apostolica la quale sola giustifica la continuità e la legittimità della chiesa di Cristo e dei suoi primi discepoli.
I riflettori sul clero e sulle sue responsabilità. Il problema non è che la cattolicità tarda a inserire nel diritto canonico la facoltà per i preti di sposarsi o immettere le donne nell'ordine consacrato. Sappiamo tutti che una campagna estesa e possente, originata nel circuito mediatico e giudiziario, con ampie richieste di risarcimento, e non solo morale o psicologico, ha messo il suo abbagliante riflettore sul clero e sulle sue responsabilità che per definizione delegittimano la sua funzione di educazione dei fanciulli e dei giovani. La situazione delle patologie e devianze di tipo pedofilo è drammatica, secondo tutte le statistiche, nelle famiglie, oltre che in altri organismi e luoghi monosessuali. Il punto è che 500 anni fa la Riforma protestante ha inaugurato il mondo moderno denunciando il carattere anticristico del papato e dell'ordine consacrato, e quelli che Guicciardini chiamava ai primi del XVI secolo "gli scelleratissimi preti" sono oggetto di un processo e di una gogna culturale e rituale da secoli, ormai, ora in dirittura finale in una società per molti aspetti compiutamente scristianizzata. Le depravazioni con le loro implicazioni penali esigono sanzioni per tutti sotto il segno della eguaglianza giuridica, ovvio. Ma la costituzione del clero, la sua funzione di cura delle anime e di pastorale, il suo stesso profilo di obbedienza e comando sotto la supervisione dei vescovi e del Papa, questo è quello che viene messo in discussione. Tanti anni fa a New York, una signora della buona borghesia protestante invocava l'arresto del cardinale che aveva permesso misure interne incompatibili con la tolleranza zero del diritto penale. Le obiettai una cosa semplice: "La giustizia secolare ha diritto di processare chiunque favorisca reati o li commetta, eppure non ha il diritto di intromettersi nella pastorale interna della chiesa e di insegnare ai preti chi sono e come debbano comportarsi". Non mi capiva, era sorda e muta a ogni interlocuzione. Penso che quella sottile linea divisoria, difficile ma non impossibile da governare, sia all'origine dell'assedio che mette a rischio autonomia e identità della chiesa e del suo clero, a partire dalla interiorizzazione cattolica della colpa che è invalsa negli ultimi decenni. (Articolo pubblicato sul n° 23 di Panorama in edicola dal 24 maggio 2018 con il titolo "I giudici servono per i reati, non per governare la chiesa")
Viaggio nella Chiesa dell'omertà. Con l'articolo sulla diocesi di Firenze, Panorama comincia un'inchiesta a puntate dedicata ai tanti casi di pedofilia tra i preti italiani, coperti dai vertici ecclesiastici, scrive Maurizio Belpietro il 26 novembre 2018 su "Panorama". L’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, nello scorso mese di agosto ha puntato il dito contro le gerarchie vaticane, colpevoli a suo dire di aver coperto l’opera di «corruzione morale» portata a termine su giovani seminaristi dal cardinale di Washington Theodore Edgar McCarrick. Il memoriale, pubblicato in esclusiva da La Verità, era un vero e proprio atto d’accusa contro la Chiesa, e faceva nomi e cognomi di alti prelati che da anni erano a conoscenza del comportamento del porporato, il quale dormiva abitualmente con i giovani a lui affidati. Ma nonostante le denunce dei ragazzi abusati, nessuno fece nulla e solo quando la faccenda finì sul New York Times il cardinale fu destituito. La Procura della Pennsylvania, sempre nello scorso mese agosto, ha reso noto un dossier di 1.300 pagine sugli abusi sessuali compiuti in sei delle otto diocesi dello Stato americano: un’indagine condotta in due anni dal gran giurì e che ha portato sul banco degli imputati 301 sacerdoti, i quali avrebbero approfittato di oltre mille minori. Anche in questo caso con le coperture di vescovi e arcivescovi i quali, pur avendo ricevuto diverse segnalazioni, hanno preferito rivolgere lo sguardo altrove. Casi analoghi sono venuti alla luce in Cile, in Paraguay, a Santo Domingo, in Irlanda, in Australia, in Germania, in Belgio, in Olanda. L’elenco è lungo e quasi sempre dalle carte delle inchieste spunta il silenzio dei vertici, di chi aveva la possibilità di rimuovere il predatore sessuale in tonaca e non lo ha fatto. E in Italia? Mentre all’estero si riflette sul comportamento della Chiesa nei casi di abusi su minori compiuti da sacerdoti, nel nostro Paese che cosa è avvenuto? Panorama è andato a rileggersi le carte delle inchieste che hanno visto coinvolti preti che invece di consacrare la propria vita a Dio l’hanno consacrata agli abusi, approfittando dei minori che avevano intorno. Gli atti dei processi sono sconvolgenti, perché non solo si scopre che quasi mai le vittime sono state risarcite per ciò che hanno subito, private di un qualsiasi indennizzo sia dal colpevole sia dai superiori, i quali, pur sapendo, hanno preferito l’omertà alla denuncia. Ma si scopre anche che mentre la Giustizia faceva il proprio corso, accertando gli abusi, il tribunale ecclesiastico assolveva il pedofilo in tonaca consentendogli di continuare a esercitare il suo magistero e, dunque, spesso anche di commettere altre violenze. Le storie che leggerete nell’inchiesta che comincia con questo numero di Panorama sono agghiaccianti. Ci sono alti prelati, tutt’ora in servizio, in qualche caso hanno fatto anche carriera, che non solo non sono intervenuti per impedire che un prete accusato di abusi proseguisse l’opera di predatore sessuale, ma addirittura sono stati accusati di aver fatto sparire sms compromettenti o, incredibile, di aver avvisato il prete dell’esistenza delle indagini e di intercettazioni disposte dalla magistratura. Grazie alla prescrizione le vicende sono spesso restate impunite anche perché, a causa della minore età delle vittime, le denunce sono state presentate anni dopo i fatti, proprio come è successo in America o in Cile. Ma, a differenza di quanto capitato negli Stati Uniti o in America Latina, da noi nessuno paga e soprattutto nessuno parla. Gli arresti sono confinati nelle cronache e le carte dei processi con le responsabilità dei vertici vaticani sono seppellite negli archivi dei tribunali. Con l’articolo sulla diocesi di Firenze, Panorama comincia oggi un’inchiesta a puntate dedicata ai tanti Spotlight (dal nome del film, premiato con l’Oscar, che ha svelato le coperture dei vertici della Chiesa sugli abusi commessi nella diocesi di Boston) italiani. Quello dei nostri inviati è un viaggio nella Chiesa dell’omertà. Buona lettura.
Preti pedofili in Italia: abusi e coperture nella Chiesa toscana. Ecco l'inchiesta di Panorama. La prima puntata. Con una serie di documenti inediti ricostruiamo omissioni ed omertà sulle violenze compiute da alcuni prelati a Firenze. A partire dal caso di Don Lelio Cantini, scrive Antonio Rossitto il 26 novembre 2018 su "Panorama". Quell’unica lancetta della Torre di Arnolfo, che svetta su Firenze, segna impietosa il passare del tempo. Giorni, mesi, anni... Inesorabili, sono passati sulla testa delle vittime dei religiosi. La curia della città ha chiuso gli occhi davanti ai crimini dei suoi pastori. È stata un silenzioso avamposto dei mali che hanno sconquassato la Chiesa: la pedofilia e le violenze sessuali. Panorama ha raccolto prove e documenti inediti. Ha disseppellito faldoni giudiziari. Ha parlato con le vittime. Ha incrociato date e nomi. E la diocesi di Firenze è soltanto l’inizio: nelle prossime settimane, racconteremo altre storie di colpevoli omissioni. Omertà e inerzie che hanno sterilizzato la giustizia penale, garantendo impunità ai rei. Grazie anche a un paradosso secolare: i vescovi italiani non hanno l’obbligo di denuncia penale. Un paravento dietro il quale troppe curie continuano a nascondere reati e oscenità. Com’è successo nella parrocchia Regina della Pace, periferia di Firenze, fino al 2004 scabroso regno di don Lelio Cantini. Qui si è consumato uno dei più gravi casi di abusi, fisici e morali, nella storia della Chiesa. Decenni di violenze e segreti. E solo nel 2007 la Procura di Firenze aprirà un’indagine: accerterà i fatti, ma il processo contro don Cantini si estinguerà per prescrizione. Quelle donne, al tempo ragazzine, si chiamano M.V. oppure L.P.. Sono decine. E le loro storie sono tutte, tragicamente, identiche. Conoscono don Cantini mentre si preparano alla prima comunione. C’è anche chi ha appena dieci anni: è una bambina. Il prete chiama tutte nella sua stanza, dopo il catechismo o la messa. Le tocca, le bacia. Poi si spoglia e le costringe a rapporti orali o completi. «Dovete sentirvi delle privilegiate, scelte dal Signore». Su quegli incontri, si raccomanda, nemmeno un fiato. Un giogo atroce. E, per alcune, interminabile. È stato così per M.A., abusata dall’adolescenza fino alla sera del suo matrimonio, celebrato proprio da don Cantini. Mentre la curia voltava la testa dall’altra parte. «Le autorità ecclesiastiche», scriverà anni più tardi il pm fiorentino Paolo Canessa, «erano state avvisate all’epoca, o comunque per tempo, delle accuse rivolte al sacerdote Cantini. Ma nessuno, apparentemente, si era mosso per impedire che le violenze continuassero. E tantomeno per accertare la verità e la punizione dei fatti». Il magistrato annoterà: «Solo con la notorietà degli episodi segnalati s’erano determinate a prendere in considerazione la questione».
Orrori in sacrestia e omissioni eccellenti. Già nel 1992, emerge dalle carte dell’inchiesta, viene denunciato un abuso al cardinale Silvano Piovanelli, allora arcivescovo di Firenze. Poi, di nuovo, nel 1995. Passano gli anni. Una vittima parla con un’altra. Qualcuno si libera dell’orrore. Chi l’ha seppellito per vergogna ritrova la forza. Nella primavera del 2005, dieci donne cominciano a stendere i loro memoriali. Li consegnano a Piovanelli. Gli chiedono di far da tramite con il suo successore: il cardinale Ennio Antonelli, oggi presidente emerito del Pontificio consiglio per la famiglia. Don Cantini, intanto, viene spostato nella canonica di Mucciano, a 30 chilometri da Firenze. Le vittime però aumentano. Continuano a cercare risposte. Fino a quando, il 20 marzo 2006, non decidono di inviare una lettera con 19 firme a Papa Benedetto XVI. Alla missiva sono allegate quelle atroci testimonianze. Le vittime scrivono di essere state ascoltate il 28 febbraio 2006 da Antonelli, dopo «numerose richieste di intervento». Nella lettera viene chiamato in causa Claudio Maniago, in quel momento vescovo ausiliare a Firenze. È uno degli allievi di don Cantini, «cresciuto con tanti di noi nella parrocchia Regina della Pace». Maniago, sostengono i 19 firmatari, avrebbe saputo delle violenze del suo maestro già nel 2004. E nulla avrebbe fatto. Adesso Antonelli ha promesso che don Cantini, entro la fine di marzo 2006, lascerà la canonica di Mucciano: «Dove però, in piena tranquillità, ha continuato l’opera mistificatrice e diabolica con famiglie intere, giovani, ragazzi e bambini». La lettera aggiunge: «Chiediamo che vengano sospese a questo sacerdote le potestà derivanti dal suo stato». E conclude: «Qualora però la nostra richiesta non trovasse accoglimento, e questi fatti venissero ignorati od occultati, non potremmo che rivolgerci alla giustizia. Con conseguenze che tutti noi possiamo immaginare». La risposta di Camillo Ruini, allora presidente della Conferenza episcopale italiana, è dell’1 aprile 2006. Panorama ne rivela il contenuto: «Alla luce della documentazione allegata, ho provveduto a prendere contatti con l’arcivescovo di Firenze (cioè Ennio Antonelli, ndr), il quale mi ha assicurato che la vicenda è all’esame dei competenti organi della Santa Sede. Nel contempo, mi ha assicurato che il sacerdote ha lasciato la diocesi, non celebra pubblicamente l’eucarestia e si astiene dall’amministrare il sacramento della penitenza. Auspico che quanto disposto dall’autorità ecclesiastica rafforzi la comunione e infonda serenità nei fedeli coinvolti a vario titolo». Nonostante la gravità dei fatti, il Vaticano non denuncia don Cantini. Tutto rimane chiuso tra le solida cinta della Santa Sede. E i passi successivi non infondono certo la «serenità» auspicata da Ruini. A maggio 2006 la Congregazione per la dottrina della fede autorizza «il processo penale amministrativo» contro il sacerdote. Indaga la curia di Firenze. Il verdetto arriva otto mesi dopo: il 12 gennaio 2007. L’arcivescovo Antonelli scrive: «Devo constatare, sia pure con intima sofferenza, che le accuse di falso misticismo, dominio delle coscienze, abusi sessuali dal 1973 al 1987, suffragate da abbondante documentazione, risultano oggettivamente credibili, almeno nella loro sostanza». Poi esplicita le pene: per cinque anni don Cantini non potrà confessare, dire messa e assumere incarichi ecclesiastici. A dispetto dell’enormità delle accuse, rimarrà quindi prete. Le successive sanzioni sono ancora più sbalorditive: il parroco è obbligato a versare un’offerta. E a recitare, per un anno, una volta al dì, «con umiltà e fiducia, compatibilmente con le condizioni di salute», il Salmo 51: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia».
"Lo stile evangelico": silenzio e mitezza. Per le vittime è l’ennesimo sfregio. I fatti cominciano a trapelare. I memoriali girano. La notizia finisce sui giornali. E il 10 aprile 2007, finalmente, la procura di Firenze apre un’inchiesta. Quattro giorni dopo, il 14 aprile 2007, il cardinale Antonelli interviene pubblicamente: «Nell’estate del 2005 mi è pervenuto un dossier di lettere firmate, con accuse di gravi delitti nei confronti di don Lelio. Nel clamore mediatico finora ho taciuto, non perché volessi nascondere qualcosa, ma perché, prima di parlare, volevo confrontarmi e consigliarmi con alcuni autorevoli sacerdoti, i vicari foranei». Prosegue: «Comprendo che le vittime ritengano la punizione troppo leggera (...). Ma la Chiesa deve mirare soprattutto al ravvedimento del peccatore e a cercare di vincere il male con la forza della mitezza». Il cardinale si duole anche dell’eco avuto dal caso: «Ho letto recriminazioni perché la vicenda non è stata trattata apertamente, in pubblico, fin dall’inizio. Non mi pare che sia questo lo stile evangelico di trattare le persone, per quanto gravi siano i peccati di cui si siano rese responsabili. La procedura seguita risponde in tutto alla prassi stabilita dalla Santa Sede». «Lo stile evangelico» impone, dunque, che i panni sporchi della Chiesa si lavino nelle case del Signore: la curia e il Vaticano.
"Decenni di inerzia". Oggi è tutto prescritto. La decisione, e i successivi commenti di Antonelli, si trasformano in boomerang. Tanto che la diocesi è costretta a un’istruttoria supplementare, avviata il 30 giugno 2007. L’indagine dura un altro lunghissimo anno. Alla fine, il 12 ottobre 2008, Papa Benedetto XVI decide la riduzione allo stato laicale di don Cantini. Dalla denuncia dei primi abusi sono passati 16 anni. «Oltre un decennio di inerzia e assordante silenzio da parte delle autorità ecclesiastiche» scrive il giudice Paola Belsito, che il 27 aprile 2011 chiede «l’archiviazione per intervenuta prescrizione di tutti i reati ipotizzabili a carico di don Lelio Cantini». «Inerzia e assordante silenzio». A cui si sono aggiunte, continua il giudice, «le più o meno velate minacce, pure in tempi recenti, da parte di alcuni alti prelati, tra cui viene segnalato il vescovo ausiliario Maniago, anch’egli allievo di don Cantini». Minacce. Cioè «conseguenze negative per le loro attività professionali legate alla diocesi a quelle vittime che manifestavano la volontà di ottenere giustizia» dettaglia il pm Canessa nella richiesta d’archiviazione del 7 febbraio 2011, accolta dal Tribunale. Il monsignore però è salvo: «Si tratta di condotte perseguibili solo a querela di parte, che non è stata mai presentata» annota Belsito. Ma è tutta la curia fiorentina a finire sotto accusa. «Gli abusi, di natura tanto sessuale che morale, vennero denunciati da alcune parti offese già molti anni fa» chiarisce il giudice. «Da G.M., che era una vedova con quattro figli che lavorava in parrocchia, già nel 1975 al cardinale Piovanelli. Da F.A., ex sacerdote che s’era recato dal cardinale Piovanelli una prima volta nel 1992, poi nel 1995. Dalle mole delle parti offese, ancora nel 2005, allorché si erano rivolti anche, tra gli altri, a monsignor Maniago». Che, scrive Belsito, sarebbe stato protagonista nell’agosto 1996 di un «festino», rivelato da P.C.: «Abuso perpetrato in una parrocchia livornese da alcuni sacerdoti, tra i quali avrebbe riconosciuto Maniago». Gli investigatori avrebbero trovato «precisi riscontri»: «Un bonifico bancario di 4 milioni di lire a favore di P.C. da un conto intestato “parrocchia per contributo”». Denaro che sarebbe servito, sostiene P.C., a fargli tenere la bocca chiusa. Ma l’uomo non ha mai presentato querela: quindi «anche i reati ipotizzabili in questo caso non sono perseguibili».
Sesso con una minorenne e poi tre aborti. Negli stessi giorni in cui si prescrivono le pene di don Cantini, il 21 marzo 2011 il tribunale di Firenze, nel silenzio generale, condanna a 4 anni e sei mesi per violenza sessuale un altro prete: John Moniz, 51 anni, parroco in una chiesa di Montelupo Fiorentino. Un altro caso di violenze su una minorenne coperto dalla curia. L’inchiesta, scrive il giudice Linda Vannucci, nasce nel 2006. C.B., una ragazza di 22 anni, si presenta ai carabinieri. È angosciata. Continua a ricevere telefonate anonime. Di fronte alle domande del maresciallo scoppia a piangere. Ripercorre i suoi rapporti con un prete: fin da quando aveva 15 anni, poco dopo la sua cresima. S’invaghisce del sacerdote. Resta incinta per la prima volta due anni più tardi, ancora minorenne, ma lui le chiede di abortire. C.B. scivola nell’anoressia. Cerca di troncare la relazione. Il parroco, riferisce, comincia a tempestarla di telefonate: le promette che lascerà la tonaca. A vent’anni la ragazza rimane di nuovo incinta, ma ha un aborto spontaneo. Una terza interruzione di gravidanza «naturale» avviene a marzo 2006. Poi C.B. si decide a troncare quel rapporto malato. Due mesi dopo comincia a ricevere chiamate nel cuore della notte. Ansimi. Minacce. Ha paura. Va dai carabinieri. E, sotto pressione, racconta tutto. Le indagini non rivelano però solo la relazione tra i due. Ma, ancora una volta, i silenzi degli alti prelati. La ragazza, accompagnata dal legale Antonio Voce, che la assiste nel processo, viene sentita il 28 giugno 2010. Riferisce di aver già confessato la sua storia, nel dicembre 2005, a Paolo Brogi, parroco di una chiesa vicina. Il prete, dopo il colloquio, ne parla con il cardinale Antonelli. E ad aprile 2006 C.B. viene ricevuta proprio dall’arcivescovo, che le promette l’allontanamento del sacerdote: «Mi disse che lo mandava in questa struttura di riabilitazione dei preti a Collevalenza. Aveva assicurato che sarebbe rimasto lì, in attesa di partire per una missione».
La curia cancella gli sms e invita: "Non denunciate". C.B. fornisce altri dettagli: «Il cardinale Antonelli aveva preso il mio cellulare dell’epoca». Nella memoria ci sono i messaggi di Moniz. «Lasciai il telefono al suo segretario, don Alessandro, in modo che lo desse a monsignor Antonelli, perché me lo chiesero loro... Ma quando me l’hanno reso, i messaggi erano cancellati». Insomma le prove della relazione, memorizzate su quel vecchio Nokia, spariscono. All’incontro con il cardinale partecipano pure i genitori della ragazza: «Questo cellulare lo diede al vescovo» conferma la madre di C.B… «So che lo volevano per vedere questi messaggi. Al pm, Giulio Monferini, dettaglia: «Glielo chiesero per accertarsi di queste cose». Il magistrato insiste: «Vi fu chiesto di non fare denuncia?». «Sì» risponde la donna. «Chi?» sollecita il magistrato. «Anche il cardinale. Ci disse che avrebbe mandato via il prete». La sentenza riassume: «Il cardinale chiese loro espressamente di non denunciare in sede penale il parroco, promettendo di allontanare don Moniz dalla parrocchia». Nel processo, il 12 gennaio 2011, viene ascoltato pure don Brogi, il confessore della ragazza, diventato intanto segretario di Giuseppe Betori, nuovo arcivescovo di Firenze dal 2008. Gli chiedono se sul sacerdote di Montelupo girassero storie. Una, in particolare: tentava approcci sessuali con le parrocchiane, durante le confessioni. «Qualcuno l’aveva riferito» risponde don Brogi. «Voci di paese, così... Però sinceramente alle voci di paese non ho mai dato credito». In realtà c’era di più, ammette il prete. Una suora di Signa, tempo prima, gli aveva raccontato che don Moniz s’era presentato a casa sua con un preservativo in mano. E le aveva chiesto un rapporto. Eppure, nessuno aveva approfondito. Sarà così fino a quando, per caso, non emergono i reati su C.B… Anche questi, però, non reggeranno al peso del tempo. Nel 2016, in appello, tutto viene prescritto.
L'agguato dei misteri e il prete "amichevole". In questa storia di pensieri, parole, opere e omissioni, l’ultimo tassello si incastra a qualche mese dalla deposizione di don Brogi. E nasce da una scampata tragedia. Il 4 novembre 2011 il segretario dell’arcivescovo viene ferito da un colpo di pistola all’addome, nell’androne della curia. Assieme a lui c’è proprio Betori. Dopo lo sparo, il misterioso assalitore scompare. Un mistero. È stato un avvertimento? Qual è il movente? L’unico indizio sono le parole minacciose rivolte dall’uomo all’arcivescovo, rimasto illeso: «Tu non devi dire...». E poi, prima di sparire nel buio: «Tu non devi fare...». Anche gli investigatori brancolano nel buio. Si indaga in ogni direzione. Panorama pubblica i documenti e le intercettazioni inedite dell’inchiesta sull’agguato. Chi ha sparato? Tra le piste seguite, c’è pure la vendetta per gli scandali di pedofilia nel clero fiorentino: a partire da don Cantini. Una circostanza incuriosisce gli investigatori. L’arcivescovo, due giorni dopo l’aggressione, avrebbe dovuto visitare una parrocchia di Empoli. Anche lì c’è un prete già «segnalato» per le sue eccessive attenzioni verso i giovani: Daniele Rialti. Betori viene sentito come persona informata dei fatti il 29 novembre 2011. Dopo aver ripercorso le fasi dell’agguato, i magistrati gli chiedono di don Rialti. L’arcivescovo conferma di aver condotto un’«indagine previa» e spiega come ci si comporta quando vengono denunciate le molestie di un sacerdote: «L’arcivescovo apre un’indagine, svolta personalmente o tramite persone di fiducia» spiega. «Solo nel caso in cui emergano fatti concreti sottopone la domanda di apertura della fase istruttoria alla Santa Sede. Che, se ritiene presente il fumus delicti, invita ad avviare l’istruttoria del processo, affidandola a un giudice nominato dall’arcivescovo. L’esito viene poi sottoposto alla Santa Sede, che indica all’arcivescovo i contenuti della sentenza che deve emettere». Per la prima volta, insomma, viene messa nero su bianco la lunga e arcigarantista prassi che la giustizia ecclesiastica applica ai casi di presunte violenze sessuali. E svela ciò che s’è sempre sospettato: ogni caso viene segnalato, seguito e ratificato dal Vaticano. Anche quello accaduto nella più remota canonica. Ovvero: non può, e non poteva, non sapere. Concluso il preambolo, Betori riferisce al pm, Giuseppina Mione, della sua «indagine previa»: «Due anni fa, a Empoli, l’allora parroco, don Paolo Cioni mi riferì che correvano voci di attenzioni di don Rialti verso minorenni». L’arcivescovo interpella l’interessato: «Mi disse che un ragazzo avrebbe lamentato attenzioni nei suoi riguardi per un gesto che lo stesso Rialti riferì essere stata solo una “pacca sul sedere”, data amichevolmente». Del caso viene investito pure Maniago, già coinvolto nell’inchiesta su don Cantini: «Interrogò il direttore del consiglio parrocchiale» dice Betori. «Ma anche da questa verifica non emersero fatti concreti».
La curia intercettata: "Il papa risolve la cosa". Il dettaglio della deposizione viene rivelato dall’arcivescovo allo stesso Maniago, in una telefonata del 6 dicembre 2011: «Sulla questione di Empoli, avevo fatto il tuo nome...». Maniago, annotano gli inquirenti, in quei giorni è stato convocato in Procura per l’inchiesta sull’agguato, anche lui come semplice persona informata dei fatti. Betori gli consiglia anche di contattare l’avvocato di fiducia della curia: «Senti lui per capire come impostare le cose». E aggiunge: «Credo che lui ti possa istruire bene». Anche don Cioni è intercettato. È stato il primo a denunciare i supposti atteggiamenti equivoci di don Rialti: «Nella comunità l’han parato tutti, capito?» rivela a un altro prete. «Hanno fatto l’arcano». E lo stesso Don Rialti, nonostante tema le intercettazioni, parla con un ragazzo di una «seratina», di un «hotel fuori dal mondo» e di un «regalino». La Procura apre un fascicolo. Il sacerdote di Empoli viene iscritto nel registro degli indagati. Il fascicolo però sarà archiviato il 7 maggio 2013 perché i giovani coinvolti sono tutti maggiorenni. Nell’inchiesta sul ferimento di Don Brogi sono diverse le utenze della curia intercettate dalla procura. A partire da quelle di Maniago e Betori, che sanno di avere il telefono controllato. Lo stesso Betori, in una chiamata del 23 novembre 2011, ne parla con Enrico Viviano, in quel momento addetto stampa dell’arcivescovato: «Adesso l’unico problema che io vedo è questo. È che io son monitorato dai poliziotti eh... Sappilo». Aggiunge: «E sanno tutto ovviamente. Dove sto...». Così i dialoghi telefonici sono spesso ermetici, con rimandi e rinvii: «Ne parliamo a tu per tu». Oppure: «De visu è sufficiente». La curia è in ambasce. «'Un ce ne facciamo mancare una, via!» scherza al telefono l’arcivescovo con Maniago. Don Brogi, fortunatamente, non è in pericolo di vita. Ma le ferite non sono sono quelle fisiche. E arrivano fino al Vaticano. Betori e Brogi vengono ricevuti da Papa Benedetto XVI. Lo racconta lo stesso arcivescovo in una telefonata intercettata il 4 dicembre 2011, alle 14,42, con un certo «Carlo». L’uomo gli domanda: «Finalmente hai ricevuto l’udienza?». Betori conferma, e aggiunge: «M’ha promesso che risolve la cosa». A cosa si riferisce l’arcivescovo? E come sarebbe dovuto intervenire il Papa?
La "pista giusta" e gli altri orchi. Pochi giorni dopo, il 7 dicembre 2011, un informatore mette gli inquirenti fiorentini sulla traccia giusta. L’attentatore di don Brogi, rivela, è un signore di 73 anni con precedenti penali: Elso Baschini. L’uomo si professa innocente. Non c’è movente. Non c’è arma. Ma ci sono tanti indizi. Che condurranno Baschini alla condanna in primo grado: 12 anni e sei mesi. Nella sentenza, si parla anche della sfumata pista su don Rialti: «Le informazioni raccolte e gli esiti dell’attività di intercettazione davano contezza che costui si era reso protagonista di atti di pedofilia in danno di giovani, che però in un secondo momento si accertava essere tutti maggiorenni». Anche questo fascicolo viene archiviato. La pena per Baschini, difeso dall’avvocato Cristiano Iuliano, in appello scende a 9 anni e un mese. Ma la sentenza viene poi annullata in Cassazione. Tutto da rifare. Il 20 dicembre 2016 l’uomo viene ri-condannato a 8 anni e 10 mesi. Pena che la suprema corte conferma il 28 settembre 2018. Caso chiuso. La piaga della pedofilia, invece, non si rimargina. A Firenze, l’ultimo scandalo scoppia il 23 luglio 2018. Don Paolo Glaentzer, amministratore parrocchiale di una chiesa di Calenzano, viene arrestato mentre molesta in auto una bambina di dieci anni. Davanti ai magistrati, si giustifica: «Pensavo ne avesse 14». È stato «cautelativamente sospeso dall’esercizio del ministero pastorale». «Le vicende legate alla pedofilia hanno segnato i momenti più brutti del mio mandato» ha spiegato l’arcivescovo Betori sul Corriere fiorentino del 17 ottobre 2018. «Bisogna riconoscere come il male aggredisce anche la Chiesa con i suoi uomini, e prendere atto della nostra fragilità». Nell’intervista aggiunge: «Il danno, innanzitutto, è quello provocato sulle vittime. Anche fosse successo una sola volta, in una sola parte del mondo, sarebbe un trauma per la nostra fedeltà al Signore».
Amaro epilogo (con promozioni). La curia fiorentina adesso prova a seguire la retta via. Betori è uno stimato cardinale: Papa Francesco l’ha nominato membro del Pontificio consiglio per i laici, della Congregazione per il clero e della Congregazione per le cause dei santi. Il suo predecessore, il cardinale Antonelli, è presidente emerito del Pontificio consiglio per la famiglia. Il cardinale Piovanelli è morto due anni fa. Maniago, divenuto vescovo di Castellaneta, è anche presidente della Commissione episcopale per la liturgia della Cei e membro della Congregazione per il culto e la disciplina dei sacramenti. Lelio Cantini è morto nel 2012, a 89 anni. John Moniz ha fatto perdere le sue tracce. Don Rialti indossa ancora la tonaca ed è giudice ecclesiastico. Anche le vittime provano ad andare avanti. Ricacciano dentro il dolore. Le loro storie giacciono in polverosi fascicoli, negli archivi del Tribunale di Firenze. La giustizia penale ha tentato di fare il suo corso. Quella divina, molto meno. (Articolo pubblicato nel n° 49 di Panorama in edicola dal 21 novembre 2018 con il titolo "Santo Silenzio. Gli abusi e le coperture nella Chiesa")
Papa Francesco, l'accusa: "Editto contro due iniziative anti-abusi", altro terremoto in Vaticano, scrive il 13 Novembre 2018 "Libero Quotidiano". Una nuova, durissima, accusa a Papa Francesco. Fari puntati su Baltimora, dove si tengono i lavori dell'assemblea dei vescovi Usa d'autunno. I quali, rivela il blog specializzato marcotosatti.com, hanno ricevuto un annuncio da parte del presidente, il cardinale Daniel Di Nardo: Papa Francesco non vuole, infatti, che votino su due temi. Due temi piuttosto urgenti, considerato lo scandalo degli abusi sessuali che ha colpito la chiesa americana. Secondo quanto rivelato dal blog, il Pontefice non vuole che si voti per "la creazione di un nuovo Codice di condotta per i vescovi" e per "la creazione di un organismo, guidato da laici, per indagare sui vescovi accusati di comportamenti scorretti". “Su insistenza della Santa Sede, non voteremo sulle due azioni”, ha detto Di Nardo. Il quale ha poi aggiunto detto di essere “deluso” dalla direttiva del Papa. Anne Barrett Doyle, condirettore di ishopAccountability.org, ha definito “davvero incredibile” l’ordine dell’ultimo minuto dal Vaticano. “Ciò che vediamo qui è il Vaticano che sta tentando di sopprimere anche i modesti progressi dei vescovi statunitensi”, ha detto Doyle, il cui gruppo raccoglie dati sull’abuso del clero nella chiesa. “Stiamo vedendo dove è il problema, e il problema è con il Vaticano. L’esito di questo incontro, nel migliore dei casi, sarebbe stato tiepido e inefficace, ma ora sarà completamente privo di sostanza". L'articolo (qui potete leggere l'integrale) è stato rilanciato su Twitter da Antonio Socci, il quale sintetizza così la vicenda: "Un ukase del Papa blocca le due iniziative anti-abusi dei vescovi Usa. Codice di condotta e commissione dei laici". E per chi si chiedesse cosa sia un ukase, si tratta di una traduzione semifrancese della parola russa ukaz, la quale significa editto, decreto (con riferimento all'autorità dello zar).
UN UKASE DEL PAPA BLOCCA LE DUE INIZIATIVE ANTI-ABUSI DEI VESCOVI USA. CODICE DI CONDOTTA E COMMISSIONE DEI LAICI. Scrive il 12 novembre 2018 Marco Tosatti. I vescovi USA hanno cominciato a Baltimora i lavori della loro assemblea, quella d’autunno. E hanno ricevuto un’incredibile annuncio da parte del presidente, il card. Daniel DiNardo: il Pontefice non vuole che votino su due temi che appaiono urgenti e pressanti, vista la crisi in cui lo scandalo degli abusi sessuali ha gettato la Chiesa americana. E cioè la creazione di un nuovo “Codice di condotta” per i vescovi, e la creazione di un organismo, guidato da laici, per indagare sui vescovi accusati di comportamenti scorretti. I vescovi delle 196 diocesi e arcidiocesi cattoliche si sono riuniti a Baltimora incontrandosi per la prima volta da quando gli scandali di abusi sessuali hanno scosso la chiesa in estate. Ma in apertura dei lavori è arrivata la notizia, come scrive il Washington Post “Il papa non vuole che i vescovi statunitensi agiscano per fronteggiare la responsabilità dei vescovi sugli abusi sessuali fino a quando non condurrà un incontro mondiale dei leader della chiesa in febbraio”. “Su insistenza della Santa Sede, non voteremo sulle due azioni”, ha detto DiNardo. Ha detto di essere “deluso” dalla direttiva del papa. Anne Barrett Doyle, condirettore di BishopAccountability.org, ha definito “davvero incredibile” l’ordine dell’ultimo minuto dal Vaticano. “Ciò che vediamo qui è il Vaticano che sta tentando di sopprimere anche i modesti progressi dei vescovi statunitensi”, ha detto Doyle, il cui gruppo raccoglie dati sull’abuso del clero nella chiesa. “Stiamo vedendo dove è il problema, e il problema è con il Vaticano. L’esito di questo incontro, nel migliore dei casi, sarebbe stato tiepido e inefficace, ma ora sarà completamente privo di sostanza “. Non appena i vescovi hanno ascoltato l’annuncio di DiNardo, l’Arcivescovo Christophe Pierre – l’ambasciatore del Vaticano negli Stati Uniti – ha tenuto un lungo discorso, in cui ha difeso ciò che i vescovi hanno già fatto per ridurre gli abusi, e ha espresso dubbi sul fatto che chiunque altro al di fuori del clero, come leader laici o autorità civili, possano punire gli abusi del clero. “Ci sono molte richieste di riforma nella chiesa, in particolare nella crisi attuale. Voi stessi avete espresso un maggiore desiderio di responsabilità e trasparenza “, ha affermato. Ma poi Pierre, un vescovo francese inviato da Francesco a Washington nel 2016. “Potrebbe esserci la tentazione da parte di alcuni di affidare ad altri la responsabilità di riformare noi stessi, come se non fossimo più in grado di riformare o di fidarci di noi stessi”, ha detto Pierre, che sembrava riferirsi alla proposta per istituire una commissione laica in grado di indagare sulla cattiva condotta dei vescovi, e anche alla dozzina di indagini penali e civili in corso negli Stati Uniti sui crimini commessi dai sacerdoti. “L’assistenza è sia gradita e necessaria, e sicuramente la collaborazione con i laici è essenziale. Tuttavia, la responsabilità come vescovi di questa Chiesa cattolica è nostra”. Di Nardo ha usato un tono diverso. Ha detto che lui personalmente e altri vescovi restavano impegnati sulle proposte che erano in agenda di voto mercoledì, e cioè un nuovo codice di condotta per i vescovi a cui aderire e una commissione laica con il potere di indagare sui vescovi. “Fratelli vescovi, esentarci da questo alto standard di responsabilità è inaccettabile e non può stare in piedi”, ha detto. Vedremo come si svilupperà la situazione nei prossimi giorni. Ma alcune considerazioni sono ineludibili. La prima: come rientra nella sinodalità, di cui il Pontefice parla, e di cui la cerchia papale si riempie la bocca, e con il decentramento questa pesante interferenza della Santa Sede sui lavori interni di una Conferenza episcopale? Che cerca di affrontare una crisi gravissima, di cui anche il Vaticano ha responsabilità, rispondendo alle giuste richieste dei fedeli? Secondo: nel momento in cui una Conferenza episcopale decide di affidare – finalmente – ai laici un compito delicato e difficile, è possibile definire se non come un esempio eminente di clericalismo – quello a parole esecrato dal Pontefice – il blocco della commissione laica, e il discorso, evidentemente ispirato da Roma, dell’osservante nunzio Christophe Pierre? Terzo. Il comportamento del Pontefice. Che dimostra – una volta di più, come ormai anche i media internazionali rilevano, quelli stessi che lo esaltavano fino a qualche mese fa, un atteggiamento tutt’altro che limpido nella crisi degli abusi sessuali. Il silenzio di fronte alle testimonianze dell’arcivescovo Viganò, inspiegabile e indifendibile, ne è il primo episodio, Il rifiuto della richiesta dei vescovi americani di un’indagine apostolica su McCarrick e la crisi degli abusi è il secondo. Ricordiamo che un’indagine apostolica avrebbe potuto aprire tutte le porte e tutti gli armadi, anche in Vaticano; cosa che un’inchiesta della Chiesa USA non può fare. E questa terza mossa, impedire una reazione immediata dei vescovi della Chiesa più colpita, rimandando tutto al meeting delle conferenze episcopali a febbraio, cioè fra ben quattro mesi, può ben essere tacciato di ostruzionismo, e di cercare di diluire sui tempi lunghi risposte e responsabilità. L’impressione è che nella bolla di potere in cui è racchiusa Santa Marta non ci si voglia rendere conto dello stato di sfiducia nei confronti della Chiesa e della perdita di credibilità dei suoi esponenti. Non ingiustificato, ahimè, allo stato dei fatti.
Buio in Vaticano: ecco l'ultimo scandalo. Accuse di “condotte immorali” al nuovo numero due della Segreteria di Stato. E il papa dice: è un attacco contro di me, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 ottobre 2018 su "L'Espresso". In Italia il nome del monsignor Edgar Peña Parra non dice nulla a nessuno. E anche a Roma, dietro le mura del Vaticano, il viso del prelato venezuelano, 58 anni compiuti a marzo, dal 2011 vescovo della minuscola Thelepte in Tunisia e fino a ieri nunzio in Mozambico, è sconosciuto ai più. Eppure Peña Parra sta per diventare uno degli uomini più influenti della Santa Sede: come annunciato da Francesco lo scorso Ferragosto, l’ex ambasciatore siederà dal 15 ottobre sulla poltrona di Sostituto per gli affari generali alla Segreteria di Stato. Un incarico che lo proietta nell’empireo della gerarchia vaticana, secondo solo al papa e al segretario di Stato Pietro Parolin. Il ruolo del Sostituto, nonostante alcune prerogative specifiche siano state spostate alla terza sezione della Segreteria creata nel 2017, resta ancora cruciale nel governo della Chiesa e del clero di Roma. Angelo Becciu, che ha guidato gli Affari generali fino al 28 giugno prima di diventare cardinale e prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, era considerato l’uomo forte d’Oltretevere, capace nel primo quinquennio di Bergoglio di governare la riottosa curia romana, gestire scandali e polemiche assortite (dal secondo VatiLeaks all’allontanamento del revisore di conti Libero Milone, fino al commissariamento dell’Ordine di Malta) e intessere relazioni con le istituzioni e la politica italiana. Non è un caso che l’ex premier Paolo Gentiloni e Bergoglio, quando si incontrarono in forma privata, lo fecero proprio a casa di Becciu. Quella del Sostituto è dunque una nomina delicatissima. E il nome di Peña Parra ha colto di sorpresa gerarchie e addetti ai lavori. Se il nunzio a Roma è un marziano, in Venezuela lo conoscono in tanti. Molti lo stimano. Altri assai meno. Anche l’arcivescovo Carlo Maria Viganò nel celebre j’accuse contro Francesco ha dedicato al monsignore sudamericano parole di fuoco. «Lui ha una connessione con l’Honduras, cioè con il cardinale Oscar Maradiaga. Peña Parra dal 2003 al 2007 ha prestato servizio presso la nunziatura di Tegucigalpa in qualità di consigliere», ha attaccato Viganò. «Come delegato per le rappresentanze pontificie, mi erano pervenute informazioni preoccupanti a suo riguardo». L’ex nunzio a Washington non chiarisce i motivi delle sue «preoccupazioni». Ma è certo che non è il solo ad avere qualche dubbio sulla scelta di Francesco. Peña Parra ha molti nemici. E qualcuno di essi, nove giorni dopo la sua promozione, ha deciso di prendere carta e penna, e compilare un durissimo rapporto sulle presunte condotte immorali del sacerdote. Allegando pure alcune fotocopie di lettere firmate dall’allora arcivescovo di Maracaibo Domingo Roa Pérez, in cui si fa riferimento a dubbi e accuse gravissime sul conto di Edgar, allora seminarista. Il dossier di 25 pagine è firmato dai “Laici dell’arcidiocesi di Maracaibo” (capitale della regione dello Zulia dove il neo Sostituto è nato e cresciuto, una città diventata famosa anche in Italia perché lì crollò, travolto da una petroliera, uno dei ponti progettati dall’ingegnere Riccardo Morandi), e nei giorni scorsi è finito nella posta elettronica di alcuni prelati, che hanno informato il papa. L’Espresso lo ha letto. Cuore delle accuse, è una missiva del 1985 firmata proprio da Roa Pérez e spedita al rettore del primo seminario (il San Tommaso D’Aquino a San Cristobal) frequentato dal giovane Peña Parra. Laureatosi in filosofia nel 1981, all’inizio del 1985 il giovane Edgar ha appena concluso un altro seminario interdiocesano, quello dell’istituto “Santa Rosa de Lima” a Caracas, stavolta specializzandosi in teologia. Ad agosto è prevista la sua ordinazione come sacerdote. L’arcivescovo Roa Perez, che da qualche tempo nutriva dubbi sul candidato, ha appena ricevuto una lettera anonima che giudica molto circostanziata. E decide di vederci chiaro: «Egregio monsignore, in questo adorato seminario ha studiato filosofia il giovane Edgar Robinson Peña Parra» spiega l’alto prelato al rettore del “San Tommaso D’Aquino”, Pio Leon Cardenas. «I rapporti concernenti le sue abitudini sono stati abbastanza negativi, per questo la direzione decise di non farlo proseguire. Pensando che l’errore forse non era così grave da escluderlo definitivamente dal seminario... ho deciso di mandarlo al seminario di Caracas, dove ha studiato teologia ed è sul punto di ricevere il diaconato e presto il sacerdozio. I rapporti del seminario interdiocesano sono in generale positivi. Anzi buoni», chiosa ancora il vescovo Roa Perez. «Ora mi arriva una lettera anonima da Caracas, che dice che (Peña Parra, ndr) “fu espulso dal seminario San Tommaso D’Aquino alla fine del suo terzo anno perché omosessuale...”. Afferma che tale fatto “è stato verificato nella realtà dal suo padre assistente di quell’anno di studio, Padre Leye, e che lei non è arrivato a saperlo” perché un sacerdote di questa arcidiocesi ha falsificato il rapporto». La presunta lettera anonima, arrivata a Roa Perez qualche settimana prima con allegata una foto del giovane Peña Parra, in realtà fa nome e cognome di chi avrebbe strappato la relazione originale che avrebbe inguaiato l’attuale Sostituto. Ossia di monsignor Roberto Lückert Leon, oggi arcivescovo emerito di Coro e potente presidente della Commissione comunicazioni sociali della Conferenza episcopale venezuelana. Lückert (che organizzò nel 2016 l’incontro tra Francesco e il presidente venezuelano Nicolas Maduro) è stato parroco della piccola chiesa di Nostra Signora di Chiquinquirà a Maracaibo, frequentata fin da bambino dal nuovo Sostituto. Secondo i laici che firmano il dossier, è stato proprio Lückert a indicare a Peña Parra la strada del sacerdozio, e in seguito a consigliarlo e proteggerlo come un figlio. «Non so se si tratta di intrighi», conclude infine Roa Perez. «Certamente sembra che (Peña Parra e Lückert, ndr) si conoscano abbastanza. La lettera riproduce una fotografia di Edgar Peña, tipo passaporto, di qualche anno fa. Lo chiama “malato sessuale”. Può immaginare Sua Signoria illustrissima l’angoscia che ora mi assale. Ho molto bisogno di sacerdoti, ma non posso essere “un pietoso empio” come afferma un santo della Chiesa riferendosi all’ordinazione di coloro che sono chiaramente indegni. Come ho detto può trattarsi di intrighi, e può essere vero quello che l’anonimo sostiene con fermezza. La prego con veemenza che riveda i rapporti e ascolti Padre Leger per vedere se ricorda il caso». Tra i documenti del dossier ci sono anche alcune schede sul profilo caratteriale e spirituale del nuovo Sostituto, firmate da padre Jesus Hernandez, rettore del seminario Santa Rosa de Lima di Caracas, tra agosto e dicembre del 1982. In alcune si segnala come Edgar sia «educato, un po’ impulsivo nel carattere, un po’ presuntuoso nel modo di presentarsi, ma bravo studente migliorato dal primo al secondo semestre». In altre si raccontano vicende curiose, come la protesta di Peña Parra e «dei suoi compagni sul cibo» non buono del seminario. Un’altra nota, infine, conferma quello che già aveva scritto Roa Perez: «Edgar ha appena finito filosofia nel seminario di San Cristobal da dove secondo il rapporto è stato allontanato. In questo primo anno non si è visto niente di negativo in rapporto ad alcuni elementi del rapporto precedente del menzionato seminario. Continueremo a osservare il suo comportamento con attenzione. D’altra parte egli deve cominciare a controllare una certa impulsività, cercare la sincerità in tutti gli atteggiamenti e continuare nell’impegno a crescere nella vita spirituale». L’Espresso ha chiesto lumi alla sala stampa della Santa Sede, chiedendo per giorni un commento sul dossier e soprattutto sull’autenticità o meno della lettera di Roa Perez (morto nel 2000), ma senza ricevere alcuna risposta. È un fatto, però, che il papa - dopo essere stato informato della vicenda - ha spiegato con risolutezza di non credere affatto alla fondatezza delle accuse. «Il papa sostiene si tratti di un altro attacco contro di lui, dopo quello di Viganò», ragionano i fedelissimi, ipotizzando che sia sempre il fronte conservatore a tentare di screditare il suo magistero. Bergoglio, come di consuetudine, prima di promuovere il monsignore venezuelano ha chiesto alla Segreteria di Stato se ci fossero rapporti o informative ostative alla nomina, ma nulla era saltato fuori dagli archivi. La lettera di Roa Perez, spuntata all’improvviso, è stata così sottoposta all’analisi di alcuni esperti interni, per capire se fosse davvero una fotocopia dell’originale (come sembra) o falso ben fatto: mentre scriviamo nessuno - nonostante i nostri solleciti - ne ha smentito l’autenticità. In Vaticano sottolineano che comunque i dubbi di Roa Perez sul presunto comportamento libertino del neo Sostituto nascono dalle informazioni di un anonimo. E che, se non conosciamo i risultati dell’indagine conoscitiva sollecitata dalla missiva, è sicuro che proprio l’arcivescovo di Maracaibo, il 23 agosto 1985, ordinerà sacerdote Peña Parra. Dunque delle due l’una: o, come scrivono coloro che hanno confezionato il dossier, Roa Perez ha chiuso un occhio per non scoperchiare un vaso di Pandora che avrebbe coinvolto parte della curia venezuelana («papa Francesco è stato ingannato e mal informato dai suoi collaboratori» scrivono “i laici” che hanno inviato la lettera e gli altri documenti); o si è definitivamente convinto della liceità della condotta del seminarista, attaccato con calunnie da nemici sconosciuti. Indossata la tonaca, la carriera del successore di Becciu prende il volo in pochi anni: nel 1989 Peña sarà il primo venezuelano a frequentare la Pontificia accademica ecclesiastica, cioè la scuola diplomatica vaticana, poi qualche tempo dopo si laurea alla Gregoriana, e riesce ad entrare nel servizio diplomatico della Santa Sede. Lavora così in Kenya, nell’ex Jugoslavia, e a Ginevra presso la sede dell’Onu. Gira il mondo, come dipendente delle nunziature apostoliche in Sud Africa, Messico e Honduras. Proprio nel minuscolo paese centroamericano Edgar allaccia rapporti stretti con l’arcivescovo di Tegucigalpa Oscar Maradiaga, attuale e potentissimo coordinatore del C9, il consiglio dei cardinali che deve aiutare Francesco nella gestione della Chiesa universale. Peña Parra stringe amicizia anche con il braccio destro del porporato, ossia il vescovo ausiliare Juan José Pineda, travolto qualche mese fa dalle accuse di abusi sessuali su seminaristi maggiorenni, raccontate proprio da un’inchiesta de L’Espresso a fine 2017. Nonostante la strenua difesa tentata da Maradiaga, il papa ha accettato le dimissioni di Pineda lo scorso luglio. Ma non ha mai perso fiducia nel suo principale consigliere. Anzi: molti credono che il cardinale honduregno abbia avuto un ruolo preminente nella promozione del nuovo sostituto. Peña Parra - che parla spagnolo, italiano, inglese, francese, portoghese e serbo-croato - nel 2011 viene consacrato vescovo da Benedetto XVI, e poi vola in Pakistan come nunzio apostolico. Francesco, nel 2015, lo trasferisce a Maputo, in Mozambico. Secondo il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, intervistato due mesi fa da Avvenire, Edgar è un sacerdote devoto e capace, che ha lavorato «per favorire i cristiani più poveri nella scuola, a favore dei bambini di strada e del dialogo interreligioso». «La verità è che l’arrivo di Peña Parra fa tremare potentati del clero romano che volevano per loro quella poltrona chiave, e tutti quelli che vogliono bloccare le riforme del papa. È questo il motivo delle calunnie gravi e indimostrabili», spiegano al nostro settimanale fonti della Santa Sede, che ricordano come le accuse di omosessualità sono nella Chiesa usate per regolare conti interni. «Non è un caso che questo dossier spunti fuori pochi giorni dopo l’affaire di Viganò», aggiungono fedelissimi di Bergoglio, preoccupati dal delicato momento che vive il magistero di Francesco. Dopo le accuse di Viganò (quelle più gravi, riguardanti la presunta copertura del papa degli abusi sessuali dell’ (ex) cardinale Theodore McCarrick, sono state smontate con efficacia la settimana scorsa dal prefetto della Congregazione per i Vescovi Marc Ouellet) e gli scandali sulla “lobby gay” e la pedofilia ecclesiastica scoppiati in Pennsylvania e Germania, le ombre sulla nomina di Peña Parra rischiano di essere usate come una clava dai nemici di Francesco. Ecco perché, se gli anonimi “laici dell’arcidiocesi di Maracaibo” spiegano di aver redatto il documento spinti dalle parole dei “lineamenta” del Sinodo dei vescovi del 2012 sulla nuova evangelizzazione, che invitano i fedeli cattolici ad avere «il coraggio di denunciare le infedeltà e gli scandali che emergono nelle comunità cristiane», sono tanti i sospetti sui reali obiettivi dell’operazione. Dal timing (Viganò è il primo, lo scorso fine agosto, a mettere in cattiva luce il neosostituto), alla forma anonima dell’invettiva, al tentativo di coinvolgere nella vicenda persino Pietro Parolin (che quando era nunzio in Venezuela sarebbe stato «avvertito da un gruppo di sacerdoti e laici sulla condotta immorale di monsignor Peña Parra»), fino al fatto che Roa Perez, autore della lettera chiave, sia deceduto e non possa più dire la sua.
Vaticano, indagato il direttore del coro di Papa Francesco: "Cosa faceva ai bambini", scrive il 14 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Tra gli scheletri nell'armadio della Santa Sede ora c'è anche il coro della Cappella Sistina. È lo stesso direttore Massimo Palombella a finire nel mirino: molte le segnalazioni di mamme che denunciano i metodi rudi utilizzati nei confronti dei loro figli che cantano durante le celebrazioni presiedute dal Papa nella basilica di San Pietro, ma anche in giro per il mondo. Non solo, perché qualche mese fa sul coro lo stesso papa Francesco ha autorizzato dei controlli in merito agli aspetti economico-finanziari. "Il sospetto riguarda un uso disinvolto dei soldi che entravano in Sistina per i concerti, indirizzati in un conto presso una banca italiana - riferisce la Sala Stampa del Vaticano - "Le ipotesi di reato sono riciclaggio, truffa aggravata ai danni dello Stato e peculato". Indagati, secondo alcune fonti, sarebbero i responsabili ultimi della Sistina: il direttore amministrativo, Michelangelo Nardella e Palombella. Dopo diversi accertamenti interni, il nunzio apostolico Mario Giordana ha consegnato una relazione, coperta dal segreto, a padre Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia da cui dipende il coro, e al segretario di Stato Pietro Parolin. Si parla di abusi, ma ancora è da accertare se si tratti di molestie sessuali. È al vaglio degli inquirenti anche un conto corrente dove transitavano i soldi di alcuni concerti, utilizzati però per spese personali. Ma anche Nardella non è poi così virtuoso, già lo scorso luglio è stato sospeso per un procedimento amministrativo. Si è scoperto infatti che, in occasione di un convegno di medici, gli organizzatori avevano chiesto a Nardella una lettera di saluto del Papa. La segreteria di Stato aveva rifiutato e Nardella aveva comunque autorizzato l'utilizzo di un'altra missiva inviata a un altro convegno che si era svolto qualche settimana prima, cambiando giusto qualche parola.
Coro Sistina: la festa e i selfie con le star, ecco come è nata l’inchiesta. L’imbarazzo della Santa Sede e le tre le indagini scaturite dalle proteste di alcuni genitori dei ragazzi che hanno scritto alla segreteria di Stato, scrive Fiorenza Sarzanini il 14 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". A tradire il maestro del coro della cappella Sistina Massimo Palombella sono state le foto inviate nelle chat WhatsApp di numerosi preti e coristi. Perché quando hanno visto come si era trasformato l’evento organizzato nel maggio scorso presso il Metropolitan Museum di New York, molti genitori dei «pueri» hanno deciso di scrivere alla segreteria di Stato del Vaticano per protestare. E pochi giorni dopo papa Francesco ha autorizzato l’avvio dell’indagine contro lo stesso Palombella e il direttore amministrativo Michelangelo Nardella, poi sospeso dal servizio. Nelle immagini si vedono i preti sorridenti che scattano foto e selfie con la cantante di fama mondiale Rihanna, con la sua collega Jennifer Lopez e con l’attrice Salma Hayek, tutte con abiti di scena molto succinti. E poi altre attrici vestite da suore in un tripudio di musica e balli che all’interno delle Mura deve essere apparso eccessivo per un appuntamento che era stato presentato in maniera del tutto diversa.
La manifestazione. Alla fine di febbraio è monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ad annunciare la scelta di partecipare alla manifestazione. «Parafrasando un filosofo materialista dell’800 che diceva “L’uomo è ciò che mangia” — aveva detto Ravasi — io dico che l’uomo è ciò che veste. Già dalla Bibbia si capisce che è Dio il più grande sarto: capitolo terzo versetto 20, Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vestì». Il programma prevede la partecipazione del coro, ma evidentemente nessuno immagina che cosa accadrà negli Stati Uniti. E invece quando cominciano a circolare le foto della festa con i religiosi in abito liturgico rosso, i genitori dei piccoli coristi si allarmano. E non sono gli unici.
Maltrattamenti. Le mamme scrivono a monsignor Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia, e al segretario di Stato Pietro Parolin. Protestano per l’evento, ma denunciano anche il comportamento del maestro Palombella con i coristi. Si parla di maltrattamenti. E monta il caso. L’indagine autorizzata dallo stesso pontefice viene affidata al nunzio apostolico Mario Giordana. Nella prima relazione — ancora segreta — si parla di abusi, ma le verifiche sono ancora in corso per stabilire se siano state compiute anche molestie.
Scalpore. Quanto è stato scoperto ha comunque creato molto scalpore e all’interno della Santa Sede c’è già chi dà per scontato che il maestro Palombella possa essere a breve sospeso dall’incarico, anche tenendo conto che con Nardella è accusato anche di aver gestito in maniera illecita i soldi della cappella musicale ed è indagato dalle autorità vaticane per riciclaggio, peculato e truffa.
Vaticano, un super-vertice per contrastare gli abusi, scrive Alessandro Fioroni il 14 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Travolte dagli scandali delle violenze sui minori, le alte gerarchie della Chiesa si riuniranno a febbraio. L’occasione per rilanciare la tolleranza zero contro gli abusi commessi dai preti e sradicare il fenomeno. Stati Uniti e ora anche la Germania, un’onda di denunce e di testimonianza che raccontano di abusi su minori da parte di esponenti del clero. Non passa giorno che da qualche parte nel mondo non scoppi un caso. Omissioni e coperture dei responsabili sono ora sempre più note e offrono materiale anche per gli attacchi ricevuti da papa Bergoglio e che sono l’espressione di una lotta (conservatori ed innovatori) serratissima che si svolge all’interno della Curia romana. In questo senso va letta l’offensiva lanciata dal Pontefice il 12 settembre al termine della riunione del Consiglio dei 9 cardinali, detto C9. Bergoglio infatti ha convocato i massimi responsabili della Chiesa di tutto il mondo per un incontro che si svolgerà dal 21 al 24 febbraio del prossimo anno. Al centro di questa specie di Sinodo ci sarà la lotta agli abusi e la tutela dei minori. Una decisione importantissima che segnala però anche il grado zero raggiunto da questo problema. Il C9 infatti è il gruppo di porporati cui lo stesso Pontefice ha affidato il compito di aiutarlo nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale. Il vertice si concentrerà sulla prevenzione e ribadirà, almeno da quanto è contenuto nel comunicato al termine del Consiglio, la linea della tolleranza zero lanciata da papa Francesco ma indebolita sia dalle titubanze ad applicarla sia dai continui scandali. Ma sulla strada che porterà all’appuntamento del prossimo febbraio gli ostacoli sono moltissimi così come i dossier da affrontare. Ad iniziare dalla situazione della Chiesa americana. Non a caso il giorno dopo la riunione del C9 (13 settembre) Bergoglio ha incontrato i massimi vertici dell’episcopato statunitense. Nel palazzo apostolico si è tenuto un colloquio con Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e leader della Conferenza dei vescovi Usa, il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente della Pontificia Commissione per la Tutela dei minori, Jose Horacio Gomez, arcivescovo di Los Angeles e vicepresidente della Conferenza episcopale e monsignor Brian Bransfield, segretario generale. La situazione negli Usa è gravissima, sembra essersi aperto un vaso di Pandora difficilmente richiudibile. Una nuova serie di inchieste per abusi sui minori si stanno aprendo a ripetizione. E così anche lo stato del Kentucky ha annunciato la convocazione di un Gran Giurì che indaghi sulle molestie del clero dopo che nel 2004 tre ex chierichetti, vittime di abusi, avevano esposto denuncia contro i loro persecutori sostenendo la corresponsabilità dello stesso papa di allora. Un caso che si aggiunge alle iniziative di altri sei stati (New York e New Jersey, Illinois, Missouri, New Mexico e Nebraska) più la Florida che sta valutando se unirsi alle indagini. In New Jersey, una speciale linea telefonica creata dal ministro alla Giustizia statale Gurbir Grewal per raccogliere nuove denunce ha registrato un numero record di chiamate. In Pennsylvania a metà agosto un Gran Giurì aveva presentato e documentato le accuse mosse da circa mille vittime a oltre 300 sacerdoti.Per fermare l’esplosione in corso sembrano prossime le dimissioni del cardinale dell’arcidiocesi di Washington. Ne parlerà con il papa ha detto ma le accuse a suo carico sono non solo documentate ma pericolose per lo stesso Bergoglio. Infatti il 77enne Wuerl è accusato di aver in parte coperto lo scandalo degli abusi sessuali in Pennsylvania e le vicende legate al suo predecessore, l’ex cardinale di Washington Theodore McCarrick, il protagonista di vicende che hanno fornito materiale per le missive dell’ex nunzio apostolico negli Usa, Mons. Viganò, arrivato a chiedere le dimissioni di Francesco. Tocca dunque agli “americani” muoversi. Le parole del cardinale bostoniano O’Malley, membro anche del C9, non lasciano dubbi: «alla luce della situazione attuale, se la Chiesa si dimostra icapace di rispondere con tutto il cuore e di fare di questo tema una priorità, tutte le altre nostre attività di evangelizzazione, di carità, ne risentiranno». Tradotto, la perdita di credibilità sarà così forte da mettere in pericolo l’esistenza stessa, anche economica, dell’episcopato statunitense. Sul tavolo di Bergoglio però non c’è solo la documentazione di quello che succede oltre oceano, anche dalla Germania arriva un vento di denuncia. Il 25 settembre prossimo durante la prossima Assemblea episcopale tedesca che si terrà a Fulda, verrà presentato un rapporto che si preannuncia scioccante.Si tratta di 3677 casi di abusi avvenuti tra il 1946 e il 2014. Gli autori sono 1670 tra sacerdoti e religiosi in genere. Le vittime avevano al massimo 13 anni. Il contenuto del rapporto è stato anticipato dai settimanali Die Zeit e Der Spiegel suscitando l’imbarazzo e il rammarico dei cardinali tedeschi che certo non avrebbero voluto consegnare altro materiale infiammabile all’opinione pubblica.
Vaticano, siamo alle telefonate anonime: "Eminenza, se lei parla noi l'ammazziamo", scrive il 14 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Volano minacce in Vaticano. "Eminenza, se lei parla noi l'ammazziamo" è questo il contenuto della telefonata anonima, in lingua spagnola, ricevuta da Óscar Andrés Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del Consiglio dei cardinali. A dispetto di quanto avrebbe voluto l'intimidatore, il porporato ha subito messo al corrente il Capo della Santa Sede su quanto accaduto. Maradiaga era già stato bersaglio di numerose critiche ricevute da alcuni siti americani e spagnoli, legati ai protagonisti dello scandalo Vatileaks 2. I motivi erano due: le accuse di comportamenti inappropriati nei confronti dell'ex vescovo ausiliare di Tegucigalpa, Juan José Pineda accusato di abusi sessuali e la critica di aver ignorato le denunce di un gruppo di seminaristi sull'esistenza di una lobby gay all'interno del seminario della capitale honduregna. Anche in quell'occasione l'arcivescovo aveva ricevuto telefonate minatorie, che gli garantivano la morte se avesse replicato. La Chiesa sta vivendo una situazione non proprio rosea, dopo la pubblicazione del dossier del monsignor Carlo Maria Viganò. Giusto ieri, 13 settembre, Bergoglio ha silurato un altro vescovo statunitense accusato di abusi sessuali, Michael Bransfield. Non solo, Papa Francesco incontrerà per la seconda volta il cardinale di Washington, Donald Wuerl, successore di McCarrick, proprio per discutere le sue dimissioni.
Chiesa australiana nella bufera: il 7% dei preti abusava di bambini. Le conclusioni choc della Royal Commission: quasi 4500 casi tra il 1980 e il 2015, scrive Lorenzo Carbone il 7 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". Dopo quattro anni di ricerche, interviste, udienze, testimonianze, la Royal Commission, istituita in Australia per far luce sugli abusi sessuali sui minori, ha reso note le sue conclusioni. Si stima che il 7% dei preti cattolici australiani abbia commesso un abuso sessuale tra il 1950 e il 2015. Detto così sembra un dato vago, ma la Royal Commission ha approfondito le proprie ricerche parrocchia per parrocchia, diocesi per diocesi, senza tralasciare nemmeno orfanotrofi, associazioni giovanili, club sportivi e scuole. È la più vasta investigazione mai compiuta sulla pedofilia all’interno di istituzioni religiose o centri finanziati dalle diocesi cattoliche. Tra il 1980 e il 2015 sono state registrate 4444 vittime di abusi. Si tratta di 126 abusi all’anno, e stiamo parlando solo degli abusi che sono stati denunciati. Francis Sullivan, capo del Truth Justice and Healing Council della Chiesa Cattolica in Australia china il capo, quasi in lacrime: «Queste cifre sono indifendibili. Questi dati possono essere interpretati in un solo modo: l’immenso fallimento della Chiesa Cattolica d’Australia nel proteggere i bambini». La responsabile della Commissione, Gail Furness, durante la conferenza stampa parla sommessamente: «Speravamo di ricevere assistenza e documenti da parte delle istituzioni religiose su ogni caso. Invece l’Ambasciata Australiana presso la Santa Sede ( Holy See) a luglio 2014 ci rispose “non è possibile nè appropriato provvedere alle informazioni richieste”». La Furness sottolinea come le risposte delle varie diocesi fossere sempre «tristemente simili». Le vittime erano per la maggioranza bambini di circa undici anni e in minor parte bambine di dieci. Secondo le minuziose ricostruzioni sono stati identificati circa 1880 colpevoli mentre 500 e più rimangono sconosciuti. Gli abusi sono stati perpetrati per un 62% da preti, parroci, seminaristi (ossia chi possedeva gli ordini), un 29% da chi invece non aveva gli ordini clericali ma semplicemente lavorava nelle istituzioni cattoliche, e per un 5% da suore, monache o seminariste donne. Inoltre la Royal Commission ha analizzato le percentuali di violenze diocesi per diocesi, arrivando alla conclusione che gli abusi erano sempre maggiori nelle istituzioni religiose. Per esempio, nelle strutture dell’Ordine di Saint John of God Brothers, specialmente scuole per bambini con difficoltà di apprendimento negli stati del sud dell’Australia, più del 40% di chi vi lavorava è accusato di violenze. «I bambini che denunciavano un abuso venivano ignorati o puniti. Le accuse non venivano investigate. I preti accusati di abuso venivano trasferiti. E le parrocchie e comunità che li accoglievano disconoscevano il loro passato» spiega lentamente Gail Furness in conferenza stampa. Papa Francesco sta seguendo da vicino i lavori della commissione, anche perchè tra chi ha insabbiato gli abusi potrebbe esserci il cardinale George Pell, dal 2014 prefetto all’Economia del Vaticano.
“Dietro l’altare”, il docu-film sugli abusi della Chiesa. Una storia di violenze e insabbiamenti. Lucio Mollica racconta come è nato “Dietro l’altare”, il docu-film sui casi di pedofilia nella Chiesa, scrive Francesca Spasiano il 26 luglio 2017 su "Il Dubbio". Una storia di violenze e insabbiamenti. Il lungo trascorso della Chiesa è costellato di capitoli bui e adesso lo scandalo degli abusi bussa alle porte del Vaticano. Se anche la commissione antipedofilia voluta da Papa Francesco si è rivelata insufficiente nell’affrontare la guerra alle tonache incriminate, sorge naturale lo scoramento dei più ottimisti. «Abbiamo un bisogno disperato di credere in papa Francesco. Il papa trasuda sincerità. È senz’altro un uomo buono. Quindi mettere in discussione le sue parole e misurare il loro divario con la realtà è stato più che uno sforzo intellettuale: uno sforzo emotivo, ancora più doloroso se l’argomento è quello degli abusi sui minori», racconta John Dickie nel presentare il suo ultimo lavoro, Dietro l’altare (Behind the altar), in onda stasera alle 21 in prima tv mondiale su LaF (Sky 139). Il documentario risponde alla crescente domanda di chiarezza sul tema della pedofilia, proprio mentre il dibattito sulle vicende di violenze sessuali investe la Santa Sede ai suoi vertici sulla scorta del caso George Pell. Il lavoro di inchiesta e investigazione internazionale realizzato dallo storico britannico riporta la preziosa testimonianza di vittime, esperti e religiosi: da Marie Collins a Padre Hans Zollner, entrambi membri della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori. Il docu-film – diretto dal regista messicano Jesus Garces Lambert e prodotto da GA&A Productions con ZDF/Arte, EO, Witfilm in associazione con Effe tv e altre nove broadcast internazionali – è un viaggio verso la verità, dagli Stati Uniti d’America alla Francia, dal Vaticano all’Argentina attraverso la Storia della Chiesa fino alla rivelazione di casi sconosciuti. Ce lo racconta Lucio Mollica, tra gli autori del documentario insieme a Vania del Borgo e lo stesso John Dickie. Il team si era già consolidato nel lavoro di scrittura di “Chiesa Nostra”, uno speciale che svela il sodalizio tra Chiesa cattolica e criminalità organizzata.
Quale contributo apporta questo documentario al lavoro di indagine sui casi di pedofilia nella Chiesa?
«L’obiettivo di questo film era documentare quanto sta avvenendo sotto il papato di Francesco sul tema della lotta agli abusi sui minori. La sorpresa è che la Chiesa non ha davvero voltato pagina nonostante l’impegno promesso dal pontefice. Le aspettative deluse sono al centro del nostro lavoro».
Si esprime dunque un giudizio nei confronti dell’operato di Papa Francesco?
«Il papa ha più volte ribadito intransigenza contro quei preti protagonisti d’abusi e ha promesso tolleranza zero. Non abbiamo motivo di dubitare della sincerità delle sue parole, ha ancora il tempo per riprendere il cammino di riforme avviato da Benedetto XVI, ma episodi di pedofilia interni alla Chiesa continuano a verificarsi numerosi in ogni parte del mondo senza che vi sia una concreta assunzione di responsabilità e un intervento deciso. Se Papa Francesco non vuole vanificare la bontà dei suoi intenti deve correre ai ripari e schierarsi con provvedimenti severi».
Lo scandalo del Caso Pell ha coinvolto per la prima volta la Chiesa nelle sue più alte sfere, accentrando il dibattito sulle vicende di pedofilia, oggi più acceso che mai. Cosa si nasconde “dietro l’altare”?
«Sono molte le figure controverse tra la rappresentanza ecclesiastica. Si pensi al cardinale cileno Errazuriz chiamato a far parte del gruppo di 9 alti prelati che assistono papa Francesco nel governo della Chiesa Universale nonostante sia stato criticato dalle vittime per non aver condotto adeguatamente le indagini sul più noto caso di pedofilia del clero cileno. L’imperativo è rompere la coltre di silenzio. Molti episodi si sarebbero potuti evitare se si fosse prestato attenzione alle denunce dei parenti delle vittime, e se la Chiesa si fosse prestata a collaborare con le autorità giudiziarie».
Sappiamo che il lavoro di inchiesta condotto ha una portata internazionale. Come avete selezionato le tappe del viaggio?
«Il numero di vittime è davvero impressionante. Dopo un lungo lavoro di scrematura abbiamo selezionato le storie che ci sembravano più rappresentative del fenomeno di abusi e violenze diffuso in tutto il mondo. Siamo partiti dalla Francia, a Lione dove sono emersi episodi di abusi su almeno 70 bambini. Tornando in Italia, ci siamo soffermati sul caso di Don Inzoli, senz’altro rappresentativo della lentezza della burocrazia e della Chiesa nell’affrontare la lotta ai crimini sessuali. Preziosa la testimonianza di Marie Marie Collins, ex membro della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori e a sua volta vittima, che ci ha raccontato come il percorso di riforme intrapreso abbia infine condotto alle sue dimissioni a cause delle resistenze incontrate in Vaticano. Negli Stati Uniti, siamo stati ad Altoona-Johnstown, in Pennsylvania, per un’inchiesta su centinaia di bambini vittime di abusi sessuali: a seguito degli scandali esplosi l’atteggiamento della procura è di tolleranza zero. Infine l’Argentina, il paese del Papa, con le prime ed esclusive interviste alle vittime di Padre Corradi, arrestato con l’accusa di aver abusato sessualmente di alcuni studenti sordomuti dell’Istituto Provolo di Mendoza».
Che tipo di resistenza avete incontrato nel corso della vostra ricerca?
«Il problema principale per chi conduce indagini di questo tipo è di dover confrontarsi con una Chiesa che si ostina a mantenere sotto silenzio tutto ciò che riguarda gli abusi sessuali. Questo vale sia per noi giornalisti, che per i legali delle vittime e soprattutto per i magistrati. Nel film raccontiamo il caso di un pm italiano che si è visto rifiutare dal Vaticano una rogatoria internazionale. I processi canonici sono sotto segreto pontificio, e per chi tradisce questa regola ci sono pene severissime. Omertà e silenzio sono al centro di un atteggiamento increspatosi negli anni».
Il tema degli abusi sui minori è prima di tutto un argomento fatto di sofferenza umana. Come raccontare la pedofilia?
«È stato molto difficile confrontarsi con storie così raccapriccianti, che vedono al centro i bambini. Definiamo spesso i protagonisti di queste vicende delle “vittime”, eppure io li appellerei “eroi”: nonostante il peso ditali sofferenze, trovano il coraggio di raccontare la propria storia e di sfidare la autorità, vittime ancora una volta. Mi piacerebbe segnalare tra le testimonianze raccolte il ruolo delle donne, sempre in prima linea nel rompere il silenzio. È forse proprio da loro che la Chiesa dovrebbe ricominciare per condurre la “rivoluzione” necessaria».
Vaticano e abusi: il peso delle accuse e il giornalismo che non informa. Anziché dar conto dei fatti e investigare sulle clamorose e circostanziate accuse di monsignor Carlo Viganò a Papa Francesco e altre massime autorità del Vaticano – “Sapevano degli abusi sui minori” – sui media è partita una rimozione catafratta e azzerante a colpi di argumenta ad hominen e di cui prodest. Sperando che il giornalismo cominci a fare il suo lavoro, pubblichiamo integralmente il documento di Viganò con una nota introduttiva, scrive Paolo Flores d'Arcais su Micromega il 28 agosto 2018.
L’argumentum ad hominem è una classica fallacia logica evidenziata in ogni manuale. Consiste nel respingere un’affermazione non già entrando nel merito (chiedendo prove o confutando quelle addotte) bensì invocando le malvagie intenzioni di chi l’affermazione ha avanzato. Chiunque scriva o parli sui media sa perfettamente, anche se crede nella Trinità e nella verginità della Madonna, che l’argumentum ad hominem come argomento vale zero. Eppure sulle circostanziate accuse di monsignor Viganò a pezzi consistenti e da novanta del Sacro Collegio, e infine anche a Francesco, è partita tutta e solo una quadriglia di argumenta ad hominen, una sarabanda di cui prodest, una rimozione catafratta e azzerante delle minuziose accuse di cui sopra. E dire che la vocazione del giornalismo sarebbe proprio dar conto dei fatti. Dunque, di fronte ad accuse tanto clamorose e devastanti, che bollano di omosessualità o connivenza due cardinali Segretari di Stato del calibro e del potere di Angelo Sodano (decano del collegio cardinalizio, dunque dominus alla morte del Papa) e Tarcisio Bertone (quello dell’attico coi soldi dei bambini malati, sì), dovrebbe sbrigliarsi a investigare, frugare negli archivi, incrociare testimonianze e interviste, dare conto ai lettori di chi si rifiuta di rispondere, e via informando. Monsignor Viganò è parte di una manovra delle destre cattoliche in curia e negli episcopati (soprattutto quello americano) contro la svolta “progressista” di Bergoglio, si dice. Va da sé ed è anzi ostentato, facendo pubblicare il documento sui siti ecclesiali più reazionari e sul quotidiano italiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro, seguito dal concordato carico da otto del cardinal Burke. E allora? Queste circostanze non dicono assolutamente nulla rispetto alla fondatezza delle accuse mosse. Monsignor Viganò è animato da astio personale covato lungamente, per promozioni e berretta che immaginava già sul capo e che sono andate invece ad altri. Possibile, anche probabile, perché troppo umano, e se c’è un ambiente dove i sette vizi capitali più sontuosamente allignano è quello dei prelati di Santa Romana Chiesa, Cattolica ed Apostolica. E allora? La caratura della sua invidia, toccasse anche i ventiquattro, non sminuirebbe di un’oncia il peso delle sue accuse. Speriamo perciò che ora il giornalismo cominci a fare il suo lavoro. Che è quello di prescindere dal “a chi giova?” e di verificare accusa per accusa il cahiers de doléancesdel monsignore codino. Alcune sono riscontrabili con un clic su Google (digitando “sodano maciel” compaiono in 0,33 secondi 32.000 occorrenze che documentano l’inesausto impegno profuso dal Sodano in difesa del boss pedofilo dei “Legionari di Cristo”, contro il quale le prime accuse risalgono addirittura al 1948!) Altre sono verificabili o rifiutabili o catalogabili in un punto dello spettro delle probabilità, procedendo con gli elementari ferri del mestiere giornalistico, più sopra citati. Solo che lo si voglia. Ma chi vuole ancora fatti e verità? A chi non giovano? Paolo Flores d’Arcais
Il dossier che accusa Papa Francesco: “Sapeva degli abusi sui minori”, di Mons. Carlo Maria Viganò Arciv. tit. di Ulpiana Nunzio Apostolico. In questo tragico momento che sta attraversando la Chiesa in varie parti del mondo, Stati Uniti, Cile, Honduras, Australia, ecc., gravissima è la responsabilità dei Vescovi. Penso in particolare agli Stati Uniti d’America dove fui inviato come Nunzio Apostolico da papa Benedetto XVI il 19 ottobre 2011, memoria dei Primi Martiri dell’America Settentrionale. I Vescovi degli Stati Uniti sono chiamati, ed io con loro, a seguire l’esempio di questi primi martiri che portarono il Vangelo nelle terre d’America, ad essere testimoni credibili dell’incommensurabile amore di Cristo, Via, Verità e Vita. Vescovi e sacerdoti, abusando della loro autorità, hanno commesso crimini orrendi a danno di loro fedeli, minori, vittime innocenti, giovani uomini desiderosi di offrire la loro vita alla Chiesa, o non hanno impedito con il loro silenzio che tali crimini continuassero ad essere perpetrati. Per restituire la bellezza della santità al volto della Sposa di Cristo, tremendamente sfigurato da tanti abominevoli delitti, se vogliamo veramente liberare la Chiesa dalla fetida palude in cui è caduta, dobbiamo avere il coraggio di abbattere la cultura del segreto e confessare pubblicamente le verità che abbiamo tenuto nascoste. Occorre abbattere l’omertà con cui vescovi e sacerdoti hanno protetto loro stessi a danno dei loro fedeli, omertà che agli occhi del mondo rischia di far apparire la Chiesa come una setta, omertà non tanto dissimile da quella che vige nella mafia. “Tutto quello che avete detto nelle tenebre… sarà proclamato sui tetti” (Lc. 12:3). Avevo sempre creduto e sperato che la gerarchia della Chiesa potesse trovare in se stessa le risorse spirituali e la forza per far emergere la verità, per emendarsi e rinnovarsi. Per questo motivo, anche se più volte sollecitato, avevo sempre evitato di fare dichiarazioni ai mezzi di comunicazione, anche quando sarebbe stato mio diritto farlo per difendermi dalle calunnie pubblicate sul mio conto anche da alti prelati della Curia romana. Ma ora che la corruzione è arrivata ai vertici della gerarchica della Chiesa la mia coscienza mi impone di rivelare quelle verità che con relazione al caso tristissimo dell’arcivescovo emerito di Washington Theodore McCarrick sono venuto a conoscenza nel corso degli incarichi che mi furono affidati, da S. Giovanni Paolo II come Delegato per le Rappresentanze Pontificie dal 1998 al 2009 e da Papa Benedetto XVI come Nunzio Apostolico negli Stati Uniti d’America dal 19 ottobre 2011 a fine maggio 2016. Come Delegato per le Rappresentanze Pontificie nella Segreteria di Stato, le mie competenze non erano limitate alle Nunziature Apostoliche, ma comprendevano anche il personale della Curia romana (assunzioni, promozioni, processi informativi su candidati all’episcopato, ecc.) e l’esame di casi delicati, anche di cardinali e vescovi, che venivano affidati al Delegato dal Cardinale Segretario di Stato o dal Sostituto della Segreteria di Stato. Per dissipare sospetti insinuati in alcuni articoli recenti, dirò subito che i Nunzi Apostolici negli Stati Uniti, Gabriel Montalvo e Pietro Sambi, ambedue deceduti prematuramente, non mancarono di informare immediatamente la Santa Sede non appena ebbero notizia dei comportamenti gravemente immorali con seminaristi e sacerdoti dell’arcivescovo McCarrick. Anzi, la lettera del P. Boniface Ramsey, O.P. del 22 novembre 2000, secondo quanto scrisse il Nunzio Pietro Sambi, fu da lui scritta a richiesta del compianto Nunzio Montalvo. In essa P. Ramsey, che era stato professore nel Seminario diocesano di Newark dalla fine degli anni ’80 fino al 1996, afferma che era voce ricorrente in seminario che l’arcivescovo “shared his bed with seminarians”, invitandone cinque alla volta a passare il fine settimana con lui nella sua casa al mare. Ed aggiungeva di conoscere un certo numero di seminaristi, di cui alcuni furono poi ordinati sacerdoti per l’arcidiocesi di Newark, che erano stati invitati a detta casa al mare ed avevano condiviso il letto con l’arcivescovo. L’ufficio che allora ricoprivo non fu portato a conoscenza di alcun provvedimento preso dalla Santa Sede dopo quella denuncia del Nunzio Montalvo alla fine del 2000, quando Segretario di Stato era il Card. Angelo Sodano. Parimenti, il Nunzio Sambi trasmise al Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone una Memoria di accusa contro McCarrick da parte del sacerdote Gregory Littleton della diocesi di Charlotte, ridotto allo stato laicale per violazione di minori, assieme a due documenti dello stesso Littleton, in cui raccontava la sua triste storia di abusi sessuali da parte dell’allora arcivescovo di Newark e di diversi altri preti e seminaristi. Il Nunzio aggiungeva che il Littleton aveva già inoltrato questa sua Memoria a circa una ventina di persone, fra autorità giudiziarie civili ed ecclesiastiche, di polizia ed avvocati, fin dal giugno 2006, e che era quindi molto probabile che la notizia venisse presto resa pubblica. Egli sollecitava pertanto un pronto intervento della Santa Sede. Nel redigere l’Appunto su questi documenti che come Delegato per le RR.PP. mi furono affidati il 6 dicembre 2006, scrissi per i miei superiori, il Card. Tarcisio Bertone e il Sostituto Leonardo Sandri, che i fatti attribuiti a McCarrick dal Littleton erano di tale gravità e nefandezza da provocare nel lettore sconcerto, senso di disgusto, profonda pena e amarezza e che essi configuravano i crimini di adescamento, sollecitazione ad atti turpi di seminaristi e sacerdoti, ripetuti e simultaneamente con più persone, dileggio di un giovane seminarista che cercava di resistere alle seduzioni dell’arcivescovo alla presenza di altri due sacerdoti, assoluzione del complice in atti turpi, celebrazione sacrilega dell’Eucaristia con i medesimi sacerdoti dopo aver commesso tali atti. In quel mio Appunto che consegnai quello stesso 6 dicembre 2006 al mio diretto superiore, il Sostituto Leonardo Sandri, proponevo ai miei superiori le seguenti considerazioni e linea d’azione:
Premesso che a tanti scandali nella Chiesa negli Stati Uniti, sembrava che se ne stesse per aggiungere uno di particolare gravità che riguardava un cardinale; e che in via di diritto, trattandosi di un cardinale, in base al can. 1405 § 1, n. 2˚, “ipsius Romani Pontificis dumtaxat ius est iudicandi”; proponevo che venisse preso nei confronti del cardinale un provvedimento esemplare che potesse avere una funzione medicinale, per prevenire futuri abusi nei confronti di vittime innocenti e lenire il gravissimo scandalo per i fedeli, che nonostante tutto continuavano ad amare e credere nella Chiesa. Aggiungevo che sarebbe stato salutare che per una volta l’Autorità ecclesiastica avesse ad intervenire prima di quella civile e se possibile prima che lo scandalo fosse scoppiato sulla stampa. Ciò avrebbe potuto restituire un po’ di dignità ad una Chiesa così provata ed umiliata per tanti abominevoli comportamenti da parte di alcuni pastori. In tal caso, l’Autorità civile non si sarebbe trovata più a dover giudicare un cardinale, ma un pastore verso cui la Chiesa aveva già preso opportuni provvedimenti, per impedire che il cardinale abusando della sua autorità continuasse a distruggere vittime innocenti. Quel mio Appunto del 6 dicembre 2006 fu trattenuto dai miei superiori e mai mi fu restituito con un’eventuale decisione superiore al riguardo. Successivamente, intorno al 21-23 aprile 2008, fu pubblicato in internet nel sito richardsipe.com lo Statement for Pope Benedict XVI about the pattern of sexual abuse crisis in the United States, di Richard Sipe. Esso fu trasmesso il 24 aprile dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Card. William Levada, al Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, e fu a me consegnato un mese dopo, il successivo 24 maggio 2008. Il giorno seguente consegnavo al nuovo Sostituto Fernando Filoni il mio Appunto, comprensivo del mio precedente del 6 dicembre 2006. In esso facevo una sintesi del documento di Richard Sipe, che terminava con questo rispettoso ed accorato appello a Papa Benedetto XVI: “I approach Your Holiness with due reverence, but with the same intensity that motivated Peter Damian to lay out before your predecessor, Pope Leo IX, a description of the condition of the clergy during his time. The problems he spoke of are similar and as great now in the United States as they were then in Rome. If Your Holiness requests I will submit to you personally documentation of that about which I have spoken”. Terminavo questo mio Appunto ripetendo ai miei superiori che ritenevo si dovesse intervenire quanto prima togliendo il cappello cardinalizio al Card. McCarrick e che gli fossero inflitte le sanzioni stabilite dal codice di diritto canonico, le quali prevedono anche la riduzione allo stato laicale. Anche questo secondo mio Appunto non fu mai restituito all’Ufficio del Personale e grande era il mio sconcerto nei confronti dei superiori per l’inconcepibile assenza di ogni provvedimento nei confronti del cardinale e per il perdurare della mancanza di ogni comunicazione nei miei riguardi fin da quel mio primo Appunto del dicembre 2006. Ma finalmente seppi con certezza, tramite il Card. Giovanni Battista Re, allora Prefetto della Congregazione per i Vescovi, che il coraggioso e meritevole Statement di Richard Sipe aveva avuto il risultato auspicato. Papa Benedetto aveva comminato al Card. McCarrick sanzioni simili a quelle ora inflittegli da Papa Francesco: il cardinale doveva lasciare il seminario in cui abitava, gli veniva proibito di celebrare in pubblico, di partecipare a pubbliche riunioni, di dare conferenze, di viaggiare, con obbligo di dedicarsi ad una vita di preghiera e di penitenza. Non mi è noto quando papa Benedetto abbia preso nei confronti di McCarrick questi provvedimenti, se nel 2009 o nel 2010, perché nel frattempo ero stato trasferito al Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, così come non mi è dato sapere chi sia stato responsabile di questo incredibile ritardo. Non credo certo papa Benedetto, il quale da Cardinale aveva già più volte denunciato la corruzione presente nella Chiesa, e nei primi mesi del suo pontificato aveva preso ferma posizione contro l’ammissione in seminario di giovani con profonde tendenze omosessuali. Ritengo che ciò fosse dovuto all’allora primo collaboratore del papa, Card. Tarcisio Bertone, notoriamente favorevole a promuovere omosessuali in posti di responsabilità, solito a gestire le informazioni che riteneva opportuno far pervenire al papa. In ogni caso, quello che è certo è che papa Benedetto inflisse a McCarrick le suddette sanzioni canoniche e che esse gli furono comunicate dal Nunzio Apostolico negli Stati Uniti Pietro Sambi. Mons. Jean-François Lantheaume, allora primo Consigliere della Nunziatura a Washington e Chargé d’Affaires a.i. dopo la morte inaspettata del Nunzio Sambi a Baltimora, mi riferì quando giunsi a Washington – ed egli è pronto a darne testimonianza – di un colloquio burrascoso, di oltre un’ora, del Nunzio Sambi con il Card. McCarrick convocato in Nunziatura: “la voce del Nunzio – mi disse Mons. Lantheaume – si sentiva fin nel corridoio.” Le medesime disposizioni di papa Benedetto furono poi comunicate anche a me dal nuovo Prefetto della Congregazione per i Vescovi, Card. Marc Ouellet, nel novembre 2011 in un colloquio prima della mia partenza per Washington fra le istruzioni della medesima Congregazione al nuovo nunzio. A mia volta le ribadii al Card. McCarrick al mio primo incontro con lui in Nunziatura. Il cardinale, farfugliando in modo appena comprensibile, ammise di aver forse commesso l’errore di aver dormito nello stesso letto con qualche seminarista nella sua casa al mare, ma me lo disse come se ciò non avesse alcuna importanza. I fedeli si chiedono insistentemente come sia stata possibile la sua nomina a Washington e a cardinale ed hanno pieno diritto di sapere chi era a conoscenza, chi ha coperto i suoi gravi misfatti. È perciò mio dovere rendere noto quanto so al riguardo, incominciando dalla Curia Romana. Il Card. Angelo Sodano è stato Segretario di Stato fino al settembre 2006: ogni informazione perveniva a lui. Nel novembre 2000 il Nunzio Montalvo inviò a lui il suo rapporto trasmettendogli la già citata lettera di P. Boniface Ramsey in cui denunciava i gravi abusi commessi da McCarrick. È noto che Sodano cercò di coprire fino all’ultimo lo scandalo del P. Maciel, rimosse persino il Nunzio a Città del Messico Justo Mullor che si rifiutava di essere complice delle sue manovre di copertura di Maciel ed al suo posto nominò Sandri, allora Nunzio in Venezuela, ben disposto invece a collaborare. Sodano giunse anche a far fare un comunicato alla sala stampa vaticana in cui si affermava il falso, che cioè Papa Benedetto aveva deciso che il caso Maciel doveva ormai considerarsi chiuso. Benedetto reagì, nonostante la strenua difesa da parte di Sodano, e Maciel, fu giudicato colpevole e irrevocabilmente condannato. Fu la nomina a Washington e a cardinale di McCarrick opera di Sodano, quando Giovanni Paolo II era già molto malato? Non ci è dato saperlo. È però lecito pensarlo, ma non credo che sia stato il solo responsabile. McCarrick andava con molta frequenza a Roma e si era fatto amici dappertutto, a tutti i livelli della Curia. Se Sodano aveva protetto Maciel, come appare sicuro – non si vede perché non lo avrebbe fatto per McCarrick, che a detta di molti aveva i mezzi anche finanziari per influenzare le decisioni. Alla sua nomina a Washington si era invece opposto l’allora Prefetto della Congregazione per i Vescovi, Card. Giovanni Battista Re. Alla Nunziatura di Washington c’è un biglietto, scritto di suo pugno, in cui il Card. Re si dissocia da detta nomina e afferma che McCarrick era il 14mo nella lista per la provvista di Washington. Al Card. Tarcisio Bertone, come Segretario di Stato, fu indirizzato il rapporto del Nunzio Sambi, con tutti gli allegati, e a lui furono presumibilmente consegnati dal Sostituto i miei due sopra citati Appunti del 6 dicembre 2006 e del 25 maggio 2008. Come già accennato, il cardinale non aveva difficoltà a presentare insistentemente per l’episcopato candidati notoriamente omosessuali attivi – cito solo il noto caso di Vincenzo di Mauro, nominato Arcivescovo-Vescovo di Vigevano, poi rimosso perché insidiava i suoi seminaristi – e a filtrare e manipolare le informazioni che faceva pervenire a papa Benedetto. Il Card. Pietro Parolin, attuale Segretario di Stato, si è reso anch’egli complice di aver coperto i misfatti di McCarrick, il quale dopo l’elezione di papa Francesco si vantava apertamente dei suoi viaggi e missioni in vari continenti. Nell’aprile 2014 il Washington Times aveva riferito in prima pagina di un viaggio di McCarrick nella Repubblica Centroafricana, per giunta a nome del Dipartimento di Stato. Come Nunzio a Washington, scrissi perciò al Card. Parolin chiedendogli se erano ancora valide le sanzioni comminate a McCarrick da papa Benedetto. Ça va sans dire che la mia lettera non ebbe mai alcuna risposta! Lo stesso si dica per il Card. William Levada, già Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e per i Cardinali Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, eLorenzo Baldisseri, già Segretario della medesima Congregazione per i Vescovi, e l’Arcivescovo Ilson de Jesus Montanari, attuale Segretario della medesima Congregazione. Essi in ragione del loro ufficio erano al corrente delle sanzioni imposte da papa Benedetto a McCarrick. I Cardinali Leonardo Sandri, Fernado Filoni e Angelo Becciu, come Sostituti della Segreteria di Stato, hanno saputo in tutti i particolari la situazione del Card. McCarrick. Così pure non potevano non sapere i Cardinali Giovanni Lajolo e Dominique Mamberti, checome Segretari per i Rapporti con gli Stati, partecipavano più volte alla settimana a riunioni collegiali con il Segretario di Stato. Per quanto riguarda la Curia Romana per ora mi fermo qui, anche se sono ben noti i nomi di altri prelati in Vaticano, anche molto vicini a papa Francesco, come il Card. Francesco Coccopalmerio e l’Arcivescovo Vincenzo Paglia, che appartengono alla corrente filo omossessuale favorevole a sovvertire la dottrina cattolica a riguardo dell’omosessualità, corrente già denunciata fin dal 1986 dal Card. Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali. Alla medesima corrente, seppur con una ideologia diversa, appartengono anche i Cardinali Edwin Frederick O’Brien e Renato Raffaele Martino. Altri poi, appartenenti a detta corrente, risiedono persino alla Domus Sanctae Marthae. Vengo ora agli Stati Uniti. Ovviamente, il primo ad essere stato informato dei provvedimenti presi da papa Benedetto fu il successore di McCarrick alla sede di Washington, il Card. Donald Wuerl, la cui situazione è ora del tutto compromessa dalle recenti rivelazioni sul suo comportamento come vescovo di Pittsburgh. È assolutamente impensabile che il Nunzio Sambi, persona altamente responsabile, leale, diretto ed esplicito nel suo modo di essere da vero romagnolo, non gliene abbia parlato. In ogni caso, io stesso venni in più occasioni sull’argomento con il Card. Wuerl, e non ci fu certo bisogno che entrassi in particolari perché mi fu subito evidente che ne era pienamente al corrente. Ricordo poi in particolare il fatto che dovetti richiamare la sua attenzione perché mi accorsi che in una pubblicazione dell’arcidiocesi, sulla copertina posteriore a colori, veniva annunciato un invito ai giovani che ritenevano di avere la vocazione al sacerdozio ad un incontro con il Card. McCarrick. Telefonai subito al Card. Wuerl, che mi manifestò la sua meraviglia, dicendomi che non sapeva nulla di quell’annuncio e che avrebbe provveduto ad annullare detto incontro. Se come ora continua ad affermare non sapeva nulla degli abusi commessi da McCarrick e dei provvedimenti presi da papa Benedetto come si spiega la sua risposta? Le sue recenti dichiarazioni in cui afferma di non aver nulla saputo, anche se all’inizio furbescamente riferite ai risarcimenti alle due vittime, sono assolutamente risibili. Il cardinale mente spudoratamente e per di più induce a mentire anche il suo Cancelliere, Mons. Antonicelli. Del resto già in altra occasione il Card. Wuerl aveva chiaramente mentito. A seguito di un evento moralmente inaccettabile autorizzato dalle autorità accademiche della Georgetown University, avevo richiamato l’attenzione del suo Presidente Dr. John DeGioia, indirizzandogli due successive lettere. Prima di inoltrarle al destinatario, per correttezza, ne consegnai personalmente copia al cardinale con una mia lettera di accompagnamento. Il cardinale mi disse che non ne era al corrente. Si guardò bene però di accusare ricevimento delle mie due lettere, contrariamente a quanto puntualmente era solito fare. Poi seppi che detto evento alla Georgetown aveva avuto luogo da sette anni. Ma il cardinale non ne sapeva nulla! Il Card. Wuerl inoltre, ben sapendo dei continui abusi commessi dal Card. McCarrick e delle sanzioni impostegli da papa Benedetto, trasgredendo l’ordine del papa, gli permise di risiedere in un seminario in Washington D.C. Mise così a rischio altri seminaristi. Il Vescovo Paul Bootkoski, emerito di Metuchen, e l’Arcivescovo John Myers, emerito di Newark, coprirono gli abusi commessi da McCarrick nelle loro rispettive diocesi e risarcirono due delle sue vittime. Non possono negarlo e devono essere interrogati perché rivelino ogni circostanza e responsabilità al riguardo. Il Card. Kevin Farrell, intervistato recentemente dai media, ha anch’egli affermato di non avere avuto il minimo sentore degli abusi commessi da McCarrick. Tenuto conto del suo curriculum a Washington, a Dallas e ora a Roma, credo che nessuno possa onestamente credergli. Non so se gli sia mai stato chiesto se sapeva dei crimini di Maciel. Se dovesse negarlo, qualcuno forse gli crederebbe atteso che egli ha occupato compiti di responsabilità come membro dei Legionari di Cristo? Del Card. Sean O’Malley mi limito a dire che le sue ultime dichiarazioni sul caso McCarrick sono sconcertanti, anzi hanno oscurato totalmente la sua trasparenza e credibilità.
La mia coscienza mi impone poi di rivelare fatti che ho vissuto in prima persona, riguardanti papa Francesco, che hanno una valenza drammatica, che come vescovo, condividendo la responsabilità collegiale di tutti i vescovi verso la Chiesa universale, non mi permettono di tacere, e che qui affermo, disposto a confermarli sotto giuramento chiamando Dio come mio testimone. Negli ultimi mesi del suo pontificato papa Benedetto XVI aveva convocato a Roma una riunione di tutti i Nunzi Apostolici, come avevano già fatto Paolo VI e S. Giovanni Paolo II in più occasioni. La data fissata per l’Udienza con il Papa era venerdì 21 giugno 2013. Papa Francesco mantenne questo impegno preso dal suo predecessore. Naturalmente anch’io venni a Roma da Washington. Si trattava del mio primo incontro con il nuovo papa eletto solo tre mesi prima dopo la rinuncia di papa Benedetto. La mattina di giovedì 20 giugno 2013 mi recai alla Domus Sanctae Marthae, per unirmi ai miei colleghi che erano ivi alloggiatati. Appena entrato nella hall mi incontrai con il Card. McCarrick, che indossava la veste filettata. Lo salutai con rispetto come sempre avevo fatto. Egli mi disse immediatamente con un tono fra l’ambiguo e il trionfante: “Il Papa mi ha ricevuto ieri, domani vado in Cina”. Allora nulla sapevo della sua lunga amicizia con il Card. Bergoglio e della parte di rilievo che aveva giocato per la sua recente elezione, come lo stesso McCarrick avrebbe successivamente rivelato in una conferenza alla Villanova University ed in un’intervista al Catholic National Reporter, né avevo mai pensato al fatto che aveva partecipato agli incontri preliminari del recente conclave, e al ruolo che aveva potuto avere come elettore in quello del 2005. Non colsi perciò immediatamente il significato del messaggio criptato che McCarrick mi aveva comunicato, ma che mi sarebbe diventato evidente nei giorni immediatamente successivi. Il giorno dopo ebbe luogo l’Udienza con papa Francesco. Dopo il discorso, in parte letto e in parte pronunciato a braccio, il papa volle salutare uno ad uno tutti i Nunzi. In fila indiana, ricordo che io rimasi fra gli ultimi. Quando fu il mio turno, ebbi appena il tempo di dirgli “sono il Nunzio negli Stati Uniti”, che senza alcun preambolo mi investì con tono di rimprovero con queste parole: “I Vescovi negli Stati Uniti non devono essere ideologizzati! Devono essere dei pastori!” Naturalmente non ero in condizione di chiedere spiegazioni sul significato delle sue parole e per il modo aggressivo con cui mi aveva apostrofato. Avevo in mano un libro in portoghese che il Card. O’Malley mi aveva consegnato per il papa qualche giorno prima, dicendomi “così ripassa il portoghese prima di andare a Rio per la Giornata Mondiale della Gioventù”. Glielo consegnai subito liberandomi così da quella situazione estremamente sconcertante e imbarazzante. Al termine dell’Udienza il papa annunziò: “Chi di voi domenica prossima è ancora a Roma è invitato a concelebrare con me alla Domus Sanctae Marthae”. Io naturalmente pensai di restare per chiarire quanto prima cosa il papa aveva inteso dirmi. Domenica 23 giugno, prima della concelebrazione con il papa, chiesi a Mons. Ricca, che come responsabile della casa ci aiutava ad indossare i paramenti, se poteva chiedere al papa se nel corso della settimana seguente avrebbe potuto ricevermi. Come avrei potuto ritornare a Washington senza aver chiarito ciò che il papa voleva da me? Terminata la Messa, mentre il papa salutava i pochi laici presenti, Mons. Fabian Pedacchio, il suo segretario argentino, venne da me e mi disse: “Il papa mi ha detto di chiederle se lei è libero adesso!” Naturalmente gli risposi che ero a disposizione del papa e che lo ringraziavo per ricevermi subito. Il papa mi condusse al primo piano nel suo appartamento e mi disse: “Abbiamo 40 minuti prima dell’Angelus”. Iniziai io la conversazione, chiedendo al papa che cosa avesse inteso dirmi con le parole che mi aveva rivolto quando l’avevo salutato il venerdì precedente. Ed il papa, con un tono ben diverso, amichevole, quasi affettuoso, mi disse: “Sì, i Vescovi negli Stati Uniti non devono essere ideologizzati, non devono essere di destra come l’arcivescovo di Filadelfia, (il papa non mi fece il nome dell’arcivescovo) devono essere dei pastori; e non devono essere di sinistra – ed aggiunse, alzando tutte e due le braccia – e quando dico di sinistra intendo dire omosessuali”. Naturalmente mi sfuggì la logica della correlazione fra essere di sinistra e essere omosessuali, ma non aggiunsi altro. Subito dopo il papa mi chiese con tono accattivante: “Il card. McCarrick com’è?” Io gli risposi con tutta franchezza e se volete con tanta ingenuità: “Santo Padre, non so se lei conosce il card. McCarrick, ma se chiede alla Congregazione per i Vescovi c’è un dossier grande così su di lui. Ha corrotto generazioni di seminaristi e di sacerdoti e papa Benedetto gli ha imposto di ritirarsi ad una vita di preghiera e di penitenza”. Il papa non fece il minimo commento a quelle mie parole tanto gravi e non mostrò sul suo volto alcuna espressione di sorpresa, come se la cosa gli fosse già nota da tempo, e cambiò subito di argomento. Ma allora, con quale finalità il papa mi aveva posto quella domanda: “Il card. McCarrick com’è?”. Evidentemente voleva accertarsi se ero alleato di McCarrick o no. Rientrato a Washington tutto mi divenne molto chiaro, grazie anche ad un nuovo fatto accaduto solo pochi giorni dopo il mio incontro con papa Francesco. Alla presa di possesso della diocesi di El Paso da parte del nuovo vescovo Mark Seitz il 9 luglio 2013 inviai il primo Consigliere, Mons. Jean-François Lantheaume, mentre io quel medesimo giorno andai a Dallas per un incontro internazionale di Bioetica. Di ritorno, Mons. Lantheaume mi riferì che a El Paso aveva incontrato il Card. McCarrick, il quale, presolo in disparte, gli aveva detto quasi le stesse parole che il papa aveva detto a me a Roma: “I Vescovi negli Stati Uniti non devono essere ideologizzati, non devono essere di destra, devono essere dei pastori…”. Rimasi esterrefatto! Era perciò chiaro che le parole di rimprovero che papa Francesco mi aveva rivolto quel 21 giugno 2013 gli erano state messe in bocca il giorno prima dal card. McCarrick. Anche la menzione da parte del papa “non come l’arcivescovo di Filadelfia” conduceva a McCarrick, perché fra i due c’era stato un forte diverbio a riguardo dell’ammissione alla comunione dei politici favorevoli all’aborto: McCarrick aveva manipolato nella sua comunicazione ai vescovi una lettera dell’allora Card. Ratzinger che proibiva di dare loro la comunione. Di fatto poi sapevo quanto certi cardinali come Mahony, Levada e Wuerl, fossero strettamente legati a McCarrick, avessero osteggiato le nomine più recenti fatte da papa Benedetto, per sedi importanti come Filadelfia, Baltimora, Denver e San Francisco. Non contento della trappola che mi ha aveva teso in 23 giugno 2013 chiedendomi di McCarrick, solo qualche mese dopo, nell’udienza che mi concesse il 10 ottobre 2013, papa Francesco me ne pose una seconda, questa volta a riguardo di un suo secondo protetto, il Card. Donald Wuerl. Mi chiese: “Il Card. Wuerl com’è, buono o cattivo?” “Santo Padre – gli risposi – non le dirò se è buono o cattivo, ma le riferirò due fatti”. Sono quelli a cui ho già sopra accennato, che riguardano la noncuranza pastorale di Wuerl per le deviazioni aberranti alla George Town University e l’invito da parte dell’arcidiocesi di Washington a giovani aspiranti al sacerdozio ad un incontro con McCarrick! Anche questa seconda volta il papa non manifestò alcuna reazione. Era poi evidente che a partire dalla elezione di papa Francesco McCarrick, ormai sciolto da ogni costrizione, si era sentito libero di viaggiare continuamente, di dare conferenze e interviste. In un gioco di squadra con il Card. Rodriguez Maradiaga era diventato il kingmaker per le nomine in Curia e negli Stati Uniti ed il consigliere più ascoltato in Vaticano per i rapporti con l’amministrazione Obama. Così si spiega che come membri della Congregazione per i Vescovi il papa sostituì il Card. Burke con Wuerl e vi nominò immediatamente Cupich fatto subito cardinale. Con tali nomine la Nunziatura a Washington era ormai fuori gioco per la nomina dei vescovi. Per giunta, nominò il brasiliano Ilson de Jesus Montanari – il grande amico del suo segretario privato argentino Fabian Pedacchio – Segretario della medesima Congregazione per i Vescovi e Segretario del Collegio dei Cardinali, promuovendolo in un sol balzo da semplice officiale di quel dicastero ad Arcivescovo Segretario. Cosa mai vista per un incarico così importante! Le nomine di Blaise Cupich a Chicago e di William Tobin a Newark sono state orchestrate da McCarrick, Maradiaga e Wuerl, uniti da un patto scellerato di abusi del primo e quantomeno di coperture di abusi da parte degli altri due. I loro nominativi non figuravano fra quelli presentati dalla Nunziatura per Chicago e per Newark. Di Cupich non può certo sfuggire l’ostentata arroganza e sfrontatezza nel negare l’evidenza ormai palese a tutti: che cioè l’80% degli abusi riscontrati è stato nei confronti di giovani adulti da parte di omosessuali in rapporto di autorità verso le loro vittime. Nel discorso che fece alla presa di possesso della sede di Chicago, a cui ero presente come rappresentante del papa, Cupich disse, come battuta di spirito, che certo non ci si doveva aspettare dal nuovo arcivescovo che camminasse sulle acque. Sarebbe forse sufficiente che fosse capace di restare con i piedi per terra e che non cercasse di capovolgere la realtà, accecato dalla sua ideologia pro gay, come ha affermato in una recente intervista ad America. Ostentando la sua particolare competenza in materia essendo stato Presidente del Committee on Protection of Children and Young People della USCCB, ha asserito che il problema principale nella crisi degli abusi sessuali da parte del clero non è l’omosessualità e che affermarlo è solo un modo per distogliere l’attenzione dal vero problema che è il clericalismo. A sostegno di questa sua tesi, Cupich ha fatto “stranamente” riferimento ai risultati di una ricerca fatta nell’apice della crisi di abusi sessuali nei confronti di minori dell’inizio degli anni 2000, mentre ha ignorato “candidamente” che i risultati di quell’indagine furono totalmente smentiti dai successivi Rapporti indipendenti del John Jay College of Criminal Justice del 2004 e del 2011, in cui si concludeva che nei casi di abusi sessuali l’81% delle vittime erano maschi. Infatti, P. Hans Zollner, S.J., Vice-Rettore della Pontificia Università Gregoriana, presidente del Centre for Child Protection, Membro della Pontificia Commissione per la Protezione dei minori, ha recentemente dichiarato al giornale La Stampa, che “nella maggior parte dei casi si tratta di abusi omosessuali”. Anche la nomina poi di McElroy a San Diego fu pilotata dall’alto, con un ordine perentorio cifrato, a me come Nunzio, dal Card. Parolin: “Riservi la sede di San Diego per McElroy”. Anche McElroy ben sapeva degli abusi commessi da McCarrick, come risulta da una lettera indirizzatagli da Richard Sipe il 28 luglio 2016. A questi personaggi sono strettamente associati individui appartenenti in particolare all’ala deviata della Compagnia di Gesù, purtroppo oggi maggioritaria, che già era stata motivo di gravi preoccupazioni per Paolo VI e per i successivi pontefici. Basti solo pensare a P. Robert Drinan, S.J., eletto quattro volte alla Camera dei Rappresentanti, accanito sostenitore dell’aborto, o a P. Vincent O’Keefe, S.J., fra i principali promotori del documento The Land O’ Lakes Statement del 1967, che ha gravemente compromesso l’identità cattolica delle Università e dei Collegi negli Stati Uniti. Si noti che anche McCarrick, allora Presidente dell’Università cattolica del Portorico, partecipò a quell’infausta impresa così deleteria per la formazione delle coscienze della gioventù americana, strettamente associato com’era all’ala deviata dei Gesuiti. P. James Martin, S.J., osannato dai personaggi sopra menzionati, in particolare da Cupich, Tobin, Farrell e McEnroy, nominato Consultore del Dicastero per le Comunicazioni, noto attivista che promuove l’agenda Lgbt, prescelto per corrompere i giovani che si raduneranno prossimamente a Dublino per l’Incontro mondiale delle Famiglie, non è se non un triste recente esemplare di quell’ala deviata della Compagnia di Gesù. Papa Francesco ha chiesto più volte totale trasparenza nella Chiesa e a vescovi e fedeli di agire con parresia. I fedeli di tutto il mondo la esigono anche da lui in modo esemplare. Dica da quando ha saputo dei crimini commessi da McCarrick abusando della sua autorità con seminaristi e sacerdoti. In ogni caso, il papa lo ha saputo da me il 23 giugno 2013 ed ha continuato a coprirlo, non ha tenuto conto delle sanzioni che gli aveva imposto papa Benedetto e ne ha fatto il suo fidato consigliere insieme con Maradiaga. Quest’ultimo si sente così sicuro della protezione del papa che può cestinare come “pettegolezzi” gli appelli accorati di decine di suoi seminaristi, che trovarono il coraggio di scrivergli dopo che uno di loro aveva cercato di suicidarsi per gli abusi omosessuali nel seminario. Ormai i fedeli hanno ben capito la strategia di Maradiaga: insultare le vittime per salvare se stesso, mentire ad oltranza per coprire una voragine di abusi di potere, di cattiva gestione nell’amministrazione dei beni della Chiesa, di disastri finanziari anche nei confronti di intimi amici, come nel caso dell’ambasciatore dell’Honduras Alejandro Valladares, già Decano del Corpo Diplomatico presso la Santa Sede. Nel caso del già vescovo ausiliare Juan José Pineda, dopo l’articolo apparso sul settimanale L’Espresso nel febbraio scorso, Maradiaga aveva dichiarato al giornale Avvenire: «È stato il mio vescovo ausiliare Pineda a chiedere la visita, in modo da “pulire” il suo nome a seguito di molte calunnie di cui è stato oggetto». Ora, di Pineda si è pubblicato unicamente che le sue dimissioni sono state semplicemente accettate, facendo così sparire nel nulla qualsiasi eventuale responsabilità sua e di Maradiaga. In nome della trasparenza dal papa tanto conclamata, si renda pubblico il rapporto che il Visitatore, il vescovo argentino Alcides Casaretto, ha consegnato più di un anno fa solo e direttamente al papa. Infine, anche la recente nomina a Sostituto dell’Arcivescovo Edgar Peña Parra ha una connessione con l’Honduras, cioè con Maradiaga. Peña Parra infatti dal 2003 al 2007 ha prestato servizio presso la Nunziatura di Tegucigalpa in qualità di Consigliere. Come Delegato per le RR.PP. mi erano pervenute informazioni preoccupanti a suo riguardo. In Honduras si sta per ripetere uno scandalo immane come quello in Cile. Il papa difende ad oltranza il suo uomo, il Card. Rodriguez Maradiaga, come aveva fatto in Cile con il vescovo Juan de la Cruz Barros, che lui stesso aveva nominato vescovo di Osorno, contro il parere dei vescovi cileni. Prima ha insultato le vittime degli abusi, poi solo quando vi è stato costretto dal clamore dei media, dalla rivolta delle vittime e dei fedeli cileni ha riconosciuto il suo errore e si è scusato, pur affermando che era stato mal informato, provocando una situazione disastrosa nella Chiesa in Cile, ma continuando a proteggere i due cardinali cileni Errazuriz e Ezzati. Anche nella triste vicenda di McCarrick, il comportamento di papa Francesco non è stato diverso. Sapeva perlomeno dal 23 giugno 2013 che McCarrick era un predatore seriale. Pur sapendo che era un corrotto, lo ha coperto ad oltranza, anzi ha fatto suoi i suoi consigli non certo ispirati da sane intenzioni e da amore per la Chiesa. Solo quando vi è stato costretto dalla denuncia di un abuso di un minore, sempre in funzione del plauso dei media, ha preso provvedimenti nei suoi confronti per salvare la sua immagine mediatica. Ora negli Stati Uniti è un coro che si leva specialmente dai fedeli laici, a cui ultimamente si sono uniti alcuni vescovi e sacerdoti, che chiedono che tutti quelli che hanno coperto con il loro silenzio il comportamento criminale di McCarrick o che si sono serviti di lui per fare carriera o promuovere i loro intenti, ambizioni e il loro potere nella Chiesa si devono dimettere. Ma ciò non sarà sufficiente per sanare la situazione di gravissimi comportamenti immorali da parte del clero, vescovi e sacerdoti. Occorre proclamare un tempo di conversione e di penitenza. Occorre ricuperare nel clero e nei seminari la virtù della castità. Occorre lottare contro la corruzione dell’uso improprio delle risorse della Chiesa e delle offerte dei fedeli. Occorre denunciare la gravità della condotta omosessuale. Occorre sradicare le reti di omosessuali esistenti nella Chiesa, come ha recentemente scritto Janet Smith, Professoressa di Teologia Morale nel Sacred Heart Major Seminary di Detroit. “Il problema degli abusi del clero – ha scritto – non potrà essere risolto semplicemente con le dimissioni di alcuni vescovi, né tanto meno con nuove direttive burocratiche. Il centro del problema sta nelle reti omosessuali nel clero che devono essere sradicate”. Queste reti di omosessuali, ormai diffuse in molte diocesi, seminari, ordini religiosi, ecc., agiscono coperte dal segreto e dalla menzogna con la potenza dei tentacoli di una piovra e stritolano vittime innocenti, vocazioni sacerdotali e stanno strangolando l’intera Chiesa. Imploro tutti, in particolare i Vescovi, a rompere il silenzio per sconfiggere questa cultura di omertà così diffusa, a denunciare ai media ed alle autorità civili i casi di abusi di cui sono a conoscenza. Ascoltiamo il messaggio più potente che ci ha lasciato in eredità S. Giovanni Paolo II: Non abbiate paura! Non abbiate paura! Papa Benedetto nell’omelia dell’Epifania del 2008 ci ricordava che il disegno di salvezza del Padre si è pienamente rivelato e realizzato nel mistero della morte e risurrezione di Cristo, ma richiede di essere accolto dalla storia umana, che rimane sempre storia di fedeltà da parte di Dio e purtroppo anche di infedeltà da parte di noi uomini. La Chiesa, depositaria della benedizione della Nuova Alleanza, siglata nel sangue dell’Agnello, è santa ma composta di peccatori, come scrisse Sant’Ambrogio: la Chiesa è “immaculata ex maculatis”, è santa e senza macchia pur essendo composta nel suo itinerario terreno da uomini macchiati di peccato. Voglio ricordare questa verità indefettibile della santità della Chiesa ai tanti che sono rimasti così profondamente scandalizzati dagli abominevoli e sacrileghi comportamenti del già arcivescovo di Washington, Theodore McCarrick, dalla grave, sconcertante e peccaminosa condotta di papa Francesco e dall’omertà di tanti pastori, e che sono tentati di abbandonare la Chiesa deturpata da tante ignominie. Papa Francesco all’Angelus di domenica 12 agosto 2018 ha pronunciato queste parole: “Ognuno è colpevole del bene che poteva fare e non ha fatto… Se non ci opponiamo al male, lo alimentiamo in modo tacito. È necessario intervenire dove il male si diffonde; perché il male si diffonde dove mancano cristiani audaci che si oppongono con il bene”. Se questa giustamente è da considerarsi una grave responsabilità morale per ogni fedele, quanto più grave lo è per il supremo pastore della Chiesa, il quale nel caso di McCarrick non solo non si è opposto al male ma si è associato nel compiere il male con chi sapeva essere profondamente corrotto, ha seguito i consigli di chi ben sapeva essere un perverso, moltiplicando così in modo esponenziale con la sua suprema autorità il male operato da McCarrick. E quanti altri cattivi pastori Francesco sta ancora continuando ad appoggiare nella loro azione di distruzione della Chiesa! Francesco sta abdicando al mandato che Cristo diede a Pietro di confermare i fratelli. Anzi con la sua azione li ha divisi, li induce in errore, incoraggia i lupi nel continuare a dilaniare le pecore del gregge di Cristo. In questo momento estremamente drammatico per la Chiesa universale riconosca i suoi errori e in coerenza con il conclamato principio di tolleranza zero, papa Francesco sia il primo a dare il buon esempio a Cardinali e Vescovi che hanno coperto gli abusi di McCarrick e si dimetta insieme a tutti loro. Seppur nello sconcerto e nella tristezza per l’enormità di quanto sta accadendo, non perdiamo la speranza! Ben sappiamo che la grande maggioranza dei nostri pastori vivono con fedeltà e dedizione la loro vocazione sacerdotale. È nei momenti di grande prova che la grazia del Signore si rivela sovrabbondante e mette la sua misericordia senza limiti a disposizione di tutti; ma è concessa solo a chi è veramente pentito e propone sinceramente di emendarsi. Questo è il tempo opportuno per la Chiesa, per confessare i propri peccati, per convertirsi e fare penitenza. Preghiamo tutti per la Chiesa e per il papa, ricordiamoci di quante volte ci ha chiesto di pregare per lui! Rinnoviamo tutti la fede nella Chiesa nostra madre: “Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica!” Cristo non abbandonerà mai la sua Chiesa! L’ha generata nel suo sangue e la rianima continuamente con il suo Spirito! Maria, Madre della Chiesa, prega per noi! Maria Vergine Regina, Madre del Re della gloria, prega per noi! Roma, 22 Agosto 2018. Beata Maria Vergine Regina (28 agosto 2018)
La guerra a Bergoglio. Il siluro di Ratzinger apre ufficialmente la guerra a Francesco, scrive Piero Sansonetti il 23 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Un ex papa che indirizza un siluro micidiale contro il suo successore non si e era mai visto (anche perché, in verità, non si erano mai visti ex papi…). La decisione di Joseph Ratzinger di compiere un gesto clamoroso e aperto di ostilità verso Francesco lascia abbastanza stupiti. Ma suggerisce anche alcune riflessioni. Stupiti perché magari uno non si aspetta la freccia avvelenata dal rappresentante (o, comunque, ex rappresentante…) di Dio in terra. Deve essere complicato, per un cattolico, immaginare come possa una persona scelta e ispirata dallo Spirito Santo – cioè dalla bontà celeste – compiere un gesto oggettivamente perfido come quello compiuto da Benedetto XVI. Gli hanno chiesto di scrivere una introduzione a un libro su Francesco, lui poteva tranquillamente rispondere di no, punto e basta. Non sarebbe successo niente. Ma accettare l’incarico, poi scrivere con feroce malizia di non avere avuto tempo di leggere il libro, e infine vergare parole al veleno contro uno degli autori… beh sembra un gioco dettato molto più dall’astio che da Dio. Dopodiché il Vaticano ha fatto un pasticcio e ha censurato Ratzinger. E a quel punto l’ex papa ci ha messo il carico da 11, innalzando ancora il livello di cattiveria nello scontro, e vendicandosi nel modo in cui in genere fanno i politici o i Pm: pas- sando le carte a qualche giornalista amico e facendo scoppiare lo scandalo. Fin qui lo stupore. Diceva Andreotti, che di Vaticano se ne intendeva assai, «a pensare male si fa peccato ma in genere ci si azzecca…». Poi c’è la riflessione, e nella riflessione lasciamo da parte le ironie e gli sberleffi. Dunque Ratzinger, in modo abbastanza esplicito, ha aperto le porte al piccolo e battagliero esercito, interno alle gerarchie ecclesiastiche, che è in guerra aperta con il papa. La guerra, come tutte le guerre, riguarda naturalmente il potere e la suddivisione del potere, però riguarda anche alcune grandi scelte ideali. E questa guerra, combattutissima dentro la Chiesa e dentro le gerarchie, si è largamente estesa a pezzi ampi di società. Alla politica, dell’intellettualità, soprattutto al giornalismo. A questo punto ci interessa limitatamente la questione del potere nella Chiesa. Ci interessano di più, perché riguardano tutti – anche il pezzo di società dei non credenti (della quale, peraltro faccio parte) – le idee di fondo che sono al centro di questa guerra. Papa Francesco ha portato dentro la Chiesa e dentro il suo magistero una vera e propria rivoluzione. Ha rovesciato senza tanti indugi gli atteggiamenti del suo predecessore, e anche in gran parte i suoi punti di vista. Ha trasformato la dottrina della Chiesa da dottrina fondamentalmente conservatrice (come era diventata da subito dopo la conclusione del Concilio, diciamo più o meno dalla fine degli anni sessanta) a dottrina liberale e di progresso. Ha accentuato la parte antiliberista del pensiero di Wojtyla, gettando a mare però tutto l’apparato fideistico, tradizionalista e liturgico di Giovanni Paolo II. Ha inventato un modello di Chiesa molto sociale, costruita sul valore assoluto della carità e della fratellanza (ispirandosi a San Paolo), e che mette in secondo piano l’importanza della fede, i riti, le gerarchie, gli autoritarismi. Ha immaginato, e sta provando a costruire, una Chiesa che sia il punto di riferimento per un pezzo di società laica, e anche non credente, liberale, democratica e che considera la solidarietà e l’aspirazione all’uguaglianza come le bussole per la politica. Vi pare poco? Beh, in nessun caso sarebbe poco, un’impresa di questo genere. Diventa davvero un’impresa titanica se viene messa in moto, in Occidente, in un momento storico caratterizzato dal dilagare, nello spirito pubblico, del populismo, del nazionalismo, del giustizialismo, ma anche della meritocrazia e del mercatismo. Cioè tutto il contrario del bagaglio ideale e spirituale che il papa getta nella mischia. Con la consapevolezza di compiere una scelta minoritaria, quasi di elite, e cioè una scelta in contrasto con un pezzo grandissimo della storia della Chiesa (che, di solito, ama lo stare in maggioranza). C’è una obiezione, che spesso mi sento fare. Questa: come fai a sostenere che il papa è nemico del populismo, visto che lui stesso ha un’origine culturale e persino religiosa di chiaro stampo populista, o addirittura peronista? La domanda, naturalmente non è infondata. Il fatto è che il populismo di oggi – sostanzialmente nazionalista, xenofobo e legalitario – ha pochissimo a che fare col populismo peronista dal quale proviene Bergoglio. Il peronismo di Bergoglio è in modo evidente un peronismo rivoluzionario. Il populismo che sta dominando l’Europa è di carattere reazionario. Il peronismo di Bergoglio è fortemente cristiano, affonda le radici sull’essenziale del vangelo. Il populismo moderno è completamente pagano, anticristiano, cresciuto nella negazione orgogliosa della solidarietà, della diversità, e nel rifiuto degli ultimi. Ho scritto queste cose per sostenere un concetto molto semplice: la lotta tra bergogliani e anti bergogliani (nella quale ha deciso di scendere anche Ratzinger) non è una semplice guerra civile interna alla Chiesa. E’ il fronteggiarsi tra due idee di modernità, opposte e difficilmente conciliabili, che con il passare dei prossimi anni finiranno per giungere alla resa dei conti finale. Sarà difficile assumere posizioni intermedie. Bisognerà scegliere. La modernità è solidarietà e diritti, o invece la modernità è merito e mercato? Ciascuno di noi dovrà rispondere, compiendo una scelta non solo di fede. E in questa scelta la Chiesa avrà un peso grande. Bisognerà vedere se resterà la Chiesa di Bergoglio o tornerà ad essere la Chiesa di Ratzinger.
Il Papa contro i “cani selvaggi”, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 5 settembre 2018. No, Santità, un Papa non può chiamare “cani selvaggi” il prossimo, soprattutto quando si tratta di cattolici, cristiani, credenti. Cani è la definizione spregiativa che gli islamici danno degli infedeli e dei cristiani. Perfino i più spietati terroristi furono definiti dai pontefici che hanno preceduto Francesco, “uomini delle Brigate rosse”, uomini dell’Isis. Mai cani. Scendere a quei livelli livorosi non è degno di un Santo Padre. Il silenzio e la preghiera erano le risposte più dignitose. Per carità, non facciamo le anime belle. Sappiamo che verminaio c’è negli intestini della curia e nei bassifondi della Chiesa. Il racket della pedofilia, come la lobby gay a cui lo stesso Bergoglio una volta accennò, sono solo alcuni dei lati oscuri della Chiesa. Quella pedofilia di cui sconcertano le proporzioni, la collegialità, la complicità reciproca, prima che i suoi singoli e frequentissimi episodi. Ma oltre quei giri torbidi che riguardano la sfera sessuale ce ne sono almeno altri due: uno incentrato sul malaffare e l’altro sulla guerra senza esclusione di colpi per conquistare ruoli di potere clericale. Giri che non nascono certo con Papa Bergoglioma sono il lato b della Chiesa, il suo volto corrotto e si presentano con alti e bassi da svariati secoli, con un’accentuazione speciale da quando l’ateismo e il nichilismo hanno corroso anche la fede dentro i sacri portoni della Chiesa. Verrebbe voglia di invocare i cani per risanare la Chiesa ma i cani del Signore, come si chiamarono i Domenicani, a cui appartenne anche il più fulgido Dottore della Chiesa, San Tommaso d’Aquino. Come ha reagito il partito bergogliano alle accuse precise che sono state rivolte dal dossier Viganò? Da un verso squalificando la fonte, il Monsignore, dall’altro imbarcandosi nel più classico complottismo. Pessima caduta doppia, che elude le domande principali: ma sono fondate o meno quelle accuse, ci sono circostanziate e convincenti risposte a quelle precise testimonianze, si può dimostrare che sono documenti falsi, forzati oppure no, sono tristemente veri? Macché, si reagisce insultando e gridando alla cospirazione, un po’ come facevano i regimi comunisti quando davanti a ogni dissesto, a ogni scandalo, gridavano al complotto delle forze oscure della reazione e così giustificavano sanguinose repressioni. Abbiamo sentito i bergogliani d’ufficio, presenti in tutti i media come unica voce senza contraddittorio, seguire questo indegno canovaccio da bassa politica e da brutto regime. E li abbiamo sentiti gridare all’intreccio tra complotto reazionario e politica sovranista, come ha fatto per esempio lo storico difensore di Bergoglio, Alberto Melloni. Non intendo tornare sul tema lacerante sollevato dal dossier sul cardinale McCarrick e non ho fonti riservate per discuterne la veridicità o meno, ma mi soffermo proprio su questa accusa cruciale: qualcuno vuol dividere la chiesa e buttarla in politica, in senso rezionario e sovranista. Risaliamo a quel che è accaduto negli ultimi cinquant’anni o poco più. Il Concilio Vaticano II spaccò la Chiesa in due versanti, i conservatori e i progressisti. Le categorie della politica entrarono nella Chiesa in quella occasione e vi entrarono con lo spirito del tempo, avendo aperto quel Concilio i portoni della Chiesa al soffio dell’epoca e in Italia alle aperture a sinistra. Quella lacerazione perdurò con Papa Paolo VI, si acuì con la liquidazione della messa in latino, la chitarra e i beat in chiesa, il terzomondismo, fino all’annunciato scisma di Levevbre. E con la diffidenza nei fenomeni di devozione popolare, come fu il caso di Padre Pio, fenomeno di populismo religioso, un santo a furor di popolo. I cattolici progressisti del Concilio Vaticano II si sentirono più vicini ai progressisti non cattolici che ai cattolici non progressisti. Una scelta di campo in cui l’essere cattolici diventava una variabile secondaria rispetto all’essere progressisti. La divisione della Chiesa risale a quel preciso momento. E i complotti reazionari, le scelte politiche di destra non c’entrano affatto. L’arrivo di Karol Magno, Giovanni Paolo II, ricucì la frattura, perché quel Papa riaprì le porte ai “conservatori”, al latino, a Lefevbre, a Padre Pio, alla Tradizione e all’Europa, senza chiuderle ai progressisti e agli anticapitalisti. Difese i poveri, gli sfruttati, i disperati, criticò l’Occidente sazio e disperato, senza far perdere alla Chiesa il suo ruolo pastorale e spirituale nel cuore della civiltà cristiana. Su quella linea si inserì anche un Papa filosofo e considerato conservatore, come Ratzinger che ricevette attacchi ben più duri di Bergoglio ma non si sognò mai di definire cani selvaggi i suoi detrattori. E non solo: la Chiesa di Benedetto XVI non fu mai la Chiesa della divisione e non suscitò pulsioni di scissione. Quando arrivò Bergoglio, invece, fu fatta una precisa scelta di campo, sociale, politica, culturale, non dirò dottrinaria per la debolezza teologica di questo pontefice. Una scelta di campo nel linguaggio, nel modo di fare, nella lontananza dal rito, dalla liturgia, dalla tradizione. Il Papa scelse temi, interlocutori, autori da citare, territori e popoli che non appartenevano alla Chiesa, alla civiltà cristiana, che non si ispiravano ai santi, ai martiri, ai padri della Chiesa. E l’idea stessa di chiamarsi Francesco, un papa senza precedenti, fu un preciso segno di rottura. Ora con queste premesse mi pare assurdo invertire la sequenza e accusare i “conservatori” di complottare contro il Papa. È Bergoglio che li ha messi fuori dalla Chiesa, li ha fatti sentire estranei e colpevoli. È Bergoglio che ha spaccato la cristianità, che ha separato la Chiesa presente dalla sua tradizione millenaria, che ha preferito dialogare con i non cristiani, i non cattolici, i non europei, oscillando tra atei, islamici e protestanti e aprendo, seppure in modo contraddittorio, a coppie diverse dalle famiglie. Non a caso Bergoglio è diventato il leader morale di tutte le sinistre, acclamato dai liberal come dai radical, dall’establishment progressista e dagli antagonisti. E sul tema dell’accoglienza è andato ben oltre le aperture dei suoi predecessori, ponendosi drasticamente da una parte, con le Ong, senza mai considerare i disagi, i pericoli e l’arrivo massiccio di islamici. Non dirò che il Papa si è posto fuori dalla Cristianità e dalla Chiesa, non avrei alcuna autorità per dirlo, e non seguirò la tendenza di alcuni tradizionalisti a scomunicare il Papa, ergendosi essi stessi – in una paradossale eresia ultraprotestante – a tribunale infallibile dell’ortodossia. Però, l’accusa di dividere la Chiesa e buttarla in politica mi pare che debba essere ritorta alla “politica bergogliana” e al suo partito, per tre quarti laico se non laicista. Non caldeggio altre dimissioni papali, auspico sempre miracolosi ravvedimenti. Sento spegnersi la fede e vedo tramontare la civiltà cristiana. Tuttavia, dico ai credenti: i Papi passano, la Chiesa resta. Malconcia, ma resta.
Vaticano in subbuglio, assalto al Papa, scrive Rocco Buttiglione il 28 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Il caso in Vaticano. Il mondo ha tradito la Chiesa, o la Chiesa ha tradito il mondo? Il Papa a Dublino ha detto tutte le cose giuste e politicamente corrette che i giornali si aspettavano dicesse e che hanno poi correttamente riportato. Ha riconosciuto il fallimento della Chiesa. Ha chiesto scusa alle vittime. Ha rafforzato la “tolleranza zero” verso i pedofili e tutti coloro che li coprono. Se avesse detto solo questo si sarebbe comportato come il dirigente di una multinazionale che gli scandali sessuali hanno messo in difficoltà. La norma è stata trasgredita, ripristiniamo la norma e, per garantirla, comminiamo sanzioni più pesanti ai rei, inventiamo nuove fattispecie di reato per colpire comportamenti anche semplicemente ambigui, stabiliamo più efficaci misure di protezione. È quello che, in una situazione diversa e pure analoga, ha fatto lo show business di Hollywood davanti allo scandalo Weinstein. Sul fatto che queste misure abbiano successo e riescano a sradicare la mala pianta dell‘ abuso è lecito dubitare, anche se certamente quelle misure sono opportune e necessarie. Il problema, infatti, è l’uomo. È l‘ uomo che è marcio. Ogni qual volta si presume di dividere con nettezza il mondo in due, mettendo da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, si scopre che i buoni alla fine sono cattivi anche loro, come ha mostrato di recente il caso di Asia Argento. Quelli, del resto, che oggi sono i cattivi, sia nella Chiesa che nello show business, fino a ieri erano i buoni e, anzi, i più buoni dei buoni. Cantava una volta il mio amico Claudio Chieffo: “C’è bisogno di qualcuno che ci liberi dal male… “e proprio questo ha detto il Papa nella parte dei suoi discorsi che la stampa ha echeggiato di meno. Ha pregato Dio di risanare il cuore dell‘ uomo e di liberarlo dal male. Ha ringraziato Dio per il dono della grazia, perché Dio in Gesù Cristo già è venuto e continua a venire a risanare il cuore degli uomini. Ha parlato di peccato e di redenzione. Ha parlato del potere e della tentazione che esso sempre porta con se, la tentazione di considerare l‘ uomo come una cosa da usare per il proprio piacere, oppure come uno strumento da usare per conseguire ancora più potere. Il Papa, infatti, non é il capo di una multinazionale ma il Vicario di Cristo in terra, e per questo può parlare di peccato, di grazia, di perdono e di redenzione come il capo di una multinazionale non potrebbe fare. Fin qui le cose che il Papa ha detto valgono per tutti gli uomini, anche per quelli che lavorano in una multinazionale, anche se quelle parole non sarebbero state bene in bocca al dirigente di una multinazionale. Ognuno di noi porta nel proprio cuore la tentazione del potere ed ognuno di noi contribuisce ogni giorno a costruire una società ed una cultura in cui la preoccupazione del successo e del piacere, la cultura dello sballo, rende ciechi alla dignità ed alla bellezza della persona umana. C’è poi una terza parte delle cose che il Papa ha detto che vale in modo particolare per chi esercita il potere spirituale, per chi parla in nome di Dio, per i vescovi ed i preti della Chiesa Cattolica. Il Papa ha pronunciato la parola clericalismo, ha condannato il clericalismo ed ha anche spiegato che cosa è il clericalismo. Il clericalismo non è altro che la tentazione del potere mondano che diventa però di molto più orribile quando ad essa cedono coloro che parlano in nome di un Dio che è venuto al mondo non per essere servito ma per servire. Il clericalismo deforma il volto di Cristo e trasforma il sacrificio del Figlio di Dio in uno strumento di potere mondano. Allora diventa possibile mettere a tacere la voce del violentato e dell’offeso e proteggere il colpevole per difendere il prestigio della istituzione. Si pensa infatti che la salvezza venga dalla istituzione e non dalla grazia, dall’ esercizio di un ruolo e non dalla presenza dello Spirito, dall’occultamen-to del proprio peccato piuttosto che dal suo riconoscimento e dalla umile invocazione del perdono. Davanti al popolo il prete si attribuisce allora il ruolo di guida infallibile e Salvatore piuttosto che quello di umile strumento ed intermediario della grazia. Jorge Mario Bergoglio si è sempre definito, invece, come un peccatore. Un peccatore che, nella sua imperscrutabile misericordia, Dio ha scelto per essere strumento della salvezza di molti. Questo ci fa comprendere in modo assai più drammatico lo scandalo dei preti pedofili. Le famiglie consegnano i propri figli alla Chiesa perché essi siano educati ed essi vengono invece violentati. I fanciulli si affidano al prete vedendo in lui l’amico di Gesù è questo si rivela invece un ausiliare di Satana. Capiamo anche in modo diverso il dramma del prete pedofilo che, prima di arrivare a consumare quell’atto sacrilego, ha vissuto nel tormento la crisi e la morte della sua vocazione umana e cristiana. Dov’erano allora i suoi fratelli nella fede? Dov’erano i suoi confratelli nel presbiterato? Dov’era il suo vescovo? Possibile che nessuno si sia accorto di niente? E se nessuno davvero si è accorto di niente la cosa è, per certi aspetti, ancora più grave. Quanto parlano con i loro preti i vescovi nelle cui diocesi si sono verificati dieci o venti casi di preti pedofili? Qual’è il colloquio paterno che intrattengono con il loro clero? Possibile che non si siano accorti del dramma che vivevano questi uomini? Non è che per caso questi vescovi esercitavano un ruolo invece di vivere una paternità? Davanti alla apostasia del mondo (occidentale) T. S. Eliot si domanda, in un testo spesso citato da don Luigi Giussani, se sia stato il mondo a tradire la Chiesa o piuttosto la Chiesa a tradire il mondo. Tutte e due le cose sono vere. Don Giussani diceva che la forma del tradimento della Chiesa è il clericalismo. Negli ammonimenti del Papa di oggi sembra di sentire l’eco delle sue parole.
“La Chiesa di Francesco un cantiere aperto per battere i gattopardi”. Intervista al vaticanista de La Stampa Andrea Tornielli di Valerio Sofia del 23 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". La riforma della Curia è un cantiere aperto dove molte cose stanno cambiando ma è presto per dare giudizi. Ed è ovvio che ci siano resistenze, dato che si toccano tante cose. Ma non tutte le resistenze sono uguali, come ha spiegato ieri lo stesso Papa Francesco, che ha parlato anche di “resistenze malevole”, proseguendo un ragionamento iniziato nel 2014. Lo spiega Andrea Tornielli, vaticanista della Stampa, tra i più accreditati interpreti di questo pontificato.
Cosa ha detto e cosa ha voluto dire il Papa ieri nel suo discorso di auguri alla Curia?
«Il Papa ha proseguito il filo del suo ragionamento. Nel dicembre del 2014 aveva parlato delle malattie della Curia. Nel 2015 invece aveva scelto come tema le virtù necessarie per servire la Chiesa nella Curia. Quest’anno invece ha parlato delle prescrizioni, delle cose da fare, della cura concreta. Ha presentato in modo puntuale tutte le riforme fatte fino ad adesso, inquadrandole in dodici caratteristiche che la riforma della Curia deve avere e a ciascuna delle quali ha dedicato alcune frasi».
La parte che è emersa di più è stata quella del riferimento alle resistenze alle riforme, resistenze che il Papa ha definito “malevole”…
«C’è stata anche una parte dura, sì, in cui il Papa ha parlato appunto di resistenze. Però ha voluto fare delle distinzioni. Ha detto che anche le resistenze sono comunque un segno di vitalità e vanno prese in considerazione. Il Papa infatti ha parlato di passi avanti ma anche di passi indietro dopo una sperimentazione. Poi ha fatto delle specificazioni. Ha parlato infatti di resistenze aperte che nascono dalla buona volontà e dal dialogo sincero, e ha fatto capire che queste non gli dispiacciono. Poi ha parlato di resistenze nascoste che nascono da cuori impietriti, dal gattopardismo spirituale che vuole che nulla cambi pur dando l’apparenza del cambiamento. E infine ha affermato che esistono anche resistenze malevole in menti distorte cui il demonio ispira intenzioni cattive».
Non parole di poco conto, tanto più se riferite all’interno della Chiesa e dei suoi vertici…
«Certamente si tratta di parole forti. Il gioco che si crea è quello di abbinare delle facce a queste categorie, ma non è proprio così che funziona. Le tre categorie di per sé parlano più che altro di tipi di atteggiamento. E soprattutto rispetto a quelli che hanno intenzioni non buone ci si riferisce a chi si muove dietro le quinte, chi fa il doppio gioco, chi fa resistenza non volendo che si sappia che la fa, e quindi è più difficile da individuare. Peraltro un fenomeno non nuovo in nessun ambiente e che è sempre esistito anche in Curia. D’altro canto in tre anni e mezzo è stato toccato tutto, economia, finanza, strutture. È chiaro che ci sono punti sensibili ed interessi non solo spirituali, e non necessariamente solo di persone in vista».
È una divisione che ha a che fare con tradizionalisti e progressisti, come qualcuno ha subito detto?
«No. Il dividere in progressisti e conservatori e tanto più identificarli con buoni e cattivi è una stupidaggine. Sono convinto che nelle varie categorie possono rientrare parte dei primi come parte dei secondi. Sono categorie giornalistiche e politiche inadatte per definire la vita della Chiesa, anche perché si può essere conservatori su certi temi e liberali in altri».
Come procede la riforma della Curia?
«Il cantiere è ancora aperto. Sono stati fatti significativi aggiustamenti, a gennaio partiranno due dicasteri nuovi che accorpano diversi Pontifici consigli, quello per i laici e la famiglia e quello per la giustizia sociale, i migranti e la carità. È una razionalizzazione che dovrebbe por- tare a uno snellimento. L’intento è quello di semplificare, snellire, rendere sempre più la Curia adeguata ai tempi e al servizio al Papa. Ma sono processi lunghi, si toccano cose strutturate, persino giuridicamente. Per ora si tratta di accorpamenti che hanno lasciato poco variate le macchine dietro i vertici, ma questo è normale. È una fase di lavori in corso, sperimentale. Ad esempio è stato creato il nuovo dicastero per l’Economia, e questo è importante, però si è tornati indietro da una prima unificazione totale per meglio distinguere controllato e controllore».
Quali sono gli aspetti più significativi al momento?
«Sono stati posti una serie di correttivi e disposizioni per fare sì che certe cose del passato non si ripetano. Per esempio nella gestione economico- amministrativa, o nelle vicende dei minori con maggior rigore verso ogni sospetto di tolleranza di abusi. Cose che non coinvolgono solo la struttura della Curia ma la vita della Chiesa, migliorando la possibilità di offrire risposte ai problemi esistenti».
La battaglia di Francesco l’anti Young Pope. Bergoglio è l’opposto Pontefice messo in scena da Paolo Sorrentino: il primo vuole una Chiesa rinnovata e aperta al mondo, il secondo la vuole austera e reazionaria. Entrambi rimangono inascoltati, scrive Angela Azzaro il 25 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Francesco è l’opposto del capolavoro di Paolo Sorrentino, The Young Pope. Il giovane americano che conquista il Vaticano, immaginato e portato sul piccolo schermo dal regista de La Grande Bellezza, parla poco, non si mostra, è sprezzante e cerca di affermare una Chiesa austera e reazionaria. Francesco parla molto, è affabile, viaggia, si mostra con piacere, non per narcisismo ma perché ama il contatto con le persone, ancora meglio se umili. Soprattutto questo Papa, il Papa vero, sta tentando qualcosa di unico: rinnovare contemporaneamente “lo spirito” della chiesa e insieme le sue strutture mondane, cioè quelle strutture che di fatto oltre a occuparsi delle anime dei fedeli, sono il braccio politico ed economico del Vaticano. Eppure, per quanto strenuamente diversi, anzi opposti, il Papa della serie televisiva e il Papa argentino hanno una cosa in comune: entrambi suscitano sgomento, scuotono le coscienze. Lo fanno in due modi diversi, contrapposti, ma l’effetto sembra lo stesso. Uno parla di odio (The Young Pope) l’altro (Francesco) parla d’amore: l’amore per Dio che si tramuta in amore per l’altro, per l’umanità. Ma entrambi, come una maledizione, che il regista Sorrentino intuisce e racconta, restano inascoltati, non suscitano la reazione che dovrebbero. Ma mentre il Papa fantastico gode di questo isolamento, per suscitare – spera – l’effetto contrario, Francesco non fa calcoli e non fa sconti. Le sue parole piene d’amore hanno l’effetto di macigni, ma non provocano la reazione che dovrebbero. Sono discorsi contro le guerre, contro l’indifferenza, contro lo sfruttamento degli esseri umani e dell’ambiente. Sono parole che toccano il punto oggi centrale: quello sull’accoglienza dei migranti. È forse uno dei pochi leader mondiali, se non l’unico, che non fa distinzione tra rifugiati e migranti cosiddetti economici: secondo lui tutti devono essere accolti, tutti appartengono a una sola categoria: quella di esseri umani. Eppure il suo magistero così unico e forte, a poco a poco, sta sparendo dalle prime pagine dei giornali e dai titoli dei telegiornali. Facevano più notizia i Papi che cercavano di mettere bocca sugli affari di altri Stati, come quello italiano, o che si inerpicavano in sofisticate disquisizioni teologiche. Francesco sta facendo una cosa unica: riportare la Chiesa vicino a ciò che raccontano iVangeli, cioè alle parole di Cristo. E lo dice a tutti, piccoli e grandi della terra. Lo ha detto ieri anche in tv, intervenendo al programma del primo canale Rai, Uno Mattina. Ha chiesto di festeggiare un Natale cristiano, come quello delle origini, senza sprechi, senza fronzoli. È un messaggio che non riguarda solo i credenti, ma tutti coloro che guardano con attenzione alla vita della Chiesa. Ma la radicalità di Francesco dà fastidio. La sua è una crociata contro un mondo che, ogni giorno di più, combatte guerre, alza muri, costruisce barriere vere o ideali, pensa che i problemi si risolvano criminalizzando l’altro. Francesco parla ai poveri, ma chiede loro di non odiare chi sta peggio, chiede invece di lottare insieme e di credere nella solidarietà. Sono messaggi bomba, ma spesso cadono nel vuoto e nell’indifferenza. È un modo per arginare il loro potere sovversivo, per ridurne la portata. Ma è impossibile che tanto coraggio, tanto amore, non riescano a suscitare importanti conseguenze. Prima o poi accadrà. Prima o poi ci si renderà conto che Francesco parla di noi, parla del futuro. Alla fine di The Young Pope la strategia comunicativa del giovane americano ottiene il successo sperato, tutti pendono dalle sue labbra. Che sia una premonizione?
Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano). La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso, scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio". C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero (e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati. E c’è la bandaccia naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio ‘ l’Accattone’ Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di Renatino De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente. C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande. Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente.
Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte. A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’’ Americano’ che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.
In Vaticano è boom di processi. Non c'è pace alla Congregazione della Dottrina della Fede dove si moltiplicano le denunce di scandali a carico di preti, vescovi e cardinali, scrive Orazio La Rocca il 22 marzo 2018 su "Panorama". Vescovi dimessi d'autorità per colpe legate a casi di violenze sessuali e di pedofilia nel clero. Ma anche per aver taciuto di fronte alle violenze di narcotrafficanti, di politici corrotti e bande armate. Cardinali costretti a difendersi in tribunale da accuse infamanti per presunti omessi controlli su preti pedofili delle loro diocesi. Come pure porporati coinvolti, direttamente o indirettamente, in operazioni finanziarie illecite e accusati di truffa. Inchieste giudiziarie, processi, sentenze clamorose, condanne. Non c'è pace alla Congregazione della Dottrina della Fede (l'ex Sant'Uffizio) retta da qualche mese dall'arcivescovo gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer, 74 anni il prossimo 19 aprile. Negli ultimi tempi, il dicastero che sovrintende al giudizio sui grandi peccati del clero, è stato sottoposto ad un super lavoro per il moltiplicarsi di denunce arrivate da ogni parte del mondo su vicende legate a scandali di natura sessuale, finanziaria, compromissioni politiche a carico di preti, vescovi e, persino, cardinali. E, contrariamente al passato, i provvedimenti fioccano, e abbastanza velocemente, anche in seguito a quella “tolleranza zero” imposta da papa Francesco nei confronti dei prelati che si macchiano di colpe gravissime, a partire dalla pedofilia. Piaga dolorosissima sollevata dal pontefice in tante occasioni, anche nell'ultima udienza concessa alla Pontificia commissione per la tutela dell'infanzia, ai cui membri ha chiesto “più velocità e più decisione nei giudizi, perchè su questi problemi nella Chiesa c'è troppo ritardo e sono in troppi a far finta di niente”. E per essere ancora più incisivo, il Papa – nel corso della stessa udienza – ha annunciato il “potenziamento” del personale addetto alla Congregazione per la Dottrina della Fede, per istruire più celermente i processi e portarli a conclusione nel più breve tempo possibile. Non a caso, tra i casi sottoposti dai vescovi italiani all'ex Sant'Uffizio, in pochi mesi ne sono andati a sentenza cinque, ed altre sono in dirittura d'arrivo. Stessa velocità decisionale anche per le denunce arrivate dal resto del mondo.
I provvedimenti. Come dimostra l'ultimo provvedimento emesso tre giorni fa dopo appena qualche mese di inchiesta fatta dal delegato papale, il cardinale Leo Raymond Burke, la condanna e la rimozione dalla guida della diocesi di Agana, nell'isola di Quam del Pacifico, dell'arcivescovo Anthony Sablan Apuron, francescano dell'ordine dei Cappuccini, accusato di abusi sessuali su minori in età giovanile. La sentenza è stata emessa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che ha dichiarato “l'imputato colpevole” e lo ha condannato “alla pena di cessazione dall'ufficio e il divieto di residenza nell'Arcidiocesi di Guam". Stessa sorte, ma per motivi politici, per monsignor Alfredo Zecca (69 anni, quindi lontano dai canonici 75 anni, l'età della pensione dei vescovi), rimosso dalla diocesi Tucuman, in Argentina, per non aver difeso la memoria di padre Juan Viroche, il sacerdote ucciso dai narcos nella sua parrocchia a La Florida. Padre Viroche è stato trovato lo scorso 5 ottobre impiccato nella sua chiesa, con sul corpo segni di percosse e ai piedi panche divelte e una statua del Crocifisso distrutta in seguito ad una colluttazione. Il sacerdote aveva denunciato i politici del posto di essere “compromessi” con i narcotrafficanti. Ma monsignor Zecca non lo ha assecondato, evidentemente per non mettersi contro le istituzioni locali. Non spira una buona aria nemmeno per il vescovo cileno Juan Barros, accusato di aver coperto gli abusi sessuali del suo direttore spirituale, il sacerdote Fernando Karadima. Sulla vicenda il mese scorso ha indagato su incarico papale, l'arcivescovo Charles Scicluna, ex promotore di giustizia (sorta di pubblico ministero) dell'ex Sant'Uffizio dove ora è presidente della speciale Commissione per l'esame dei Delicta Riservata. Scicluna ha sentito le vittime ed i testimoni – allargando la sua inchiesta anche a presunti casi denunciati negli istituti cileni dei Fratelli Maristi -, ed ora la sua relazione è al vaglio della Congregazione. Ma nemmeno il Sacro Collegio cardinalizio si salva dalle “attenzioni” della Congregazione della Dottrina della Fede, con due notissimi cardinali costretti a difendersi da accuse piuttosto scomode, George Pell e Oscar Maradiaga. Il cardinale Pell, il super ministro dell'Economia, è in Australia su “permesso” del papa per difendersi in tribunale da chi lo accusa di presunto mancato controllo sui preti pedofili della sua ex diocesi. I giudici australiani nei prossimi giorni decideranno se inviarlo a giudizio sulla base delle deposizioni fatte dai testimoni. Pell comunque si è sempre dichiarato innocente. Un altro cardinale che non sta attraversando un buon momento è Oscar Maradiaga, dell'Honduras, accusato da una famiglia di suoi ex amici di “truffa” per aver fatto da intermediario per un investimento in un fondo londinese andato poi in fumo. Anche in questo caso il cardinale si dice “estraneo ai fatti”, ma – secondo quanto rivelato dal settimanale Espresso – in Vaticano già da tempo è stata presentata la denuncia delle persone che dicono di essere state truffate, la famiglia di un ex diplomatico dell'Honduras accreditato presso la Santa Sede. “E per noi si profilano altri straordinari”, lamentano giudici e funzionari ecclesiastici dell'ex Sant'Uffizio.
Il Vaticano e i suoi gravi scandali: parla il Papa. Il Pontefice durante l'omelia di oggi 13 novembre 2017 ha sottolineato: Guai a chi crea scandali, scrive Giada Fiordaliso, curata da Federico Gonzo su it.blastingnews.com il 14 novembre 2017. Come riporta il quotidiano “La Stampa”, nell'omelia di oggi, lunedì 13 novembre 2017, il Papa ha accusato e "sgridato" coloro che creano scandali e ha spiegato che uno scandalo non solo è molto grave, ma è anche in grado di uccidere. Oggi, 13 novembre, il Pontefice ha pronunciato dure parole, durante l'odierna omelia, contro chi crea scandali. Questi ultimi riguardano proprio l'intero Vaticano e sono emersi nuovamente grazie a Gianluigi Nuzzi, che li espone nel suo nuovo libro “Peccato Originale”, una sorta di sequel di “Via Crucis”, pubblicato nel 2015. Le parole del Papa in merito sono state: “è inevitabile che vengano scandali ma guai a colui a causa del quale vengono”. Come riporta il quotidiano “La Stampa”, il Papa ha aggiunto “State attenti a non scandalizzare”. Il Pontefice ha poi continuato il discorso spiegando la gravità di uno scandalo: questo infatti ferisce e addirittura può uccidere. “Lo scandalo è capace di uccidere: uccide speranze, uccide illusioni, uccide famiglie, uccide tanti cuori” sostiene #Papa Francesco. In questo modo Bergoglio si scaglia contro tutti coloro che si mostrano come “uomini di Chiesa” ma in realtà non lo sono perchè hanno una condotta morale peccaminosa. Che cosa consiglia il Papa per migliorare se stessi ed evitare gli scandali? Secondo lui occorre chiedersi “Com'è la mia coerenza di vita? Coerenza col Vangelo? Coerenza col Signore?”
Gli scandali del Vaticano. C'è chi, come Monsignor Radice, si difende dicendo che gli abusi in Vaticano sono una falsità. Ma di quali abusi si parla? Cosa sta succedendo in Vaticano e perchè si parla di scandali? Perchè, come già accennato, è appena uscito il nuovo libro di Gianluigi Nuzzi “Peccato originale” e sia da qui, ma anche dal servizio che Gaetano Pecoraro ha realizzato per “Le Iene”, è emersa la notizia dello scandalo del Vaticano. Di cosa si tratta? Un chierichetto sostiene di aver visto un suo compagno mentre subiva abusi sessuali da parte di un seminarista e da qui è partita la denuncia. Come riporta “Il Giornale”, Monsignor Radice, il superiore del ragazzo che ha effettuato la denuncia, ha cacciato via proprio quest'ultimo sostenendo che le notizie di questi scandali sono tutte falsità. Nuzzi già nel 2015 con la pubblicazione di “Via Crucis” ha divulgato documenti che testimoniano atteggiamenti della Chiesa lontani dal credo cattolico e che dimostrano che la Chiesa è afflitta da gravi problemi, che il Papa cerca di combattere. Il libro “Peccato originale”, sempre di Nuzzi, e appena uscito, mostra altri “segreti” e nuovi scandali del Vaticano. Papa Francesco cosa fa? Come già detto, lotta contro tutte queste dure problematiche e le parole che oggi ha pronunciato durante l'omelia rimproverano duramente proprio gli artefici degli scandali.
Nuzzi, le sue inchieste a teatro: "Pecunia, la via crucis di Papa Francesco", scrive Sabato, 25 marzo 2017 "Affari Italiani". "PECUNIA, la via crucis di Papa Francesco" di e con Gianluigi Nuzzi tratto da Vaticano S.P.A., Sua Santità, Via Crucis (edizioni ChiareLettere). Gianluigi Nuzzi, conduttore della trasmissione Quarto Grado di Rete4, giornalista d’inchiesta e scrittore di best seller, porta in scena sotto forma di monologo, intervallato da musiche, audio e video inediti, la difficile lotta di Papa Francesco per cambiare la Chiesa. Protagoniste sul palco le inchieste condotte in questi anni da giornalista nella sua trilogia Vaticano S.P.A., Sua Santità e Via Crucis, sul rapporto tra Chiesa e denaro. Un legame conflittuale e contraddittorio che il cristianesimo trascina con sé, fin dalla nascita della Chiesa, ma che Papa Bergoglio sta affrontando con coraggio e determinazione. Dai legami tra Marcinkus e Al Capone, dalla riesumazione del banchiere Roberto Calvi alla scomparsa di Papa Luciani, dalla solitudine di Benedetto XVI ai grandi affari all'ombra del Cupolone, il viaggio di Nuzzi affronta i misteri degli ultimi pontificati con nomi, cognomi e cifre. Come in un giallo teatrale si alternano domande e risposte col pubblico: perché Benedetto XVI si è dimesso? Riuscirà il nuovo pontefice dove gli altri hanno fallito? Chi sono i mercanti che circondano il Papa nel Tempio? Quali sono le sue possibilità di averla vinta sui poteri occulti che ancora oggi sopravvivono all’interno delle mura vaticane? Quali segreti gravano sulla misteriosa scomparsa di Emanuela Orlandi? Sul palco Nuzzi continua a raccontare e riflettere sui temi che hanno informato i suoi ultimi best sellers, anche alla luce di nuove informazioni, per mettere a fuoco il futuro di uomo molto amato, anche per il suo coraggio. Gianluigi Nuzzi, milanese, è autore di diverse inchieste e scoop che hanno avuto vasta eco, anche internazionale. Nel 2009, con VATICANO S.P.A., ha rivelato, grazie alle carte segrete di monsignor Renato Dardozzi, gli scandali finanziari e politici dei sacri palazzi, accelerando le dimissioni del presidente dello Ior, Angelo Caloia, in carica da vent’anni. È seguita nel 2010 la pubblicazione di METASTASI (con Claudio Antonelli), altro libro rivelatore in cui si documenta la penetrazione della ’ndrangheta nel Nord Italia. Nel 2012 SUA SANTITÀ, rendendo pubbliche le carte segrete del papa, stravolge gli equilibri di potere vaticani facendo scoppiare una crisi che contribuirà alle dimissioni di Ratzinger nel 2013. Nel 2015 VIA CRUCIS, con la pubblicazione di registrazioni e documenti inediti, innesca diverse polemiche nel Vaticano, etichettate dalla stampa come una Vatileaks 2. Nuzzi ha ideato e condotto la trasmissione INTOCCABILI su La7 e attualmente conduce su Rete4 QUARTO GRADO, incentrata sui grandi casi di cronaca che appassionano e dividono l’opinione pubblica.
Vaticano, abusi sessuali sui chierichetti. Le testimonianze a Le Iene. Le Iene intervista un ex alunno del preseminario San Pio X, oggi ventiquattrenne, che racconta di aver subito continuativamente abusi sessuali, scrive il 13 novembre 2017 "Affari Italiani". Andate in onda domenica sera a "Le Iene Show", su Italia 1, in un'inchiesta di Gaetano Pecoraro, nuove testimonianze sulla vicenda di presunti abusi sessuali in Vaticano, nel collegio dei chierichetti del Papa in Palazzo San Carlo, a pochi metri da Casa Santa Marta, residenza dell'attuale Pontefice, già raccontata dal giornalista Gianluigi Nuzzi nel suo nuovo libro "Peccato originale", presentato giovedì scorso. Le Iene intervista un ex alunno del preseminario San Pio X, oggi ventiquattrenne, che racconta di aver subito continuativamente abusi sessuali, dai 13 anni fino alla maggiore età, da un adulto nelle stanze del collegio, "all'ombra della cupola di San Pietro".
Pedofilia: portavoce Vaticano, da Iene falsita' su chierichetti. "Falsità sui chierichetti in Vaticano: il Papa non ha mai ricevuto presunta vittima ne' alcun testimone". Così il portavoce della sala stampa vaticana Greg Burke ha smentito, via Twitter, quanto riferito dal programma 'Le Iene', riguardo a un servizio intitolato 'Sono stato molestato all'ombra della cupola di San Pietro, nel quale parlano alcuni ex chierichetti del Papa.
Le Iene e gli abusi (presunti) in Vaticano. Ex chierichetto: “Avevo 13 anni. Un seminarista si infilò nel mio letto e…”, scrive la redazione di "Blitz Quotidiano" il 13 novembre 2017. Abusi sessuali in Vaticano, commessi ai danni di giovani seminaristi e chierichetti di papa Francesco all’interno del preseminario San Pio X, a due passi da Casa Santa Marta, residenza del pontefice: di questi abusi, o presunti tali, ha parlato il servizio de Le Iene andato in onda domenica 12 novembre. Nella sua inchiesta, Gaetano Pecoraro ha raccolto nuove testimonianze sulla vicenda di presunti abusi sessuali nel collegio dei chierichetti del Papa in Palazzo San Carlo già raccontata dal giornalista Gianluigi Nuzzi nel suo nuovo libro Peccato originale. Pecoraro ha intervistato un ex alunno del preseminario, oggi ventiquattrenne, che ha raccontato di aver subito abusi sessuali a partire dai 13 anni da un adulto che si infilava nella sua stanza e che in seguito è stato ordinato sacerdote. “Quella violenza fu il mio primo approccio al sesso, era qualcosa di orribile e sbagliato ma divenne la normalità, addirittura una volta successe dietro l’altare della Basilica di San Pietro”, ha raccontato il ragazzo. “La paura ti pietrifica, alla fine accetti tutto ma ti senti in colpa”. “Avevo paura e quindi restavo impietrito mentre vedevo quello stupro, anche perché lui era il seminarista di cui il rettore si fidava di più”, ha raccontato un giovane polacco, Kamil, che dice di aver assistito a quelle violenze. “Poi decisi di dire tutto al nostro padre spirituale, perché è tenuto al segreto. Lui decise di fare indagini per conto proprio e alla fine fu rimosso dal suo incarico e trasferito a 600 chilometri di distanza”. E lo stesso Kamil venne cacciato. In serata la smentita del Vaticano. “Falsità sui chierichetti in Vaticano: il Papa non ha mai ricevuto presunta vittima né alcun testimone”, ha dichiarato in un tweet il direttore della Sala stampa vaticana, Greg Burke, smentendo parzialmente alcune ricostruzioni di questi giorni, a partire dal nuovo libro di Gianluigi Nuzzi, sui presunti abusi sessuali su minori commessi in Vaticano all’interno del preseminario San Pio X di Palazzo San Carlo.
PAPA Luciani. Dubbi sull’accelerazione del processo di beatificazione (Quarto Grado). Papa Luciani, il giornalista Gianluigi Nuzzi di Quarto Grado svela tesi choc: “Quello di Giovanni Paolo I è stato un omicidio morale”. Le ultime notizie sulle informazioni che ha raccolto, scrive il 12 novembre 2017 Silvana Palazzo su Sussidiario.net. Nella puntata di stasera di Quarto Grado, nella sua edizione domenicale, sarà protagonista la morte di Papa Luciani, attorno alla quale spunta il dubbio: è stato ucciso o no? Si parla di "omicidio morale" ma si crede che ad uccidere il Pontefice sia stata una "tragica verità". Nucci tenterà di fare luce su quello che appare essere un vero e proprio giallo che ha portato al tempo stesso ad una "strana" accelerazione del processo di beatificazione. "Sì, lo ammetto. Il riconoscimento delle virtù cristiane praticate in maniera eroica non era stato programmato così rapidamente", a riferirlo è stato Renato Marangoni, vescovo di Belluno Feltre al quotidiano Il Mattino di Padova. Di fatto ci sarebbero al vaglio due guarigioni considerate miracolose, una in Puglia e una a Buenos Aires, attribuite proprio a Papa Luciani. Un Papa "antimoderno", come è stato definito. "Penso che sia stato Luciani, dopo Paolo VI, che ci ha aiutato a posizionarci nella modernità, però ha percepito con grande dignità e con grande travaglio interiore la necessità di questa transizione", ha asserito il vescovo. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
PAPA LUCIANI AL CENTRO DI QUARTO GRADO. Gianluigi Nuzzi torna a occuparsi della morte di Giovanni Paolo I, papa Luciani: tra le verità che il conduttore di Quarto Grado ha ricostruito c'è quella relativa alla morte del pontefice. Si può parlare o no di omicidio? “Il suo è stato un omicidio morale. Papa Luciani non è stato ucciso, ma schiacciato da cose tremende che arrivavano, come legami, fino all'appartamento pontificio”, ha dichiarato il giornalista, autore del libro Peccato Originale, sulla tragica fine del pontefice dopo soli 33 giorni di pontificato. Gianluigi Nuzzi sostiene che le sue condizioni di salute sarebbero peggiorate dopo aver scoperto una “verità tragica e indicibile”. Nel libro è ricostruito chiaramente il difficile rapporto tra il “Papa del sorriso”, per il quale il processo di beatificazione sta tra l'altro entrando nel vivo, e monsignor Paul Marcinkus, presidente dello Ior. “Lei pensi a guidare la diocesi che io penso a far sopravvivere la Chiesa”, avrebbe detto il monsignore americano a Luciani nel loro primo incontro, congedandolo dopo che l'allora Patriarca era andato a chiedere conto della cessione delle quote della Banca Cattolica del Veneto all'Ambrosiano di Roberto Calvi, senza che i vescovi veneti ne fossero informati.
LA TESI CHOC DI NUZZI: “PAPA LUCIANI? OMICIDIO MORALE”. Lo stato precario di salute di Luciani emerge anche dai racconti del cardinale Silvio Oddi, morto nel 2001. Stando a quanto riportato da Il Giornale, il porporato aveva incontrato Giovanni Paolo I giorni prima della sua morte: il pontefice si era lamentato con il cardinale, dicendo di sentire le gambe pesanti e gliele aveva mostrate. La scena viene descritta da Oddi ad alcuni nipoti e amici, a cui confida che “il Papa stava davvero male, le sue gambe sembravano due tronchi viola”. Cosa avrebbe “ucciso” allora Giovanni Paolo I? Gianluigi Nuzzi, celebre conduttore di Quarto Grado, parla di un sistema tentacolare e occulto, che coinvolgeva alti prelati della Santa Sede, per favorire attraverso lo Ior personalità politiche, imprenditori, attori, registi e cardinali. Una sorta di “lobby” costruita attorno alla banca vaticana che avrebbe quindi schiacciato ogni tentativo di riforma di Papa Luciani, fino a portarlo alla morte.
Luciani e Marcinkus, l'incontro-scontro di cui si scrive da 30 anni. Il faccia a faccia molto teso tra l’allora patriarca di Venezia e il vescovo statunitense a capo dello IOR, per nulla inedito, è stato riportato da tanti libri e giornali negli ultimi decenni, scrive Andrea Tornielli il 12/11/2017 su "La Stampa". Di Albino Luciani si è parlato molto nei giorni scorsi, a motivo del decreto papale che ne avvicina la beatificazione ma anche per l'uscita del primo libro veramente documentato sulla morte del Pontefice veneto, scritto da Stefania Falasca, con documenti e testimonianze inedite che fanno definitivamente chiarezza sulle circostanze con cui è avvenuta. L'argomento Luciani è citato anche nel nuovo libro Peccato originale di Gianluigi Nuzzi, che gli dedica un capitolo dove si parla dell'«incontro mai raccontato» tra l'allora patriarca di Venezia Albino Luciani e l'arcivescovo Paul Casimir Marcinkus, all'epoca a capo dello IOR. Lasciando intendere che si tratti di una notizia inedita. In realtà, contrariamente a quanto espresso in quel titolo, «mai raccontato» (forse una scelta editoriale compiuta all'insaputa dell'autore, in un libro che non contiene particolari novità, se non quella della storia di presunti rapporti omosessuali tra due seminaristi minorenni nell'istituto da cui provengono i chierichetti del Vaticano), l'incontro è stato invece molto «raccontato» da almeno trent'anni e da numerosi giornalisti e storici, anche se non si è ancora trovato alcun riscontro documentale decisivo. Riscontro che neanche in Peccato originale viene fornito.
Quello scontro sulle banche. All'origine del dissidio tra Luciani (e più in generale tra tutti vescovi del Triveneto) e Marcinkus ci sarebbe stata una decisione presa nel 1972, quando lo IOR aveva venduto ricevendone in cambio 45 milioni di dollari il 37% delle azioni della Banca Cattolica del Veneto al Banco Ambrosiano che con questo passaggio – realizzato attraverso la Centrale Finanziaria – aveva acquisito la maggioranza relativa della banca. La Banca Cattolica del Veneto aveva uno storico legame con la Chiesa, una grande attenzione alle esigenze del clero ed era al servizio di una clientela medio-piccola. La vendita da parte dell'Istituto per le Opere di Religione guidato da Marcinkus, che avrebbe modificato le condizioni dei tassi favorevoli per le parrocchie e le diocesi, era avvenuta all'insaputa dell'episcopato veneto e del suo presidente, il patriarca Luciani, ed era stata gestita dall'allora direttore generale dell'Ambrosiano, Roberto Calvi, che tre anni dopo sarebbe divenuto presidente della banca. Ma il principale motivo di screzio si era verificato all'inizio del 1973, quando Luciani aveva cercato di salvare il Banco San Marco, piccolo istituto di credito nato a Venezia alla fine dell’Ottocento su iniziativa dell’Opera dei Congressi per procurare «cauto e profittevole impiego ai capitali» nonché «contribuire all’incremento delle Opere Cattoliche». Dopo essere stato coinvolto nel crack finanziario dello «scandalo Marzollo» del 1971, il Banco San Marco si era scontrato con l'Ambrosiano.
Chi ha parlato dell'incontro Luciani-Marcinkus. Il grande vaticanista Benny Lai, nel suo libro I segreti del Vaticano da Pio XII a Papa Wojtyla (1984, p.159) appunta una confidenza del cardinale Egidio Vagnozzi: «Mi hanno detto che [Luciani] non ama Marcinkus, il quale ha venduto la Banca Cattolica del Veneto cui facevano capo i vescovi della regione. E quando è venuto a Roma per protestare Marcinkus lo ha trattato in maniera strafottente». David Yallop, l'autore del best seller complottista sulla presunta uccisione di Albino Luciani (Nel nome di Dio, 1985) non parla dell'incontro tra i due, ma delle tensioni sulle banche venete e attribuisce già allora a Paul Marcinkus queste parole ora rilanciate da Nuzzi come contenuto del colloquio: «Non si può dirigere la Chiesa con l'Ave Maria». A un possibile incontro-scontro diretto tra il cardinale veneto e Marcinkus fa invece riferimento Carlo Bellavite Pellegrini, esperto di finanza e professore all’Università Cattolica, che in un suo libro (Storia del Banco Ambrosiano: fondazione, ascesa e dissesto: 1896-1982, pubblicato nel 2002, pag. 258) scrive: «Quando era patriarca di Venezia, Luciani aveva protestato per la cessione della Banca Cattolica del Veneto dallo Ior all’Ambrosiano, e Marcinkus aveva reagito con sdegno e rabbia a queste intromissioni». Del caso e dell'incontro aveva parlato diffusamente il mensile «30Giorni» nel luglio 1992 («Il banchiere e il cardinale»), pubblicando alcune testimonianze, tra cui quella di padre Francesco Farusi, già direttore dei programmi del radiogiornale della Radio Vaticana. E la vicenda è stata raccontata anche in vari articoli su Marcinkus negli anni Novanta e poi sei anni fa in occasione della sua morte (si veda qui Vatican Insider, il 30 giugno 2011).
Il racconto del “Chinkˮ a Cornwell. Del caso l'arcivescovo Marcinkus, detto “Chinkˮ, aveva discusso nel corso dei due incontri avuti con lo scrittore inglese John Cornwell, l'autore della contro-inchiesta sulla morte di Giovanni Paolo I che smentisce la tesi di Yallop (Un ladro nella notte, 1990) contribuendo però a consolidare la vulgata di un Papa Luciani «schiacciato» dal peso del pontificato e quasi succubo di una Curia romana a metà strada tra un «villaggio di lavandaie» e un luogo di trame oscure. Cornwell, che ha avuto tutte le porte aperte dal Vaticano, riuscendo a intervistare tutti i protagonisti che avevano avuto a che fare con Papa Luciani nei 33 giorni del suo pontificato, aveva parlato con Marcinkus dei contrasti sulle banche venete. L'arcivescovo americano smentisce di aver mai trattato male il cardinale patriarca di Venezia e anzi dalle sue parole sembra trasparire che l'unico incontro con Luciani sia quello avvenuto dopo l'elezione di Giovanni Paolo I. Alla domanda di Cornwell su quali affari finanziari avesse avuto con Luciani prima dell'elezione, Marcinkus aveva risposto: «C'era una banca a Venezia chiamata Banco San Marco che aveva molte difficoltà. A quel tempo possedevamo una partecipazione di maggioranza nella Banca Cattolica. E quelle persone mi dissero: “Perché non compra anche il San Marco?ˮ Vede? Io dissi: “Non ne abbiamo in programma l'acquistoˮ. E poi: “Da quanto ho capito è in cattivissime acque e non c'è alcuna utilità ad impegnarsi in simili coseˮ. Dissi che non sapevo quanto fosse importante per i vescovi di quella zona, ma che comunque sarebbe stato un pessimo acquisto. Ma non l'ho mai detto a Luciani... E non ho mai gettato nessuno fuori da questo ufficio. Anche se mi sarebbe piaciuto. E specialmente un cardinale». Da notare, in queste parole del prelato americano allora dominus dello IOR, il fatto che si parli solo della crisi del Banco San Marco, e non della vendita della Banca Cattolica all'Ambrosiano. E l'arcivescovo non dice di aver incontrato personalmente il patriarca («non l'ho mai detto a Luciani»), oltre a smentire di averlo trattato male gettandolo fuori dal suo ufficio.
Gli incontri documentati. Ciò che invece è documentato per iscritto è un incontro tra Albino Luciani e Giulio Andreotti, motivato proprio dai problemi delle banche venete. «Con il patriarca Luciani mi ero incontrato solo una volta. Era venuto a Palazzo Chigi per manifestare la sua preoccupazione per la lotta sottile che si stava sviluppando contro le banche cattoliche», ha scritto Andreotti nell'editoriale sul numero di ottobre 2007 di «30Giorni». Marco Roncalli, nella sua documentata biografia Giovanni Paolo I. Albino Luciani (2012), ha trovato conferma dell'incontro nell'appunto riservato alle udienze presente nell'archivio dell'ex presidente del Consiglio: si svolse il 22 febbraio 1973, ed è facile sostenere che i due parlarono del salvataggio del Banco San Marco». Scrive ancora Roncalli nella biografia di Luciani: «Tutto il resto è un campionario di ipotesi legate ad un viaggio a Roma di Luciani per esprimere il suo disappunto. C’è chi ha sostenuto che il patriarca parlò apertis verbis al presidente dello IOR il quale, dopo averlo ascoltato, lo mise alla porta in modi spicci (fatto smentito da quest’ultimo). C’è chi ha confidato che Luciani comunicò direttamente il proprio dispiacere a Paolo VI il quale chiamò subito nel suo studio Marcinkus in grado di rassicurare il patriarca di Venezia (una versione data dal segretario di Papa Montini don Pasquale Macchi ad alcuni amici)...E via di seguito. Tutte ricostruzioni però senza alcun documento probatorio».
La nuova testimonianza di don Malnati. Chi ha ricordi precisi su quanto avvenne è don Ettore Malnati, attuale vicario per la cultura della diocesi di Trieste, che fu segretario particolare del vescovo Antonio Santin, il quale negli anni Settanta era vice-presidente della conferenza episcopale del Triveneto e incontrava il patriarca Luciani una volta al mese. Racconta per la prima volta oggi a Vatican Insider don Malnati: «Il vescovo Santin mi confidò il dispiacere di Luciani, il quale era andato allo IOR per perorare la causa dell'acquisto del Banco San Marco, la banca dove le parrocchie del Veneto avevano i loro risparmi. Il patriarca di Venezia aveva detto a Santin, riferendogli dell'incontro: “Sono stato trattato da Marcinkus come un bidelloˮ». Don Malnati ricorda di averne parlato anche con l'allora segretario di Luciani, don Mario Senigaglia: «Tra noi segretari dei due vescovi eravamo molto legati. Ricordo con Senigaglia avevamo commentato l'atteggiamento tenuto da Marcinkus verso Luciani. Don Mario aveva detto: “Ma guarda come si permettono di trattare il patriarca di Veneziaˮ».
Luciani precursore di banca etica. Scrive ancora Roncalli nella biografia di Giovanni Paolo I: «Resta da sottolineare la figura di un Luciani che volentieri evita le questioni finanziarie, e sembra piuttosto un precursore del concetto di banca etica, a maggior ragione davanti a notizie di intrecci di malaffare all’inizio degli anni Settanta. Un Luciani che ancora nel novembre ’73 ha occasione di incontrare il vicepresidente della Banca Cattolica Roberto Calvi al quale scrive persino lettere di raccomandazioni per la promozione di alcuni dipendenti veneziani impegnati nell’associazionismo cattolico». Il riferimento è a una lettera - catalogata tra la corrispondenza finita agli atti della postulazione della causa di beatificazione - datata 2 gennaio 1974 e indirizzata all’«Ill.mo Commendatore Roberto Calvi, Vice Presidente Banca Cattolica del Veneto, Vicenza» nella quale si ricorda un incontro veneziano avvenuto a fine novembre 1973, con lui e altri membri della Presidenza della Banca Cattolica del Veneto. Luciani con la missiva voleva perorare la causa di un dipendente della banca, C. V., da tempo in attesa di promozione.
«L'omicidio morale»? Il capitolo del libro di Nuzzi dedicato a Luciani si intitola «L'omicidio morale». L'autore pubblica alcuni vecchi documenti contabili dello IOR che facevano parte dell'ormai famosa cassa di documenti trafugati da monsignor Lucio Angel Vallejo Balda, segretario della commissione COSEA e segretario della Prefettura per gli Affari economici della Santa Sede, nonché principale imputato al processo per Vatilaeks 2, il quale ha ceduto le carte dopo la mancata promozione a numero due della Segreteria per l'Economia vaticana. Sono documenti che attesterebbero il transito di somme di denaro dalla «banca vaticana» verso i paradisi fiscali nonché l'esistenza di conti intestati al Pontefice Paolo VI e al suo segretario particolare don Pasquale Macchi. Scrive Nuzzi: «Ogni pratica allo IOR era sconvolgente. Attraverso protezioni eccellenti, all’istituto veniva soddisfatta ogni esigenza di vescovi e cardinali. E ancora attori, registi, politici e imprenditori... I tentacoli di questo sistema occulto avvolgevano ogni sacro palazzo. È probabile che Luciani stesso ne sia rimasto schiacciato. La conoscenza di questa verità tragica e indicibile avrebbe aggravato a tal punto il suo stato di salute da portarlo improvvisamente alla morte». Senza produrre alcuna prova del fatto che il nuovo Papa fosse a conoscenza di questi movimenti di denaro, e del fatto che queste notizie lo avessero «schiacciato», Nuzzi propende per l'ipotesi dell'«omicidio morale». Finendo per presentare Luciani come un Papa in preda a un enorme stress e alla fine inadeguato a sostenere il peso della responsabilità pontificale.
«Era sereno, sicuro». Pochi giorni prima dell'uscita del libro Peccato originale, un altro libro è stato pubblicato, Papa Luciani. Cronaca di una morte. La vicepostulatrice della causa di beatificazione, Stefania Falasca, oltre a produrre un'imponente mole di documenti realmente inediti e importanti (dalle cartelle cliniche di Luciani agli appunti riservati inviati dal medico del Papa alla Segreteria di Stato), pubblica anche alcune nuove testimonianze di chi fu vicino a Giovanni Paolo I nei 33 giorni del pontificato. Tra queste c'è quella di suor Margherita Marin, l'unica sopravvissuta delle suore che vivevano nell'appartamento papale: «Io l'ho veduto sempre tranquillo, sereno. Pieno di fiducia, sicuro». Aveva deciso di cambiare il suo segretario particolare, chiamando a Roma don Senigaglia. Grazie alla sua testimonianza e ai nuovi documenti prodotti nel libro sappiamo che Papa Luciani aveva deciso di mantenere come medico personale il dottore che lo seguiva a Vittorio Veneto. Aveva deciso di nominare un prete salesiano patriarca di Venezia. Stava delineando il suo pontificato. Era umile, ma non schiacciato. Mite, ma non arrendevole. Sapeva governare e quando prendeva una decisione, era quella.
Lo Ior visto dall’ex direttore Aif, De Pasquale, intervistato da Nuzzi in Peccato Originale (Chiarelettere), scrive Andrea Mainardi su "Formiche.net" il 12 novembre 2017. Sangue, soldi, sesso. Sono i tre fili rossi con i quali l’editore presenta la trama della nuova inchiesta di Gianluigi Nuzzi intorno alle vicende vaticane Peccato Originale, in libreria da giovedì per Chiarelettere. Tra le oltre 300 pagine del volume spicca un’intervista all’avvocato Francesco De Pasquale, primo direttore dell’Aif, l’Autorità di informazione finanziaria del Vaticano. L’organismo antiriciclaggio creato nel 2010 da Benedetto XVI e dall’allora presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi. Ente diretto da De Pasquale dal 2011 al 2013. Un’autorità più volte riformata, nelle direttive e nei protagonisti chiamati a rendere trasparente la cassa di Pietro. Quel sistema è entrato a regime? O, come pare dalle risposte dell’allora direttore dell’Aif, la Segreteria di stato continua ad esercitare un controllo eccessivo rispetto a un organo terzo? “Credo che le procedure siano in piedi, però… Con tutte queste società di consulenza che sono intervenute le procedure saranno senz’altro in ordine. Diciamo che c’è stato un adeguamento di facciata”, risponde De Pasquale al giornalista milanese protagonista dei due Vatileaks. Risposte dense e ricordi di una complicata vicenda. Come quella volta che un monsignore di Curia chiese al direttore del nuovo organo antiriciclaggio: “Ma a questi di Moneyval bisogna dire la verità?”. Nuzzi ha incontrato De Pasquale il 14 giugno scorso all’hotel Marcella Royal di Roma. Dalla conversazione emergono valutazioni su quanto è stato fatto e sull’attuale gestione dell’Aif, affidata dopo le dimissioni del cardinale Attilio Nicora allo svizzero René Brülhart. Con una notizia che, se confermata, avrebbe del clamoroso: uno studiato ritardo auspicato da dietro le mura leonine nel riproporsi alle valutazioni di Moneyval, l’organo anti riciclaggio del Consiglio d’Europa.
Formiche.net pubblica alcuni stralci dell’intervista concessa dall’avvocato De Pasquale a Nuzzi.
Tutto bene quindi?
«Non bastano le procedure. Bisogna che qualcuno vada a mettere il naso nei conti. Invece, l’unico rapporto di valutazione rimane quello del luglio 2012, dopo ci sono due progress reports (2013 e 2015) che però non sono valutazioni, non hanno rilievo dal punto di vista valutativo. Essendo arrivato per ultimo, il Vaticano deve ancora ricevere una seconda valutazione, quando gli altri paesi ne hanno già avute tre o quattro. Questa dovrà verificare non solo la compatibilità normativa con gli standard internazionali ma l’effettività, cioè l’adeguamento, la messa in pratica. Allora vedremo… Credo che però passerà molto tempo».
Perché?
«Perché adesso hanno in mano le leve per procrastinare il più a lungo possibile questa valutazione, tanto è vero che, nel calendario degli organi di controllo (Moneyval e Gafi, il Gruppo d’azione finanziaria internazionale), il Vaticano ancora non c’è. Ci sono due elenchi: sul primo appaiono i paesi che saranno sottoposti alla visita addirittura fino al 2022, nel secondo ci sono i paesi per cui non è stata ancora fissata una data di valutazione e tra questi, presumibilmente, c’è anche il Vaticano. Forse hanno paura che da un punto di vista dell’effettività [dell’applicazione della legge, nda] qualcosa sfugga. (…)»
Da dove nasce il presunto empasse nella riforma delle finanze vaticane? Dove si opacizza, se così è, l’operazione trasparenza? Diamo di nuovo la parola alle domande di Nuzzi e alle risposte dell’avvocato De Pasquale. Anzitutto inquadrandone il ruolo.
Avvocato De Pasquale, lei venne chiamato in Vaticano per implementare le norme contro il denaro sporco. Per quanto tempo?
«Tutto è cominciato nel 2010. Il professor Condemi mi chiese di collaborare alla stesura della legge iniziale, che sarà emanata da papa Ratzinger il 31 dicembre dello stesso anno. Con incarichi ufficiali sono rimasto dal 2011 al 2014. Per il primo anno e mezzo sono stato direttore dell’Aif, ruolo che ho lasciato poi a René Brülhart, per essere cooptato nel consiglio direttivo. All’epoca non c’era niente, giusto questa legge e il consiglio direttivo di quest’autorità. Bisognava costruire tutto. Non c’era alcun tipo di controllo, allo Ior facevano quello che volevano, [alcuni dirigenti, nda] agivano in nome dell’istituto gestendo tutta una marea di sottoconti. Insomma, si poteva fare qualsiasi cosa. [Questi dirigenti, nda] pretendevano che Banca d’Italia si accontentasse del fatto che loro facevano un trasferimento per conto semplicemente dello Ior, mentre dalla banca centrale chiedevano chi fossero i titolari e i beneficiari effettivi di quei fondi».
In quegli anni il Vaticano fu segnato da uno scontro importante…
«Sì, abbiamo portato a termine una parte del lavoro, ma per la seconda parte non ci è stato consentito. Gli scontri sono avvenuti sulle norme da modificare e da applicare. Si doveva andare avanti su una certa strada e mi resi conto che non si era ancora pronti per affrontare questi cambiamenti. Insomma, emerge uno scontro tra diversi partiti su come gestire la partita».
Chiede Nuzzi: Com’era il clima in quel periodo nei suoi confronti e in quelli del professor Condemi, del cardinale Nicora, insomma di chi cercava di implementare le norme antiriciclaggio?
«Alcuni fatti possono essere assai esplicativi. Un giorno, a fine settembre del 2010, al telefono, monsignor Balestrero, sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, mi chiese di raggiungerlo a una riunione del consiglio della segreteria di Stato in cui si doveva affrontare il problema dell’indagine avviata sullo Ior: Cipriani e Tulli erano indagati. Io pensavo che dovessimo dare una mano per fare chiarezza. Ero con il mio vice, Alfredo Pallini, c’era anche Nicora, entriamo e ci troviamo di fronte al gotha: oltre a Bertone, erano lì in fila Mamberti, Balestrero e Wells, praticamente una sorta di tribunale».
Perché?
«Cipriani e i dirigenti dello Ior accusavano me e Pallini di averli denunciati in procura e di coltivare rapporti segreti con la banca americana interessata. In particolare, a loro dire, avevamo anche partecipato a una cena con i dirigenti di J.P. Morgan a Milano».
Insomma, un complotto…
«Peccato che non fossi mai stato a Milano in quel periodo. Si trattava di una cosa che si erano inventati. Noi rispondemmo abbastanza animatamente e s’instaurò una specie di contradditorio, piuttosto agitato. (…)»
Vi accusarono per approfittare di questa situazione e mettervi in difficoltà?
«Penso di sì».
Queste accuse erano rivolte a lei e al suo collaboratore, o anche al cardinal Nicora?
«Anche a Nicora, indirettamente. Penso che Nicora fosse accusato di farsi influenzare dai funzionari della Banca d’Italia».
Quindi anche Nicora era malvisto?
«Nel tempo ho cercato di capire meglio questa spaccatura che si è accentuata negli anni successivi. Anche Nicora era un nemico agli occhi del nuovo direttore Brülhart, perché non era tanto favorevole ai traffici dello Ior».
Ma di che traffici stiamo parlando, secondo lei? Si è fatto un’idea?
«Avrei potuto farmi un’idea se avessi avuto il tempo e i mezzi per conoscere quei segreti…»
Come vi eravate mossi fino a quel momento?
«Bisognava stabilire che cosa dovesse fare l’Autorità di controllo, verso quali istituzioni e autorità interne dovesse rivolgere la sua attività. Soprattutto bisognava sensibilizzare dall’interno i vari organismi e le varie istituzioni su questa materia. Erano imminenti i controlli internazionali, quindi era importante andare molto di corsa. Cominciammo a emanare tutta una serie di circolari che davano indicazioni agli organismi interni sull’applicazione delle misure antiriciclaggio. Si richiedeva l’identificazione della clientela, l’adeguata verifica e registrazione delle operazioni, la segnalazione di quelle sospette, la cooperazione con le autorità competenti degli altri paesi europei. Avemmo vari incontri con l’Apsa, lo Ior, e trovai una buona collaborazione col presidente, impegnato a portare il Vaticano sulla strada della white list: lui era dalla nostra parte. Invece registrai scarsa collaborazione, o quasi nulla, dalla dirigenza dello Ior. All’epoca c’erano Cipriani direttore e Tulli vicedirettore, gli stessi che sono stati recentemente condannati, anche se a una pena lieve, per violazione delle normative antiriciclaggio italiane. (…)»
L’Aif a chi rispondeva?
«Era autonoma, è stata costituita come autorità autonoma. Necessariamente queste autorità antiriciclaggio, nei vari paesi, devono essere almeno formalmente autonome».
C’è stato un periodo in cui finì sotto il controllo della segreteria di Stato?
«Lo scontro all’interno avvenne perché, quando dovevamo riformare la norma antiriciclaggio – la legge n. 127 del 30 dicembre 2010 – Briamonte sposò il parere di Dalla Torre secondo il quale noi non potevamo avere accesso ai dati dello Ior, se non a quelli successivi al primo aprile 2011. Era evidente che non collaboravano. A Cipriani, tra l’altro, io annunciai che di lì a poche settimane, nell’autunno del 2011, sarebbero arrivati gli ispettori di Moneyval e lui testuale mi rispose: «Ah, tanto io sarò in Australia»».
Perché c’era questo ostracismo?
«All’interno non sapevano niente di questa materia. Pensavano di non essere soggetti a queste misure, quindi non erano sensibilizzati. Nei parecchi incontri con il Governatorato, con la Gendarmeria, trovavamo che alcuni erano più sensibili, perché si rendevano conto dell’importanza, altri invece non capivano, altri ancora boicottavano, finché non si resero conto, al momento in cui arrivarono gli ispettori di Moneyval, dell’importanza della cosa. Fu allora che ritennero di dover fare un passo indietro. L’Aif aveva troppi poteri e troppa autonomia. La segreteria di Stato introdusse alcune modifiche che erano del tutto negative… Stabilì, ad esempio, la necessità di una specie di nulla osta della segreteria su qualsiasi accordo dell’Aif con autorità di altri paesi».
Beh, è l’autorità politica…
«Questo era contrario agli standard internazionali, perché l’autorità antiriciclaggio doveva essere autonoma, non poteva dipendere da un nulla osta della segreteria di Stato. Gli ispettori di Moneyval si resero conto che era stato fatto un passo indietro, e ce lo dissero apertamente. Da qui lo scontro, perché loro volevano riportare la funzione dell’Aif sotto la tutela della segreteria di Stato. (…)»
Ma cosa rappresentava Brülhart all’epoca: veniva da fuori o aveva già qualche incarico all’interno?
«Era stato direttore della Fiu [Final Intelligence Unit, nda] del Liechtenstein e credo fosse consulente della segreteria di Stato. Ritengo abbia messo lui le mani alla revisione della legge, al cosiddetto «passo indietro»».
E perché lei dice che Brülhart aveva la loro fiducia?
«Perché era un consulente della segreteria di Stato. La segreteria di Stato, per qualsiasi attività all’interno del Vaticano, anche di competenza di altri enti o organismi, creava una specie di unità che faceva le stesse cose, un po’ come un governo ombra. In seguito, dal novembre del 2012, il consiglio direttivo fu a poco a poco esautorato e si riunì molto raramente, mentre con me si riuniva in continuazione e veniva messo al corrente di tutto quello che veniva fatto. Brülhart lavorava in accordo ovviamente con la segreteria di Stato, quindi non aveva interesse a [riunire spesso il consiglio, nda]…Poi Nicora era un nemico per loro».
Brülhart prese il comando totale dell’Aif?
«Certo. Nicora era sempre convinto che nel contrasto fra lui e Brülhart, alla fine, sarebbe stato fatto fuori Brülhart. Invece fecero fuori lui, infatti fu costretto a dimettersi agli inizi del 2013».
E tutte quelle norme che facevano entrare l’Aif sotto il controllo della segreteria di Stato?
«Poco a poco furono aggiustate. Nel 2013 tolsero il famoso nulla osta perché adesso erano loro che controllavano tutto. Non avevano più bisogno di mettere il nulla osta. Insomma, tutte le cose che avevano introdotto le tolsero a poco a poco, e ci fu un’ulteriore riforma della legge, mi pare nell’agosto del 2013, che mise in regola lo Ior con gli standard internazionali da un punto di vista solo formale. Far applicare la legge, farla funzionare è un’altra cosa».
Soldi, caso Orlandi, abusi: il nuovo libro di Nuzzi sui misteri del Vaticano. «Su Emanuela dì che non sai niente». Nella nuova inchiesta del giornalista Nuzzi, «Peccato originale», anche la denuncia dei chierichetti di San Pietro, sottoposti ad indebite attenzioni da parte dei loro superiori, scrive Gian Antonio Stella l'8 novembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Allo Ior dovresti evitare assolutamente di conoscere i nomi dei correntisti…». «E se invece dovessi chiedere i nomi dei clienti?». «A quel punto, amico mio, avrai quindici minuti per mettere in sicurezza i tuoi figli. A presto caro…». Basta questo scambio di battute tra Ettore Gotti Tedeschi sul punto di essere nominato presidente della Banca Vaticana e l’«apprezzato uomo delle istituzioni pragmatico e soprattutto molto ascoltato» che scodella al banchiere l’affettuoso «consiglio» dalle sfumature mafiose, a gettare una lama di luce sul nuovo libro di Gianluigi Nuzzi.
La fronda a Papa Francesco. Si intitola «Peccato originale», è edito da Chiarelettere e in 352 pagine il giornalista e scrittore, autore dei bestseller «Vaticano S.p.A.», «Sua Santità» e «Via Crucis» cerca di rispondere a sette domande rimaste in sospeso. Domande che, proprio perché irrisolte, vanno indietro anche di mezzo secolo. «È stato ucciso Albino Luciani? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Se la ragazza ormai “sta in cielo”, come afferma papa Francesco, il Vaticano ha delle responsabilità nell’omicidio, e quali sono? Perché le riforme per la trasparenza della curia, avviate prima da Joseph Ratzinger e adesso da Bergoglio, puntualmente falliscono o rimangono incompiute? Cosa blocca il cambiamento? E ancora: i mercanti del tempio continuano a condizionare la vita della Chiesa dopo aver avuto un ruolo nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI? Infine, la questione più drammatica: lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco è dovuto a chi non vuole questo Papa, dentro e fuori i sacri palazzi, e dunque ne ostacola l’opera riformatrice?». Per rispondere, spiega, ha seguito tre fili rossi: i soldi, il sangue, il sesso. Fili che «annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d’interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento».
Il boss in basilica. E c’è davvero di tutto, nel libro. Dai conti correnti allo Ior di Eduardo de Filippo o di Anjezë Gonxe Bojaxhiu, (suor Teresa di Calcutta) alla dettagliata ricostruzione della riservatissima trattativa tra i vertici della magistratura romana e gli altissimi prelati che fecero sapere al procuratore Giancarlo Capaldo, che da anni indagava sulla scomparsa della Orlandi, del loro imbarazzo per la crescente «tensione massmediatica» a causa della presenza nei sotterranei di sant’Apollinare della tomba di Enrico «Renatino» De Pedis, il boss della banda della Magliana sospettato d’aver avuto un ruolo centrale nella sparizione della ragazza e sepolto lì in cambio di una donazione, pare, di 500 milioni di lire. Insomma, il «disagio» per «sospetti» e «pettegolezzi» era tale che se i giudici si fossero presi la briga di rimuover loro la salma, come raccontava il film di Roberto Faenza «La verità sta in cielo», il Vaticano dopo anni di reticenze avrebbe discretamente fornito tutto ciò che sapeva. Un patto che dopo la traslazione della salma e l’esame di 409 cassette e 52.188 ossa umane per cercare eventuali tracce della quindicenne sparita, sfumò com’è noto nel nulla.
Papa Luciani. Come nel nulla erano finiti i dubbi, le discussioni e le polemiche sulla morte di Albino Luciani, il «Papa che sorrise solo 33 giorni». Fu avvelenato? Probabilmente no, dice Nuzzi: piuttosto fu «schiacciato» dal peso dei problemi e più ancora dalla «verità tragica e indicibile» di quanto avveniva dentro lo Ior. Che lui avrebbe voluto riformare fin dal ‘72, quando da Patriarca di Venezia aveva avuto il primo scontro col potentissimo e spregiudicato cardinale Paul Marcinkus. Il quale, si legge in «Peccato originale», avrebbe liquidato sei anni dopo il neoeletto Giovanni Paolo I con parole sprezzanti: «Questo pover’uomo viene via da Venezia, una piccola Diocesi che sta invecchiando, con 90.000 persone e preti anziani. Poi, all’improvviso, viene catapultato in un posto e nemmeno sa dove siano gli uffici. (…) Si mette a sedere e il segretario di Stato gli porta una pila di documenti, dicendo: “Esamini questi!”. Ma lui non sa neppure da dove cominciare».
Scatole cinesi e conti esteri. In verità, i pasticci, le scatole cinesi e i labirinti azionari erano tali che avrebbe faticato a capirci non solo un Papa santo ma un revisore dei conti provetto. Basti dire che uno dei numerosi documenti in appendice al libro, del 23 marzo 1974, è la «contabilizzazione assegno n. 0153 s/FNCB NY, del valore di 50.000 dollari, emesso all’ordine: “S.S. Paolo VI per erogazione in relazione Esercizio 1973”. In basso nel documento si riporta il relativo addebito sul conto n. 051 3 01588, intestato “Cisalpine Fund”, che potrebbe far riferimento alla banca panamense Cisalpine, nel cui cda siederanno Paul Marcinkus con Roberto Calvi e Licio Gelli». Banca tirata in ballo in un incontro con Nuzzi dalla stessa vedova di Roberto Suárez Gómez, il «re della cocaina»: «Mio marito Roberto era felice di aver incontrato in Venezuela Calvi, perché disponendo di un garante di questo livello gli affari sarebbero andati molto meglio... con la cocaina immagino, non fu esplicito ma immagino fosse così... Calvi era socio di mio marito...».
La lobby gay. Ma le pagine destinate a sollevare più polemiche sono quelle dedicate al sesso. Dove sono ricostruiti gli scandali recenti come il gay party a base di cocaina interrotto dai gendarmi vaticani in un appartamento nello stesso palazzo del Sant’Uffizio o le confidenze di Elmar Theodor Mäder, l’ex comandante delle guardie svizzere («Esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del pontefice») o ancora le amarezze di papa Francesco: «In Vaticano esiste una lobby gay. Nella curia ci sono persone sante, davvero, ma c’è anche una corrente di corruzione. Si parla di una lobby gay ed è vero, esiste». Ma Nuzzi va oltre. Pubblica un’intercettazione telefonica ad esempio tra il rettore della basilica di Sant’Apollinare all’epoca della scomparsa della Orlandi e un giovane seminarista nato in Birmania. Intercettazione strapiena di allusioni sessuali a dir poco imbarazzanti. Più ustionante ancora la testimonianza di un polacco (con nome, cognome e copia della lettera di denuncia) entrato dodicenne nel pre-seminario San Pio X a palazzo San Carlo (lo stesso in cui vivono cardinali come Tarcisio Bertone) dove le Diocesi indirizzano i ragazzini che «manifestano una predisposizione per il sacerdozio» e «partecipano come chierichetti alle funzioni religiose nella basilica di San Pietro». Incluse quelle celebrate dal Papa. E dove, stando a quanto raccolto in «Peccato originale», sarebbero avvenuti abusi denunciati ai superiori, su su nella scala gerarchica, senza che certe cose, purtroppo, venissero radicalmente cambiate. A essere allontanato, scrive anzi il giornalista, fu il chierichetto che chiedeva di allontanare chi molestava lui e il suo compagno di stanza. Accuse assurde? Si vedrà. Certo colpiscono le risposte rasserenanti e sdrammatizzanti di certi prelati chiamati a intervenire dopo queste denunce. Su tutte una «raccomandazione» al giovane polacco: «Ti auguro di riprendere serenità e docilità».
Nuzzi: c'è stata trattativa pm-Vaticano sulla Orlandi, scrive Giovedì, 9 novembre 2017, Affari Italiani. (askanews) - Una "trattativa" tra Procura di Roma e Vaticano su Emanuela Orlandi, la giovane cittadina vaticana scomparsa negli anni Ottanta: ne scrive Gianluigi Nuzzi sul suo ultimo libro "Peccato originale" (Chiarelettere). "Parliamo di quattro, cinque incontri - ha detto il giornalista in occasione della presentazione del volume presso l'Ambasciatori Palace Hotel di via Veneto, a Roma, "che prima della chiusura clamorosa dell'inchiesta sulla Orlandi ci sono stati tra l'allora procuratore capo reggente di Roma Giancarlo Capaldo e due monsignori che avevano la fiducia piena sia del Segretario di Stato Bertone sia del segretario particolare dell'allora Pontefice Benedetto XVI, mons. Georg Gaenswein, incontri che hanno chiamato la trattativa: da una parte il Vaticano cercava di chiudere questa inchiesta, dall'altra parte avrebbe dato notizie su dov'era la tomba di Emanuela. Questi incontri ci sono stati, Capaldo è andato anche in Vaticano, c'è stat un incontro alla biblioteca vaticana, poi la trattativa è saltata. C'è forse da chiedersi - ha detto Nuzzi - a che titolo questo magistrato andava in un paese estero e perché questa trattativa è sfumata e perché sulla Orlandi ancora oggi non abbiamo la verità".
Caso Orlandi, Nuzzi pubblica l'intercettazione tra le guardie vaticane prima dell'interrogatorio, scrive il 9 Novembre 2017 "Libero Quotidiano”. Ci sono nuovi pezzi di verità anche sulla scomparsa di Emanuela Orlandi nell'ultimo libro del giornalista Gianluigi Nuzzi intitolato "Peccato originale". Il mistero sulla 15enne cittadina vaticana, scomparsa 34 anni fa senza che oggi se ne conosca il motivo è uno dei filoni approfonditi dallo scrittore, ancora una volta in libreria con un lavoro sulle ombre del Vaticano. Una dichiarazione recente di Papa Francesco sul caso Orlandi sembrava voler mettere la parola fine sulla vicenda. Il pontefice ha detto che la ragazza ormai "sta in cielo". Nessun rapimento, quindi, ma un omicidio? I dubbi sollevati da Nuzzi quindi si concentrano sulle eventuali responsabilità che uomini del Vaticano avrebbero con la morte della ragazza.
Nuzzi ha spiegato al Corriere della sera che per scrivere quest'ultimo libro ha lavorato su tre fili che "annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama di interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti e soffocano ogni cambiamento". Ci sono quindi i dettagli sui conti di personaggi dello spettacolo depositati allo Ior, l'istituto di credito vaticano, ma anche i documenti sulla trattativa riservata tra big della magistratura romana e altissimi prelati che informarono il procuratore Giancarlo Capaldo, da anni impegnato nelle indagini sulla Orlando, quanto fossero imbarazzati per l'eccessiva "tensione massmediatica". Ad attirare l'attenzione dei media era stata la scoperta della tomba di Enrico "Renatino" De Pedis, il boss della banda della Magliana, nei sotterranei della chiesa di Sant'Apollinare. Sul boss romano da anni si erano adombrati sospetti su un suo ruolo nella scomparsa della Orlandi. E alle alte sfere romane cominciavano a infastidire i pettegolezzi su possibili rapporti tra loro e il boss romano, capace di farsi seppellire in un luogo così particolare, dopo una donazione generosa di 500 milioni di lire. Un presunto accordo con i magistrati permise la traslazione della salma altrove, in cambio il Vaticano fornì con discrezione l'accesso a 409 cassette di sicurezza e 52.188 ossa umane. Ma della Orlandi non si è mai trovata traccia. Tra i documenti riportati da Nuzzi sul caso Orlandi c'è anche un'imbarazzante intercettazione telefonica. La chiamata è tra il gendarme vaticano Raul Bonarelli e quello che lui chiama "capo", cioè Camillo Cibin, ispettore del corpo della Gendarmeria. La conversazione risale al 12 ottobre 1993, un giorno prima dell'interrogatorio che il gendarme doveva rendere ai magistrati italiani proprio sulle indagini al caso Orlandi. Il superiore si preoccupa sostanzialmente di imbeccare il gendarme e spiegargli per filo e per segno cosa deve dire ai magistrati italiani.
Cibin: "Ho parlato con Sua Eccellenza Bertani... E dice... per testimone, e dici quello che sai... che sai della Orlandi? Niente! Noi non sappiamo niente!... Sappiamo dai giornali, dalle notizie che sono state portate fuori! Del fatto che è venuto fuori di competenza... è... dell' Ordine Italiano".
Bonarelli: "Ah, così devo dire?"
C.: Ebbè, eh... che ne sappiamo noi? Se te dici: io non ho mai indagato... l'Ufficio ha indagato all' interno... questa è una cosa che è andata poi... non dirlo che è andata alla segreteria di Stato.
B.: No... no, noi io all' interno non devo dire niente.
C.: Niente.
B.: Devo dire, io all' interno non devo dire niente, all' esterno è stata...
C.: All' esterno però, quando è stata la magistratura vaticana... se ne interessa la magistratura vaticana... tra di loro, questo qua... niente dici, quello che sai te, niente!
B.: Cioè, se mi dicono però se sono dipendente vaticano, che mansioni svolgo, non lo so, mi dovranno identificare, lo sapranno chi sono.
C.: Eh, sapranno, perché che fai, fai servizio e turni e sicurezza della Città del Vaticano, tutto qua?
B.: Eh... Va bene, allora domani mattina vado a fare questa testimonianza, poi vengo, vero?
C.: Poi vieni, sì, sì.
B.: Va bene.
Lo scienziato e la cittadina vaticana. La Procura chiude i gialli storici. L’archiviazione sulla scomparsa del fisico catanese precede la conclusione di un’altra indagine pluridecennale, quella sulla «ragazza con la fascetta». Analogie e retroscena, scrive Fabrizio Peronaci su “Il Corriere della Sera”. Le analogie - dando per scontate le ovvie specificità dei due casi - sono numerose: le scomparse di Ettore lo scienziato catanese e di Emanuela la figlia del messo pontificio hanno segnato periodi importanti del Novecento italiano; su entrambe ha aleggiato lo spettro di deviazioni e di oscure ragioni di Stato; sia per l’uno sia per l’altra si è fatta l’ipotesi di una segregazione in ambiente religioso, fosse esso un monastero in Calabria o un convento di clausura sperduto tra l’Alto Adige, il Lussemburgo e il Liechtenstein; in ambi i casi sono state offerte consistenti somme di danaro (30 mila lire da Mussolini, un miliardo dagli Orlandi) a chi fosse stato in grado di fornire notizie utili e decisive; le relative inchieste sono andate avanti per decenni. Ora, per un bizzarra coincidenza che forse proprio casuale non è, il caso Majorana e il caso Orlandi arrivano nello stesso periodo al loro esito giudiziario presso la stessa Procura, quella di Roma. Per il giallo del fisico svanito nel nulla dopo aver lasciato Napoli nel 1938 a bordo di un piroscafo diretto a Palermo i magistrati, dopo averne accertato la presenza in Venezuela negli anni Cinquanta, hanno optato per la richiesta di archiviazione, sentendosi certi di poter escludere «condotte delittuose o autolesive», vale a dire l’omicidio o il suicidio. Appurato che il genio degli studi sull’atomo era in vita molti anni dopo, e non essendo emersi elementi sospetti, il giallo è stato insomma considerato chiuso, anche se la fine non è nota. Diverso, almeno nel paradigma conclusivo, appare il quadro investigativo legato alla scomparsa della «ragazza con la fascetta», avvenuta nel giugno 1983. L’inchiesta per sequestro aggravato dalla morte dell’ostaggio (che sta per concludersi con la richiesta di rinvio a giudizio davanti a una Corte d’assise o, al contrario, con un’archiviazione) ha infatti portato nel corso degli ultimi sette anni all’iscrizione di sei persone sul registro degli indagati. Lo scenario di un’azione violenta ai danni della vittima, nell’ambito di un presunto ricatto attuato contro il Vaticano di Giovanni Paolo II e del capo dello Ior Marcinkus, con la partecipazione «operativa» di elementi della banda della Magliana, è stato ritenuto concreto, sulla base di precisi indizi. Tre dei sei indagati erano infatti agli ordini del boss «Renatino» De Pedis: uno avrebbe guidato la macchina in cui c’era Emanuela, al Gianicolo, prima della consegna a un non meglio specificato prelato, mentre gli altri due «sgherri» avrebbero pedinato la ragazza nei giorni precedenti il rapimento. Oltre a monsignor Pietro Vergari, discusso rettore della basilica di Sant’Apollinare dove fu poi inspiegabilmente sepolto il boss, e Sabrina Minardi, l’ex amante di «Renatino» che ha confusamente ricordato di aver visto gettare due sacchi (con dentro, forse, il corpo di Emanuela), in una betoniera, la conta degli indagati chiama in causa l’ultimo arrivato (nel 2013), il più sorprendente, reo confesso: quel Marco Fassoni Accetti che si è autoaccusato di aver avuto un ruolo come organizzatore e telefonista nel sequestro Orlandi (e in quello collegato di un’altra quindicenne, Mirella Gregori), per conto di un gruppo di laici ed ecclesiastici favorevoli alla Ostpolitik del cardinale Casaroli, all’epoca impegnati in una guerra di potere contro il fermo anticomunismo di papa Wojtyla e la (mala) gestione dello Ior da parte dello spregiudicato Marcinkus. Erano i tempi – giova ricordarlo, per inquadrare il duplice fronte di tensioni all’ombra del Vaticano – delle indagini sull’attentato al Papa polacco avvenuto due anni prima (maggio 1981) per mano del turco Alì Agca e del crack dell’Ambrosiano dal quale era derivata la morte del banchiere Calvi sotto il ponte londinese dei Frati Neri, l’anno precedente (giugno 1982). Il duplice sequestro Orlandi-Gregori, secondo il supertestimone più recente, che ha detto di aver atteso le dimissioni di papa Ratzinger per farsi avanti, sarebbe dovuto durare pochi giorni con un primo obiettivo concreto: indurre Agca a ritrattare l’accusa ai bulgari di essere stati i mandanti dell’attentato, in cambio della falsa promessa di una sua scarcerazione in tempi brevi attraverso la grazia, ottenibile proprio in seguito al ricatto operato su Santa Sede e Stato italiano con il rapimento delle quindicenni. Sta di fatto che, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela, il 28 giugno 1983, effettivamente il Lupo grigio cambiò versione, «scagionando» la Bulgaria (e quindi la Russia) da uno degli eventi più drammatici del periodo della Guerra Fredda. Ma questo è solo uno dei tanti passaggi al vaglio dei magistrati, in questa inchiesta-monstre anch’essa degna della penna di Leonardo Sciascia. Per sciogliere l’enigma Orlandi, adesso, la Procura di Roma è chiamata a valutare uno ad uno centinaia di indizi, riscontri, prove; dovrà essere definito il ruolo avuto dagli indagati o, in caso di archiviazione, andrà motivata la loro uscita di scena dalla cerchia dei sospettati. Procedere per sottrazione, come nel caso Majorana, non è possibile. Anche perché, purtroppo, quella ragazzina dal viso simpatico e i lunghi capelli scuri nessuno l’ha mai più rivista.
Il nipote e la verità su Majorana: non si uccise, io credo a Sciascia. «Lui in Venezuela? Non escludiamo nulla, aveva capacità enormi». «Giocava a calcolare chi avrebbe vinto una guerra: un umorismo para-matematico», scrive Massimo Sideri su “Il Corriere della Sera”. «Non credo che il mio prozio Ettore Majorana si sia ucciso, nessuno di noi lo ha mai pensato. Ha voluto fare una scelta precisa - è questa l’opinione in famiglia - più in linea con le sue capacità intellettuali, i fatti che conosciamo e anche l’opinione delle persone che gli erano più vicine al tempo, cioè la zia Maria, sua sorella». Salvatore Majorana, 43 anni nato a Catania dove quel cognome ancora oggi rappresenta una dinastia (Salvatore Majorana Calatabiano, nonno di Ettore, era stato ministro dell’Agricoltura e dell’Industria ai tempi di Giolitti) è il pronipote del famoso fisico scomparso nel ‘38 e lavora all’Iit di Genova dove guida l’ufficio di Technology Transfer. Rassomiglia a Ettore in maniera impressionante.
Come avete reagito alla notizia che secondo la Procura di Roma Ettore Majorana fosse vivo tra il ‘55 e il ‘59 in Venezuela?
«Era noto che ci fosse un’indagine sulla scomparsa di Ettore ma non pensavo che fosse ancora aperta e che fosse in mano alla Procura. Comunque l’ipotesi della scomparsa di Ettore era già circolata da anni e anche la fotografia non è nuova. Ciò che è nuovo è il collegamento della fotografia all’amico meccanico, Francesco Fasani, tant’è che sarei curioso di vedere il fascicolo».
Veniamo agli elementi probatori. La fotografia: lei rassomiglia moltissimo al suo prozio. Ritrova i tratti della sua famiglia in questa foto scattata in Venezuela?
«Non mi ci ritrovo neanche un po’. Ettore era del 1906 dunque nella fotografia avrebbe 49 anni. Anche ipotizzando che possa avere avuto una vita difficile non trovo in quel volto un legame con la foto diffusa che se non ricordo male era quella del libretto universitario. La sensazione è che ci sia la voglia di attribuire una soluzione al confronto».
Però le conclusioni della Procura sono compatibili con la vostra convinzione, cioè che Ettore Majorana quel giorno non si sia ucciso.
«Non discuto il risultato finale ma siamo perplessi sul metodo».
Il cognome Bini, usato secondo Fasani dal suo prozio, vi dice qualcosa in famiglia?
«Su due piedi no».
Altro elemento usato dalla Procura è una cartolina del 1920 di Quirino, zio di Ettore, altro famoso fisico.
«Non trovo plausibile che avesse quella cartolina in automobile 35 anni dopo».
In famiglia avete cercato delle prove su cosa possa avere fatto dopo la scomparsa nel ‘38 Ettore Majorana?
«Tutti noi in famiglia siamo sempre stati persuasi delle sue grandissime capacità di collegare i suoi studi agli eventi bellici. Ricordiamoci che stiamo parlando degli anni poco prima della Seconda guerra mondiale. I cargo che portavano le persone in America erano diffusi. In quell’epoca se volevi sparire ci riuscivi anche senza essere un genio».
L’ipotesi di Sciascia era che potesse essersi ritirato in un convento della Calabria. Cosa ne pensa?
«Dopo il libro qualcuno andò anche a controllare. Dai registri non risultava nulla. Ma questo, evidentemente, non significa che non ci sia stato. Di certo Sciascia fece un lavoro di inchiesta».
Un testimone ha raccontato di averlo incontrato a Roma, nell’81, insieme al fondatore della Caritas romana, monsignor Luigi Di Liegro.
«Sono tutte ipotesi che hanno del verosimile. Mi sembra strano però che la famiglia non abbia avuto traccia di una sua permanenza in Italia».
Un aneddoto che vi tramandate in famiglia?
«Faceva giochi matematici per calcolare come sarebbe andata a finire una guerra sulla base di cannoni e navi: aveva un suo umorismo para-matematico».
Giallo Majorana: testimone, era clochard a Roma, scrive “L’Ansa”. Visto nel 1981 con il fondatore della Caritas romana. Poi in convento. Si infittisce il giallo su Ettore Majorana. Dopo la conferma da parte della Procura di Roma che il fisico catanese scomparso nel 1938 era vivo nel periodo 1955-1959 e si trovava nella città venezuelana di Valencia, oggi è il turno di un testimone oculare che, in un'intervista all'ANSA, assicura di aver incontrato lo scienziato all'inizio degli anni '80 a Roma. "Majorana era sicuramente vivo nel 1981 ed era a Roma. Io l'ho visto", riferisce il testimone spiegando di averlo incontrato nel centro della Capitale insieme a monsignor Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana. Era un senzatetto, che poi è stato riportato nel convento dove era ospitato, afferma il testimone. "Sono stato tra i collaboratori più vicini di monsignor Di Liegro e con lui abbiamo incontrato Majorana probabilmente il 17 marzo 1981. E non è stata l'unica volta, l'ho incontrato in tre-quattro occasioni", prosegue l'uomo - un programmista regista originario della Calabria, ma trasferitosi a Roma da giovane - che chiede di mantenere l'anonimato. "Majorana stava in piazza della Pilotta, sugli scalini dell'Università Gregoriana, a due passi da Fontana di Trevi. Aveva un'età apparente di oltre 70 anni", racconta ancora il testimone. L'uomo, che all'epoca faceva parte di un gruppo che assisteva i senzatetto, rimase colpito dal fatto che uno dei clochard disse, inserendosi in una conversazione, che quel clochard aveva la soluzione del "Teorema di Fermat", l'enigma del '600 che per secoli è stato un rompicapo per i più grandi matematici e che all'epoca non era stato ancora risolto. La soluzione, infatti, risale solo al 2000. "A quel punto gli dissi di farsi trovare la sera seguente perchè volevo farlo incontrare con Di Liegro". L'incontro avvenne e il sacerdote portò via il senzatetto con la sua auto. "Dopo un'ora e mezza tornò e mi disse: 'sai chi è quell'uomo? E' il fisico Ettore Majorana, quello scomparso. Ho telefonato al convento dove lui era ospite e mi hanno detto che si era allontanato. Ora ce l'ho riportato'". Il testimone racconta di aver saputo da don Di Liegro, che a sua volta lo aveva appreso dal responsabile del convento, "che Majorana aveva intuito che gli studi che stava facendo avrebbero portato alla bomba atomica e ha avuto una crisi di coscienza e voleva essere dimenticato. Sempre il responsabile del monastero gli disse che prima Majorana era ospite di un convento di Napoli e poi andò a finire in questo nei pressi di Roma. Erano certi che fosse lui anche per una cicatrice su una mano, la destra. Chiesi a don Luigi di riferirlo ai parenti di Majorana, ma lui disse che non potevamo. Io per tanti anni ho provato a tornare sull'argomento, ma don Di Liegro, che non lo riferì a nessuno, nemmeno ai suoi più stretti collaboratori, non voleva saperne e mi raccomandò di tacere. Mi disse di non dire niente a nessuno almeno per 15 anni dopo la sua morte, avvenuta il 12 ottobre 1997. Ormai il tempo è passato".
IOR NAME IS 007: DA MARCINKUS A SCARANO, GLI INTRECCI TRA SERVIZI, MASSONI E VATICANO. L’inchiesta su monsignor 500 euro è l’ultimo di una lunga serie di misteri che vedono intrecci tra servizi segreti italiani, Vaticano e massoneria - La morte di Papa Luciani, che voleva riformare lo Ior, e quello scazzo con Villot - Il caso di Emanuela Orlandi, scrive Marco Mostallino per Lettera43.it il 3 luglio 2013. Tonache, barbe finte e grembiulini. La vicenda dell'Istituto opere religiose (Ior), la banca vaticana i cui vertici sono stati indotti alle dimissioni, si intreccia da 40 anni con gli affari e le manovre di monsignori, agenti segreti più o meno deviati, massoni e piduisti.
MONSIGNORI E MASSONI. Massone era monsignor Paul Markincus, presidente dello Ior tra il 1971 e il 1989, coinvolto negli scandali del Banco Ambrosiano e nelle misteriose morti di Michele Sindona e Roberto Calvi. Massone era anche monsignor Jean Villot, potente segretario di Stato all'epoca di Paolo VI e protagonista di un duro scontro sugli assetti della banca con Albino Luciani, il pontefice che intendeva rivoluzionare l'Istituto ma che morì prima di poter mettere mano alle riforme.
IL CASO SCARANO. E membri dei servizi segreti italiani erano - o forse sono ancora - il prefetto Francesco La Motta, incarcerato il 28 giugno scorso per il furto di fondi del Viminale passati sui conti Ior, e Giovanni Zito, il carabiniere fermato con l'accusa di aver fatto da spallone tra l'Italia e la Svizzera per muovere i quattrini di Nunzio Scarano, il vescovo arrestato proprio per i traffici di decine di milioni movimentati attraverso i canali riservati della banca vaticana. Marcinkus guidò lo Ior, coltivandone i legami con Calvi, Sindona e il capo della P2 Licio Gelli, fino a quando nel 1987 la magistratura italiana ne ordinò l'arresto per gli intrighi dell'Ambrosiano. Il monsignore massone trovò rifugio per quasi 10 anni prima tra le mura della Santa Sede, che non lo consegnò mai alla giustizia, poi di una piccola parrocchia statunitense, dove morì nel 1997 senza che l'allora papa, Giovanni Paolo II, aprisse mai i segreti della Chiesa agli investigatori italiani.
SCARANO B. Chi cercò di ripulire le istituzioni vaticane da imbrogli e malaffare fu Albino Luciani. Prima, nel 1972, da patriarca di Venezia, quando si recò in Vaticano per contrastare la decisione di Marcinkus di acquisire due banche venete legate al mondo cattolico. Poi, nel 1978, da papa.
LA MANO DI JEAN VILLOT. Non vi riuscì, poiché il capo dello Ior godeva della piena protezione del segretario di Stato dell'epoca, il cardinale Jean Villot. Il porporato francese era un uomo abile, scaltro, determinato e spregiudicato, messo a capo del governo della Santa Sede nel 1969 da Paolo VI. Membro della massoneria, conservò la carica anche con Luciani, l'uomo che appena eletto pontefice - come confessò egli stesso ai suoi collaboratori fatti giungere a Roma dal Veneto - si trovò subito attorno la terra bruciata creata dalla Curia vaticana.
LUCIANI E QUELLA MORTE SOSPETTA. Luciani era un uomo limpido e determinato: «Desidero che siano i vescovi e cardinali, con una loro rappresentanza, a decidere cosa fare dello Ior. Chiedo che le sue azioni siano tutte lecite e pulite e consone con lo spirito evangelico», disse. Prima di aggiungere, riferendosi a Marcinkus pur senza farne il nome, che «il presidente dello Ior deve essere sostituito, nel rispetto della persona: un vescovo non può presiedere e governare una banca». Ma accadde esattamente il contrario. A essere sostituito, dopo 33 giorni di pontificato, fu il papa. E a causa di morte. Taluni ipotizzarono che quel «rispetto della persona» non fu garantito a Luciani: il decesso venne classificato per cause naturali, ma nessuna autopsia fu mai eseguita.
PAPA LUCIANI. Tra le mani, il papa morto teneva alcune carte - notizia che il Vaticano sulle prime nascose - con appunti su un duro colloquio avvenuto poche ore prima con Villot, al quale aveva comunicato di voler cambiare i vertici dello Ior e di alcuni ministeri della Santa Sede, ricevendo in cambio il parere fortemente negativo dell'allora segretario di Stato.
I SERVIZI SEGRETI ITALIANI, TRA IOR E CRIMINALITÀ. Nelle vicende dello Ior, dell'Ambrosiano e nelle misteriose morti a esse legate i servizi segreti italiani spuntano spesso e volentieri. L'ombra degli 007 è calata sugli omicidi di Calvi e Sindona mentre, secondo alcune testimonianze, gli agenti italiani avrebbero svolto ruoli di mediazione tra i porporati e la banda della Magliana nel rapimento di Emanuela Orlandi.
CARLO CALVI CON LA MADRE E MICHELE E RINA SINDONA ALLE BAHAMAS. Ed è accertato da diverse indagini che uffici dello spionaggio italiano hanno spesso utilizzato conti coperti dello Ior per spostare soldi in maniera riservata. Le ultime due inchieste romane hanno poi rivelato che uomini dei servizi sono pesantemente coinvolti nei traffici illeciti che avvengono tramite la banca vaticana.
GLI EX AISI LA MOTTA E ZITO. Il prefetto La Motta, arrestato pochi giorni fa, prima di essere trasferito al Viminale è stato vicedirettore dell'Aisi, il servizio segreto per la sicurezza interna (una dalle agenzie che hanno sostituito Sismi e Sisde, i cui nomi erano diventati impronunciabili). Anche l'uomo accusato di aver trasportato i soldi di monsignor Scarano, il sottufficiale dei carabinieri Giovanni Zito, aveva lavorato per l'Aisi per poi tornare in forza all'Arma.
EMANUELA ORLANDI. Ma uno 007 è un po' come un prete: la sua scelta vocazionale lo accompagna per tutta la vita e le indagini di questi giorni dimostrano che i film di James Bond in fondo portano con sé una morale veritiera: quando indossi una barba finta, è difficile poi che qualche pelo, magari proprio dei più sporchi, non ti resti addosso per sempre.
Soldi, caso Orlandi, abusi: il nuovo libro di Nuzzi sui misteri del Vaticano. «Su Emanuela dì che non sai niente». Nella nuova inchiesta del giornalista Nuzzi, «Peccato originale», anche la denuncia dei chierichetti di San Pietro, sottoposti ad indebite attenzioni da parte dei loro superiori, scrive l'8 novembre 2017 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". «Allo Ior dovresti evitare assolutamente di conoscere i nomi dei correntisti…». «E se invece dovessi chiedere i nomi dei clienti?». «A quel punto, amico mio, avrai quindici minuti per mettere in sicurezza i tuoi figli. A presto caro…». Basta questo scambio di battute tra Ettore Gotti Tedeschi sul punto di essere nominato presidente della Banca Vaticana e l’«apprezzato uomo delle istituzioni pragmatico e soprattutto molto ascoltato» che scodella al banchiere l’affettuoso «consiglio» dalle sfumature mafiose, a gettare una lama di luce sul nuovo libro di Gianluigi Nuzzi.
La fronda a Papa Francesco. Si intitola «Peccato originale», è edito da Chiarelettere e in 352 pagine il giornalista e scrittore, autore dei bestseller «Vaticano S.p.A.», «Sua Santità» e «Via Crucis» cerca di rispondere a sette domande rimaste in sospeso. Domande che, proprio perché irrisolte, vanno indietro anche di mezzo secolo. «È stato ucciso Albino Luciani? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Se la ragazza ormai “sta in cielo”, come afferma papa Francesco, il Vaticano ha delle responsabilità nell’omicidio, e quali sono? Perché le riforme per la trasparenza della curia, avviate prima da Joseph Ratzinger e adesso da Bergoglio, puntualmente falliscono o rimangono incompiute? Cosa blocca il cambiamento? E ancora: i mercanti del tempio continuano a condizionare la vita della Chiesa dopo aver avuto un ruolo nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI? Infine, la questione più drammatica: lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco è dovuto a chi non vuole questo Papa, dentro e fuori i sacri palazzi, e dunque ne ostacola l’opera riformatrice?». Per rispondere, spiega, ha seguito tre fili rossi: i soldi, il sangue, il sesso. Fili che «annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d’interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento».
Il boss in basilica. E c’è davvero di tutto, nel libro. Dai conti correnti allo Ior di Eduardo de Filippo o di Anjezë Gonxe Bojaxhiu, (suor Teresa di Calcutta) alla dettagliata ricostruzione della riservatissima trattativa tra i vertici della magistratura romana e gli altissimi prelati che fecero sapere al procuratore Giancarlo Capaldo, che da anni indagava sulla scomparsa della Orlandi, del loro imbarazzo per la crescente «tensione massmediatica» a causa della presenza nei sotterranei di sant’Apollinare della tomba di Enrico «Renatino» De Pedis, il boss della banda della Magliana sospettato d’aver avuto un ruolo centrale nella sparizione della ragazza e sepolto lì in cambio di una donazione, pare, di 500 milioni di lire. Insomma, il «disagio» per «sospetti» e «pettegolezzi» era tale che se i giudici si fossero presi la briga di rimuover loro la salma, come raccontava il film di Roberto Faenza «La verità sta in cielo», il Vaticano dopo anni di reticenze avrebbe discretamente fornito tutto ciò che sapeva. Un patto che dopo la traslazione della salma e l’esame di 409 cassette e 52.188 ossa umane per cercare eventuali tracce della quindicenne sparita, sfumò com’è noto nel nulla.
Papa Luciani. Come nel nulla erano finiti i dubbi, le discussioni e le polemiche sulla morte di Albino Luciani, il «Papa che sorrise solo 33 giorni». Fu avvelenato? Probabilmente no, dice Nuzzi: piuttosto fu «schiacciato» dal peso dei problemi e più ancora dalla «verità tragica e indicibile» di quanto avveniva dentro lo Ior. Che lui avrebbe voluto riformare fin dal ‘72, quando da Patriarca di Venezia aveva avuto il primo scontro col potentissimo e spregiudicato cardinale Paul Marcinkus. Il quale, si legge in «Peccato originale», avrebbe liquidato sei anni dopo il neoeletto Giovanni Paolo I con parole sprezzanti: «Questo pover’uomo viene via da Venezia, una piccola Diocesi che sta invecchiando, con 90.000 persone e preti anziani. Poi, all’improvviso, viene catapultato in un posto e nemmeno sa dove siano gli uffici. (…) Si mette a sedere e il segretario di Stato gli porta una pila di documenti, dicendo: “Esamini questi!”. Ma lui non sa neppure da dove cominciare».
Scatole cinesi e conti esteri. In verità, i pasticci, le scatole cinesi e i labirinti azionari erano tali che avrebbe faticato a capirci non solo un Papa santo ma un revisore dei conti provetto. Basti dire che uno dei numerosi documenti in appendice al libro, del 23 marzo 1974, è la «contabilizzazione assegno n. 0153 s/FNCB NY, del valore di 50.000 dollari, emesso all’ordine: “S.S. Paolo VI per erogazione in relazione Esercizio 1973”. In basso nel documento si riporta il relativo addebito sul conto n. 051 3 01588, intestato “Cisalpine Fund”, che potrebbe far riferimento alla banca panamense Cisalpine, nel cui cda siederanno Paul Marcinkus con Roberto Calvi e Licio Gelli». Banca tirata in ballo in un incontro con Nuzzi dalla stessa vedova di Roberto Suárez Gómez, il «re della cocaina»: «Mio marito Roberto era felice di aver incontrato in Venezuela Calvi, perché disponendo di un garante di questo livello gli affari sarebbero andati molto meglio... con la cocaina immagino, non fu esplicito ma immagino fosse così... Calvi era socio di mio marito...».
La lobby gay. Ma le pagine destinate a sollevare più polemiche sono quelle dedicate al sesso. Dove sono ricostruiti gli scandali recenti come il gay party a base di cocaina interrotto dai gendarmi vaticani in un appartamento nello stesso palazzo del Sant’Uffizio o le confidenze di Elmar Theodor Mäder, l’ex comandante delle guardie svizzere («Esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del pontefice») o ancora le amarezze di papa Francesco: «In Vaticano esiste una lobby gay. Nella curia ci sono persone sante, davvero, ma c’è anche una corrente di corruzione. Si parla di una lobby gay ed è vero, esiste». Ma Nuzzi va oltre. Pubblica un’intercettazione telefonica ad esempio tra il rettore della basilica di Sant’Apollinare all’epoca della scomparsa della Orlandi e un giovane seminarista nato in Birmania. Intercettazione strapiena di allusioni sessuali a dir poco imbarazzanti. Più ustionante ancora la testimonianza di un polacco (con nome, cognome e copia della lettera di denuncia) entrato dodicenne nel pre-seminario San Pio X a palazzo San Carlo (lo stesso in cui vivono cardinali come Tarcisio Bertone) dove le Diocesi indirizzano i ragazzini che «manifestano una predisposizione per il sacerdozio» e «partecipano come chierichetti alle funzioni religiose nella basilica di San Pietro». Incluse quelle celebrate dal Papa. E dove, stando a quanto raccolto in «Peccato originale», sarebbero avvenuti abusi denunciati ai superiori, su su nella scala gerarchica, senza che certe cose, purtroppo, venissero radicalmente cambiate. A essere allontanato, scrive anzi il giornalista, fu il chierichetto che chiedeva di allontanare chi molestava lui e il suo compagno di stanza. Accuse assurde? Si vedrà. Certo colpiscono le risposte rasserenanti e sdrammatizzanti di certi prelati chiamati a intervenire dopo queste denunce. Su tutte una «raccomandazione» al giovane polacco: «Ti auguro di riprendere serenità e docilità».
Emanuela Orlandi, spunta dossier shock, scrive il 18/09/2017 "Adnkronos.com". Nuovo documento choc sul caso di Emanuela Orlandi, la ragazzina 15enne, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, scomparsa in circostanze misteriose il 22 giugno del 1983. L'esistenza del dossier segreto emerge dal libro-inchiesta Gli impostori del giornalista Emiliano Fittipaldi. "E' un riassunto di tutte le note spese per un presunto 'allontanamento domiciliare' di Emanuela Orlandi", scrive su Facebook il cronista. "Ho trovato un documento uscito dal Vaticano. Ci ho lavorato mesi, e ho pubblicato un libro, Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno", spiega. "Leggendo il resoconto - continua il giornalista nel post su Facebook - e seguendo le tracce delle uscite della nota, che l'estensore attribuisce al cardinale Lorenzo Antonetti, sembra che il Vaticano abbia trovato la piccola rapita chissà da chi, e che abbia deciso di 'trasferirla' in Inghilterra, a Londra. In ostelli femminili". "Per 14 anni - prosegue - le avrebbe pagato rette, vitto e alloggio, spese mediche, spostamenti. Almeno fino al 1997, quando l'ultima voce parla di un ultimo trasferimento in Vaticano e 'il disbrigo delle pratiche finali'". "Delle due l'una - osserva il giornalista - o il documento è vero, e apre squarci clamorosi e impensabili sulla storia della Orlandi. O è un falso, un apocrifo che segna una nuova violenta guerra di potere tra le sacre mura. Ma - conclude - chi può aver costruito un simile resoconto?". Fittipaldi torna a occuparsi di Vaticano con 'Gli impostori' dopo essere stato coinvolto due anni fa nel caso Vatileaks per il suo libro Avarizia. Messo sotto processo dal Vaticano con l'accusa di aver divulgato documenti top secret, il giornalista è stato prosciolto lo scorso anno "per difetto di giurisdizione". Il cardinale Giovanni Battista Re, il cui nome è comparso, insieme a quello del cardinale Jean-Louis Tauran tra i destinatari del documento, dichiara, intervistato da Stanze Vaticane, il blog di Tgcom24: "Non ho mai visto quel documento pubblicato da Fittipaldi, non ho mai ricevuto alcuna rendicontazione su eventuali spese effettuate per il caso di Emanuela Orlandi". Il cardinale Re, all'epoca era Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato e avrebbe ricevuto questo dossier da parte dell'Apsa (L'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Nessuna certezza sull'autenticità del documento che riporta la firma dattiloscritta del cardinale Lorenzo Antonetti, ma non quella autografa. Vaticano: "Documento Fittipaldi falso e ridicolo" - "Falso e ridicolo". Così, senza commentare oltre, il portavoce della Santa Sede Greg Burke definisce il documento pubblicato da Fittipaldi. "Il muro sta cadendo", scrive su Facebook Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Probabilmente un auspicio per Pietro che da sempre lotta per la verità su quanto accaduto alla sorella.
Caso Orlandi, c’è il giallo dei ricoveri Sul dossier l’ombra dei corvi. L’elenco di spese per gestire il caso sarebbe un avvertimento. Riferimenti diretti ad altri documenti allegati e ancora segreti, scrive Fiorenza Sarzanini il 18 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Allontanamento domiciliare della cittadina Emanuela Orlandi»: così, nel dossier che circola in Vaticano, viene definita la scomparsa della giovane avvenuta il 22 giugno 1983. E tanto basta per accreditare l’ipotesi che quei cinque fogli con l’elenco delle spese per circa 500 milioni di lire attribuite alla Santa Sede per gestire la vicenda fino a luglio 1997, siano in realtà un avvertimento. La resa dei conti in una guerra interna cominciata con le rivelazioni dei «corvi» e continuata con i documenti pubblicati durante Vatileaks. Una possibilità avvalorata dal fatto che fossero stati rubati dalla cassaforte di monsignor Vallejo Balda — condannato come una delle «fonti» — e poi restituiti in un plico anonimo spedito alla Prefettura. Sono proprio le circostanze elencate nella relazione a sollevare nuovi dubbi e interrogativi su quello che invece è sempre stato considerato un rapimento di cui però rimane oscuro il movente.
Le ricevute allegate. Nel testo attribuito all’allora presidente dell’Apsa, l’amministrazione del patrimonio della sede apostolica, si parla di un «divieto postomi di interrogare direttamente le fonti incaricando esclusivamente il capo della gendarmeria vaticana», che all’epoca era Camillo Cibin. E subito dopo si specifica che il documento «non include l’attività commissionata da Sua Eminenza il cardinale Agostino Casaroli al “Commando 1” in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell’attività citata». Sia Cibin, sia Casaroli sono morti. Ma molte persone che collaboravano con loro rivestono tuttora incarichi all’interno della Santa Sede. E forse proprio a loro si rivolge chi ha confezionato il dossier. Anche perché specifica che esistono «documenti allegati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza», sottolineando che sono state effettuate spese «non fatturate». Una nota che suona come un messaggio in codice per far sapere che altre carte potrebbero essere rese note.
I due ricoveri. Nessuna tra le ipotesi formulate nel corso degli anni su che cosa sia accaduto alla giovane ha mai trovato riscontro, ma accreditare la tesi che possa essere stata «gestita» per 14 anni dalle gerarchie ecclesiastiche apre scenari inquietanti proprio su quanto può essere accaduto Oltretevere. Anche perché l’appello del 3 luglio 1983 pronunciato da Giovanni Paolo II, durante l’Angelus, escluse la pista di una fuga volontaria e confermò che il Pontefice potesse avere avuto informazioni su un coinvolgimento del Vaticano per la responsabilità di personaggi interni, oppure come destinatario del ricatto. Per questo suscitano interesse due «voci» del dossier che riguardano i ricoveri in strutture sanitarie della Gran Bretagna. Nella prima si parla di «spese clinica St Mary’s Hospital Campus Imperial College» di Londra per 3 milioni di lire. E subito dopo è citata la «dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology» senza specificare la spesa ma annotando invece che l’attività «economica a rimborso» è contenuta «nell’allegato 28».
Niente protocollo. Nel dossier «presentato in triplice copia per dovuta conoscenza a entrambi i destinatari» — che sono l’allora sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, il cardinale Giovanni Battista Re, e il sottosegretario Jean Louis Tauran — si sottolinea che «come da richiesta non si espleta la funziona di protocollazione». Un’altra circostanza che appare come un avvertimento. Di questo documento si parla ormai da svariati mesi tanto che la famiglia Orlandi aveva chiesto udienza al Segretario di Stato Pietro Parolin. Dalla Santa Sede hanno sempre negato che esistesse. Ora si scopre invece che era stato custodito nella prefettura della Santa Sede. Perché non si è confermato che circolava e si trattava di un falso? O forse qualcuno era convinto di essere riuscito a insabbiarlo.
Emanuela Orlandi, il giallo del nuovo dossier: "Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per il suo allontanamento". Un documento shock esce dalla Santa Sede. È il cuore di un libro-inchiesta di Emiliano Fittipaldi, “Gli impostori”. Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983. Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco. Ecco un'anticipazione, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 settembre 2017 su “L’Espresso". Prima di consegnarmi i documenti, la fonte aveva tergiversato per settimane. Nei primi due incontri, durante i quali avevo chiesto consigli su come raggiungere l'obiettivo, aveva escluso con fermezza di avere le carte che cercavo. "Le ho solo lette, se le avessi te le darei, figurati," aveva chiarito seccamente di fronte alle mie insistenze. Non ero convinto che dicesse la verità, ma tentai le strade alternative che mi aveva indicato. Capii presto che era fatica sprecata, e dopo un po' tornai alla carica. Alla fine, al terzo appuntamento, la fonte ha ammesso di avere il dossier. "Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia." Al quarto incontro, avvenuto in un bar del centro di Roma, mi consegnò una cartellina verde. Me ne tornai a casa di corsa senza neanche guardarci dentro. Appena varcata la porta del mio studio, la aprii. C'erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell'Apsa (l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran. Al tempo, Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un'altra sezione del dicastero della Curia romana che "più da vicino", come spiega il sito del Vaticano, "coadiuva il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione". Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l'estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi. Il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997. La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna. Alla fine, l'autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, "come da richiesta".
Leggo il testo della prima pagina tutto d'un fiato. "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio1968),", è il titolo. "La prefettura dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell'allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi. "La sezione di riferimento, sotto la mia supervisione, ha provveduto a raccogliere il materiale attraverso gli attori dello Stato che hanno interagito con la vicenda. "Moltissimi limiti nella ricostruzione sono stati riscontrati nell'impossibilità di rintracciare documentazione relativa agli agenti di supporto utilizzati sul suolo italiano stante il divieto postomi di interrogare le fonti, incaricando esclusivamente il capo della Gendarmeria Vaticana in questo senso. "L'attività di Analisi è suddivisa in archi temporali rilevanti per avvenimenti e per spese sostenute. "Il documento non include l'attività commissionata da Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Segretario di Stato Emerito Agostino Casaroli al 'Commando 1', in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell'attività citata. "I documenti allegati (197 pagine) al presente rapporto sono presentati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza, sono presentati in forma di resoconto bancario le quantità di denaro utilizzate e prelevate per spese non fatturate." La lettera che ho in mano sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997. Scorro rapidamente le fredde voci di costo elencate. Delineano scenari nuovi e oscuri su una vicenda di cui si è scritto e ipotizzato molto, e su cui il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto raccontato e condiviso con i giudici italiani che hanno investigato in questi ultimi trentaquattro anni. Il dossier sintetizza gli esborsi sostenuti dal Vaticano dal 1983 al 1997. La somma totale investita nella vicenda Orlandi è ingente: oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire. L'elenco riempie pagina due, tre, quattro e, in parte, cinque del rendiconto. La prima voce riguarda il pagamento di una "fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana". La Orlandi, nell'ultima telefonata alla famiglia prima della sparizione, aveva in effetti detto che qualcuno le aveva proposto di pubblicizzare i prodotti di una marca di cosmetici, la Avon, durante una sfilata delle stiliste Fontana. Per la fonte, la Santa Sede aveva sborsato 450.000 lire. C'era un'altra spesa per la "preparazione all'attività investigativa estera" costata altre 450.000 lire, uno "spostamento" da ben 4 milioni di lire e, soprattutto, le "rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra". Chi ha scritto il documento, come vedremo, aveva digitato male l'indirizzo: a quello giusto c'è la sede londinese dei padri scalabriniani, la congregazione dei missionari di San Carlo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini. Dagli anni sessanta gestiscono un ostello della gioventù destinato esclusivamente a ragazze e studentesse. Nel periodo 1983-1985, per le rette, erano stati versati 8 milioni di lire. Il prezzo giusto, mi dico, per ospitare una persona in quell'arco temporale (per dare un ordine di misura, nel 1983, secondo i dati storici della Banca d'Italia, lo stipendio medio di operai e impiegati era di circa 500.000, 600.000 lire nette al mese). La prima pagina si chiude con i costi per l'"indagine formale in collaborazione con Roma" (23 milioni) e con la misteriosa "attività di indagine riservata extra 'Commando 1', direzione diretta Cardinale Casaroli", per una cifra di 50 milioni di lire. Agostino Casaroli era il segretario di Stato che nella vicenda Orlandi ha avuto un ruolo importante, soprattutto all'inizio. La nota, nella seconda e nella terza pagina, racconta i costi sostenuti per l'"allontanamento domiciliare" di Emanuela nel periodo "febbraio 1985-febbraio 1988". Si elencano dispendiosi viaggi a Londra di esponenti vaticani di altissimo livello, soldi investiti per la "attività investigativa relativa al depistaggio", spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in "ginecologia". Si parla di "un secondo" e di "un terzo trasferimento", di decine di milioni di lire per "rette omnicomprensive" di vitto e alloggio. Gli anni scorrono. Arrivo all'ultima pagina. Il documento segnala che il resoconto dei costi per le attività relative alla cittadina Orlandi e al suo "allontanamento domiciliare" si riferisce stavolta al periodo "aprile 1993-luglio 1997". Le voci del quadriennio sono solo tre: oltre alle solite rette (con "il dettaglio mensile e annuale in allegato 22") e ad altre "spese sanitarie forfettarie", figura il capitolato finale. Mi si gela il sangue: "Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000". La lista finisce qui, ma in fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. "Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti. Stato Città del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28." Smetto di leggere. Il documento, che esce certamente dal Vaticano, anche se non protocollato e privo di firma del suo estensore, pare verosimile. Ma quasi incredibile nel suo contenuto. Dunque, delle due l'una: o è vero, e allora apre per la prima volta squarci impensabili e clamorosi su una delle vicende più oscure della Santa Sede. O è un falso, un documento apocrifo, che mischia con grande abilità tra loro elementi veritieri che inducono il lettore ad arrivare a conclusioni errate. In entrambi i casi, il pezzo di carta che ho in mano è inquietante. Perché, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano. Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che come vedremo contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto "interno" alla Città Santa poteva conoscere così bene? Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l'ha redatto con tale maestria, e chi l'ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura?
Difficile rispondere ora a queste domande. Ma è chiaro che, se il documento fosse falso, la Gendarmeria guidata da Domenico Giani avrà parecchio da lavorare. Il report fasullo potrebbe essere rimasto nascosto per anni in qualche cassetto, mai usato (almeno fino ad ora) e infine dimenticato. O potrebbe essere stato costruito ad hoc più di recente, dopo il furto del marzo del 2014, e restituito dai ladri insieme ad altri documenti certamente veritieri. Ma se è così, perché monsignor Abbondi non ha detto davanti ai magistrati di papa Francesco che lo interrogavano sul contenuto del plico anonimo con i documenti rubati che era tornato, tra gli altri, anche un dossier sulla Orlandi che non aveva mai visto, e quindi forse fasullo? Perché ha parlato genericamente di carte "sgradevoli"?
È pure evidente, però, che il report non spiega chiaramente cosa sia accaduto alla ragazzina che amava le canzoni di Gino Paoli, né accusa con nome e cognome qualcuno di responsabilità specifiche sul rapimento e sulla fine di Emanuela. Per quanto incredibile, cerco di costringermi a pensare che il documento possa essere anche una lettera autentica. Il report di un burocrate, il cardinale Antonetti appunto, che rendiconta minuziosamente ai due destinatari tutte le spese sostenute per "l'allontanamento domiciliare" della Orlandi, spese divise per quattro archi temporali definiti. Una pratica obbligatoria nei servizi segreti di ogni Stato del pianeta: alla fine di un'operazione, anche quelle in cui vengono usati fondi neri, i responsabili devono presentare il consuntivo di ogni spesa effettuata ai superiori. La missiva è "presentata in triplice copia", come si usa fare da sempre in Vaticano anche per i documenti riservati (uno va ai destinatari dei vari dicasteri coinvolti, un altro resta nell'archivio dell'Apsa). Stavolta una copia è finita anche negli archivi della Prefettura degli affari economici, cioè il ministero della Santa Sede che aveva il compito di supervisionare le uscite dei vari enti vaticani. Non è una stranezza: nell'enorme armadio blindato che i ladri hanno aperto nel marzo del 2014 ci sono migliaia di documenti provenienti anche da altri enti vaticani. Tra cui, per esempio, le lettere di Michele Sindona spedite non in Prefettura, ma ai cardinali presidenti di pontificie commissioni. Fosse veritiero, dunque, il rendiconto datato marzo 1998, pur in assenza delle 197 pagine di fatture, darebbe indicazioni e notizie sbalorditive che potrebbero aiutare a dipanare la matassa di un mistero irrisolto dal 1983. Perché dimostrerebbe, in primis, l'esistenza di un dossier sulla Orlandi mandato alla segreteria di Stato, mai consegnato né discusso con le autorità italiane che hanno investigato per decenni senza successo sulla scomparsa della ragazzina. Perché evidenzierebbe come la chiesa di Giovanni Paolo II abbia fatto investimenti economici importanti su un'attività investigativa propria, sia in Italia sia all'estero, i cui risultati sono a oggi del tutto sconosciuti. Perché il dossier citerebbe un fantomatico "Commando1" guidato direttamente da Agostino Casaroli, potente segretario di Stato della Santa Sede, forse un gruppo di persone composto da pezzi dei servizi segreti vaticani (il corpo della Gendarmeria ha funzioni di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, ma svolge anche lavoro di intelligence per la sicurezza dello stato) che ha preso parte alle attività successive alla scomparsa della ragazza. Ma, soprattutto, il resoconto diventa clamoroso quando mostra come tra il 1983 e la fine del 1984 il Vaticano, dopo indagini autonome, avrebbe investe in un primo "spostamento" la bellezza di 4 milioni di lire. Da allora il campo da gioco dei monsignori che si sarebbero occupati della vicenda di Emanuela si sposta in Inghilterra. In particolare, a Londra.
Possibile che Emanuela Orlandi sia stata ritrovata viva dal Vaticano e poi nascosta in gran segreto nella capitale inglese? Se non è così, e se il documento è autentico, a chi la Santa Sede ha pagato per quattordici anni "rette vitto e alloggio" elencate in un report che ha come titolo "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi" e per il suo "allontanamento domiciliare"? Come mai nella nota sulla ragazza viene indicato che il capo della Gendarmeria del tempo, Camillo Cibin, avrebbe sborsato la bellezza di 18 milioni di lire, tra il 1985 e il 1988, per andare avanti e indietro da Londra? Chi sarebbe andato a trovare qualche tempo dopo il medico personale di papa Wojtyla, Renato Buzzonetti, insieme a Cibin, "presso la sede l. 21", una "trasferta" da 7 milioni di lire? Perché e a chi, all'inizio degli anni novanta, il Vaticano avrebbe pagato spese sanitarie - come segnala ancora l'estensore dello scritto - per i controlli (o addirittura un ricovero) alla Clinica St. Mary, sempre a Londra? Chi è andata, sola o accompagnata, a farsi visitare dalla "dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology" dello stesso nosocomio un'unica "attività economica a rimborso" di cui il capo dell'Apsa non indica la spesa precisa, invitando a leggere i "dettagli in allegato 28"? (contattata da l'Espresso, la Regan nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Emanuela).
La storia, secondo il documento, non sembra finire bene. Perché la lista si conclude con un ultimo capitolato di spesa, sull' "attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali". Il trasferimento è il quarto segnalato nel report: chi viene portato in Vaticano? Perché nel luglio 1997 la "pratica" di Emanuela Orlandi viene considerata chiusa?
A metà giugno del 2017 capisco, dal Corriere della Sera, che qualcun altro è a conoscenza del documento misterioso. La famiglia Orlandi ha infatti presentato un'istanza di accesso agli atti per poter visionare "un dossier custodito in Vaticano". Il quotidiano accredita che il fascicolo possa contenere resoconti di attività inedite fino al 1997, con dettagli anche di natura amministrativa svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento". Capisco che si tratta proprio del report che ho in mano. Il giorno dopo monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria, nega l'esistenza di qualsiasi carta riservata: "Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Il caso per noi è chiuso". Anche il cardinale Re interviene, assicurando che "la Segreteria di Stato" di cui nel 1997 lui era sostituto "non aveva proprio niente da nascondere. Essendo uno dei due destinatari della presunta lettera di Antonetti, decido di chiamarlo, e domandargli se ha mai ricevuto quel report sull’ "allontanamento domiciliare" di Emanuela Orlandi, e se in caso contrario quello che ho in mano è un report apocrifo che vuole inchiodarlo a responsabilità che lui non ha. L'inizio del colloquio è rilassato. Appena gli leggo il titolo, il cardinale, senza chiedermi nulla nel merito del documento, tronca improvvisamente la conversazione: "Guardi io non so di questo. E mi dispiace non poterla aiutare. Sono qui con altre persone". Clic.
La mia ricerca è iniziata nel febbraio del 2017. Leggendo il libro di Francesca Chaoqui e dell'ex direttore della sala stampa del Vaticano Federico Lombardi. Quest'ultimo ricordava come un testimone eccellente del processo che mi vedeva coinvolto, quello su Vatileaks 2, aveva parlato di alcuni documenti trafugati. Il test era monsignor Alfredo Abbondi, capo ufficio della Prefettura degli Affari economici. La parte più interessante del suo interrogatorio riguarda un misterioso furto avvenuto nelle stanze di quell'ufficio nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2014. Dopo mezzanotte, qualcuno si era introdotto nel palazzo senza rompere alcuna serratura dei portoni di accesso, aveva sgraffignato qualche spicciolo negli uffici delle congregazioni ai primi piani dell'immobile e s'era poi concentrato sulla cassaforte e su uno soltanto dei dodici armadi blindati nascosti in una delle stanze della Prefettura, al quarto piano del grande edificio che si affaccia su piazza San Pietro. A don Abbondi, la mattina del 14 maggio 2016, i magistrati chiedono conto di quella singolare vicenda. Il prelato spiega che nell'ufficio esisteva "un archivio riservato che era sotto la responsabilità del segretario Balda", custodito inizialmente "in un armadio in una stanza vicina a quella del monsignore"; aggiunge che "dopo il furto, l'archivio riservato venne piazzato direttamente nella stanza di Vallejo". Quando il promotore di giustizia gli domanda cosa avessero rubato i ladri, Abbondi specifica che, se dalla piccola cassaforte "portarono via soldi e delle monete, dall'armadio blindato prelevarono invece dei documenti dell'archivio riservato... alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa nella cassetta della posta del dicastero". Proprio così: alcune carte trafugate vennero rispedite in un plico anonimo, quasi un mese dopo lo scasso. Un dettaglio già raccontato da Gianluigi Nuzzi. Non solo. Il giornalista aveva pubblicato anche alcuni dei documenti restituiti alla Prefettura, tra cui diverse lettere mandate dal "Banchiere di Dio", Michele Sindona, a esponenti delle gerarchie vaticane, oltre a missive con riferimenti a Umberto Ortolani, fondatore - insieme a Licio Gelli - della loggia massonica deviata P2. "Cosa c'era nel plico?" chiede diretto il promotore di giustizia a don Abbondi. "Documenti di dieci, vent'anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore," risponde il prelato. "Nel riordinare i fogli dopo l'effrazione, vidi che gli atti contenuti nell'archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato," ma a fatti che il monsignore definisce "sgradevoli". "Sgradevoli," ripeto tra me e me. Riponendo il libro mi domandai se, come ipotizzavano Abbondi e numerosi esponenti della Santa Sede, restituendo alcuni o tutti i documenti trafugati, i ladri avessero voluto lanciare un avvertimento, una minaccia, o se il furto nascondesse in realtà altre motivazioni. Certamente vi avevano collaborato persone informate dei segreti della Prefettura, visto che i banditi, violando un solo armadio blindato, erano andati a colpo sicuro. Di certo Abbondi fa intendere ai magistrati vaticani che i documenti ritornati dopo il furto non sono diversi da quelli che lui sapeva essere conservati nella cassaforte. Cominciai a leggere il volume della Chaouqui...Senza tanti giri di parole, la Chaouqui fa poi capire al lettore che, dalla discussione avuta quella mattina con il suo amico (i due in seguito diventeranno acerrimi nemici), aveva compreso che era stato lo stesso Balda a compiere l'effrazione, forse con il supporto di manovalanza esterna. Un'accusa pesantissima. Balda, che era già stato sentito dalla Gendarmeria insieme ad altri dipendenti dell'ufficio, ha sempre negato ogni addebito...L'avvocatessa calabrese - che nel 2014, ricordiamolo, era membro della Cosea e lavorava negli uffici della Prefettura che ospitavano la commissione - è uno dei pochissimi testimoni diretti di ciò che avvenne negli uffici dopo l'effrazione. E, come aveva fatto monsignor Abbondi in tribunale durante la sua deposizione, decide di raccontare nel suo libro il momento in cui tornano le carte sottratte un mese prima. Ma se il prete aveva parlato genericamente di documenti "sgradevoli", la Chaouqui entra nei dettagli, narrando in prima persona: "Alla fine i fascicoli ricompaiono, spediti da mano ignota agli uffici della Prefettura. C'è il dossier su un vescovo molto potente e sulle delicate questioni legate a un'eredità ricevuta quando era nunzio in Francia. Ci sono i resoconti delle spese politiche di Giovanni Paolo II ai tempi della Guerra fredda e di Solidarno??. C'è il carteggio tra il banchiere Michele Sindona e il faccendiere Umberto Ortolani, che il Vaticano avrebbe cercato in capo al mondo. C'è il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta"...Ora ho deciso di pubblicare il documento. Avessero ragione Becciu e il cardinale Re, il documento sarebbe certamente un falso. Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l'hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazza scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine della città sacra. Ma se le verosimiglianze impressionanti delle note spese del dossier fossero confermate da nuovi elementi determinati, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta. E gli impostori sarebbero loro.
Emanuela Orlandi, perché dopo 32 anni la Cassazione chiude il caso. La corte ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia della quindicenne scomparsa nel 1983, scrive il 6 maggio 2016 Panorama. La Cassazione, dopo 32 anni, mette una pietra sull'inchiesta per la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne residente nella città del Vaticano, di cui si sono perse le tracce dal 22 giugno 1983. La sesta sezione penale della Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia contro l'archiviazione dell'indagine della procura di Roma. Nell'ottobre scorso il gip aveva respinto l'opposizione, avanzata dai familiari di Emanuela e da quelli Mirella Gregori (scomparsa poche settimane prima), alla richiesta di archiviazione da parte del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dei pm Simona Maisto ed Ilaria Calò. L'inchiesta vedeva sei indagati, tutti in qualche modo legati al bandito della banda della Magliana Enrico De Pedis (ucciso nel 1990): monsignor Pietro Vergari, ex rettore della basilica di Sant'Apollinare, Sergio Virtù, autista di Enrico De Pedis, Angelo Cassani, detto "Ciletto", Gianfranco Cerboni, ("Giggetto"), Sabrina Minardi, già supertestimone dell'inchiesta, e il fotografo Marco Accetti. La parola testimone, un ruolo nella scomparsa di Emanuela era stato ricoperto da personaggi di spicco del sodalizio criminale romano. A parlare di un legame tra il caso Orlandi e la banda della Magliana era già stato in passato il pentito Antonio Mancini, che riferì di un depistaggio fatto da De Pedis, uno dei capi della banda sepolto nella Cappella di Sant'Apollinare a Roma proprio in virtù di presunti legami con ambienti vaticani. Tesi smentita, negli anni scorsi, dallo stesso rettore della Basilica. Proprio dietro Sant'Apollinare c'era la scuola di musica frequentata dalla stessa Emanuela, ultimo luogo in cui fu vista la ragazza scomparsa. Contro di loro sia la procura sia il gip hanno ritenuto che non fossero stati raccolti sufficienti elementi probatori. E ora è arrivato il visto della Cassazione. Rimangono pendenti per Accetti, che nelle scorse settimane è stato sottoposto a perizia psichiatrica che l'ha giudicato capace di intendere e volere ed anche di stare in giudizio benché affetto da disturbi della personalità di tipo narcisistico ed istrionico, le accuse di calunnia e autocalunnia.
Emanuela Orlandi: le tappe della sparizione (1983-2017). La scomparsa di Emanuela Orlandi: perché si riapre il caso. “Spesi dal Vaticano 483 milioni di lire per rette, vitto, alloggio e spostamenti della ragazza". Da un dossier pubblicato nel libro di Emanuele Fittipaldi, scrive il 18 settembre 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama. “Ho trovato un documento uscito dal Vaticano. Ci ho lavorato mesi, e ho pubblicato un libro, Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno. Un riassunto di tutte le note spese per un presunto ‘allontanamento domiciliare’ di Emanuela Orlandi”. Ben 483 milioni di lire. Così, su facebook Emiliano Fittipaldi ha postato una parte del suo articolo uscito su Repubblica e Il Corriere della Sera in cui rivela di essere in possesso di un “documento choc” sulla ragazzina che viveva nella Santa Sede, poi scomparsa nel 1983. “Leggendo il resoconto e seguendo le tracce delle uscite della nota, che l'estensore attribuisce al cardinale Lorenzo Antonetti, sembra che il Vaticano abbia trovato la piccola rapita chissà da chi, e che abbia deciso di trasferirla in Inghilterra, a Londra”, prosegue Fittipaldi.
Da quanto si legge nell’articolo, il giornalista de L’Espresso sostiene che quei documenti gli sono stati consegnati da una fonte che “dopo aver tergiversato per alcune settimane” al terzo appuntamento “ha ammesso di avere il dossier”. Per poi lasciarglielo al quarto incontro. "Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia."
Il dossier. Una cartellina con cinque fogli. Il dossier in mano a Fittipaldi è una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. “Scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell'Apsa (l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran”. La lettera sembrerebbe, dice ancora il giornalista de L’Espresso, “un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997”. Anni in cui la giovane sarebbe stata trasferita in ostelli femminili. Per 14 anni le sarebbero state pagate “rette, vitto e alloggio”, “spese mediche” e “spostamenti fino al 1997, quando l'ultima voce parla di un trasferimento in Vaticano e il disbrigo delle pratiche finali”. Soldi sborsati dalla Santa Sede che ammonterebbero a 483 milioni di lire e che vanno a infittire la trama della storia di Emanuela Orlandi e della sua scomparsa.
Chi sono i due monsignori della lettera. Ai vertici della Curia negli anni ‘90 c’erano Giovanni Battista Re, il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede, e Jean-Louis Tauran a capo dei Rapporti con gli stati che, come spiega il sito del Vaticano, "coadiuva il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione" e come tali i due “si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi” mentre il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997”.
Quando il caso Orlandi era stato chiuso. Il 6 maggio 2016 la Cassazione aveva confermato l’archiviazione dell’inchiesta secondo cui il caso di Emanuela Orlandi veniva definitivamente chiuso dal punto di vista giudiziario giudicando “inammissibile il ricorso della famiglia contro l’archiviazione” da parte della procura di Roma che nel maggio del 2015 aveva sostenuto che non erano emersi “Elementi idonei a richiedere il rinvio a giudizio di alcuno degli indagati”.
L’importanza del dossier. Come sostiene il Fittipaldi se il documento fosse vero quella pagine aprono “squarci clamorosi e impensabili sulla storia della Orlandi”. Se è un falso sarebbe “un apocrifo che segna una nuova violenta guerra di potere tra le sacre mura”.
Dal rapimento il 22 giugno 1983 alle piste che portarono negli anni ad Ali Agça, allo Ior di Marcinkus, alla Banda della Magliana fino alle recenti novità, scrive Edoardo Frittoli il 18 settembre 2017 su Panorama. Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi tiene in sospeso l'Italia dal 22 giugno del 1983, da quando cioè la quindicenne cittadina vaticana non è più tornata a casa. Nel corso del tempo sono state molte le ipotesi che hanno collegato il mistero Orlandi prima all'attentato a Giovanni Paolo II, poi alla banda della Magliana e allo Ior infine a casi di pedofilia. Di questi giorni l'ultima novità: documenti che ne dimostrerebbero l'essere in vita almeno fino al 1997. Ecco dunque le tappe principali della cronistoria di uno dei gialli più intricati della storia italiana.
22 giugno 1983 - la scomparsa. Emanuela Orlandi, 15 anni, figlia di un funzionario del Vaticano, non fa rientro a casa dopo la lezione pomeridiana di musica. Sono le ore 19,00. L'ultima persona con cui ha un contatto telefonico è la sorella con la quale parla di una fantomatica proposta di lavoro come promotrice di cosmetici per conto dell'atelier delle Sorelle Fontana che le sarebbe stato offerto quel giorno.
23 giugno 1983. Il padre di Emanuela formalizza la denuncia di scomparsa al commissariato "Trevi". Partono le ricerche.
25 giugno 1983. A casa della famiglia Orlandi giungono le prime telefonate di segnalazione. Tra le molte inattendibili, giunse anche quella del sedicenne Pierluigi, che sosteneva di aver incontrato Emanuela a Campo dei Fiori nel ruolo di promotrice di cosmetici. Fu tenuto in considerazione in quanto la descrizione della ragazza pareva molto dettagliata. Tre giorni dopo fu la volta di tale Mario, titolare di un bar sul tragitto che Emanuela percorreva quasi quotidianamente il quale sosteneva che la giovane gli avesse confidato l'intenzione di allontanarsi volontariamente dalla famiglia. L'ipotesi si rivelerà priva di fondamento. Contemporaneamente il cugino degli Orlandi e agente del Sismi Giulio Gangi si mette sul tracce dei testimoni che avrebbero visto Emanuela parlare nei pressi del Senato con un uomo sceso da una Bmw verde. Rintracciata le vettura, Gangi entra in contatto in un residence con una misteriosa donna che lo congeda freddamente. Poco dopo Gangi scopre che i superiori sono stati avvisati delle sue indagini. Gangi sarà allontanato dal caso ed epurato dai superiori dieci anni dopo i fatti.
5 luglio 1983. Giunge alla Sala Stampa vaticana la prima telefonata di un uomo con accento anglosassone chiamato L' Amerikano. Sostiene per la prima volta il legame tra il rapimento Orlandi e l'attentato a Giovanni Paolo II. La ragazza sarebbe nelle mani dei "Lupi Grigi" per essere scambiata con l'attentatore del Pontefice Ali Agça. Le 16 telefonate anonime non troveranno mai un riscontro reale nelle piste degli inquirenti.
1995. Dai rapporti dell'allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi emergerebbe la figura del Cardinale Paul Marcinkus, all'epoca presidente dello Ior, la banca vaticana legata alla vicenda del crack del Banco Ambrosiano e dell'omicidio di Roberto Calvi.
2005. Emerge la pista che legherebbe il rapimento Orlandi alla Banda della Magliana. La ragazza sarebbe stata rapita per ordine di Renato De Pedis, uno dei capi dell'organizzazione criminale su ordine del cardinale Marcinkus. Questa pista sarà indicata dalle testimonianze di Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano la quale ebbe una relazione proprio con De Pedis. Secondo le testimonianze (rese poco affidabili dalla sua dipendenza dalla cocaina) la Minardi avrebbe confermato il coinvolgimento di De Pedis come esecutore e di Marcinkus come mandante. Emanuela non sarebbe stata uccisa subito bensì rinchiusa nei sotterranei di un appartamento del quartiere Monteverde Nuovo. Attendibile fu l'indicazione della Minardi che portò al ritrovamento della Bmw usata per il trasferimento della Orlandi, appartenuta a due personaggi effettivamente legati alla Banda della Magliana e al caso Calvi.
2011. Antonio Mancini, criminale pentito della banda della Magliana conferma ai giornalisti il coinvolgimento della banda, che avrebbe rapito Emanuela per ricattare lo Ior di Marcinkus in quanto reo di avere "bruciato" soldi delle attività illecite dell'organizzazione criminale nel crack del Banco Ambrosiano. Il fatto che De Pedis sia stato seppellito nella basilica di Sant'Apollinare dimostrerebbe il ruolo di mediatore che il capo della banda ebbe nella restituzione del denaro del Banco Ambrosiano.
2012. È la volta della pista della pedofilia, aperta dal capo degli esorcisti americani Gabriele Amorth. Il prelato sostenne che Emanuela sarebbe stata coinvolta in un giro di festini a base di droga e sesso organizzati in Vaticano che avrebbero riguardato laici e prelati altolocati. Sarebbe rimasta uccisa accidentalmente ed il suo cadavere occultato.
2014. Legata al caso Vatileaks è la vicenda della cassaforte svaligiata in Vaticano il 30 marzo contenente documenti amministrativi relativi alle spese dell'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Poco dopo il furto i documenti della cassaforte saranno restituiti in un plico.
Settembre 2017. Inizia a farsi strada l'ipotesi che Emanuela Orlandi sia rimasta in vita almeno sino al 1997, in quanto uno dei documenti amministrativi stilati in quell'anno fa specifica menzione alle spese sostenute per le "attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi".
Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano), scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio". La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso. C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero (e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati. E c’è la bandaccia naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio l’Accattone Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di Renatino De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente. C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande. Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente. Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte. A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’Americano che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.
“Dietro l’altare”, il docu-film sugli abusi della Chiesa, scrive Francesca Spasiano il 26 luglio 2017 su "Il Dubbio". Una storia di violenze e insabbiamenti. Lucio Mollica racconta come è nato “Dietro l’altare”, il docu-film sui casi di pedofilia nella Chiesa. Una storia di violenze e insabbiamenti. Il lungo trascorso della Chiesa è costellato di capitoli bui e adesso lo scandalo degli abusi bussa alle porte del Vaticano. Se anche la commissione antipedofilia voluta da Papa Francesco si è rivelata insufficiente nell’affrontare la guerra alle tonache incriminate, sorge naturale lo scoramento dei più ottimisti. «Abbiamo un bisogno disperato di credere in papa Francesco. Il papa trasuda sincerità. È senz’altro un uomo buono. Quindi mettere in discussione le sue parole e misurare il loro divario con la realtà è stato più che uno sforzo intellettuale: uno sforzo emotivo, ancora più doloroso se l’argomento è quello degli abusi sui minori», racconta John Dickie nel presentare il suo ultimo lavoro, Dietro l’altare (Behind the altar), in onda stasera alle 21 in prima tv mondiale su LaF (Sky 139). Il documentario risponde alla crescente domanda di chiarezza sul tema della pedofilia, proprio mentre il dibattito sulle vicende di violenze sessuali investe la Santa Sede ai suoi vertici sulla scorta del caso George Pell. Il lavoro di inchiesta e investigazione internazionale realizzato dallo storico britannico riporta la preziosa testimonianza di vittime, esperti e religiosi: da Marie Collins a Padre Hans Zollner, entrambi membri della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori. Il docu-film – diretto dal regista messicano Jesus Garces Lambert e prodotto da GA&A Productions con ZDF/Arte, EO, Witfilm in associazione con Effe tv e altre nove broadcast internazionali – è un viaggio verso la verità, dagli Stati Uniti d’America alla Francia, dal Vaticano all’Argentina attraverso la Storia della Chiesa fino alla rivelazione di casi sconosciuti. Ce lo racconta Lucio Mollica, tra gli autori del documentario insieme a Vania del Borgo e lo stesso John Dickie. Il team si era già consolidato nel lavoro di scrittura di “Chiesa Nostra”, uno speciale che svela il sodalizio tra Chiesa cattolica e criminalità organizzata.
Quale contributo apporta questo documentario al lavoro di indagine sui casi di pedofilia nella Chiesa?
«L’obiettivo di questo film era documentare quanto sta avvenendo sotto il papato di Francesco sul tema della lotta agli abusi sui minori. La sorpresa è che la Chiesa non ha davvero voltato pagina nonostante l’impegno promesso dal pontefice. Le aspettative deluse sono al centro del nostro lavoro».
Si esprime dunque un giudizio nei confronti dell’operato di Papa Francesco?
«Il papa ha più volte ribadito intransigenza contro quei preti protagonisti d’abusi e ha promesso tolleranza zero. Non abbiamo motivo di dubitare della sincerità delle sue parole, ha ancora il tempo per riprendere il cammino di riforme avviato da Benedetto XVI, ma episodi di pedofilia interni alla Chiesa continuano a verificarsi numerosi in ogni parte del mondo senza che vi sia una concreta assunzione di responsabilità e un intervento deciso. Se Papa Francesco non vuole vanificare la bontà dei suoi intenti deve correre ai ripari e schierarsi con provvedimenti severi».
Lo scandalo del Caso Pell ha coinvolto per la prima volta la Chiesa nelle sue più alte sfere, accentrando il dibattito sulle vicende di pedofilia, oggi più acceso che mai. Cosa si nasconde “dietro l’altare”?
«Sono molte le figure controverse tra la rappresentanza ecclesiastica. Si pensi al cardinale cileno Errazuriz chiamato a far parte del gruppo di 9 alti prelati che assistono papa Francesco nel governo della Chiesa Universale nonostante sia stato criticato dalle vittime per non aver condotto adeguatamente le indagini sul più noto caso di pedofilia del clero cileno. L’imperativo è rompere la coltre di silenzio. Molti episodi si sarebbero potuti evitare se si fosse prestato attenzione alle denunce dei parenti delle vittime, e se la Chiesa si fosse prestata a collaborare con le autorità giudiziarie».
Sappiamo che il lavoro di inchiesta condotto ha una portata internazionale. Come avete selezionato le tappe del viaggio?
«Il numero di vittime è davvero impressionante. Dopo un lungo lavoro di scrematura abbiamo selezionato le storie che ci sembravano più rappresentative del fenomeno di abusi e violenze diffuso in tutto il mondo. Siamo partiti dalla Francia, a Lione dove sono emersi episodi di abusi su almeno 70 bambini. Tornando in Italia, ci siamo soffermati sul caso di Don Inzoli, senz’altro rappresentativo della lentezza della burocrazia e della Chiesa nell’affrontare la lotta ai crimini sessuali. Preziosa la testimonianza di Marie Marie Collins, ex membro della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori e a sua volta vittima, che ci ha raccontato come il percorso di riforme intrapreso abbia infine condotto alle sue dimissioni a cause delle resistenze incontrate in Vaticano. Negli Stati Uniti, siamo stati ad Altoona-Johnstown, in Pennsylvania, per un’inchiesta su centinaia di bambini vittime di abusi sessuali: a seguito degli scandali esplosi l’atteggiamento della procura è di tolleranza zero. Infine l’Argentina, il paese del Papa, con le prime ed esclusive interviste alle vittime di Padre Corradi, arrestato con l’accusa di aver abusato sessualmente di alcuni studenti sordomuti dell’Istituto Provolo di Mendoza».
Che tipo di resistenza avete incontrato nel corso della vostra ricerca?
«Il problema principale per chi conduce indagini di questo tipo è di dover confrontarsi con una Chiesa che si ostina a mantenere sotto silenzio tutto ciò che riguarda gli abusi sessuali. Questo vale sia per noi giornalisti, che per i legali delle vittime e soprattutto per i magistrati. Nel film raccontiamo il caso di un pm italiano che si è visto rifiutare dal Vaticano una rogatoria internazionale. I processi canonici sono sotto segreto pontificio, e per chi tradisce questa regola ci sono pene severissime. Omertà e silenzio sono al centro di un atteggiamento increspatosi negli anni».
Il tema degli abusi sui minori è prima di tutto un argomento fatto di sofferenza umana. Come raccontare la pedofilia?
«È stato molto difficile confrontarsi con storie così raccapriccianti, che vedono al centro i bambini. Definiamo spesso i protagonisti di queste vicende delle “vittime”, eppure io li appellerei “eroi”: nonostante il peso ditali sofferenze, trovano il coraggio di raccontare la propria storia e di sfidare la autorità, vittime ancora una volta. Mi piacerebbe segnalare tra le testimonianze raccolte il ruolo delle donne, sempre in prima linea nel rompere il silenzio. È forse proprio da loro che la Chiesa dovrebbe ricominciare per condurre la “rivoluzione” necessaria».
Gianluigi Nuzzi, età, moglie Valentina, figli: vita privata, scrive il 10 novembre 2017 Lady Blitz. Gianluigi Nuzzi (età: 48 anni) è nato il 6 marzo 1969 a Milano. Il giornalista è ospite del programma “Verissimo”, condotto da Silvia Toffanin il sabato pomeriggio su Canale 5. Nuzzi ha cominciato a scrivere all’età di 14 anni per Topolino. Nel 1996 è diventato giornalista professionista. E anche il conduttore del programma “Quarto Grado” e autore di vari libri sul Vaticano, tra cui “Via Crucis. Da registrazioni e documenti inediti la difficile lotta di Papa Francesco per cambiare la Chies”. Gianluigi Nuzzi è anche autore del libro “Peccato originale” (Edizioni Chiarelettere), registrato a Roma giovedì 9 novembre 2017 alle 10:22. Gianluigi Nuzzi ha una cicatrice sul viso: “La cicatrice me la sono fatta a Paros, in Grecia, incidente in scooter nel pomeriggio di un giorno d’estate. Ero in vacanza, stavo raggiungendo un amico che faceva surf, mi sono distratto e sono caduto”, ha svelato il giornalista milanese, che si definisce un “tiepido tifoso del Milan. Mi ringalluzzisco quando porto allo stadio mio figlio. Lui, invece, è tifosissimo, sa tutto di calcio. No, io sono più appassionato di scacchi”. Per quel che riguarda la sua vita privata, Gianluigi Nuzzi è sposato con Valentina. Hanno due figli: Edoardo e Giovanni. “Quando non lavoro cerco di stare il più possibile con la mia famiglia” ha dichiarato al settimanale Visto Nuzzi. Poi ancora: “Mi incoraggia a scrivere libri, perché dice che quando non scrivo sono un uomo incompleto. Ed è vero. Scrivere mi rigenera, mi dà ossigeno. Entro in un’altra dimensione, mi dimentico perfino di mangiare” ha confidato il giornalista”.
Peccato Originale: Vaticano, Orlandi, De Pedis e le solite cose trite e ritrite da Nuzzi, scrive Pino Nicotri l'11 novembre 2017 su "Blitz Quotidiano". Soldi, sangue e sesso: questi i tre filoni che il giornalista Gianluigi Nuzzi dichiara di avere seguito nel suo ultimo libro. Intitolato “Peccato originale” e col sottotitolo “Conti segreti, verità nascoste, ricatti: il blocco di potere che ostacola la rivoluzione di Francesco”, il libro ha la pretesa di risolvere vari misteri vaticani, compreso soprattutto il mistero Orlandi e il presunto mistero della morte di Papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, il cui pontificato nel 1978 durò solo 33 giorni e si concluse con la sua chiacchieratissima morte. Nuzzi adombra il solito vecchio sospetto che Luciani sia stato in realtà ucciso, sospetto basato su chiacchiere, ma che ha fatto la fortuna del romanziere David Yallop. “Soldi, sangue e sesso”, dunque, terna che fa venire in mente quella del “sesso, droga e rock’d roll” di moda negli anni ’60-’70 per indicare stravizi di vario tipo e natura. Per sfortuna di Nuzzi, alla sua domanda se papa Luciani sia stato ucciso ha risposto negativamente e definitivamente proprio in questi giorni un libro molto documentato, che, come spiega lo stesso titolo – Papa Luciani. Cronaca di una morte – nelle sue 252 pagine si occupa minuziosamente proprio della ricostruzione di come e perché è morto Giovanni Paolo I. Il libro è stato scritto dalla giornalista Stefania Falasca, vaticanista de L’Avvenire d’Italia, che tra molto altro pubblica il documento risolutivo e fino a oggi ignoto stilato dal medico del Papa, dottor Renato Buzzonetti, che fuga ogni dubbio. Falasca inoltre ha raccolto anche una serie di testimonianze inedite, compresa quella della suora Margherita Marin, che oggi ha 76 anni e all’epoca dei fatti era la più giovane delle suore venete a servizio di Luciani. E’ la religiosa che all’alba del 29 settembre 1978 è entrata nella camera da letto di Papa Luciani subito dopo suor Vincenza Taffarel, che assisteva Luciani da oltre 20 anni. Suor Marin rivela che il famoso caffè, col quale Luciani a detta di qualche “bene informato” sarebbe stato avvelenato, non è mai stato neppure assaggiato: è rimasto nella tazzina, intatto, nella sagrestia dove alle 5:30 del mattino era stato portato come al solito per il pontefice. Veniamo ora al piatto forte del mistero Orlandi. E’ strano che Nuzzi cerchi di rispondere oggi a domande alle quali ha già dato risposte secondo lui certe e definitive già quasi cinque anni fa, per l’esattezza la sera del 26 febbraio 2013. Quella sera infatti lo stesso Nuzzi ha presentato su La7 la prima delle puntate da lui dedicate al mistero Orlandi affermando: “Non possiamo più sbagliare. Sono lì le risposte di quello che è stato un intricato mistero su scala mondiale”.
Ma evidentemente non è bastato se dopo cinque anni torna alla carica per giunta riproponendo la stessa minestra riscaldata. Quel “lì” dove secondo il Nuzzi del 26 febbraio 2013 c’erano le risposte al mistero Orlandi è la basilica romana di S. Apollinare, diventata famosa perché nei suoi sotterranei sconsacrati era sepolto Enrico De Pedis, che certo giornalismo sensazionalista ha promosso al rango di “boss della Banda della Magliana” alla faccia di tutte le sentenze che hanno escluso che ne fosse anche un sia pur semplice gregario, tant’è che è morto incensurato: forse malavitoso, ma estraneo alla banda. Come è noto, la magistratura ha escluso che in quei sotterranei e in quella sepoltura ci fosse qualcosa di illecito e addirittura collegato al mistero Orlandi. Che la sepoltura fosse legittima e non avesse risvolti torbidi lo ha appurato già negli anni 1995-’97 il magistrato Andrea De Gasperis. Inizialmente De Pedis era stato sepolto al Verano, nella tomba di famiglia della sua consorte, Carla Di Giovanni, che però temendo atti vandalici da parte dello stesso ambiente malavitoso che aveva ucciso suo marito il 2 febbraio 1990, decise di trasferire la salma nella basilica dove si erano sposati. E che distando solo 200 metri dal proprio luogo di lavoro, le rendeva più comodo le frequenti visite alla tomba per deporre fiori e pregare. Ma come se niente fosse il “mistero della sepoltura del boss” è stato rilanciato con una telefonata anonima da “Chi l’ha visto?” nel settembre 2005 e ha tenuto banco per anni. Archiviata nuovamente dalla magistratura assieme all’intera inchiesta nata nel 2008 a seguito proprio delle “rivelazioni” di “Chi l’ha visto?”, la faccenda della basilica di S. Apollinare e della sepoltura di De Pedis viene ancora rimestata in “Peccato originale”. Ma per farlo si ricorre a varie notizie e fatti non veri, già tirati in ballo cinque anni fa dallo stesso Nuzzi nella citata puntata de La7, che è ormai arcinoto essere dubbi, anche perché più d’uno lo ha fatto presente al conduttore giornalista de La7:
1) – NON è vero che i corsi di musica del conservatorio Ludovico Da Victoria frequentati da Emanuela Orlandi si tenevano nella basilica. Si tenevano invece, come ovvio, nella sede del conservatorio, che si trovava in uno dei piani alti del palazzo continuo, e la basilica non c’entrava assolutamente nulla.
2) – NON è vero quindi che Emanuela la sera in cui è scomparsa è uscita a fine lezione dalla basilica, presentata di fatto come una sorta di tana dell’orco pronto a sbranare giovani virgulti. Come attestano le testimonianze, Emanuela è uscita dal conservatorio e ne è uscita assieme agli altri studenti.
3) – NON è vero che nella basilica sono sepolti, “assieme al boss De Pedis cardinali, papi e santi”. Nella basilica NON è sepolto neppure un cardinale, tanto meno papi e santi. E il cosiddetto “boss della Banda della Magliana” era sepolto in un sotterraneo sconsacrato da decenni – ex cimitero prenapoleonico con oltre 50 mila ossa conservate alla rinfusa in centinaia di cassette metalliche – che l’allora rettore don Piero Vergari voleva trasformare anziché in magazzino in stanze per una ventina di sepolture per altrettanti fedeli man mano che fossero passati a miglior vita.
4) – NON è vero che la telefonata tra don Vergari e un giovane aspirante seminarista birmano, nuovamente citata da Nuzzi nel suo libro, è una telefonata a luci rosse di don Vergari, presentato come un vizioso omosessuale, per irretire il giovane. Ascoltandola si capisce bene che don Vergari, che si trova non ella basilica ma a casa sua a Sigillo, cerca invece educatamente di non dar corda alle fantasie del suo interlocutore. Che poi don Vergari sia o no gay, sta di fatto che nulla gli è mai stato addebitato in questo campo da chicchessia.
Il birmano si chiama Htwe Khin Maung, nato nel ’71 e diventato “don Firmino”. Interrogato il 23 dicembre 2009 dai magistrati Giancarlo Capaldo e Simona Maisto, ha spiegato che la sua telefonata era uno scherzo. In effetti i seminaristi usavano prendere un po’ in giro don Vergari per la sua presunta omosessualità. Il verbale della testimonianza di Maung è contenuto nella cartella n. 4071787 delle oltre 833 dell’inchiesta Orlandi archiviata nel 2015. Riguardo le “inesattezze” su De Pedis, del quale si occupa in più di 20 pagine, sulla basilica, sul conservatorio e sulla banda della Magliana (cui le sentenze della magistratura, Cassazione compresa, NON attribuiscono neppure da lontano il ruolo di grande piovra romana onnipresente e onnipotente), Nuzzi non si è fatto mancare niente. Non si è fatto mancare neppure la storia, meglio sarebbe definirla storiella, raccontata dal film di Roberto Faenza “La verità sta in cielo” e riguardante “la trattativa e il patto” tra il Vaticano e il sostituto procuratore Giancarlo Capaldo, che conduceva l’inchiesta sulla fine di Emanuela. A proposito della presenza della sepoltura di De Pedis nella basilica e conseguenti mormorii e malignità, Nuzzi scrive: “Insomma, il «disagio» per «sospetti» e «pettegolezzi» era tale che se i giudici si fossero presi la briga di rimuover loro la salma, come raccontava il film di Roberto Faenza «La verità sta in cielo», il Vaticano dopo anni di reticenze avrebbe discretamente fornito tutto ciò che sapeva. Un patto che dopo la traslazione della salma e l’esame di 409 cassette e 52.188 ossa umane per cercare eventuali tracce della quindicenne sparita, sfumò com’è noto nel nulla”.
Su questo argomento ci sono da dire due cose, che mettono in dubbio alla grande sia Faenza sia chi lo copia:
– la salma di De Pedis non poteva essere trasferita se non per decisione della vedova, che però, sollecitata più volte dalla Gendarmeria del Vaticano, chiedeva a Capaldo, sempre invano, che PRIMA se ne esaminasse il contenuto onde evitare che poi si potesse dire che l’aveva fatta traslare per nascondere chissà che cosa. Quando finalmente la Procura della Repubblica ha imposto a Capaldo di fare aprire la tomba, la vedova ha provveduto a trasferire la salma per poi procedere alla sua cremazione.
– Non è possibile che ci sia stata una trattativa tra il Vaticano e Capaldo, per il semplice motivo che – come posso DIMOSTRARE – Capaldo ha chiesto a un giornalista – il sottoscritto – di trovargli un canale vaticano che lo mettesse in contatto con la Segreteria di Stato, richiesta fatta – si noti bene – DOPO lo spostamento della salma. Ciò significa, evidentemente, che Capaldo NON aveva nessun contatto vaticano per stipulare il patto “che sfumò come è noto nel nulla”.
Non mancano neppure le “forzature” ai danni di documenti giudiziari. “Peccato originale” riporta infatti il testo scritto dalla polizia dell’intercettazione della telefonata partita dal Vaticano il 12 ottobre 1993 per il suo vicecapo della Vigilanza, ingegner Raul Bonarelli. Telefonata riguardo la quale Nuzzi scrive: “Tra i diversi episodi, un’imbarazzante intercettazione telefonica del 12 ottobre 1993 tra il gendarme vaticano Raul Bonarelli e un uomo da lui chiamato «Capo», identificato poi in Camillo Cibin, ispettore del corpo della Gendarmeria, che all’epoca si chiamava Vigilanza del Vaticano. È una giornata cruciale, siamo alla vigilia dell’interrogatorio che Bonarelli deve rendere all’autorità giudiziaria italiana sulla vicenda Orlandi.
Cibin: Ho parlato con Sua Eccellenza Bertani… E dice… per testimone, e dici quello che sai… che sai della Orlandi? Niente! Noi non sappiamo niente!… Sappiamo dai giornali, dalle notizie che sono state portate fuori! Del fatto che è venuto fuori di competenza… è… dell’Ordine Italiano.
Bonarelli: Ah, così devo dire? [….]
Cibin: …questa è una cosa che è andata poi… non dirlo che è andata alla Segreteria di stato»”.
A parte il fatto che fino al 2 gennaio 2002 Bonarelli non era ancora un gendarme, ma un vigile vaticano (la Gendarmeria è stata infatti creata solo in quella data, prima c’era la Vigilanza, con compiti più o meno analoghi), si dà però il caso che, stando agli atti processuali, l’inizio della telefonata – cominciata alle 19:53 tra una persona rimasta sconosciuta e perciò indicata semplicemente come Uomo dal brogliaccio della polizia – NON è quello riportato da Nuzzi, bensì il seguente:
“Raul Bonarelli: «Pronto?».
Uomo: «Raoul!».
Raul: «Sì!».
Uomo: «Adesso ti passo il Capo, eh!».
Raul: «Sì! Pronto!».
Capo: «Chi parla?».
Raul: «È Bonarelli».
Come si vede, NON è affatto noto chi ha chiamato Bonarelli né chi sia il Capo. E’ inoltre piuttosto difficile che Cibin, capo della Gendarmeria, chiami Eccellenza un semplice sacerdote privo di incarichi particolari come don Bertani, anche se don Bertani ha il titolo onorifico di Cappellano di Sua Santità.
PARENTESI. Questa telefonata, della cui scoperta e del merito di averla pubblicata per primi se ne appropriano disinvoltamente Nuzzi e altri, è stata pubblicata su L’Espresso da Roberto Chiodi nel 1998, qualche mese dopo che l’allora giudice istruttore Adele Rando aveva chiuso con un nulla di fatto nel dicembre ’97 la sua istruttoria sul mistero Orlandi. Passata inosservata e dimenticata da tutti, quella telefonata l’ho ripescata e pubblicata nei miei libri sul mistero Orlandi a partire dal primo nel 2002, aggiungendo il nome di monsignor Bertani perché avevo appurato che al telefono c’era lui.
CHIUSA LA PARENTESI. Poiché la telefonata è stata fatta solo la sera prima che Bonarelli venisse interrogato come testimone dal magistrato Adele Rando, è piuttosto arduo pensare che in Vaticano siano così sprovveduti da ridursi a istruire Bonarelli così tardi anziché catechizzarlo ben prima su cosa dovesse e non dovesse dire al giudice. E’ inoltre ovvio che se dovevano istruirlo su come mentire su fatti gravissimi, cioè su chi avesse fatto sparire Emanuela, lo avrebbero fatto non per telefono, ma direttamente in Vaticano: lontani da orecchie e intercettazioni indiscrete. In Vaticano non sono certo degli ingenui, tanto meno la Gendarmeria e tanto meno ancora la Segreteria di Stato. Insomma, per quanto quella telefonata sia suggestiva, perché chiede di non dire che del mistero Orlandi s’è interessata in qualche modo anche la Segreteria di Stato, non può avere il significato che le viene attribuito. Significato che peraltro le ho attribuito anch’io all’inizio, cioè a dire ben 15 anni fa. Se “la cosa è andata alla Segreteria di Stato vaticana” ci è andata evidentemente perché era questa che doveva vagliare le rogatorie internazionali dei magistrati italiani smistandole alla magistratura vaticana prima e inviandone poi gli atti giudiziari vaticani di risposta al ministero degli Esteri italiano. Il misterioso Uomo chiede di tacere sulla Segreteria, ma la richiesta può essere stata fatta anche perché il Vaticano comunque non ama, come del resto qualunque altro Stato, l’eccessiva trasparenza agli occhi di altri Stati e annesse magistrature giudiziarie. Peraltro la Segreteria potrebbe anche, in ipotesi, avere appurato che fine ha fatto Emanuela per mano – come sempre capita quando spariscono minorenni – di persone del giro amical-familiare. Ma anche in tal caso avrebbe fatto scandalo che abitanti del Vaticano frequentassero gente capace di violentare e uccidere: meglio quindi tacere anche se il colpevole non è una personalità del Vaticano.
Visto che parliamo di magistratura vaticana, è ben strano come TUTTI, a partire da “Chi l’ha visto?” e a finire all’ultimo libro di Nuzzi, si guardino bene dallo scrivere che il Magistrato Unico del Vaticano, avvocato Gianluigi Marrone, era anche il capo dell’Ufficio legale della Camera dei deputati della repubblica italiana e che in tale ufficio la sua segretaria era Natalina Orlandi, sorella di Emanuela. Come ho scritto in libri e molti articoli, Marrone in versione vaticana rispondeva sempre “No!” alle richieste dei magistrati italiani di poter interrogare alcuni prelati su cosa sapessero riguardo la scomparsa della sorella di Natalina, sua segretaria. Ma la sua segretaria Natalina non ha mai avuto nulla da ridire, mai battuto ciglio sui “No!” firmati dal suo capufficio. Fatto non meno sorprendente della telefonata attribuita a Cibin. Alla stessa stregua tutti tacciono, da “Chi l’ha visto?” a Nuzzi, su quanto don Salerno ha detto a proposito dei “soldi sporchi” maneggiati allo IOR da Pietro Orlandi. Ed è comunque strano che nessuno gli faccia mai neppure una domanda sullo IOR nonostante sia ben noto che Pietro Orlandi vi ha lavorato per anni e anni, a partire dal 1984, qualche mese dopo la scomparsa di Emanuela. Domande che invece gli andrebbero fatte se non altro perché, come scrivono anche lo stesso Nuzzi e vari altri, nella banca vaticana IOR si riciclavano soldi di origine malavitosa e una miriade di personaggi italiani, non tutti presentabili, vi avevano i conti correnti per sfuggire al fisco. Tant’è che il Vaticano almeno fino a poco tempo fa non ha ottenuto il certificato di banca al riparo dal riciclaggio. Il certificato in questione è rilasciato da Moneyval, l’organo istituito dal Consiglio d’ Europa per valutare la virtuosità dei Paesi, compreso il Vaticano, in fatto di leggi e iniziative antiriciclaggio del danaro sporco, in particolare quello fatto con il commercio delle droghe. E non si ha notizia che sia infine stato rilasciato allo Stato pontificio. Come si vede, motivi per porre a Pietro Orlandi domande sullo IOR ce n’è più di uno, visto che lui ne è oltretutto un testimone diretto. Invece tutti zitti, nessuno fiata.
Nuzzi preferisce sbizzarrirsi su quella che chiama “la lobby gay”, alla quale ha dedicato l’omonimo apposito capitolo. Oltre a riportarvi la vecchia e malinterpretata telefonata del giovane birmano a don Vergari, “Peccato originale” riporta fatti pruriginosi più recenti, come il gay party a base di cocaina in un appartamento nello stesso palazzo dell’ex Sant’Uffizio, oggi Congregazione per la Dottrina della Fede, e le convinzioni dell’ex comandante delle guardie svizzere, Elmar Theodor Mäder, secondo il quale addirittura “esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del pontefice”. Sulla lobby gay Nuzzi appone il suggello di Papa Francesco, riportando quanto avrebbe dichiarato il 6 giugno 2012 a religiosi sudamericani. Dichiarazioni che, ammesso che siano state riportate correttamente dai sudamericani, Papa Francesco ha però in seguito ridimensionato.
“Soldi, sangue e sesso” sono comunque i tre fili seguiti da Nuzzi perché “annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d’interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento”, provocando così “lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco”. Quali siano le riforme volute da Francesco non è dato sapere. Ma del resto, mi si perdoni l’accostamento improponibile dei nomi, anche Eugenio Scalfari, l’ateo innamorato di Papa Francesco e con un occhio anche all’amore libertino, pur accreditando al “suo” pontefice un grande piano riformatore, vera e propria rivoluzione nel Vaticano e nella Chiesa, pur definendolo un rivoluzionario non ha mai saputo indicare bene quali siano Il Manifesto e i programmi dell’asserita rivoluzione. Difficile che libri simili, basati sulle solite cose trite e ritrite, quale che sia il loro successo di vendite creino davvero problemi al Vaticano e annessi “blocchi di potere”. Martin Lutero e S. Francesco, che in Vaticano ci sono stati, il primo perché ci ha anche lavorato e il secondo per sottoporre, inutilmente, nel 1209 a Papa Innocenzo III il progetto di una nuova forma di vita cristiana, ne sono usciti mettendosi le mani nei capelli. Tant’è che il primo al grido di “Loss von Rom!” (Via da Roma!) ha creato lo scisma protestante e il secondo per protesta s’è messo a predicare ancor più la povertà fondando nello stesso anno l’ordine dei francescani. Che per un bel pezzo al Vaticano non è andato affatto a genio.
QUANTO GUADAGNANO.
L'ultimo scandalo Vaticano: 35 mila euro al mese per il cardinale Maradiaga. Il primo consigliere di Papa Francesco prendeva mezzo milione all'anno dall'università dell'Honduras. Ora Bergoglio ha aperto un 'inchiesta, scrive Emiliano Fittipaldi il 26 dicembre 2017 su "L'Espresso". Quando ha finito di leggere l'inchiesta del visitatore apostolico che lui stesso aveva spedito in Honduras lo scorso maggio, papa Francesco si è messo le mani sullo zucchetto. Aveva appena scoperto che il suo amico e primo consigliere - il potente porporato Oscar Maradiaga, acceso sostenitore di una Chiesa povera e pauperista e nel 2013 promosso proprio da Bergoglio coordinatore del Consiglio dei cardinali - aveva ricevuto per anni circa 35 mila euro al mese (a cui aggiunge una "tredicesima" da 54 mila euro a dicembre) dall'università cattolica di Tegucigalpa. Bergoglio non poteva immaginare nemmeno che vari testimoni, sia ecclesiastici sia laici, accusassero Maradiaga per alcuni investimenti milionari in società londinesi poi scomparse nel nulla, né che la Corte dei Conti del piccolo paese dell'America ) centrale stesse indagando sull'utilizzo di enormi somme di denaro girate dal governo honduregno alla "Fondazione per l'educazione e la comunicazione sociale" e alla "Fondazione Suyapa entrambe facenti capo alla Chiesa locale e quindi allo stesso Maradiaga. «Il papa è triste e addolorato, ma anche molto determinato a scoprire la verità», spiegano ora da Santa Marta. Non solo sull'utilizzo finale dei pagamenti ottenuti dal cardinale (solo nel 2015, come L'Espresso ha potuto verificare grazie a un reporto interno dell'Università, il porporato ha ricevuto quasi mezzo milione di euro, cifra che secondo alcune fonti avrebbe incassato per un decennio come Gran Cancelliere dell'ateneo); ma anche per altri dettagli assai spiacevoli contenuti nell'istruttoria condotta dal vescovo argentino Jorge Pedro Casaretto, uomo fidato di Francesco che ha messo nero su bianco gravi accuse rivolte pure al vescovo ausiliare di Tegucigalpa Juan José Pineda, fedelissimo di Maradiaga e di fatto suo facente funzioni in Centro America. Francesco, studiato il dossier arrivatogli brevi manu sei mesi fa, ha avocato a sé ogni decisione finale. Chi in Honduras ci ha messo la faccia, teme adesso che le lungaggini siano figlie della paura: dopo la caduta di George Pell, il cardinale australiano chiamato da Sydney per mettere mano alla riforma degli enti economici del Vaticano e finito sotto processo davanti a un tribunale australiano per vicende legate alla pedofilia, un nuovo scandalo su un altro dei collaboratori più stretti del papa potrebbe mettere in serio imbarazzo la Santa Sede. «Non scherziamo. Bergoglio di fronte a situazioni irregolari non guarda in faccia a nessuno», ribattono autorevoli fonti d'Oltretevere. Prova ne è, in effetti, che sia stato proprio Francesco a incaricare un vescovo per effettuare l'indagine canonica sulla diocesi di Tegucigalpa. «Sappiamo perfettamente che Pineda viene difeso inspiegabilmente dal cardinale. Oltre all'indagine di Casaretti, anche il nostro nunzio (Novatus Rugambwa, arcivescovo originario della Tanzania ndr) ha denunciato fatti incresciosi qui a Roma, sfidando le ire del cardinale. È stato molto coraggioso. Ora bisogna aspettare le valutazioni della Congregazione per i vescovi e le deliberazioni del Santo Padre. Di certo è una storia complessa e per lui dolorosa, ma le accuse vanno vagliate con calma. Maradiaga, salesiano come l'ex segretario di Stato Tarcisio Bertone, è nato in Honduras 75 anni fa. Il suo compleanno cade il 29 dicembre, e tra qualche giorno dovrà consegnare le dimissioni sulla scrivania di Francesco, che deciderà o meno se confermargli gli incarichi. Maestro elementare prima e professore di matematica alle medie poi, Oscar è un uomo coltissimo, parla correntemente cinque lingue, grande esperto di teologia morale e filosofia e pure appassionato di musica. Non solo di quella sacra e di canti gregoriani, di cui è stato professore per 13 anni, ma anche di pop e jazz: sa suonare una mezza dozzina di strumenti, su tutti il sax, il pianoforte e il clarinetto. Nuota e fa passeggiate di un'oretta buona ogni santo giorno, ma soprattutto, quando può, vuole volare in cielo. «Piloto piccoli aerei. Non ho la licenza, ma ho imparato l'inglese da piccolo leggendo i manuali di aviazione», raccontò qualche anno fa in un'intervista in cui ammetteva l'hobby imparato da autodidatta. Nominato da Giovanni Paolo II vescovo della sua città nel1978, Maradiaga, diventato celebre come nemico giurato della corruzione e paladino dei più indigenti, è da lustri un punto di riferimento religioso e politico dell'Honduras (dove il governo nel2007lo nominò sorprendentemente capo della polizia civile, lui rifiutò) e dell'intero episcopato latino-americano. È stato sempre lui, nell992, a fondare a Tegucigalpa l'università "Nuestra Sefiora Reina de la Paz diventata in pochi anni uno degli atenei più importanti e più ricchi (grazie a sovvenzioni statali) della povera repubblica. L'attuale rettore Elio David Amador è un suo devoto, e anche lui è finito nel ciclone nel luglio del2016 quando un giornale locale d'inchiesta, El Confidencial, ha scritto per la prima volta di strane uscite a favore del cardinale e di pezzi da novanta della curia. L'Espresso ha ottenuto i documenti del 2015 e del 2016 tratti dal libro mayor della contabilità dell'università, dove vengono segnate entrate e spese. È un fatto che nel 2015 a favore di «Oscar Andres Rodriguez Maradiaga» siano segnate uscite per un milione di lempiras honduregne versate con cadenza mensile. Una somma pari, al cambio attuale, a poco meno di 35 mila euro. Nell'anno solare si contano a favore diretto del cardinale 9 pagamenti, per un valore complessivo di oltre 300 mila euro. In cima alla prima pagina del documento, tutti i versamenti sono giustificate dalla dicitura: Sostegno pastorale. L'università, oltre a Maradiaga che siede - seppur metaforicamente essendo quasi sempre all'estero - sulla poltrona di Gran Cancelliere paga anche altri vescovi, come lo stesso Pineda (che si fregia del titolo di vice Gran Cancelliere) e Romulo Emiliani. Tutti loro, però, ricevono versamenti molto più bassi (100 mila lempiras, circa 3.500 euro) e soltanto ogni tre o quattro mesi. A fine 2015 e nel2016 sul libro contabile sono segnati pagamenti molto simili, ma un dettaglio importante cambia: le spese da un milione di lempiras al mese non sono più state date direttamente a «Maradiaga», ma genericamente alla chiesa cattolica». I malpensanti sostengono sia un'idea del dottore per nascondere il beneficiario finale. Ossia il cardinale spesso, che - fosse così - avrebbe incassato una cifra superiore al mezzo milione di euro l'anno. Per la cronaca, anche nunzio apostolico e il suo assistente, non si sa a quale titolo, sono finiti nella lista dei creditori dell'Università. Seppure vantando cifre assai più modeste: 3.500 euro per il nunzio Rugambwa, 1.700 per l'aiutante padre Fredrik Hansen. Casaretto, il vescovo mandato da Bergoglio, ha lavorato l'inchiesta per tre settimane. Nel suo ufficio di Tegucigalpa ascoltato circa una cinquantina di testimoni, tra cui personale amministrativo della diocesi e dell'università, sacerdoti della diocesi della città e del distretto di Danlì, due seminaristi, ancelliere della chiesa, il segretario particolare e l'autista di Maradiaga, persino il nipote (un oncologo) del cardinale, oltre a vari collaboratori di Pineda e decine di altre persone. Molti, intervistati in forma anonima anche da chi scrive, hanno de scritto «una situazione critica». Non solo per lo scandalo dei denari dell'università. Ma anche per alcuni fondi non contabilizzati della diocesi e dell'ateneo che sarebbero stati spesi, in primis dal vescovo Pineda, per attività personali. «Tra queste ci sono anche spese per amici intimi, come un messicano che si fa chiamare padre Erickma che non ha mai preso i voti» spiega un missionario. «Il personaggio si chiama Erick Cravioto Fajardo e ha vissuto per anni in un appartamento adiacente a quello del cardinale, a Villa Iris. Recentemente Pineda, che ha vissuto con lui sotto lo stesso tetto, gli ha comprato un appartamento in centro e una macchina. I soldi, temiamo, vengono dalle casse dell'università o da quelle della diocesi. Abbiamo denunciato questo rapporto stretto e disdicevole anche in Vaticano. Il papa sa tutto»." "Sa anche che Pineda, secondo alcuni testimoni, avrebbe aperto una scuola privata (con quali soldi?) destinata ai bambini tra i 6 e i 14 anni. Insieme a padre Mike Estrada, ex cappellano militare della polizia nazionale molto amico di Maradiaga e Pineda e, secondo le solite malelingue) anche lui a digiuno di seminario e voti. Se il cardinale che pilota i Cessna ha sempre difeso se stesso e Pineda spiegando al papa e ai suoi pari grado che le insinuazioni vengono fatte circolare ad arte da lobby che vogliono distruggerlo, il vescovo honduregno Emiliani ha difeso il suo capo affermando che la storia che «lui abbia rubato milioni dall'università è una spaventosa calunnia. Tutto nell'ateneo viene eseguito con audit periodici, il controllo contabile è molto rigido». Emiliani, che a inizio anno ha rimesso il suo mandato da vescovo ausiliare di San Pedro Sula per motivi ancora poco chiari, preferisce però non entrare nei dettagli scoperchiati dal report contabile, senza spiegare il motivo di quei versamenti da capogiro. Maradiaga ha sperato per mesi che lo scandalo si sgonfiasse, immaginando che nessuno in Honduras avrebbe avuto l'ardire di criticarlo davanti all'investigatore pontificio. Troppo potente e in ascesa, il "cardinale degli ultimi": ottenuta la porpora nel2001 (la prima nella storia dell'Honduras), Oscar era considerato tra i papabili già nel conclave del2005. La sua carriera stellare ha avuto un rallentamento solo nel 2009, quando si è schierato a favore del colpo di stato militare che depose il presidente democraticamente eletto Manuel Zelaya. «Il cardinale è stato un conciliatore e un leader spirituale. Tuttavia, avallando il golpe, ha voltato le spalle al popolo. È un cardinale per i ricchi, non per i poveri», disse indignato Marvin Pance, parlamentare del partito di sinistra Unificazione democratica. L'elezione di Bergoglio al soglio petrino nel2013 rilanciò Maradiaga in orbita, nonostante lo scandalo della pedofilia: tra il 2002 e il 2003 in una delle diocesi honduregne trovò rifugio per mesi un prete pedofilo inseguito da un lustro dall'Interpol; un anno prima il cardinale in un convegno a Roma aveva chiarito che di fronte a un sacerdote accusato di abusi sessuali sui minori sarebbe stato «pronto ad andare in prigione piuttosto che danneggiare» uno dei suoi preti, «noi non dobbiamo dimenticare che siamo pastori e non agenti dell'Fbi o della Cia». Francesco, che ne apprezza le doti intellettuali e di governo, lo ha voluto comunque a capo del gruppo di consiglieri che sta mettendo a punto la riforma della curia romana. Nominato coordinatore del C9, il Consiglio dei cardinali, Oscar è diventato anche il megafono e l'autorevole esegeta dei dettami della rivoluzione bergogliana, però, la strana vicenda dei pagamenti milionari ricevuti dall'università cattolica e la difesa ad oltranza del suo pupillo Pine da, se non chiarite a dovere, potrebbero rovinare per sempre la sua reputazione. I testimoni auditi dal visitatore Casaretto, infatti, hanno parlato anche di investimenti milionari catastrofici: Maradiaga avrebbe girato somme ingenti della diocesi ad alcune finanziarie londinesi come la Leman Wealth Management (il cui titolare, a leggere i registri della Company House dell'Inghilterra e del Galles, è tal Youssry Henien), e adesso parte dei soldi dati in affidamento (e depositati su conti di istituti tedeschi) sarebbero scomparsi. Non solo. Nel rapporto di Casaretto si ipotizzano pure buchi importanti nell'impero mediatico messo in piedi dall'arcivescovado e controllato dalla Fondazione Suyapa (che gestisce giornali e televisioni della diocesi) e il vescovo Pineda è stato recentemente indicato dai giornali locali come il regista di operazioni finanziarie spericolate e come destinatario di fondi pubblici (pari a un milione di euro) per fumosi progetti destinati «alla formazione dei valori dei fedeli e alla comprensione delle leggi e della vita sociale». Spese che, secondo gli accusatori, non sono state mai supportate da giustificativi validi. Infine, in Vaticano sono preoccupati pure per l'apertura, da parte della Corte dei Conti dell'Honduras, di un'inchiesta contabile sulla diocesi per gli anni 2012-2014: i giudici del Tribuna! superior de Cuentas vogliono capire se le decine di milioni di lempiras girate ogni anno dal governo a favore alla Fondazione per l'Educazione e la Comunicazione sociale, il cui rappresentante è ancora Maradiaga, sono state usate per i progetti previsti dalla legge. Finora la chiesa non ha consegnato - si legge in una lettera dei magistrati ottenuta dall'Espresso - gli attivi e i passivi e i vari giustificativi di spesa. Anche a Tegucigalpa, come a Santa Marta, vogliono trasparenza. Maradiaga intanto va dritto per la sua strada. E agli amici spiega che le illazioni cadranno in terra come le foglie in autunno. «Una delle tentazioni che possono assalire i giornalisti è quella di fare bella figura manipolando la verità», spiegò lo scorso maggio a chi gli chiedeva un parere sui media. «È una mancanza profonda di etica. Chi ama gli scandali o fa pubblicazioni solo per profitto, prima o poi sarà disprezzato dal suo pubblico e non avrà più seguito». Se le accuse su di lui verranno confermate, però, le defezioni potrebbero invece travolgere innanzitutto il suo nutrito seguito.
Il Papa difende il cardinale "accusato di corruzione". Papa Francesco avrebbe telefonato al cardinale Oscar Mariadiaga, che è finito al centro delle cronache per un'inchiesta. Tutte "calunnie" per il porporato, scrive Francesco Boezi, Martedì 26/12/2017, su "Il Giornale". Papa Francesco ha telefonato al cardinale Oscar Mariadiaga, che nella scorsa settimana è finito al centro delle cronache per via di un'inchiesta de L'Espresso. "Il Papa mi ha telefonato e mi ha detto: "Mi dispiace per tutto il male che hanno fatto contro di te, però tu non preoccuparti". Io gli ho risposto: "Santità, sono in pace". Sono con il Signore Gesù che conosce il cuore di ognuno", ha dichiarato il cardinale honduregno in un'intervista a Suyapa Medios riportata da La Stampa. Secondo l'articolo di Emiliano Fittipaldi, un dossier riguardante Mariadiaga sarebbe finito nelle mani del pontefice. Il porporato avrebbe ricevuto 35 mila euro al mese (più una tredicesima da 54mila euro) dall’università cattolica di Tegucigalpa. Ma non solo: l'inchiestista del L'Espresso ha messo in rilievo come "vari testimoni" abbiano accusato Mariadiaga "per alcuni investimenti milionari in società londinesi poi scomparse nel nulla, né che la Corte dei Conti del piccolo paese dell’America centrale stesse indagando sull’utilizzo di enormi somme di denaro girate dal governo honduregno alla "Fondazione per l’educazione e la comunicazione sociale" e alla "Fondazione Suyapa", entrambe facenti capo alla Chiesa locale e quindi allo stesso Maradiaga". Queste accuse - per il cardinale - sarebbero false e datate. Il contenuto dell'inchiesta di Fittipaldi sarebbe già stato pubblicato - infatti - nel 2016, quando un ex funzionario dell'Università licenziato per "comportamenti disonesti nell'amministrazione dei fondi", avrebbe già "accusato" Mariadiaga. E sempre il cardinale ha sostenuto che il vero obiettivo di tutta questa storia - in realtà - sia il Papa: "Anche le persone più semplici mi hanno detto: questo non è solo contro di te, è contro il Santo Padre. Quello che vogliono è fare pressione in modo che, quando arriverà il momento, il Papa mi dirà: è meglio che tu te ne vada perché sei un personaggio negativo per la stampa internazionale", ha chiosato il porporato nell'intervista citata. Sembra che il Papa - insomma - abbia voluto ribadire la sua vicinanza umana all'honduregno. Mariadiaga - del resto - è stato posto proprio da Bergoglio al vertice del C9, cioè del minidirettorio cardinalizio chiamato a riformare profondamente tanto la Chiesa cattolica quanto la Curia Romana. L'inchiesta di Fittipaldi - per Oscar Mariadiaga - è "una calunnia". Come riportato sempre da La Stampa, il cardinale avrebbe ribadito che l'Università di Tegucigalpa è "prospera" e "senza debiti". I fondi - quindi - sarebbero stati utilizzati per le opere caritatevoli dell'arcidiocesi e non sarebbero finiti nel patrimonio personale dell'uomo di Chiesa. Il Papa - intanto - si sarebbe dichiarato dispiaciuto per lo scandalo sollevato dall'inchiesta in questione e per l'attacco "personale" subito dal cardinale. Mariadiaga - a causa della scadenza temporale del mandato - sarebbe comunque vicino alle dimissioni.
Chiesa, ecco gli stipendi di preti, vescovi e cardinali, scrive l'11 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Vi siete mai chiesto quanto guadagnano preti, sacerdoti e prelati? La risposta è piuttosto sorprendente. Già, perché si tratta di cifre che non corrispondono esattamente all'idea di vita morigerata che spesso si associa alla Chiesa. Ma tant'è. Si parte dai preti, che certo non prendono soldoni: lo stipendio è di circa mille euro netti al mese, comunque non possono prendere più di 1.200 euro netti in base all'anzianità. Si passa poi ai vescovi, i quali incassano circa 3mila euro netti al mese: se un prete è anche insegnante di religione, l'istituto in cui esercita versa soltanto la quota mancante per raggiungere il tetto di anzianità. Poi si sale. Si passa agli arcivescovi capi di dicastero o pontifici consigli, i quali hanno stipendi succulenti: dai 3mila ai 5mila euro. Più alto ancora, infine, i cardinali: 5mila euro e qualcosa in più al mese.
Ecco quanto guadagnano preti, vescovi, cardinali ed il Papa, scrive il 13 novembre 2017 A. Raffa, Esperto di Cronaca, Autore dalla news (Curata da F. Gonzo) su "Blasting News". Il rapporto tra i membri della #Chiesa ed i soldi è da sempre oggetto di polemiche e dibattiti, anche perché negli anni sono emersi molteplici scandali che vedono coinvolti parroci o alti prelati, dal caso di "Don Euro" a quello della ristrutturazione dell'attico del cardinale Bertone, per citare due dei più noti. Il primo riguarda il sacerdote che per anni ha gestito la parrocchia di Fossone, a Carrara, e che chiedeva costantemente soldi ai fedeli adducendo alle necessità della parrocchia mentre poi li spendeva in hotel di lusso e incontri sessuali. Il secondo riguarda il caso dell'attico del noto cardinale ristrutturato con i soldi della Fondazione Bambin Gesù, e che in teoria avrebbero dovuto essere utilizzati in favore dell'omonimo ospedale pediatrico. Vediamo quanto guadagnano i prelati, dal semplice sacerdote alle alte cariche ecclesiastiche.
Sacerdoti e vescovi. Un semplice sacerdote percepisce in media mille euro al mese, che possono arrivare a mille e duecento in base all'anzianità ai quali si sommano le offerte raccolte per le messe. Nel caso che un sacerdote sia anche insegnante di religione gli viene corrisposta la cifra che manca per raggiungere quella stabilita sulla base dell'anzianità, mentre se le entrate superano tale soglia è il prete che è tenuto a versare la differenza. Se la passano meglio invece i vescovi, che percepiscono una cifra intorno ai tremila euro al mese.
Arcivescovi e cardinali. Sono circa quattromila le persone sul libro paga della Santa Sede. Tra questi ci sono cardinali e arcivescovi capi di dicastero o di Pontifici Consigli, che percepiscono uno stipendio che varia dai 3.000 ai 4.000 euro, che aumenta a 5.000 euro nel caso dei cardinali. Chi invece risulta a carico dello Stato sono gli Ordinari Militari, che godono di una pensione di 4.000 euro mensili poiché per legge sono equiparati a Generali di Corpo d'Armata, e percepiscono le stesse cifre degli ufficiali di tale rango.
Quanto guadagna il Papa. Il Papa emerito Joseph Ratzinger riceve una rendita di 2.500 euro, pressappoco lo stipendio di un funzionario, ai quali si sommano gli introiti per i diritti dei numerosi libri da lui pubblicati in veste di teologo. #Papa Francesco invece non percepisce nessun assegno mensile, ma essendo il Pontefice [VIDEO] in carica ha diritto di attingere al cosiddetto "Obolo di San Pietro", un fondo gestito dallo Ior dove vengono raccolte le donazioni effettuate il giorno 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo, soldi che il Papa può utilizzare per sponsorizzare progetti benefici. Nel 2012 tale fondo ammontava a 65 milioni di euro.
Quanto guadagna un sacerdote? Tutti i numeri e i criteri, scrive Gianluigi Marsibilio l'8 marzo 2016 su "Documentazione". Lo scorso anno fece scalpore la decisione dei parroci della diocesi di Bergamo di devolvere i propri stipendi ai disoccupati del territorio. Ogni volta che sentiamo queste notizie di cronaca ci poniamo delle domande sugli stipendi dei sacerdoti, cercheremo quindi di spiegare quanti soldi guadagna un parroco e i criteri di distribuzione dello stipendio del clero italiano.
Quanto guadagna un sacerdote? Ad occuparsi della remunerazione del clero è un istituto apposito, l'ICSC (Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero), questo organo è direttamente connesso alla Conferenza Episcopale Italiana. In media, secondo i dati dell'ICSC, il compenso di un prete si aggira sui 1000 euro lordi, con un minimo di 988 euro e un massimo di poco superiore ai 1800, sempre lordi e per 12 mensilità.
Come viene stabilito lo stipendio di un sacerdote? Questa somma è coperta in parte dalle parrocchie (nella nostra diocesi esse contribuiscono con 0,0723 € per ogni abitante componente le rispettive comunità), in parte da altri redditi del sacerdote (soprattutto nel caso di insegnamento), il restante è garantito dal sistema del Sostentamento del Clero, il quale a sua volta recepisce le risorse, come già detto, dalle offerte libere, dagli Istituti diocesani per il Sostentamento del Clero e dai fondi dell’8 per mille. Per stabilire la cifra esatta di quanto guadagnano i preti si utilizzano dei criteri legati ad un punteggio, ogni punto ha un valore e viene dato ad un sacerdote in base ai servizi che svolge. Ogni anno la CEI stabilisce il valore del singolo punto, ad oggi è di 12,36 euro. Un neo-sacerdote, ad esempio, parte con un punteggio di 80, quindi percepirà 988 euro. Annualmente i sacerdoti sono chiamati a presentare un modulo (P01) all'ICSC, dove sono indicate mansioni e servizi nella diocesi, l'istituto provvede al calcolo e controllo del punteggio, effettuando anche decurtazioni per imposte e contributi pensionistici al Fondo Clero istituito presso l’INPS, e alla fine manda i soldi al sacerdote. Il sacerdote impegnato in attività come l'insegnamento della religione nella scuola pubblica, non ha un doppio stipendio, ma va a percepire dall'ICSC solo il denaro che manca per raggiungere il tetto stabilito dai punti accumulati. Se ne guadagna più di quanto il suo punteggio prevede non ottiene alcun contributo. Se lo supera la quota che gli spetta l’ICSC funge da sostituto di imposta, e il sacerdote dovrà quindi versare la relativa somma maturata. Le pensioni dei sacerdoti sono calcolate in base al contributo pensionistico rilasciato al fondo del Clero istituito all’Inps.
Quanto guadagnano i vescovi e il Papa? Per i vescovi i conti sono fatti sempre in base ai punteggi, con una remunerazione che può toccare al massimo i 3000 euro lordi. Cifre che spingono a chiedersi quanto guadagnano i Papi. "Per Joseph Ratzinger – si legge in un articolo di Franca Giansoldati – si stabilì una rendita di 2.500 euro, poco più di uno stipendio di un funzionario. Cifra che, volendo, può essere integrata dai diritti dei tanti libri che ha pubblicato come teologo e che ha alimentato pure una fondazione che sostiene gli studi teologici. Francesco, invece, non riceve nessuno stipendio. Ma ha la facoltà di attingere liberamente all'Obolo di San Pietro, un fondo istituito presso lo Ior che raccoglie le donazioni in arrivo nella data del 29 giugno, solennità di San Pietro e Paolo, con lo scopo di sponsorizzare tutti i progetti benefici a lui più cari (circa 65 milioni di dollari nel 2012)".
Chiesa, quanto guadagnano preti, vescovi e cardinali e chi paga i loro stipendi? Scrive il 16 luglio 2017 "La post verità". Chiesa, quanto guadagnano preti, vescovi e cardinali e chi paga i loro stipendi? Quanto guadagnano i preti? Qual è lo stipendio di suore, cardinali, del Papa? Di seguito, ecco quanto prendono i prelati. Le figure religiose come preti e suore, ma anche vescovi, cardinali e lo stesso capo della Chiesa cattolica sono figure sociali che non siamo abituati ad associare ad uno stipendio fisso. I preti e le suore godono della possibilità di avere vitto e alloggio nei conventi nei quali vivono ed operano, ma siamo sicuri che sia solo quello il sostentamento che il Vicariato accorda loro? In realtà gli stipendi di preti e suore possono arrivare anche a cifre astronomiche a seconda del ruolo ricoperto: ecco quanto guadagna un prete al mese, e chi paga i salari dei religiosi.
Quando guadagna un prete o una suora? Gli stipendi di tutte le gerarchie ecclesiastiche. Per scoprire quanto guadagna un prete al mese bisogna innanzitutto fare una distinzione tra preti e parroci. In una parrocchia, infatti, ci possono essere più preti ma solo uno di loro è il parroco. I preti semplici possono arrivare a guadagnare circa 1000 euro al mese, mentre i parroci guadagnano circa 1200 euro al mese. La crescita dello stipendio, dunque, non dipende solo dalla carica, ma anche dall’anzianità (che d’altra parte va di pari passo con la possibilità di ottenere ruoli di prestigio). Le suore e i frati non percepiscono stipendio, a meno che non facciano un’attività esterna alla loro vita ecclesiale (es. insegnante), allora in quel caso prendono i soldi del lavoro che svolgono come un comune civile.
Quanto guadagnano vescovi e cardinali: I vescovi, ovviamente, guadagnano di più dei semplici parroci: il loro stipendio può arrivare fino a 3000 euro mensili. I cardinali, invece, guadagnano in media 5000 euro. I cardinali hanno anche diritto a gettoni di presenza per le attività politiche del Vaticano. I monsignori che fanno parte dei direttivi e delle commissioni politiche dello Stato, infatti, hanno anche impegni di natura politica oltre che spirituale, come assemblee, riunioni e commissioni. Per questo, come per i parlamentari dello Stato italiano, esisteva un obolo A questo si deve sommare la beneficenza di molti fedeli, che preferiscono lasciare i propri averi, sia liquidi che immobiliari, alla Chiesa. Un vescovo, un cardinale o un semplice prete che ottengano un appartamento o un capitale tramite un lascito testamentario possono devolverlo per attività di beneficenza o per ospitare delle persone senza fissa dimora. Se il lascito testamentario, però, specifica che l’appartamento o la rendita non sono lasciati alla Chiesa, ma al singolo prete, egli può disporne come meglio crede: quel lascito, allora, diventa a tutti gli effetti una rendita di tipo privato.
Chi paga gli stipendi di preti e suore: La domanda che molti cittadini si pongono è: chi paga gli stipendi di preti e suore? Molti erroneamente credono che sia lo Stato italiano a pagarli, altri pensano che sia il Vaticano in persona. In realtà la verità sta nel mezzo: l’ente che si occupa degli stipendi degli ecclesiastici è l’ICSC (Istituto centrale di sostentamento del clero), connesso alla CEI. L’Istituto gestisce direttamente gli stipendi di tutti i dipendenti religiosi. Gli ecclesiastici devono compilare il modulo P01 dove dichiarano quali siano le proprie attività all’interno della diocesi o della parrocchia: in base a quello si stabilisce un punteggio di anzianità che determina lo stipendio.
Per quanto riguarda le pensioni di preti e suore, esiste un fondo pensionistico chiamato Fondo del Clero: questo è gestito dall’Inps dello Stato italiano (che in questo caso, dunque, amministra una parte dei sostentamenti che la Chiesa dà ai suoi dipendenti). Il minimo di pensione che si può percepire se si è a gradi più bassi della gerarchia ecclesiastica (quindi un prete o una suora “semplici”) è di poco più di 900 euro mensili.
L’8 x mille e i guadagni della Chiesa. La donazione dell’8 x mille è sicuramente la fonte di sostentamento maggiore della Chiesa non solo cattolica, ma anche di tutte le altre confessioni. Questa donazione permette di donare l’8 x mille del proprio reddito ad un’organizzazione religiosa riconosciuta a propria scelta, che deve impiegare quel denaro in missioni di pace, in aiuti umanitari e sanitari ai più deboli sia sul suolo italiano che estero. Nella Chiesa cattolica l’8 x mille contribuisce per circa l’80% alle necessità di sostentamento dell’ente: si stima che entrino alla Chiesa circa 350 milioni di euro annui. Nell’ultimo periodo, però, l’8 x mille sembra aver diminuito la sua presa sugli italiani: molti preferiscono donare denaro a cause sanitarie o sociali, e molti nuovi cittadini o immigrati che credono in diverse confessioni religiose donano alla propria chiesa il necessario, e non a quella cattolica.
Quanto guadagnano i professori di religione. Un tempo era diffusa su tutto il territorio nazionale la pratica di far insegnare la religione cattolica a degli ecclesiastici. Non è raro, infatti, sentire i nostri nonni ancora parlare del “prete” di religione, più che del professore di religione. Negli ultimi 20 anni, però, questa pratica è quasi del tutto sparita, se si eccettuano gli ecclesiastici che insegnano religione cattolica negli istituti parificati. I docenti di religione, ormai nella stragrande maggioranza dei casi laici, percepiscono uno stipendio non dal provveditorato (quindi dallo Stato italiano), ma dal vicariato. Gli stipendi sono tarati su quelli degli altri docenti, ma i professori di religione sono ad incarico annuale. Il fatto che abbiano una sola ora in ogni classe impone loro di seguire 18 classi per arrivare al minimo di ore consentite per legge per gli insegnanti. Ma quanto guadagnano davvero i preti che insegnano religione? Essi sottostanno al sistema stipendiale gestito dall’ICSC, tramite la presentazione del modulo P01, uguale a quello degli altri sacerdoti che non insegnano. Poiché questi sacerdoti integrano le proprie attività con l’insegnamento della religione cattolica, essi non percepiscono un doppio stipendio, ma incrementano lo stipendio minimo solo della cifra che serve a compensare il loro punteggio di anzianità.
Preti di corsia: quanto guadagnano i cappellani degli ospedali. Tra gli stipendi di preti e suore più contestati ci sono quelli che interessano i preti di corsia. Negli ospedali più grandi, infatti, è messo a disposizione un servizio di conforto spirituale di religione cattolica (su richiesta del singolo malato possono essere presenti anche figure religiose di diverse confessioni) che dovrebbe essere su base volontaria. I singoli sacerdoti, nei momenti liberi, dovrebbero rendersi disponibili a supportare i malati con preghiere e confessioni. Questo servizio, però, ha un costo, poiché i sacerdoti sono retribuiti per quelle ore, che vengono considerate di servizio: si stima che il costo possa arrivare fino a 35 milioni di euro annui. Sia i preti che le suore che svolgono questo servizio a tempo pieno possono arrivare a ottenere ben più di 2000 euro mensili, molto più di un normale stipendio da prete.
Gli stipendi dei preti militari. I cappellani militari sono sicuramente i religiosi che guadagnano di più: il loro stipendio può arrivare anche a superare i 4000 euro, alla stregua di quello di un vescovo o di un cardinale. Tra i cappellani militari si distinguono quelli di terra (che seguono le missioni in giro per il mondo e vivono in tutto e per tutto la vita militare insieme all’esercito) e quelli di mare, che invece seguono le spedizioni navali.
Chi paga lo stipendio dei cappellani militari? Questa volta a farsene carico è davvero lo Stato italiano: in base alla legge 1961/512 dell’Ordinariato militare italiano, infatti, i preti militari sono equiparati agli ufficiali. Si stima che lo Stato italiano spenda 10 milioni di euro l’anno per gli stipendi dei cappellani militari. 7 milioni vengono invece destinati alle pensioni dei preti militari ormai in ritiro: circa 17 milioni di euro annui, insomma, per il mantenimento dell’apparato religioso di contorno a quello militare. Gli arcivescovi militari, poi, sono equiparati ai generali di corpo d’armata: questo significa che essi possono arrivare a percepire anche più di 9000 euro al mese.
Quanto guadagnano i preti delle confessioni non cattoliche? Se è interessante indagare gli stipendi di preti, suore e di tutte le altre figure di riferimento della Chiesa cattolica, è altrettanto interessante scoprire quanto guadagnano i religiosi delle confessioni non cattoliche. In Italia c’è una ristrettissima minoranza di persone che credono in confessioni cristiane non cattoliche, quindi è difficile fare una stima. All’estero, però, ad esempio in Germania, i pastori sono dei veri e propri “dipendenti” della comunità, che può anche licenziarli se non si crea una sinergia tra fedeli e pastore. Il pastorato è aperto anche alle donne (sia nel protestantesimo di Germania che nella confessione anglicana) e generalmente i pastori sono sposati o hanno comunque una famiglia. Si stima che i pastori protestanti possano percepire uno stipendio di circa 3500 euro, ma il lavoro è a tempo pieno e non si occupa solo della cura delle anime: molte parrocchie, infatti, hanno al proprio interno una serie di servizi (come ad esempio gli asili nido) che sono di aiuto alla comunità.
Quei poveri cappellani oberati di lavoro, scrive "Uaar.it il 4 ottobre 2014. La presenza di cappellanie cattoliche in quasi tutti gli ambienti obbliganti pubblici è emblematica della scarsa laicità dello Stato italiano. Dalle caserme di ogni tipo alle carceri, dagli ospedali ai cimiteri e alle università, gli assistenti spirituali cattolici sono presenti per legge praticamente ovunque, sempre rigorosamente a spese dello Stato. E se le confessioni che hanno un intesa con lo Stato possono chiedere di avere le loro cappellanie, senza tuttavia alcun diritto a un contributo e men che meno a una retribuzione, gli assistenti laici e quelli delle altre fedi possono solo sperare, se vogliono poter garantire un servizio almeno analogo, di riuscire a strappare una convenzione con il relativo ente. L’unica eccezione sono forse le scuole pubbliche statali, non obbligate a prevedere una cappellania ma, ancora peggio, tenute a fornire fino a due ore settimanali di insegnamento religioso conforme alla dottrina cattolica. Sempre a carico della collettività, questo è purtroppo ovvio.
Un trattamento pari al doppio di quanto previsto in quel dispositivo. L’ultima legge a disciplinare la figura del cappellano carcerario è stata la 68/82. L’ipotesi di carceri senza cappellano non è naturalmente neanche presa in considerazione, anzi è previsto che possano esservene presenti più di uno nello stesso Istituto. Dal punto di vista economico la 62/82 si limita a rimandare alla legge 207/76 stabilendo che ai cappellani vada riconosciuto un trattamento pari al doppio di quanto previsto in quel dispositivo e incrementato di una indennità mensile supplementare. Tradotto in soldoni, nel 1982 un cappellano carcerario percepiva, a seconda del livello di inquadramento, un’indennità variabile da un minimo di circa 660 euro fino a circa 1070 euro annui, a cui si aggiungono ferie retribuite, periodi di assenza per malattia retribuiti fino a due mesi, assicurazione Inps e Tfr. Ovviamente oggi le cifre saranno molto diverse, ma non abbiamo riferimenti ai decreti ministeriali che hanno introdotto gli aumenti.
Un servizio che è nel totale interesse della Chiesa cattolica erogare. Nulla veniva stabilito per quanto riguarda le ore di disponibilità del cappellano. Questo aspetto, insieme a molti altri inerenti il funzionamento del servizio, sono stati successivamente definiti nella circolare ministeriale 3553/6003 del 2001 e ammontano a complessive 18 ore settimanali. Il monte ore è comunque abbastanza flessibile, perché viene ammesso sia lo spostamento di ore da una settimana a un’altra che la modulazione in un numero di giornate, che normalmente sarebbe di cinque, fino a tre settimanali. Considerato che nel 1982 il minimale contributivo Inps per un operaio era di 16.785 lire al giorno, e che l’operaio lavora normalmente 40 ore a settimana, si capisce che l’indennità corrisposta ai cappellani era di poco inferiore e dunque tutt’altro che irrisoria, a maggior ragione se si considera che viene corrisposta per un servizio che è nel totale interesse della Chiesa cattolica erogare. Tant’è che, ripetiamo, molti servizi di assistenza religiosa per culti diverso dal cattolico, ma anche quelli laici come il servizio di Amnc dell’Uaar, vengono erogati a titolo gratuito. Ma si sa, le nostre vedute quasi mai coincidono con quelle del mondo cattolico e spesso nemmeno con quelle del mondo politico. Infatti l’attuale governo, e in particolare Andrea Orlando in quanto attuale Ministro della Giustizia, non solo non hanno pensato di includere gli stipendi dei cappellani nelle varie spending review, ma hanno fatto un ragionamento diverso. Devono aver pensato che magari questi “poveri” cappellani hanno molte altre cose da fare oltre che assistere le anime peccatrici dei detenuti. Metti che magari hanno la loro parrocchia, e quindi grazie all’otto per mille percepiscono lo stipendio dalla Cei, o che insegnano religione in qualche scuola, e quindi sono pagati dal ministero dell’Istruzione, perché comunque per loro non esiste il divieto di cumulo delle cariche. Più genericamente, metti che hanno difficoltà a sostenere una mole di lavoro come quella per cui prestano servizio nel carcere; vogliamo cercare di fare in modo di venirgli incontro? Sarà pure gente di una certa età, visto che perfino il limite massimo di settant’anni previsto originalmente è stato abolito nel 1989.
È lecito ritenere che la spesa complessiva rimarrà invariata. Detto fatto. Ecco che giusto nel luglio scorso è stata diramata dal ministero una circolare in cui viene sostanzialmente abrogato il dovere di garantire 18 ore settimanali di presenza in carcere, pur mantenendo il limite minimo di tre giorni a settimana. Singolare la motivazione alla base della deliberazione: siccome non si trovano sacerdoti per assicurare le 18 ore, invece di eliminare un servizio non essenziale si abbassano le ore da prestare. E se tanto ci dà tanto, poiché l’indennità non viene calcolata sulla base delle effettive ore lavorate, ma si tratta di un importo annuale a cui viene aggiunto un supplemento mensile, è lecito ritenere che la spesa complessiva rimarrà invariata a tutto vantaggio dei cappellani, che godranno di un rapporto tra ore lavorate e retribuzione percepita decisamente più vantaggioso, e a scapito della laicità e dei cittadini, che poveri lo sono sicuramente, e sempre di più. Ma speriamo di essere smentiti almeno su quest’ultimo punto.
Quanto ci costi cappellano: ecco gli stipendi d'oro dei preti militari. Grazie a una legge del 1961, i sacerdoti in divisa sono equiparati agli ufficiali. Per loro lo Stato spende oltre 20 milioni di euro, tra retribuzioni, tredicesime, benefit e pensioni. E la riforma in arrivo che promette tagli in realtà farà risparmiare solo il 3 per cento, appena 350mila euro, scrive Paolo Fantauzzi il 2 maggio 2016 su "L'Espresso". Papa Francesco la sua opinione l’ha fatta conoscere da tempo: per assistere spiritualmente i soldati, in caserma e nelle missioni all’estero, non servono sacerdoti coi gradi. Anche il buonsenso del pontefice, però, rischia di infrangersi davanti a una questione che si trascina da anni fra resistenze fortissime: l’equiparazione dei cappellani militaria ufficiali delle Forze armate in virtù di una legge del 1961. Sacerdoti-colonnello, tenente o capitano che possono aspirare a diventare generali e hanno diritto a retribuzioni dorate, indennità di ogni tipo, avanzamenti automatici di carriera e una serie di benefit assai lontani dall’idea della Chiesa povera tanto cara al papa venuto dalla fine del mondo. Un assoluto centro di comando “anfibio”, metà religioso e metà temporale, che fa parte a tutti gli effetti dello Stato italiano, ha rapporti diretti col Quirinale (che nomina per decreto i cappellani), il ministro della Difesa e il potere politico e che alla consolidata felpatezza vaticana unisce il rigore proprio della gerarchia militare. Un universo che è un viatico per fulgide carriere, come mostra il caso del cardinale Angelo Bagnasco, divenuto noto con la celebrazione dei funerali dei solati caduti in Afghanistan e Iraq e approdato dopo appena tre anni al vertice della Cei.
CARO CURATO. Nel 2015 fra effettivi e “di complemento”, realtà abolita da anni per gli ufficiali, solo di stipendi i 205 cappellani sono costati oltre 10 milioni di euro, un terzo in più di appena due anni prima. E chissà che direbbe il Papa, che puntualmente tuona contro l’arricchimento del clero, se sapesse che l’arcivescovo Santo Marcianò, che lui stesso ha nominato ordinario nel 2013, in virtù dell’equiparazione a generale di corpo d’armata può contare su 9.545 euro lordi al mese, che con la tredicesima diventano 124mila l’anno. Il ruolo di vicario generale, assimilabile a generale di divisione, ne garantisce 108mila, mentre gli ispettori (generali di brigata) arrivano a 6mila al mese. Altri due milioni costa il funzionamento della diocesi, ovvero l’Ordinariato, che ha sede a Monti, alla salita del Grillo, in uno stupendo complesso con vista sui Fori, e dispone pure di un seminario equiparato ad accademia nella cittadella militare della Cecchignola. Cifre alle quali aggiungere almeno 7 milioni per pagare le pensioni, che grazie ai cospicui contributi previdenziali si aggirano in media attorno ai 3mila euro al mese. Impossibile però conoscere cifre esatte per questi dipendenti pubblici: l’Inpdap non è in grado di fornire un dato preciso. Nel complesso, dunque, l’assistenza spirituale alle Forze armate costa alle casse pubbliche circa 20 milioni: tutti soldi, si badi bene, aggiuntivi rispetto al miliardo di euro che già annualmente entra nelle casse della Cei ed è usato in gran parte proprio per il sostentamento del clero. Ma se lo stipendio di un prete è sui mille euro, un cappellano come tenente parte dal doppio e a fine carriera, da colonnello, può superare i 5mila. Senza contare gli innumerevoli bonus. Se il sacerdote dei parà si butta col paracadute (in passato uno è stato perfino istruttore) ha diritto all’indennità di lancio; quello della marina, se non è a terra, all’indennità di imbarco. E poi, fra le tante, quella di trasferimento, il rimborso per il trasporto del bagaglio personale e dei mobili, l’indennizzo chilometrico per gli spostamenti. «E siccome l’orario è quello d’ufficio, una celebrazione dopo le 16,30 viene considerata straordinario», spiega un cappellano che chiede l’anonimato. Benefit già difficili da accettare per i graduati, figurarsi per un ecclesiastico. Che quando va in missione internazionale gode pure della relativa lievitazione della busta paga. Forse anche per questo è sempre una stessa ristretta cerchia a prendervi parte.
IL BUON SOLDATO. Tanti privilegi favoriscono il rampantismo e rischiano di distogliere dalla missione evangelica. Come pure i ricorrenti casi di cronaca, l’ultimo dei quali risalente ai giorni scorsi: un cappellano dell’Aeronautica indagato dalla Procura di Pisa per stalking verso un giovane aviere al quale chiedeva prestazioni sessuali. Del resto della vita militare questo mondo dorato ha solo i vantaggi: un concorso di accesso non c’è, le visite di idoneità non sono affatto inflessibili e il sovrappeso, teoricamente motivo di congedo forzato, non rappresenta un problema. Ma c’è pure chi vive con fastidio tanti benefit, perché compito di un religioso è essere un buon pastore d’anime. O al massimo un soldato sì, ma di Gesù, come ricorda nel nome il trimestrale dell’Ordinariato “Bonus miles Christi”. Solo che la rivista, spedita gratis alle istituzioni e pagata dal ministero della Difesa, più che a un bollettino informativo assomiglia a una tribuna dell’arcivescovo Marcianò. Con una sovraesposizione, anche fotografica, che fra omelie, interviste e prefazioni supera non solo gli spazi minimi relativi alle attività pastorali, ma pure quello riservato ai discorsi del pontefice. D’altronde si tratta pur sempre di un generale di corpo d’armata, per quanto in abito talare.
RIFORMA O NO? Ma se lo Stato è laico, perché non togliere i gradi ai cappellani e far provvedere direttamente al Vaticano? Se ne parla da anni. «La Chiesa è pronta da ieri, non da domani», ha assicurato a Radio radicale nel 2013 il vicario generale, monsignor Angelo Frigerio. «Senz’altro, basta trovare formule alternative», ha ribadito nel 2014 Marcianò. «In tempi brevi si giungerà a una soluzione», ha garantito a inizio 2015 padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa. Malgrado gli annunci, il tavolo bilaterale si è insediato solo lo scorso gennaio e ci sono voluti altri due mesi per la seconda riunione. Il rischio delle calende greche, insomma, è concreto, anche perché l’Italia si è seduta al tavolo senza nemmeno presentare una proposta e ha schierato la stessa squadra che si occupa del Concordato, notoriamente assai vicina alla Santa Sede. Inoltre tre membri su sei sono anche nella commissione che dovrebbe rivedere il meccanismo dell’8 per mille, mai toccato nonostante le ripetute critiche della Corte dei conti per l’eccessivo vantaggio che deriva alla Cei dalla modalità di ripartizione dei soldi. Solo casualità? Di certo il tema scotta: da quando la Chiesa ha meno voce nella scelta dei docenti di religione, le Forze armate sono l’unico appiglio rimasto. Per questo il Vaticano, dietro l’apparente disponibilità, non molla. «La nomina dei tre ispettori-generali di brigata per l’esercito, la finanza e i carabinieri è stata sospesa dalla Difesa in vista della riforma. Sulla carta ci sono ma di fatto no, quindi la nostra spending review ce l’abbiamo già», dice all’Espresso Frigerio, che da ex sindacalista Cgil (in gioventù era elettricista) guida la commissione d’Oltretevere. Parole non casuali, perché proprio questa sarà la linea del Piave per la Santa Sede: riservare il grado di generale solo all’ordinario militare ma lasciando tutto il resto così com’è. Equiparazione con gli ufficiali e benefit compresi. Risparmio stimato: 350 mila euro, il 3 per cento appena. Non proprio un gran sacrificio.
8 per mille, tu lo sai dove finiscono.... 8 per mille, tu lo sai dove finiscono i soldi? Scopri come i fondi vengono divisi e spesi. Si avvicina il momento della dichiarazione dei redditi ed è ripartito il martellamento pubblicitario. Perché in ballo c'è un tesoro da un miliardo e duecento milioni, che in gran parte finirà alla Chiesa cattolica. Ecco come viene distribuito tra i culti il prelievo dall'Irpef, per cosa viene usato tra edilizia, stipendi al clero, spot e carità, scrive Mauro Munafò l'8 maggio 2015 su "L'Espresso". Maggio, tempo di dichiarazione dei redditi. E, come da tradizione, compaiono sulle reti televisive, su internet e sulle pagine dei giornali le pubblicità della Chiesa cattolica. L'obiettivo è molto chiaro: spronare i contribuenti a decidere di destinare il loro 8 per mille alla Chiesa di Roma, raccontando come quei soldi sono stati utilizzati fino ad oggi in opere di bene e iniziative sociali. Campagne pubblicitarie milionarie che possono decidere il destino di un fondo davvero ricco: solo nel 2014 l'8 per mille è stato superiore al miliardo e duecento milioni di euro, di cui oltre un miliardo e 50 milioni sono finiti alla Chiesa Cattolica. Per lo Stato e gli altri culti sono rimaste solo le briciole. Ma come vengono utilizzati davvero questi soldi, come vengono ripartiti e quanto finisce veramente nelle campagne caritative e quanto nella gestione, nell'edilizia e nelle pubblicità? Le cifre e la gestione dei fondi sono molto diversi da culto a culto. La Chiesa Cattolica spende un terzo dei fondi nello stipendio del clero e poco meno della metà in "culto e pastorale", una voce che al suo interno include la costruzione di nuove chiese e la ristrutturazione di quelle esistenti, i finanziamenti alle diocesi e la tutela dei beni ecclesiastici. Meno di un quarto dei fondi vanno in opere di carità, sia nazionali che internazionali. Manca nei rendiconti della Chiesa qualunque riferimento alla spesa pubblicitaria che, tuttavia, emerge da altri dati e da sola supera l'intero ammontare dell'8 per mille di quasi tutti gli altri culti. Molto diverso l'uso dei fondi da parte di Avventisti, Assemblee di Dio e Valdesi, che impiegano la quasi totalità del loro 8 per mille in interventi caritativi. Più concentrata sui progetti culturali è la Comunità Ebraica, mentre i Luterani sono gli unici insieme alla Chiesa Cattolica a usare questa fonte di entrate per pastorale e stipendio del clero.
E lo Stato? Nei grafici su come vengono usati i fondi e in quelli sulla pubblicità manca uno degli attori principali: lo Stato italiano, che dovrebbe usare questi soldi "a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione di beni culturali". In realtà nel corso degli anni lo Stato "mostra disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore, dando l'impressione che l'istituto sia finalizzato - più che a perseguire lo scopo dichiarato - a fare da apparente contrappeso al sistema di finanziamento diretto delle confessioni", denuncia la Corte dei Conti. Il governo ha infatti usato i fondi dell'8 per mille di sua competenza per sistemare buchi del bilancio, aggiustare le leggi di stabilità, finanziare le pensioni degli esuberi Alitalia e chi più ne ha più ne metta. Tanto è stata folle la gestione della quota statale che negli anni 2010, 2011 e 2012 il fondo è stato del tutto azzerato e nel 2013 appena 4 progetti sociali sono stati finanziati su oltre 900 presentati per una spesa complessiva di 400mila euro: i restanti 169 milioni del fondo sono stati infatti destinati ad altre voci di bilancio.
Lo strano sistema di ripartizione e il boom. Ma la mancanza di pubblicità da parte dello Stato e la sua volontà di "frustrare l'intento di fornire una valida alternativa ai cittadini che, non volendo finanziare una confessione, aspirino, comunque, a destinare una parte della propria imposta a finalità sociali ed umanitarie" (Corte dei Conti 2014) è solo una delle storture ormai croniche di questo sistema. Il meccanismo di ripartizione ha infatti delle caratteristiche uniche: le firme espresse (meno della metà del totale) decidono infatti il destino dell'intero fondo, fornendo un effetto "moltiplicatore" quasi triplo, come il grafico sotto aiuta a capire. Inutili sono stati negli anni i richiami della Corte dei Conti per rivedere il sistema, magari adottando il "modello spagnolo" che, come succede per il 5 per mille italiano, lascia allo Stato la quota di 8 per mille su cui non si è espresso il contribuente. In questo modo le casse statali risparmierebbero 600 milioni l'anno e si metterebbe un freno all'incremento record di soldi finiti ai culti, soprattutto alla Chiesa Cattolica.
8 per mille, i 600 milioni che lo Stato non vuole. Così abbiamo regalato 10 miliardi alla Chiesa. Grazie al particolare meccanismo della ripartizione dell'Irpef lo Stato ha lasciato una cifra monstre ai vescovi italiani. E, nonostante anche la Corte dei Conti abbia segnalato la stranezza del sistema, nessun governo lo tocca. Anche se farebbe guadagnare più dell'abolizione del Senato, scrivono Paolo Fantauzzi e Mauro Munafò il 22 maggio 2015 su "L'Espresso". L’abolizione del Senato è da sempre uno dei cavalli di battaglia di Matteo Renzi. La Camera alta costa agli italiani oltre mezzo miliardo l’anno (541 milioni l’anno scorso) e per il premier si tratta di uno di quei costi della politica da tagliare con l’accetta. Eppure, malgrado la continua difficoltà di trovare risorse, è come se lo Stato italiano pagasse ogni anno un Senato aggiuntivo rispetto a quello esistente. Come? Rinunciando a circa 600 milioni di gettito Irpef, che in un momento economicamente tanto difficile avrebbero un effetto balsamico sulla casse statali. È una delle conseguenze della legge che nel 1985 ha istituito l’8 per mille, che all'articolo 47 prevede che “in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”. Tradotto: anziché essere incamerati dal bilancio dello Stato, vengono distribuiti anche i soldi di chi non barra la casella. Un po’ come accade alle elezioni, dove i seggi sono ripartiti a prescindere dalla percentuale di astensionismo. “I soli optanti decidono per tutti” come ha osservato la Corte dei conti, criticando il sistema. Il fatto è che, forse perché non sono a conoscenza di questo meccanismo, i contribuenti che non indicano alcuna destinazione dell’8 per mille sono la maggioranza: fra il 55 e il 60 per cento del totale. Eppure tutti quanti, in questo modo, “regalano” senza volerlo la loro parte di Irpef. La principale beneficiaria è ovviamente la Chiesa cattolica, che essendo la destinataria numero uno delle opzioni porta a casa più del doppio di quanto le spetterebbe sulla base delle scelte effettuate. Lo scorso anno, ad esempio, con il 38 per cento di firme raccolte sul totale dei contribuenti, la Cei ha ottenuto l’82 per cento dei fondi. Ovvero oltre un miliardo anziché 485 milioni. Ripartendo anche i soldi dei cosiddetti “non optanti”, negli ultimi 15 anni - ha calcolato l’Espresso - lo Stato ha sborsato circa 10 miliardi di euro. In media 600 milioni l’anno, al netto delle risorse aggiuntive che lo stesso Stato italiano ottiene, essendo fra i destinatari del finanziamento.
COSÌ NON FAN TUTTI. In realtà, eccependo su questo automatismo che non rispetta la reale volontà dei contribuenti, alcune confessioni religiose si sono rifiutate di ricevere il denaro extra. Le Assemblee di Dio e la Chiesa apostolica, ad esempio, rinunciano alla quota relativa alle scelte non espresse, che rimane per loro volontà di pertinenza statale. Anche i valdesi fino al 2013 hanno osservato questa condotta, ritenendo giusto gestire soltanto i fondi che gli italiani, in modo esplicito, attribuivano loro. Poi però, considerata la discutibile gestione dell’8 per mille statale, anche loro hanno deciso di accettare pure quelli “aggiuntivi”. D’altronde da anni la quota a gestione pubblica viene usata come bancomat dai governi, dal finanziamento delle missioni internazionali alla riduzione del debito pubblico. Una truffa che ha raggiunto il culmine lo scorso anno, quando su 170 milioni solo 405 mila euro sono stati utilizzati per gli scopi previsti dalla legge: lo 0,24 per cento.
UNA GENEROSA ECCEZIONE. È proprio necessario che il meccanismo dell'8 per mille funzioni a questo modo? Non si direbbe, a giudicare dai casi analoghi che prevedono la possibilità di destinare parte del prelievo Irpef. Il neonato 2 per mille, che ha sancito il flop dei contributi volontari alla politica, per il 2014 aveva a disposizione 7,75 milioni. Ma avendo raccolto appena 16.518 firme, ha assegnato solo 325 mila euro. All’atto di stendere la legge, in pratica, nessuno si è sognato di ripartire i fondi calcolando anche i contribuenti che non avrebbero indicato un partito. E difatti i soldi non distribuiti sono stati riversati nel bilancio dello Stato. Che cosa sarebbe accaduto se il Partito democratico - che si è piazzato primo con 10 mila destinazioni espresse in suo favore - avesse incassato il 61 per cento della torta, ovvero quasi 5 milioni? Lo stesso discorso vale per il 5 per mille, destinato alle onlus. Anche qui c’è un tetto che viene fissato anno per anno dal governo (500 milioni nel 2014) e pure in questo caso la ripartizione si calcola solo sulla base delle scelte espresse. La ridistribuzione totale operata dall’8 per mille è insomma una generosa eccezione, pensata appositamente per la Chiesa cattolica quando si trattò di mettere mano al Concordato mussoliniano. Fino ad allora la Santa sede veniva finanziata infatti dallo Stato tramite i cosiddetti supplementi di congrua, con cui veniva assicurato il sostentamento del clero. Temendo di non raggiungere quella cifra, il ministero delle Finanze effettuò delle proiezioni ad hoc per stabilire il livello di prelievo necessario. E aggiunse anche la ripartizione basata sul totale dei contribuenti. Deus ex machina dell’ingegnoso sistema, un poco noto docente di Diritto tributario a Pavia, all’epoca consulente del governo Craxi e destinato a una luminosa carriera politica: Giulio Tremonti.
CACCIA AL TESORETTO. Dal 1990, anno dell’entrata in vigore, il gettito Irpef è salito esponenzialmente per effetto dell’aumento della pressione fiscale. Non a caso già nel 1996 la parte governativa della commissione paritetica Italia-Cei osservava che “la quota dell’8 per mille si sta avvicinando a valori, superati i quali, potrebbe rendersi opportuna una proposta di revisione” e che “già oggi risultano superiori a quei livelli di contribuzione che alia Chiesa cattolica pervenivano sulla base dell'antico sistema”. E dire che all’epoca il gettito era di 573 milioni di lire, circa 800 milioni di euro rivalutati ai giorni nostri. Attualmente sfiora 1,3 miliardi di euro, il 60 per cento in più. In Francia, Irlanda e Regno Unito le religioni non ricevono contributi pubblici e devono ricorrere all’autofinanziamento. Eppure non servirebbe arrivare a tanto. Basterebbe seguire il modello della cattolicissima Spagna: il contribuente decide a chi attribuire parte dell’imposta ma i soldi, se non esprime una preferenza, restano allo Stato. Facendo lo stesso anche da noi, le casse pubbliche si ritroverebbero con un tesoretto da 600 milioni in più l’anno. Anziché abbassare il prelievo, come qualcuno vorrebbe fare, si potrebbe proporre una modifica delle intese bilaterali, a cominciare dalla quella con la Chiesa cattolica. Un percorso lungo, certo, ma il momento è più che mai propizio: a giugno inizieranno gli incontri delle commissioni paritetiche fra Stato e singole confessioni religiose, chiamate ogni tre anni “alla valutazione del gettito della quota Irpef al fine di predisporre eventuali modifiche”. Nessuno dei 17 governi che si sono succeduti nell’ultimo quarto di secolo ha voluto modificare lo status quo. Ma visto che la situazione dei conti pubblici è grave, il premier Matteo Renzi - a caccia di risorse per attuare la sentenza della Consulta che ha bocciato il blocco della rivalutazione delle pensioni - ha l’occasione per prendere in mano la situazione. Anche se è facile immaginare che una proposta di revisione non troverebbe grande favore Oltretevere. Ma non è detto: in fondo papa Francesco ha impresso un nuovo corso. Chissà, proprio lui che tante volte ha tuonato contro i privilegi della Chiesa di Roma, cosa ne pensa di una revisione dell’8 per mille.
8 per mille, la Chiesa continua a incassare. Un miliardo al Vaticano senza controlli. La Corte dei Conti torna sulla gestione della quota dell'Irpef che va ai culti. E dopo un anno dall'ultima denuncia registra che nulla è cambiato. Tra scarsa trasparenza e una pessima gestione della parte statale, scrive Mauro Munafò il 2 novembre 2015 su "L'Espresso". Un anno dopo, quasi nulla è cambiato. La gestione dell'8 per mille, la quota dell'Irpef che lo Stato italiano destina ai culti, continua ad essere poco trasparente e caratterizzata da tutta una serie di limiti che garantiscono alla Chiesa Cattolica un tesoro di oltre un miliardo di euro l'anno. Una cifra monstre che la Cei, la conferenza episcopale italiana, può utilizzare praticamente senza controllo alcuno e che la Corte dei Conti denuncia con la sua ultima delibera che con ogni probabilità verrà accolta, come le precedenti, dalla totale indifferenza della politica. I punti contestati sulla gestione dell'8 per mille sono tanti e noti da tempo. Il meccanismo permette ai culti di ricevere più dall'inoptato che dalle scelte esplicite dei contribuenti: in pratica ogni anno l'intero 8 per mille viene distribuito tra i vari culti in base alle scelte espresse. Chi non firma e non specifica a chi "donarlo" non lascia la sua quota allo Stato, ma lascia scegliere gli altri. In questo modo la Chiesa Cattolica ottiene l'82 per cento dei fondi grazie ad appena il 37 per cento. Ma la distribuzione è solo il problema finale, visto che l'intera cifra dei contributi che vanno ai diversi culti ha ormai raggiunto una cifra spropositata. "In un periodo di generalizzata riduzione delle spese sociali a causa della congiuntura economica - spiegano i giudici - le contribuzioni a favore delle confessioni continuano, in controtendenza, ad incrementarsi, avendo, da tempo, superato ampiamente il miliardo di euro annui, senza che lo Stato abbia provveduto ad attivare le procedure di revisione di un sistema che diviene sempre più gravoso per l’erario". I fondi in questione vengono inoltre utilizzati per scopi spesso non conformi a quanto previsto dalla legge. Un caso esemplare è l'uso di fondi per campagne pubblicitarie, che finiscono così per essere investiti in attività promozionali invece che per gli interventi caritatevoli. In questo settore la Chiesa Cattolica non ha nessun concorrente, visto che lo Stato evita accuratamente di pubblicizzare le sue attività. C'è poi tutto il capitolo dell'assenza di controlli nella gestione visto che, come spiega la delibera, "non esistono verifiche di natura amministrativa sull’utilizzo dei fondi erogati alle confessioni". A questo vanno aggiunti i pochi controlli sui Caf e su chi aiuta i cittadini a compilare la propria dichiarazione dei redditi. Secondo i giudici contabili, e come già raccontato dall'Espresso, si sono registrate irregolarità nel 7 per cento dei casi, quasi sempre a favore della Chiesa Cattolica. Un esempio? Scelte non optate che, al momento della trasmissione all'Agenzia delle Entrate, all'improvviso riportano invece la volontà di destinare l'8 per mille a un culto specifico. Il lungo report della Corte dei Conti punta poi il dito contro la gestione della quota Statale, sempre sacrificata per coprire i buchi di bilancio: "Lo Stato mostra disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato - scrivono i giudici - la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore, dando l’impressione che l’istituto sia finalizzato - più che a perseguire lo scopo dichiarato a fare da apparente contrappeso al sistema di finanziamento diretto delle confessioni". Ma in oltre 40 pagine di delibera ci sarà anche qualche buona notizia rispetto all'ultimo anno? La Corte segnala che è "migliorata la divulgazione dei dati da parte delle amministrazione coinvolte", grazie all'allestimento di siti internet finalmente aggiornati. E inoltre l'Agenzia delle entrate ha cambiato il modulo del 730, scrivendo a caratteri più grandi che la parte inoptata viene comunque distribuita tra i vari culti. Un po' poco per credere che qualcuno si stia davvero preoccupando del tema.
Quanto si guadagna a Londra? Scrive "Qui Londra". Anche in tempo di crisi internazionale Londra continua ad essere una meta ambita per quanti cercano una realizzazione professionale all'estero. Ma quanto si guadagna a Londra? Per rispondere abbiamo preso spunto da un servizio del Daily Mail (gennaio 2008) che, in una tabella, ha diviso le professioni in dieci livelli di salario (le retribuzioni sono evidentemente per anno) ed i risultati sono a volte sorprendenti.
Da 0 a 10.000 sterline: in questo livello troviamo addetti alle pulizie ma anche parrucchieri, cuochi di ristoranti fast food, bagnini delle piscine.
Da 10.001 a 20.000 sterline: se la passano meglio centralinisti, addetti alle pulizie delle fogne, operai, addetti alle pompe funebri, infermieri/e, imam delle moschee, soldati semplici, autisti d’autobus, pescatori, funzionari statali di basso grado, hostess e steward.
Da 20.001 a 30.000 mila sterline: agenti del servizio segreto di basso grado, rabbini e preti, assistenti sociali, elettricisti, carpentieri, disegnatori tessili, camionisti, redattori.
Da 30.001 a 40.000 mila sterline: piloti della Raf appena arruolati, autisti della metropolitana, qualche speaker televisivo, agenti di polizia, topless dancers, vescovi, autisti di taxi, veterinari, paramedici, architetti, diplomatici, ottici, agenti letterari, funzionari dell’immigrazione.
05. Da 40.001 a 50.000 mila sterline: controllori del traffico aereo, avvocati, ufficiali della Raf, dirigenti di piccole aziende, ingegneri, produttori televisivi.
Da 50.001 a 75.000 mila sterline: alti ufficiali di polizia, piloti di aerei di linea commerciali, capitani della Royal Navy, senior manager del marketing, fashion designer, deputati (ben pagati, ma meno che in Italia), ispettori delle tasse, rappresentanti farmaceutici.
Da 75.001 a 100.000 mila sterline: alti ufficiali governativi, generali dell’Esercito, senior manager di banche e aziende, presidi di scuole medie secondarie, stilisti (quelli più famosi), alcuni idraulici (se la cavano bene ovunque!), dirigenti di agenzie pubblicitarie, commercialisti.
Da 100.001 a 500.000 mila sterline: giudici dell’Alta Corte, primo ministro (ca 187.000 sterline per il premier), ministri, capo di stato maggiore delle forze armate, capo della polizia, presidenti e amministratori delegati di banche o aziende, psicoanalisti, consulenti finanziari.
Da 500.001 a 1.000.000 milione di sterline: direttore generale della Bbc, presidenti delle più grandi aziende e società.
Oltre 1.000.000 di sterline: si può superare questo gruzzoletto mica male quando si è una celebrità dello spettacolo ma anche calciatori, allenatori di calcio, grandi avvocati, banchieri d’investimenti, broker della borsa, proprietari di aziende e società finanziarie, autori di best-seller... A Londra può valere la pena imparare a scrivere come si deve... ed ovviamente in inglese!
Come e quanto guadagna un sacerdote nella Chiesa dei diversi paesi, scrive "it.nextews.com". Atteggiamento al clero nel mondo sono molto diverse, e quindi il pagamento del loro lavoro è diverso, e l'importo delle tasse e delle pensioni sono diversi. Diamo un'occhiata a come guadagnare e quanto i sacerdoti provenienti da diversi paesi?
Italia. Così, in Italia v'è una creata appositamente per questo fondo della chiesa. Le sue responsabilità includono:
Gestire tutti i contributi di parrocchiani cattolici e altre istituzioni religiose in tutto il paese. Organizzazione di pagamento delle pensioni ai sacerdoti e il clero di altre fedi cattoliche. La Fondazione gestisce l'ente previdenziale che opera sulla base del sistema di controllo delle pensioni sacerdoti Accordo. L'accordo approvato la conferma da parte della Conferenza dei Vescovi d'Italia. La formazione del bilancio del Fondo è attuata: le donazioni volontarie dei cittadini e detrazioni fiscali di volontariato a favore del Vaticano. Nel 2000, il Fondo è entrato sacerdoti che non hanno la cittadinanza in Italia, ma che lavorano nelle diocesi del Paese. Sacerdoti italiani vanno in meritato riposo all'età di 68 anni. L'importo della pensione è una media di € 1.100.
Germania. Germania equivale sacerdoti ai dipendenti pubblici. Pertanto, l'approccio al pagamento delle pensioni ai clero tedesco lo stesso come i funzionari, ma non v'è pagato dallo Stato, e qui – la chiesa. L'unico fondo pensione chiesa non ha nulla a che fare con le pensioni per il paese. Il bilancio chiesa per il pagamento degli stipendi e delle pensioni comprende i fondi esclusivamente propri. Per capire quanto guadagnano i sacerdoti, è importante che i ricavi sono costituiti chiesa della tassa per la chiesa, che viene riscossa sui membri della comunità religiosa. La sua dimensione è di circa 8-9%, a seconda dello stato federale.
Regno Unito. Nell'approccio Regno Unito a fornire alcuni sacerdoti. Ecco, questa categoria di dipendenti della chiesa si riferisce al totale. Pastori anglicani e sacerdoti cattolici nel senso letterale sono tenuti a pagare le tasse. Se essi hanno il privilegio, allora sono anche standard. I contributi pubblici non sono inoltre soggetti a qualsiasi stato d'Inghilterra o la Chiesa cattolica. Incassi derivanti dall'emissione di funerale e cortei nuziali, il battesimo dei bambini, e così via. E., sono consolidate e inviati al fondo di salario. Se ci deve essere un reddito supplementare derivante dalla formazione o il giornalismo, allora è dichiarata lavoratore spirituale e anche tassati. Quanto guadagna il prete, dipende interamente l'età e l'anzianità di servizio. La dimensione del suo reddito determina i successivi pagamenti delle pensioni.
Spagna. Approccio spagnolo al pagamento delle pensioni ai sacerdoti è simile a quello inglese. E 'anche pagato la sua chiesa ed è formato da trattenute mensili il salario del clero. Lo Stato fornisce sovvenzioni che vengono utilizzati per: Diocesi di contenuti; coprire i costi amministrativi. Alla fine degli anni '70 del XX secolo in Spagna ha firmato un accordo, che regola le attività economiche della Chiesa. Ogni mese il governo stanzia il bilancio del paese di circa 12 milioni di euro per la diocesi di contenuti. Inoltre, i fondi provengono da donazioni di parrocchiani. Inoltre, nel 2007, abbiamo introdotto la possibilità di trasferire ai privati 0,7% del imposte sul reddito della Chiesa cattolica. Tale importo è stimato a 150 milioni di euro l'anno. Tanto guadagnare i sacerdoti della Chiesa in Spagna? Il reddito mensile approssimativa di quanto segue: Arcivescovo – 1.200 euro; Vescovo – 900 euro; Priest – 700 euro. C'è anche un sistema di bonus per i cappellani e sacerdoti presso l'ospedale – 140 euro, nei canoni – un massimo di 300 euro. Se un sacerdote sta insegnando o lavorare come infermiera in istituzioni pubbliche o private, e riceve per la sua attività uno stipendio, poi all'arrivo che non ha ottenuto nulla. Il datore di lavoro – che è chi paga gli stipendi del sacerdote in questo caso.
Repubblica Ceca. Calcolo della pensione del clero nella Repubblica Ceca non è diverso dallo stato. Cioè, è composto sulla base del pagamento del lavoro del lavoratore medio negli ultimi 30 anni. Come tale, il fondo pensione del clero nella Repubblica Ceca non è presente, e la pensione è visto come una sorta di bonus da parte dello Stato. I sacerdoti considerati ai dipendenti statali di sfera di bilancio. Ma per quanto una media guadagna un prete, che non sta ottenendo nessun funzionario, – il reddito del clero del 30 per cento inferiore a circa 600 euro.
Francia. Francia all'inizio del XX secolo, sono rigorosamente separate religione e stato. Pertanto, tutti i redditi della chiesa è formata esclusivamente da donazioni. Quanti guadagnano i sacerdoti in questo paese? Secondo i media, l'importo medio mensile di denaro è di circa 950 euro (salario minimo € 1.100), il clero assegnate abitazioni, ma il cibo è pagato da loro stessi. Come preti cattolici e imam musulmani, monaci buddisti – tutti ricevono una pensione statale. La pensione media mensile è di circa 900 euro.
Belgio. E ciò che rende un prete in Belgio? A differenza della Francia, lo stipendio mensile preti belgi pagato dallo Stato. Esso dipende dalla posizione, il vescovo si va da 1600-8400 euro. Stipendio ottiene clero cattolici, protestanti, anglicani, ortodossi e ebrei. Inoltre, lo Stato paga i premi ogni anno: in estate che in inverno, dal calcolo mensile di retribuzione. I sacerdoti possono affittare camere e spesso il governo locale copre le spese di affitto. Conservazione e restauro di edifici religiosi culturali sono a carico dello Stato, insieme alla chiesa. Inoltre, dalle attività di bilancio finanziati dallo Stato relativi alla pratica della fede. Ad esempio, il vino per i parrocchiani durante servizi. Nonostante il sostegno dello Stato, istituzioni religiose sono tenuti a pagare le tasse di proprietà.
Stati Uniti. Negli Stati Uniti, la pensione del clero dipende dalla quantità di guadagnare sacerdote durante la disabilità. Essa si compone dei seguenti pagamenti mensili: governo (del sacerdote pagato le tasse statali sots.strahovaniya Fund) – di solito meno di $ 1.000; chiesa (dal reddito dal lavoro pastorale dei sacerdoti) – 2000 $; individuale supplementare.
Russia. In Russia ei sacerdoti ricevono stipendi e pensioni. Stipendio è effettivamente nominata dal rettore, e il più delle volte si calcola dal reddito complessivo parrocchia. Quanto guadagna il prete dipende dai seguenti fattori:
1. Prima di tutto, la dimensione delle tasse parrocchiali. Il più soldi andando ad avere, più alto è il salario dei dipendenti della chiesa.
2. Inoltre, lo stipendio è inclusa una parte delle entrate derivanti dalla vendita di candele, icone, croci e altri beni religiosi così come le donazioni per il battesimo, matrimonio, servizi funebri, le preghiere, i funerali e così via. D. Tutte le attività della Chiesa non sono tassati.
3. Liturgia, mattina o sera – tutto questo culto comune, oltre ci sono privati, su richiesta dei parrocchiani – si chiamano riti e sono pagati in aggiunta.
4. Le sovvenzioni supplementari del Patriarcato e la diocesi. Nel 2013, secondo l'adottato dalla Chiesa ortodossa al documento, i sacerdoti hanno bisogno di ottenere un contributo finanziario delle diocesi, e la dimensione è determinata da una commissione speciale.
5. Supporto (stipendio, riparazione, manutenzione e templi t. P.).
Così, se il salario del sacerdote un po', allora è cattivo lavoro, pochi credenti che sono pronti ad acquistare i prodotti della chiesa ordinata riti, e solo donare alla Chiesa. Monthly nel Fondo Pensione della Federazione Russa ha ricevuto contributi da parrocchie per ogni sacerdote, poi il fondo viene effettuato il pagamento delle pensioni ai dipendenti della chiesa. Tutte le questioni economiche della Chiesa ortodossa russa incaricati della gestione finanziaria ed economica del Patriarcato di Mosca. La gestione dei dati è stata sviluppata Regolamento per il supporto materiale del clero, secondo cui gli stipendi dei preti dovrebbero concentrarsi sul salario medio dei lavoratori sociali (insegnanti, psicologi, medici. Personale, educatori, e così via. N.) nella regione. Naturalmente, tutti i punti del Regolamento sono in gran parte una questione puramente di natura consultiva, e il loro rendimento dipende in larga misura lo stato attuale delle cose, quindi è abbastanza difficile rispondere a questioni di interesse comune, "Ma in realtà, quanti guadagnano sacerdoti in Russia?".
Ora passiamo agli islamici.
Super stipendi per gli imam. "I laureati costano di più". Una nostra inchiesta nel mondo delle comunità musulmane: "Un imam laureato viene pagato anche tremila euro lordi al mese". E i fedeli si autofinanziano, scrive Davide Miserendino il 30 ottobre 2009 "Il Resto del Carlino". «Ci sono gli imam di serie A, quelli laureati, che hanno studiato alla scuola egiziana di Al Azhar e che conoscono quasi sempre la lingua del Paese in cui vanno a insegnare, e quelli ‘di serie B’, che non hanno un titolo e si fanno bastare le conoscenze che hanno accumulato con lo studio. Perché scegliamo i secondi? Perché i primi costano troppo. E in Italia non è facile trovarli». Il cammino di ogni comunità religiosa procede con un occhio al bilancio. I ministri del culto costano, soprattutto se sono imam, super esperti di teologia islamica che hanno dedicato la vita allo studio del Corano. Nelle moschee hanno un ruolo fondamentale. Sono delle guide per i fedeli; «devono — spiegano i rappresentanti della comunità — dare delle risposte».
Ma quanto costa un imam alle associazioni che gestiscono le moschee? «Più di duemila euro al mese — afferma Luca Marri dell’associazione musulmani italiani modenesi — Un imam laureato e che arriva da Al Azhar, viene pagato anche tremila euro, lordi s’intende. Al netto dei contributi percepirà intorno ai 1500 euro. Se invece non ha studiato in quella scuola, che rappresenta l’eccellenza, percepisce intorno ai 900 euro netti. Si pagano meno contributi e, a conti fatti, si risparmia parecchio. La comunità — spiega Marri — fa fatica a garantire uno stipendio ai suoi dipendenti, come l’imam. Ci autofinanziamo, con le quote associative».
Non arrivano finanziamenti dai paesi d’origine o dalle associazioni islamiche nazionali? «No — assicura Marri — siamo completamente autonomi. Niente fondi dall’estero, nessun canale con le associazioni nazionali. Preferiamo andare avanti per conto nostro, lontani dai sospetti che hanno colpito, per esempio, l’Ucoii (l’unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia, ndr)». Soluzioni alternative? Come si fa ad assicurare la qualità dell’insegnamento se mancano i soldi? «Mah, degli sgravi fiscali ci potrebbero dare una mano. Siamo associazioni di volontariato, ma paghiamo lo stesso un sacco di tasse».
E le difficoltà non finiscono qui. «C’è un altro ostacolo che devono superare le comunità che vogliono portare in Italia un imam di Al Azhar». Qual è? «Non si fanno più permessi di soggiorno per motivi religiosi — spiega Marri — E così siamo costretti a cercarli sul territorio nazionale. Quattro anni fa a Modena c’era un imam laureato. Poi gli è scaduto il permesso, e non l’ha potuto rinnovare. Ci è dispiaciuto lasciarlo andare, con lui era iniziato un percorso che stava dando dei risultati».
In questo quadro piuttosto confuso si inserisce, secondo Marri, anche il problema linguistico. Il fatto che l’imam non parli italiano non asseconda i rapporti con la città. «Il sermone del venerdì (è il momento più importante per la comunità, che si riunisce in moschea e ascolta l’imam, la guida, ndr) a volte viene tradotto in italiano — racconta Marri — Un tempo lo facevamo sempre. L’imam ci consegnava il suo discorso prima della celebrazione, noi lo facevamo tradurre e lo consegnavamo ai fratelli che non conoscevano l’arabo. Ma non è così facile organizzarsi. E poi c’è un altro problema. La traduzione è sempre arbitraria: servirebbe un imam capace di tradurre autonomamente il sermone dall’arabo all’italiano. Servirebbe, insomma, un imam di Al Azhar».
Da Corriere della Sera del 24/09/2003: La rete in Italia. I soldi delle moschee per i fanatici di Allah di Magdi Allam. Non di sola fede vivono i fanatici di Allah. Se il fondamentalismo religioso e il messianismo ideologico plasmano la loro personalità, la linfa vitale che li anima ha un nome assai più prosaico: il denaro. Il familiarissimo dio denaro. I santissimi maledettissimi soldi senza cui non potrebbero affermare il proprio potere. Dispensando favori, plagiando, corrompendo, ricattando, minacciando, uccidendo. E i fanatici di Allah che hanno eletto la culla della cattolicità a propria roccaforte non fanno eccezione. Diverse moschee d'Italia sono double face. La facciata è impeccabile. L'attività in regola. I conti tornano. Ma è nel retrobottega che si fanno i giochi sporchi. Da lì i soldi della zakat, l'elemosina islamica, vanno a finire in Iraq, Palestina, Algeria e Cecenia. Ed è l'insospettabile circuito di enti finanziari, associazioni caritatevoli, agenzie di comodo che regolarizzano i clandestini, macellerie halal, esercizi commerciali, librerie, call center e money transfert che assicurano un fiume di denaro fresco alla jihad, la guerra santa islamica. Dunque: cherchez l'argent. Conoscere il diritto e il rovescio della complessa e torbida realtà dei soldi che ruotano attorno alle moschee del nostro Paese è necessario per una corretta comprensione della portata della minaccia. Ma anche per non generalizzare. Soprattutto per favorire un futuro in cui le moschee d'Italia siano esclusivamente dei luoghi di culto. Trasparenti. Compatibili. Né più né meno. Probabilmente il personaggio emblematico della realtà delle moschee double face è Abdelhamid Shaari. Il presidente dell'Istituto culturale islamico di viale Jenner a Milano è di origine libica con cittadinanza italiana. Si presenta come un distinto e pacato signore di mezz'età. Da anni abbiamo instaurato un rapporto franco e cordiale. Consumando insieme un pranzo a base di pesce, Shaari conferma pragmatismo intellettuale, disponibilità umana e fiducia personale. Mi confida una svolta nella gestione della moschea più inquisita e sospetta d'Italia: «Ho deciso e ho convinto il direttivo dell'Istituto a trasformarci in una onlus. D'ora in poi sarà tutto trasparente e registrato, dal bilancio all'attività. Daremo tutte le garanzie". E mi anticipa i numeri. Per la prima volta si hanno finalmente i numeri del bilancio di una moschea. E quale moschea! Per la Cia l'Istituto di viale Jenner è la principale base di Al Qaeda in Italia. Stiamo parlando di un bilancio annuo di 400 mila euro di entrate e altrettanti di uscite. Potrebbero essere molti o pochi. Sono meno dei circa 600 mila euro versati annualmente dall'Arabia Saudita alla Grande moschea di Roma, di cui la metà va alle spese del personale e l'altra metà alla gestione interna. Ma più che l'entità è da rilevare la strutturazione del bilancio dell'Istituto di viale Jenner. Dove la parte del leone la fa il business. L'87,5 per cento delle entrate e il 62,5 per cento delle uscite fanno riferimento alla compravendita di prodotti offerti all'interno della moschea: generi alimentari, pasti caldi, libri e audiovisivi islamici. La formula «moschea-bazar» è assai diffusa. Garantisce l'autofinanziamento e il reperimento dei fondi necessari per promuovere delle attività. Questa è la facciata pulita. Ma il rovescio della medaglia ci svela una realtà contrapposta, inquietante. La Guardia di Finanza ha recentemente scoperto che l'Istituto di viale Jenner, in aggiunta a società di comodo (General service, Service Scarl, Nafissa service, Work service), è coinvolto in un traffico di regolarizzazione dei clandestini tramite il rilascio di falsi certificati di lavoro che sono il requisito per ottenere il permesso di soggiorno. Dietro questa attività emerge una struttura islamica integralista che raccoglie ingenti somme per autofinanziarsi. Il costo di una pratica di regolarizzazione va dai 2.500 ai 3.000 euro, a fronte di un costo effettivo di 700 euro. Le cifre raccolte sono sicuramente ragguardevoli. L'aspetto peculiare è che viene praticato un pagamento differenziato per i clandestini generici e per quelli che sono invece disposti a favorire la causa islamica. Questi ultimi pagano la metà. In questo modo la regolarizzazione illecita dei clandestini consente due risultati: il finanziamento delle attività terroristiche e il reclutamento di soggetti disposti a arruolarsi per la Guerra santa. Ci sono le prove che i soldi della zakat e delle attività illecite gestite da alcune moschee italiane sono andate a finanziare il terrorismo islamico internazionale. Lo scorso settembre a bordo di una Peugeot 205 targata MI 3S3633 sono stati rivenuti 50 kg di monetine, per un totale di 4.500 euro. Erano i soldi della zakat raccolti nella moschea El Nur di via Massarenti a Bologna, gestita dall'Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia). I soldi erano di pertinenza dell'imam della moschea, l'egiziano Nabil Bayoumi. I «postini» erano dei tunisini legati all'imam della moschea di viale Jenner, l'egiziano Abu Imad. La destinazione finale del denaro era il finanziamento di un'operazione terroristica all'estero ribattezzata con il nome in codice «Partita di calcio». Più recentemente, la scorsa primavera, è stato individuato un flusso di denaro che dalla Germania arrivava all'imam della moschea di Cremona, Trabelsi Mourad, esponente del Fronte combattente tunisino. Non erano cifre importanti, tra i 1.500 e i 3.000 euro, ma erano ripetute. Trabelsi, tramite emissari o il sistema del money transfert rigirava il denaro al connazionale Drissi Noureddine, detto Abu Ali, il bibliotecario della moschea di Cremona trasformatosi in gestore del campo di Ansar al Islam, un gruppo terroristico legato a Al Qaeda, nel Kurdistan iracheno. Nel caos che regna sul piano della rappresentanza religiosa e delle fonti di finanziamento delle moschee in Italia, si fanno strada i personaggi più spregiudicati. Veri e propri boss che gestiscono delle mafie religiose e economiche. Bouriqui Bouchta, il sedicente «imam di Torino», gestisce tre moschee e due macellerie. Noureddin Chemaoui, sedicente «presidente della Comunità islamica di Roma e del Lazio», gestisce due moschee, una macelleria e un'agenzia di regolarizzazione degli immigrati. Esiste un'intensa attività criminosa legata al circuito delle macellerie islamiche. Un altro filone di finanziamento è la produzione di documenti falsi. E' Napoli la cartiera del terrorismo islamico che da un lato assicura degli utili a fini commerciali e dall'altro, consente l'attività clandestina delle cellule islamiche. Nella fase di produzione è coinvolta la camorra, mentre la fase di commercializzazione è di competenza degli islamici algerini del Gia (Gruppo islamico armato) e del Gspc (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento). Non contano tanto i numeri. La valutazione effettiva del valore dei finanziamenti all'attività terroristica non va fatta sulla base del valore assoluto del denaro circolante, che può apparire modesto. Ciò che invece conta è il valore reale del denaro in considerazione del tenore di vita dei Paesi a cui è destinato. Ad esempio, in una intercettazione telefonica dal Kurdistan, il tunisino Abu Ali specifica: «Qui 1.500 euro ci bastano per un mese». In Italia 1.500 euro sarebbero sufficienti a coprire le spese di una sola persona, ma in Iraq consentono di provvedere alle necessità di decine di mujahiddin all'interno di un campo di guerriglia. Soprattutto è stata accertata la presenza di un sistema finalizzato al finanziamento del terrorismo che ruota attorno a talune moschee d'Italia. Questa è la grande novità. Ed è la vera sfida a chi è interessato a estirpare questa piaga e a assicurare la piena compatibilità dell'islam italiano con le nostre leggi e i nostri valori.
Ecco come i musulmani realizzano moschee beffando la nostra legge. Lo stratagemma è semplice: le associazioni culturali vengono usate come centri di preghiera. E per di più sono sovvenzionate, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 25/10/2015, su "Il Giornale". È incredibile e sconvolgente sapere che la quasi totalità delle moschee in Italia sono prive di un'autorizzazione a operare come luogo di culto. Lo stratagemma impiegato dagli islamici è di registrare la sede come «associazione culturale islamica» e successivamente di adibirla di fatto a moschea. Oltretutto, in questa veste, gli islamici possono concorrere per beneficiare dei fondi destinati alle attività culturali, erogati sia da enti pubblici che privati. Così come possono concorrere all'attribuzione dell'8x1000 delle tasse dei contribuenti destinati sempre alle associazioni culturali. In questo modo gli italiani vengono prima ingannati e poi si ritrovano a consentire il finanziamento di una realtà illegale, ma soprattutto ostile alla nostra civiltà, perseguendo l'obiettivo di sottometterci all'islam. Paradossalmente a consentire questo comportamento del tutto arbitrario è la nostra magistratura. Quando taluni amministrazioni comunali hanno ordinato la chiusura di locali, originariamente adibiti a negozi, magazzini o garage, poi trasformati in moschee senza una regolare autorizzazione di cambiamento di destinazione d'uso, gli islamici hanno fatto ricorso al Tar che, quasi sempre, ha dato loro ragione ordinando il mantenimento della moschea anche se di fatto abusiva. Il messaggio che noi trasmettiamo agli islamici è che in Italia la legge vale solo per gli italiani, mentre a loro è consentito di violarla. Ebbene ciò accade solo in Italia. Persino nei Paesi islamici la costruzione di una moschea è condizionata ad autorizzazioni amministrative e politiche. Mentre nei Paesi islamici le moschee vengono tranquillamente chiuse e talvolta prese d'assalto, perché gli islamici le trasformano in arsenali, noi permettiamo che vengano aperte senza alcuna autorizzazione. L'Italia è come se avesse scelto di suicidarsi rifiutando aprioristicamente di guardare in faccia la realtà, auto-imponendosi acriticamente di legittimare l'islam a prescindere dai suoi contenuti che istigano l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei non musulmani, nonché di legittimare le moschee anche se ripetutamente riscontriamo che sono covi dove si pratica il lavaggio di cervello che trasforma i fedeli in aspiranti terroristi islamici. In generale in Occidente, facendo leva sulla diffusa ignoranza dell'islam, sull'ingenuità propria del buonismo cristiano, sulla diffusa paura nei confronti dei tagliagole e dei taglialingue islamici, sul condizionamento dei petrodollari, sulla collusione ideologica degli islamofili presenti anche in seno alla Chiesa, gli integralisti islamici sono riusciti ad accreditarsi come una «comunità» distinta dal resto dell'umanità e a farci credere che le moschee rappresenterebbero un luogo di spiritualità. Il problema è nostro. Siamo noi che dobbiamo risvegliarci dal sonno della ragione, scoprendo la verità e acquisendo il coraggio di affermarla in libertà, per salvaguardare il nostro inalienabile diritto ad essere pienamente noi stessi a casa nostra.
Magdi Cristiano Allam a processo. L'Ordine nazionale dei Giornalisti lo accusa di "islamofobia", scrive Carla Albertini l'1/09/2014 su "Economiaitaliana.it". Il giornalista di origini egiziane Magdi Cristiano Allam - ex editorialista di Repubblica e poi vicedirettore del Corriere della Sera, ora collaboratore del Giornale, nonché parlamentare europeo nella scorsa legislatura con il suo movimento "Io Amo l'Italia" legato all'Udc - è stato sottoposto a procedimento disciplinare da parte dell'Ordine nazionale dei Giornalisti, con delibera datata 1 agosto, per una serie di articoli sull'Islam pubblicati sul Giornale tra il 22 aprile e il 5 dicembre del 2011. La vicenda fa riferimento al giugno del 2012, quando l'associazione Media&Diritto, patrocinata dall'avvocato Luca Bauccio, difensore dell'UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d'Italia), presentò un esposto all'Ordine del Lazio contestando una serie di articoli pubblicati da Allam, caratterizzati, a suo dire, da "islamofobia" o, per meglio dire, da "anti-islamismo" e istigazione all'odio razziale e religioso, quindi in contrasto con quanto stabilito dalla Costituzione italiana all'articolo 19, 1° comma e dalla Carta dei Doveri del giornalista. Il caso venne chiuso l'11 dicembre del 2013 con un'archiviazione, ma il 19 febbraio 2014 l'avvocato Bauccio ha presentato ricorso e lo scorso 16 luglio il Consiglio di Disciplina nazionale si è riunito per riesaminare il caso, ribaltando la decisione dei colleghi del Lazio. Tra i testi incriminati riportati dal Giornale compaiono: «l'Islam ci assedia: abbiamo il dovere di difendere la nostra cultura. Subiamo ogni giorno gli abusi dei predicatori d'odio che si annidano in quasi tutte le 900 moschee italiane» del 26 aprile 2011; «Milano si inchina alle moschee ma vieta le chiese» del 27 giugno 2011; «Ha ragione il cardinale bolognese Giacomo Biffi quando mi dice che il nostro vero nemico non sono gli islamici bombaroli, ma i cosiddetti islamici moderati che ci impongono moschee e scuole coraniche» del 3 maggio 2011. Ad Allam, che rischia ora la radiazione dall'albo dei giornalisti, sono stati concessi trenta giorni di tempo per presentare documenti e memorie difensive. Lui coraggiosamente rincara la dose autodenunciandosi per "islamofobia". Ci troviamo purtroppo di fronte ad un grave episodio di censura e di offesa alla libertà di espressione, che mette seriamente a rischio la nostra democrazia in un periodo di crisi a livello nazionale e internazionale. L'Ordine dei Giornalisti reagisce polemicamente alle prese di posizione contro la convocazione, da parte del Consiglio di Disciplina, di Magdi Allam, ma in sua difesa intervengono colleghi e diversi esponenti politici. Sul Corriere della Sera, un editoriale di Pierluigi Battista recita: «Trasformare in un crimine un'opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l'occupazione estiva dell'Ordine dei Giornalisti. Una parodia dell'Inquisizione che fa di un'associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun'altra democrazia liberale, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i principi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato». Secondo Alessandro Pagano, deputato del Ncd, «Magdi Allam, negli anni, ha fatto semplicemente il suo dovere di cronista e di intellettuale denunciando la violenza del fondamentalismo islamico, un fatto, questo, che già ieri era sotto gli occhi di tutti ma che oggi è addirittura eclatante e mette l'ex vicedirettore del Corriere della Sera nettamente dalla parte della ragione. Pertanto l'accusa di islamofobia che gli muove l'Ordine nazionale dei Giornalisti è faziosa e nauseante, al punto da far pensare che si voglia bastonare Allam per intimidire non solo lui, ma anche tutti gli altri giornalisti che osino narrare di questo Islam violento. Chi vuole processare Allam sta facendo come le autorità civili e giornalistiche della città inglese di Rotherham che, per complicità o per paura di essere tacciate di razzismo, hanno taciuto di 1.400 stupri di minorenni da parte della comunità islamico-pakistana di quella città, tra il 1997 e il 2014. Non solo, aggiungo che in Sicilia la Mafia colpisce con più facilità le vittime che sono isolate, sia culturalmente che umanamente, ed è noto che il fanatismo islamico ragiona ancora peggio: qui c'è il serio rischio di mettere a repentaglio la vita dello stesso Allam». Magdi Cristiano Allam, convertito al cattolicesimo dal 2008, è stato condannato a morte dall'Islam radicale e da undici anni vive sotto scorta. Da tempo si batte, attraverso i suoi articoli, contro l'Islam violento e la minaccia di sopraffazione dell'Occidente. Per anni ha condiviso e coadiuvato il lavoro della profetica Oriana Fallaci, che già diverso tempo fa scriveva: «Non è grazie a certe scappatoie che tanti figli di Allah entrano nel nostro Paese e vi si stabiliscono e vi si comportano da padroni. Diventeranno sempre di più, pretenderanno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell'indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso». Tutti i colleghi hanno il dovere di difenderlo invitando l'Ordine a non seguire quella banalità che è il politically correct.
LO SFRUTTAMENTO DELLE SUORE.
Lo sfruttamento delle suore. Lo denuncia una rivista dell'Osservatore Romano: lavorano per i preti per ore, con paghe misere o inesistenti e un ruolo per niente riconosciuto all'interno delle gerarchie, scrive venerdì 2 marzo 2018 "Il Post". La rivista mensile dell’Osservatore Romano “Donne Chiesa Mondo” di marzo è dedicata al lavoro delle donne, e c’è un articolo in cui si spiega come (anche) le suore siano sfruttate economicamente quando svolgono i lavori domestici all’interno delle strutture della chiesa, nelle abitazioni di preti, vescovi o cardinali, nelle scuole o negli ambulatori: sono pagate poco, spesso non sono pagate affatto, non hanno alcun orario o regolamento, non hanno un contratto e non hanno una convenzione con i vescovi o le parrocchie con cui lavorano. La loro professionalità, la competenza o i loro titoli di studio non sono riconosciuti e questo genera, all’interno delle gerarchie, «abusi di potere» e «violenza simbolica» che ha conseguenze molto concrete. La rivista dell’Osservatore Romano (arrivata all’edizione numero 66) è diretta da Lucetta Scaraffia, femminista e docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma che si è occupata soprattutto di storia delle donne e di storia religiosa. L’inchiesta sul lavoro delle suore – ripresa anche da alcuni giornali internazionali – è stata scritta dalla giornalista francese Marie-Lucile Kubacki e riporta diverse testimonianze. I nomi delle suore che hanno scelto di parlare sono di fantasia. Suor Maria, che è arrivata a Roma dall’Africa circa vent’anni fa, ha raccontato di ricevere spesso suore che svolgono un lavoro di servizio domestico presso le abitazioni di preti, vescovi o anche cardinali. Altre ancora, ha spiegato, lavorano in cucina in strutture di Chiesa o svolgono compiti di catechesi e d’insegnamento: «Alcune di loro, impiegate al servizio di uomini di Chiesa, si alzano all’alba per preparare la colazione e vanno a dormire una volta che la cena è stata servita, la casa riordinata, la biancheria lavata e stirata. In questo tipo di “servizio” le suore non hanno un orario preciso e regolamentato, come i laici, e la loro retribuzione è aleatoria, spesso molto modesta».
Suor Maria ha anche spiegato che non solo non c’è alcuna forma di riconoscimento verso il lavoro domestico delle suore, ma che queste donne spesso subiscono trattamenti umilianti e non vengono nemmeno invitate a sedere alla tavola che servono: «Un ecclesiastico pensa di farsi servire un pasto dalla sua suora e poi di lasciarla mangiare sola in cucina una volta che è stato servito? È normale per un consacrato essere servito in questo modo da un’altra consacrata? E sapendo che le persone consacrate destinate ai lavori domestici sono quasi sempre donne, religiose? La nostra consacrazione non è uguale alla loro?».
Suor Maria, che ha raccolto le testimonianze di molte sue colleghe, ha detto che questa situazione provoca una «una ribellione interiore molto forte», oltre che una profonda frustrazione, ma che sono poche le suore che hanno il coraggio di prendere parola pubblica sulla loro condizione lavorativa. «Nel caso di suore straniere venute dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina, ci sono a volte una madre malata le cui cure sono state pagate dalla congregazione della figlia religiosa, una fratello maggiore che ha potuto compiere i suoi studi in Europa grazie alla superiora. Se una di queste religiose torna nel proprio paese, la sua famiglia non capisce. Le dice: ma come sei capricciosa! Queste suore si sentono in debito, legate, e allora tacciono. Tra l’altro spesso provengono da famiglie molto povere dove i genitori stessi erano domestici. Alcune dicono di essere felici, non vedono il problema, ma provano comunque una forte tensione interiore. Simili meccanismi non sono sani e certe suore arrivano, in alcuni casi, ad assumere ansiolitici per sopportare questa situazione di frustrazione». Questa situazione si verifica anche in Italia, si precisa nell’articolo: pone dei problemi molto concreti («Chi paga e come pagare le fatture quando le suore sono malate o hanno bisogno di cure perché invalidate dall’età?») e deriva da una responsabilità storica e condivisa che ha a che fare con la condizione della donna (anche) all’interno della Chiesa e che trova la complicità non solo degli uomini, ma anche delle superiori generali che non mettono in discussione il sistema, ma lo convalidano e vi partecipano attivamente.
Suor Paule, una religiosa con incarichi importanti, ha spiegato: «Credo che la responsabilità sia anzitutto storica. La suora a lungo ha vissuto solo come membro di una collettività, senza avere quindi bisogni propri. Come se la congregazione potesse prendersi cura di tutti i suoi membri senza che ognuno apportasse il suo contributo attraverso il proprio lavoro. È inoltre diffusa l’idea che le religiose non lavorano a contratto, che sono lì per sempre, che non vanno stipulate condizioni. Tutto ciò crea ambiguità e spesso grande ingiustizia. È anche vero che senza contratto le religiose sono più libere di lasciare un lavoro senza troppo preavviso. Tutto ciò gioca su due fronti, a favore e contro le religiose». Dietro alla questione del lavoro c’è quindi una questione più generale, che ha a che fare con il riconoscimento e la scarsa valorizzazione delle donne nella cultura, nella società e all’interno di una struttura gerarchica molto maschile: «Dietro tutto ciò, c’è purtroppo ancora l’idea che la donna vale meno dell’uomo, soprattutto che il prete è tutto mentre la suora non è niente nella Chiesa. Il clericalismo uccide la Chiesa», ha spiegato suor Paule. Suor Paule ha poi spiegato di aver conosciuto delle suore che avevano servito per trent’anni in un’istituzione di Chiesa e che le hanno raccontato come «quando erano malate, nessun prete di quelli che servivano andava a trovarle.
Dall’oggi all’indomani venivano mandate via senza una parola»: «A volte succede ancora così: una congregazione mette una suora a disposizione su richiesta e quando quella suora si ammala viene rimandata alla sua congregazione. E se ne invia un’altra, come se fossimo intercambiabili. Ho conosciuto delle suore in possesso di una dottorato in teologia che dall’oggi all’indomani sono state mandate a cucinare o a lavare i piatti, missione priva di qualsiasi nesso con la loro formazione intellettuale e senza una vera spiegazione. Ho conosciuto una suora che aveva insegnato per molti anni a Roma e da un giorno all’altro, a cinquant’anni, si è sentita dire che da quel momento in poi la sua missione era di aprire e chiudere la chiesa della parrocchia, senza altra spiegazione».
Alle suore non vengono dunque riconosciute né professionalità né competenze e sono considerate come delle volontarie «di cui si può disporre a piacere»: cosa che porta però a dei «veri e propri abusi di potere» nei loro confronti.
Suor Cécile si trova in questa condizione: «Al momento lavoro in un centro senza contratto, contrariamente alle mie consorelle laiche. Dieci anni fa, nel quadro di una mia collaborazione con i media, mi è stato chiesto se volevo davvero essere pagata. Una mia consorella anima i canti nella parrocchia accanto e dà conferenze di quaresima senza ricevere un centesimo. Mentre quando un prete viene a dire la messa da noi, ci chiede 15 euro». La soluzione proposta è che siano le suore stesse e le donne della Chiesa a prendere parola, per prime, sulla loro situazione. Ma «il cambiamento è difficile», ha detto Lucetta Scaraffia al New York Times: «Molti prelati non vogliono ascoltare queste cose, perché è più facile avere delle suore che interpretano dei ruoli sottomessi». Qualche settimana fa un gruppo di una trentina di donne appartenenti a varie realtà ecclesiali di tutta Italia ha lavorato collettivamente a un “Manifesto per le donne nella Chiesa” che dopo la pubblicazione è stato sottoscritto e condiviso anche da molte altre. Il Manifesto contiene delle richieste molto precise proprio su queste questioni:
– Rispetto nei confronti del nostro impegno, la possibilità di esprimere un servizio coerente con le nostre competenze e capacità.
– Che i presbiteri ai quali le nostre comunità sono affidate conoscano e apprezzino il femminile, che abbiano un rapporto sano e sereno con le donne, che siano persone psicologicamente mature.
– Che si prenda in considerazione che la ricerca vocazionale femminile ha aperto nuovi e più articolati orizzonti, in una maturazione di prospettive che necessita di attenzioni e risposte.
– Che si riconosca la possibilità per le donne di avvicinarsi al cuore della vita ecclesiale e che si attribuisca il dovuto valore all’autentico desiderio di partecipare ad una ministerialità più attiva, compresa quella sacramentale. E che pertanto è legittimo e va nel senso del bene per la Chiesa intera iniziare a concepire risposte concrete in questo ambito.
Non siamo dei sostituti d’azione, ma possiamo “inventare” forme nuove che arricchiscono la chiesa.
Non chiediamo posti di potere, ma di essere pienamente riconosciute come figlie di Dio e membri della comunità alla pari degli uomini.
Per questo, prosegue il Manifesto, «siamo pronte a metterci al servizio della chiesa con tre criteri»:
– Assertività: non temiamo di proporre, di chiedere riconoscimento per ciò che facciamo e portiamo alla comunità.
– Libertà: il nostro agire non è finalizzato a conquistare posti di prestigio e questo ci mette in condizioni di non ricattabilità.
– Alleanza femminile: là dove siamo e tra noi scegliamo di essere alleate delle sorelle che incontriamo e soprattutto di non cadere nella rivalità tra donne per ottenere l’approvazione maschile.
– Abbiamo deciso di trovarci tra donne adulte, che hanno vissuto e vivono un percorso di fede per condividere e scambiare e siamo pronte ad accogliere quante decideranno di unirsi a noi.
– Vogliamo dare un messaggio chiaro sul genere di femminilità di cui riteniamo che la Chiesa abbia bisogno.
– Vogliamo farci conoscere per testimoniare che nella Chiesa ci sono donne che non si sottomettono e poter così avvicinare anche altre sorelle nella fede che si sentono disorientate da quest’ondata tradizionalista.
– Non rinunciamo a portare avanti istanze serie e grandi come anche forme di servizio presbiterale femminile.
Il lavoro (quasi) gratuito delle suore, scrive 1 marzo 2018 Marie-Lucile Kubacki su "L’Osservatore Romano”. Suor Maria — i nomi delle suore sono di fantasia — è giunta a Roma dall’Africa nera una ventina di anni fa. Da allora accoglie religiose provenienti da tutto il mondo e da qualche tempo ha deciso di testimoniare ciò che vede e che ascolta sotto il sigillo della confidenza. «Ricevo spesso suore in situazione di servizio domestico decisamente poco riconosciuto. Alcune di loro servono nelle abitazioni di vescovi o cardinali, altre lavorano in cucina in strutture di Chiesa o svolgono compiti di catechesi e d’insegnamento. Alcune di loro, impiegate al servizio di uomini di Chiesa, si alzano all’alba per preparare la colazione e vanno a dormire una volta che la cena è stata servita, la casa riordinata, la biancheria lavata e stirata…. In questo tipo di “servizio” le suore non hanno un orario preciso e regolamentato, come i laici, e la loro retribuzione è aleatoria, spesso molto modesta». Ma a rattristare di più suor Marie è che quelle suore raramente sono invitate a sedere alla tavola che servono. Allora chiede: «Un ecclesiastico pensa di farsi servire un pasto dalla sua suora e poi di lasciarla mangiare sola in cucina una volta che è stato servito? È normale per un consacrato essere servito in questo modo da un’altra consacrata? E sapendo che le persone consacrate destinate ai lavori domestici sono quasi sempre donne, religiose? La nostra consacrazione non è uguale alla loro?». Un giornalista romano che si occupa d’informazione religiosa le ha addirittura soprannominate «suore pizza», riferendosi proprio al lavoro che viene assegnato loro. Prosegue suor Marie: «Tutto ciò suscita in alcune di loro una ribellione interiore molto forte. Provano una profonda frustrazione ma hanno paura di parlare perché dietro a tutto ci possono essere storie molto complesse. Nel caso di suore straniere venute dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina, ci sono a volte una madre malata le cui cure sono state pagate dalla congregazione della figlia religiosa, una fratello maggiore che ha potuto compiere i suoi studi in Europa grazie alla superiora…. Se una di queste religiose torna nel proprio paese, la sua famiglia non capisce. Le dice: ma come sei capricciosa! Queste suore si sentono in debito, legate, e allora tacciono. Tra l’altro spesso provengono da famiglie molto povere dove i genitori stessi erano domestici. Alcune dicono di essere felici, non vedono il problema, ma provano comunque una forte tensione interiore. Simili meccanismi non sono sani e certe suore arrivano, in alcuni casi, ad assumere ansiolitici per sopportare questa situazione di frustrazione». È difficile valutare l’entità del problema del lavoro gratuito o poco pagato e comunque poco riconosciuto delle religiose. Anzitutto bisogna stabilire che cosa s’intende con questo. «Spesso significa che le suore non hanno un contratto o una convenzione con i vescovi o le parrocchie con cui lavorano» spiega suor Paule, una religiosa con incarichi importanti nella Chiesa. Quindi vengono pagate poco o per niente. Così accade nelle scuole o negli ambulatori, e più spesso nel lavoro pastorale o quando si occupano della cucina e delle faccende domestiche in vescovado o in parrocchia. È un’ingiustizia che si verifica anche in Italia, non solo in terre lontane». Al di là della questione del riconoscimento personale e professionale, questa situazione pone problemi concreti e urgenti alle suore e alle comunità. «Il problema più grande è semplicemente come vivere e far vivere una comunità» prosegue suor Paule. «Come prevedere i fondi necessari per la formazione religiosa e professionale dei suoi membri, chi paga e come pagare le fatture quando le suore sono malate o hanno bisogno di cure perché invalidate dall’età. Come trovare risorse per svolgere la missione secondo il carisma proprio». La responsabilità di tale situazione non è solo maschile, ma spesso è condivisa. «Ne ho parlato con un rettore universitario che mi ha raccontato di essere stato colpito dalle capacità intellettuali di una suora che aveva una licenza in teologia» ricorda suor Marie. «Lui voleva che continuasse gli studi ma la sua superiora si è opposta. Spesso il motivo addotto è che le suore non devono diventare orgogliose». Suor Paule insiste su questo punto: «Credo che la responsabilità sia anzitutto storica. La suora a lungo ha vissuto solo come membro di una collettività, senza avere quindi bisogni propri. Come se la congregazione potesse prendersi cura di tutti i suoi membri senza che ognuno apportasse il suo contributo attraverso il proprio lavoro. È inoltre diffusa l’idea che le religiose non lavorano a contratto, che sono lì per sempre, che non vanno stipulate condizioni. Tutto ciò crea ambiguità e spesso grande ingiustizia. È anche vero che senza contratto le religiose sono più libere di lasciare un lavoro senza troppo preavviso. Tutto ciò gioca su due fronti, a favore e contro le religiose». Ma non si tratta solo di soldi. La questione del corrispettivo economico è piuttosto l’albero che nasconde la foresta di un problema ben più grande: quello del riconoscimento. Tante religiose hanno la sensazione che si faccia molto per rivalorizzare le vocazioni maschili ma molto poco per quelle femminili. «Dietro tutto ciò, c’è purtroppo ancora l’idea che la donna vale meno dell’uomo, soprattutto che il prete è tutto mentre la suora non è niente nella Chiesa. Il clericalismo uccide la Chiesa» afferma suor Paule. «Ho conosciuto delle suore che avevano servito per trent’anni in un’istituzione di Chiesa e mi hanno raccontato che, quando erano malate, nessun prete di quelli che servivano andava a trovarle. Dall’oggi all’indomani venivano mandate via senza una parola. A volte succede ancora così: una congregazione mette una suora a disposizione su richiesta e quando quella suora si ammala viene rimandata alla sua congregazione… E se ne invia un’altra, come se fossimo intercambiabili. Ho conosciuto delle suore in possesso di una dottorato in teologia che dall’oggi all’indomani sono state mandate a cucinare o a lavare i piatti, missione priva di qualsiasi nesso con la loro formazione intellettuale e senza una vera spiegazione. Ho conosciuto una suora che aveva insegnato per molti anni a Roma e da un giorno all’altro, a cinquant’anni, si è sentita dire che da quel momento in poi la sua missione era di aprire e chiudere la chiesa della parrocchia, senza altra spiegazione».
Suor Cécile, insegnante, da molti anni sta facendo esperienza di questa mancanza di considerazione. A suo parere, le suore di vita attiva sono vittime di una confusione riguardo ai concetti di servizio e di gratuità. «Siamo eredi di una lunga storia, quella di san Vincenzo de’ Paoli, e di tutte quelle persone che hanno fondato congregazioni per i poveri in uno spirito di servizio e di dono. Siamo religiose per servire fino in fondo e proprio questo provoca uno slittamento nel subconscio di molte persone nella Chiesa, creando la convinzione che retribuirci non rientri nell’ordine naturale delle cose, qualunque sia il servizio che offriamo. Le suore sono viste come volontarie di cui si può disporre a piacere, il che dà luogo a veri e propri abusi di potere. Dietro tutto ciò c’è la questione della professionalità e della competenza che molte persone fanno fatica a riconoscere alle religiose». Suor Cécile poi aggiunge: «Al momento lavoro in un centro senza contratto, contrariamente alle mie consorelle laiche. Dieci anni fa, nel quadro di una mia collaborazione con i media, mi è stato chiesto se volevo davvero essere pagata. Una mia consorella anima i canti nella parrocchia accanto e dà conferenze di quaresima senza ricevere un centesimo… Mentre quando un prete viene a dire la messa da noi, ci chiede 15 euro. A volte la gente critica le religiose, il loro volto chiuso, il loro carattere…. Ma dietro tutto ciò ci sono molte ferite». Per suor Marie, si tratta di violenza simbolica: «È accettata da tutti sotto forma di tacito consenso. Alcune suore che vengono da me sono angosciate, ma non riescono a parlare. Allora dico loro: “Avete il diritto di dire la verità su quel che provate. Di dire alla vostra superiora generale quello che vivete e come lo vivete”. Talvolta di questa situazione è responsabile anche la superiora generale che, lungi dal mettere in discussione il sistema, lo convalida e vi partecipa attivamente accettando accordi svilenti per le suore». Suor Cécile ritiene anche che le religiose debbano prendere la parola: «Da parte mia, quando vengo invitata a fare una conferenza, non esito più a dire che desidero essere pagata e qual è il compenso che mi aspetto. Ma, è chiaro, mi adeguo alle disponibilità di quanti me lo chiedono. Le mie sorelle e io viviamo molto poveramente e non miriamo alla ricchezza, ma solo a vivere semplicemente in condizioni decorose e giuste. È una questione di sopravvivenza per le nostre comunità». Il riconoscimento del loro lavoro costituisce anche, per molte, una sfida spirituale. «Gesù è venuto per liberarci e ai suoi occhi noi siamo tutti figli di Dio» precisa suor Marie. «Ma nella loro vita concreta certe suore non vivono questo e provano una grande confusione e un profondo sconforto». Alcune religiose ritengono infine che le loro esperienze di povertà e di sottomissione, a volte subite e a volte scelte, potrebbero trasformarsi in una ricchezza per tutta la Chiesa, se le gerarchie maschili le considerassero un’occasione per una vera riflessione sul potere. Marie-Lucile Kubacki
Il Vaticano contro le suore americane. Un'indagine interna le definisce "femministe radicali" per via delle loro posizioni su temi come la contraccezione, la libertà delle donne e l'omosessualità, scrive Giulia Siviero il 20 aprile 2012 su "Il Post". Il Vaticano ha condotto quella che ufficialmente ha chiamato “visita apostolica” per esaminare la vita nelle comunità religiose delle suore statunitense. La “visita apostolica” è uno strumento utilizzato dal Vaticano per conoscere meglio una determinata istituzione e fornire un aiuto “esterno”, a fronte di un problema, attraverso l’invio di uno o più “visitatori apostolici”. Nel caso delle suore statunitensi si è trattato di una vera e propria indagine, portata avanti dal dicembre del 2008 e per la quale la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (l’organismo che controlla le congregazioni religiose sia maschili che femminili) guidata dal cardinale Franc Rodé ha incaricato un arcivescovo. L’inchiesta si è conclusa a dicembre 2011 ma i risultati devono ancora essere resi pubblici. Due mesi dopo l’inizio della “visita”, nel febbraio 2009, d’accordo con Franc Rodé, il cardinale statunitense William Joseph Levada (prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede da cui proviene Benedetto XVI) aveva disposto un accertamento dottrinale anche sulla Leadership Conference of Women Religious (LCWR, la Conferenza delle superiore maggiori) le cui valutazioni sono invece state rese pubbliche ieri: le componenti della Conferenza “hanno avuto seri problemi dottrinali”, si sono allontanate dall’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità e sul sacerdozio riservato ai maschi, ma soprattutto hanno fatto dichiarazioni pubbliche che “sfidano i vescovi, autentici maestri della Chiesa, della fede e della morale”. L’indagine definisce le idee di queste suore “temi da femministe radicali incompatibili con la dottrina cattolica”. I vescovi americani si erano duramente opposti alla riforma sanitaria promossa dai democratici e dall’amministrazione Obama nel 2009 e nel 2010. Moltissime suore, e molte delle quali appartenenti alla Conferenza, avevano invece firmato una dichiarazione con la quale sostenevano la riforma: questo costituì per il Presidente una copertura politica importante. Al centro della questione c’era tra l’altro la semplificazione dell’accesso per le donne alle strutture che praticano servizi di contraccezione.
(La Chiesa e la contraccezione). La Leadership Conference of Women Religious è un’organizzazione statunitense che conta più di 1.500 membri, che rappresentano almeno l’80 per cento delle 59 mila religiose cattoliche negli Stati Uniti. L’associazione è stata fondata il 24 novembre 1956 come Conference of Major Superiors of Women (Cmsw) con l’intento di “promuovere il benessere spirituale delle religiose negli Stati Uniti”. Durante il Concilio Vaticano Secondo (1962-1965) la Cmsw inviò un’osservatrice e sempre in quel periodo iniziò un lavoro per rendere la voce delle donne più significativa all’interno della revisione del codice canonico. Nel 1971 l’assemblea cambiò il suo nome in Leadership Conference of Women Religious mentre una parte più conservatrice se ne staccò confluendo nel Cpc, il Consorzio della perfetta carità. Dopo l’esito dell’inchiesta reso pubblico ieri, suor Annmarie Sanders, portavoce della Conferenza, ha detto che LCWR è stata tenuta completamente all’oscuro dall’inchiesta e che le sue componenti sono «sbalordite dalle conclusioni della valutazione dottrinale». Ora, il cardinale americano William Joseph Levada, con Leonard Blair membro della Commissione dottrinale della Conferenza episcopale statunitense avrà cinque anniper rivedere lo statuto della LCWR, approvare ogni presa di parola pubblica delle componenti del gruppo e scrivere un testo per facilitare il dialogo sulle questioni che il Vaticano contesta a queste suore.
La Chiesa cattolica, grande baluardo maschilista. La Chiesa si rivela incapace di un vero dialogo con le donne, compresi gli ordini femminili. I vertici ecclesiastici hanno lanciato un attacco frontale alle suore (americane), proprio nel momento in cui più avrebbero bisogno di loro, scrive il 28 maggio 2010 "Il Post". La questione del rapporto della Chiesa cattolica con le donne è complessa ed attuale, e mostra una difficoltà delle gerarchie a riconoscere le donne come interlocutrici legittime e di pari grado. L’ultimo periodo ha messo in evidenza un’incapacità dei vertici ecclesiastici nel trattare con le donne all’esterno o all’interno del sistema che può indurre a parlare di un vero e proprio “problema femminile”. Un mese fa circa, un gruppo di donne italiane che hanno intrattenuto una relazione sentimentale con dei preti ha indirizzato una lettera aperta al Papa, chiedendo che si affronti e si rimetta in discussione l’obbligatorietà del celibato. (Il gruppo ha un suo sito, Il Dialogo). La notizia – oggi sulla Stampa e sul Riformista – è stata ripresa anche all’estero (è di ieri un articolo su Guardian) ma fino ad ora il gruppo non ha ricevuto una risposta ufficiale. Se la scelta di tacere in questo caso può essere comprensibile (di recente il Papa si è espresso a ribadire la sacralità del celibato e la necessità di resistere alle pressioni secolarizzanti), meno difendibile è l’atteggiamento delle gerarchie nei confronti delle donne all’interno della Chiesa stessa, le suore e le religiose. Secondo il nuovo numero Newsweek gli ultimi episodi denotano una volontà di limitare il campo d’azione delle religiose, e ridurre la loro indipendenza dai vertici maschili. Ne scrive Lisa Miller in un lungo articolo, riprendendo temi su cui la stessa Miller e Newsweek hanno fatto un’intensa battaglia negli ultimi anni: Dieci giorni fa, una suora in servizio presso un ospedale cattolico a Phoenix ha ricevuto la scomunica per aver approvato, lo scorso anno, un aborto entro le dodici settimane finalizzato a salvare una paziente a rischio della vita. Il vescovo di Phoenix Thomas Olmsted ha motivato il provvedimento dichiarando che “Un figlio non nato non è una malattia; se il personale medico deve certamente cercare di salvare la vita di una donna incinta, il mezzo per salvarla non deve mai essere uccidere direttamente il figlio non nato”. L’ironia è che ci sono voluti anni, decenni in alcuni casi, perché si intervenisse contro i sacerdoti colpevoli di abusi, mentre questa suora ha ricevuto la scomunica nel giro di pochi mesi, e per aver preso una compassionevole e difficilissima decisione per una dei suoi parrocchiani. L’azione decisa contro una suora in un caso etico si lega al fatto che è in preparazione una “visita apostolica” o un’indagine, che coinvolgerà tutte le 60.000 religiose americane. L’obiettivo dell’indagine non è chiaro, anche se l’uomo che l’ha ordinata, il cardinale Franc Rode, è molto conosciuto per le sue posizioni sulle “irregolarità” nella vita religiosa del periodo successivo al Concilio Vaticano Secondo. “Si può dire che l’indagine riguardi una certa mentalità secolare che si è diffusa in questi ordini religiosi, e anche forse una certa forma di femminismo” ha dichiarato lo scorso anno, in un’intervista. Osservatori e commentatori sono preoccupati che l’effetto dell’inchiesta sarà costringere le suore a fare dei passi indietro, e che le suore che hanno lavorato in modo più o meno indipendente per decenni vedano la loro libertà d’azione drasticamente ridotta: la Chiesa cattolica è nota, ad esempio, per aver rimosso degli insegnanti dal loro incarico per aver insegnato la dottrina in modo non sufficientemente ortodosso. Con le diocesi ancora senza soldi a causa dei risarcimenti elargiti in seguito allo scandalo degli abusi sessuali, la preoccupazione è che, dato il numero delle suore in diminuzione soprattutto negli stati occidentali, gli immobili che appartengono alle comunità religiose femminili da generazioni vengano venduti o revocati dalle diocesi. In un momento in cui la leadership maschile può essere rimproverata per aver condotto la Chiesa ad uno stato di crisi – un momento, quindi, in cui c’è più che mai bisogno di voci femminili- anche il più modesto ruolo accordato alle suore è stato messo sotto attacco. Le ragioni specifiche dell’indagine non sono chiare (o, molto più probabilmente, non pubbliche) ma il sospetto che circola si può riassumere in poche parole: troppe suore americane non hanno rispettato le restrizioni. Papa Benedetto XVI ha la reputazione di guardiano dell’ortodossia cattolica – se non di singoli bambini e famiglie – ed i suoi impegni e direttive riflettono le sue priorità. Da adesso fino a Natale, 100 comunità di suore americane riceveranno la visita in loco di emissari del Vaticano: la maggior parte delle 420 comunità femminili americane ha già riempito questionari a proposito delle proprie appartenenti, della loro sistemazione, della loro missione, delle loro finanze. Mary Clare Millea, responsabile dell’indagine sulle comunità femminili, assicura che l’inchiesta non ha assolutamente un intento punitivo; vero è che, però, nel passato le visite degli emissari sono avvenute quando le istituzioni cattoliche erano seriamente uscite dai binari: i sacerdoti, ad esempio, ricevettero le visite degli emissari in seguito allo scoppio dello scandalo degli abusi all’inizio del decennio. Millea farà rapporto a Roma sullo stato delle comunità, e la Congregazione deciderà cosa fare di loro. Lisa Miller racconta che due giorni dopo la pubblicazione di un suo articolo sulla necessità di includere le religiose nei livelli più alti delle gerarchie ecclesiastiche, una suora le ha scritto, nonostante il rischio di esprimersi in modo critico durante il periodo delle visite apostoliche, sostenendo che l’intento delle visite sarebbe assolutamente punitivo e dimostrerebbe la volontà delle gerarchie ecclesiastiche di mantenere la donna nella Chiesa in un ruolo subalterno. “La Chiesa, che predica l’eguaglianza, è ancora uno degli ultimi baluardi della discriminazione sessuale” commentava suor Joan Chittister, sullo Huffington Post qualche mese fa (la sua è una rubrica fissa). Quando Chittister parla il Vaticano la ammonisce, ma lei continua ad essere popolare, vende libri, ottiene plausi, sulla stampa e online. Chittister potrebbe rappresentare quel tipo di “spirito femminista” che il cardinal Rode deride, e con “spirito secolare” potrebbe riferirsi a quelle migliaia di suore che recentemente hanno offerto il loro sostegno alla riforma sanitaria (i vescovi avevano preso posizione in senso opposto, per questioni riguardanti l’aborto). Miller chiude ricordando che le donne che decidono di diventare suore sono sempre di meno e commenta: Il dato non sorprende assolutamente. Quando gli uomini hanno tutto il potere e “fanno indagini” sulle donne che non sembrano rispettare a sufficienza la loro autorità, perché non diventare un dottore o un avvocato, o una madre-casalinga e mettersi ugualmente al servizio di Dio, ma senza ingerenze autoritarie?
Carmen Sammut: «In Vaticano noi suore non veniamo mai consultate». Suor Carmen Sammut, presidente dell’Unione internazionale superiore generali. La presidente delle madri superiore: «L’unico è stato papa Francesco. Noi suore schiave dei preti. I parroci hanno l’omelia, come facciamo noi a comunicare il bene?» Scrive Stefano Lorenzetto il 2 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". La leggendaria papessa Giovanna voleva governare tutta la Chiesa. Trascorsi quasi dodici secoli, la maltese suor Carmen Sammut si accontenta di guidare le 670.320 religiose professe dei cinque continenti, dodici volte più numerose dei consacrati non sacerdoti e quasi il doppio dei 466.215 fra vescovi, preti e diaconi. È la presidente dell’Uisg, l’Unione internazionale superiore generali, la prima in carica per due mandati.
Garbata protesta. Dalle finestre del suo ufficio romano, di fronte a Castel Sant’Angelo, il Cupolone appare vicinissimo. Ma così non è, tanto che suor Sammut nel suo ultimo incontro con Jorge Mario Bergoglio è stata costretta a una garbata protesta. «Papa Francesco, vi ho mandato quattro lettere», gli ha detto, facendo tremolare le dita della mano destra dall’indice al mignolo. «Non le ho mai ricevute», si è stupito l’illustre interlocutore. «Lo sospettavo», ha replicato lei, e gli ha porto lesta una fotocopia dell’ultima missiva sparita. Il Pontefice ha letto pensieroso, ha piegato il foglio prima in due, poi in quattro, e l’ha infilato nella tasca della talare, battendoci sopra due volte la mano, come a dire «adesso è al sicuro». L’indomani un commesso vaticano ha recapitato nella sede dell’Uisg un biglietto di risposta scritto di proprio pugno dal Papa. Il gesto non si spiega soltanto con la predilezione di Francesco per gli ultimi. È vero che madre Carmen è la superiora generale delle appena 600 suore missionarie di Nostra Signora d’Africa (tre sole italiane), un nulla nella galassia cattolica. Ma rappresenta anche le 1.970 superiore generali di altrettante congregazioni femminili.
Le suore sono in calo o in crescita?
«Siamo 51.615 in meno rispetto a cinque anni fa. Calano in Europa e negli Stati Uniti. Crescono in Vietnam e nelle Filippine. In Africa sono aumentate del 7,8 per cento».
Come si giustifica la crisi?
«La Chiesa non riesce a spiegare Dio al mondo postmoderno. Eppure i giovani restano quelli di sempre: generosi. In Olanda ci sono ragazzi atei che vanno ad assistere le nostre suore anziane».
Non tocca a voi spiegare Dio?
«I preti hanno l’omelia. Ma noi? Come facciamo a comunicare il bene?».
Vedrà che Francesco vi concederà di predicare durante la messa.
«Sono già attrezzata. Ho studiato omiletica dai gesuiti nel Galles».
«Quelle del Terzo mondo sono “boccazioni”», mi ha detto un alto prelato.
«Vale anche per i preti. I figli dei poveri venivano mandati in seminario affinché mangiassero e studiassero. Fino al Novecento per le suore di vita attiva il convento rappresentava un riscatto sociale e una possibilità di carriera».
Mi racconti della sua vocazione.
«La prima è stata per l’Africa, bagnata dal mare di Malta. A 12 anni sono venute le suore in classe e mi hanno lasciato una carta geografica del Continente nero. A 19 ho deciso che dovevo consacrargli la vita».
In pratica che cosa fa la superiora delle superiore generali?
«Confusione». (Ride). «Cerco di far sapere che cosa facciamo di buono».
Sentiamo.
«Per esempio fra Agrigento, Caltanissetta e Ramacca una dozzina di consorelle assiste i profughi sbarcati in Sicilia. Talitha kum, una rete contro la tratta di esseri umani, collabora con le polizie, dà accoglienza e formazione agli schiavi che riusciamo a liberare. Molte religiose africane psicologhe assistono i bambini di strada abusati sessualmente».
Lei lamenta che anche le suore siano quasi ridotte in schiavitù nella Chiesa.
«In Vaticano non ci consultano mai. Il primo a farlo è stato Francesco. Siamo andate da lui in più di mille. Non c’era neanche un cardinale. Ci avevano chiesto di presentare in anticipo e per iscritto le domande che avremmo posto al Santo Padre. Una suora non ha avuto il coraggio di leggere fino in fondo il suo quesito sulle religiose che fanno le colf per i preti senza ricevere neppure un compenso. Il Papa l’ha tolta dall’imbarazzo: “Anche se la domanda era incompleta, voglio rispondere lo stesso. Io, voi, noi siamo al servizio dei poveri. Ma il servizio non è servitù”. Da lì è nata la commissione composta da sei maschi e sei femmine che sta affrontando la questione del diaconato alle donne».
Mi risulta che vi siate immerse nello studio del diritto canonico.
«Non può essere una privativa dei preti, che credono di essere Chiesa solo loro. È una faccenda di potere, di denaro. Certi vescovi vorrebbero annettersi le nostre abitazioni, sostengono che rientrano nel patrimonio ecclesiastico. L’Uisg ha dovuto promuovere un’assemblea mondiale delle poche suore canoniste per poter contare su una rete di difesa efficace».
In compenso lei è stata ammessa al Sinodo sulla famiglia.
«Nell’ultimo banco, sì. Andammo in otto dal cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi. Fummo accettate in tre».
Il Papa deve cancellare il celibato?
«Per i religiosi no: la loro dedizione agli altri dev’essere totale. Ma il celibato sacerdotale è solo una legge della Chiesa latina. Infatti dalla Romania all’Egitto la Chiesa cattolica di rito orientale ordina preti anche uomini sposati».
Non le dispiacerebbe poter celebrare messa, confessi.
«Non ho questo desiderio. Ma rispetto le donne che lo avvertono».
Nel suo recente viaggio in Perù, papa Francesco ha detto alle suore di clausura di Lima: «Sapete che cosa è la religiosa pettegola? È una terrorista. Peggio di quelli di Ayacucho di anni fa». Lei conosce molte terroriste?
«Non molte. Alcune. Però nella mia congregazione ho avviato una riflessione collettiva: che cosa vi dite su WhatsApp?».
Come fa una suora di clausura a spettegolare, se non parla con nessuno?
(Ride). «Di quanto tempo dispone?».
Tutto quello che vuole.
«Sono andata in ritiro per otto giorni in un convento di clausura. Le monache venivano in processione da me: ci ci ci, ci ci ci... Poi, al mea culpa serale, tutte pentite».
Francesco il 2 febbraio ha regalato una primula a ogni religiosa che lavora in Vaticano. Lusingata?
«Non lavoro in Vaticano».
Ma lei è stipendiata?
«Da chi?».
Se ha necessità di qualcosa, come fa?
«Abbiamo un budget. E una lista dei bisogni. Quelli eccessivi si discutono. A volte è il contrario: devo spronare io una suora a comprarsi almeno un libro».
Mi indichi un bisogno eccessivo.
«Un viaggio. Volevo portare mia madre Maria, 92 anni, a Lourdes».
Ha pagato tutto la congregazione?
«No, la mamma».
Lei ha vissuto a lungo in Malawi, Algeria, Mauritania e Tunisia. Come la trattavano i musulmani?
«Mi rispettavano. Ho insegnato a lungo con una consorella in una scuola di Bechar, a 1.100 chilometri da Algeri. Ci dicevano: “Siete discepole di Gesù? Allora aiutateci”. E ci affidavano i bambini più difficili. Un inverno fece molto freddo. Una giovane operaia, vedendo che non avevo i guanti, se ne tolse uno dei suoi e me lo offrì».
Fratel Charles de Foucauld, ora beato, scrisse all’amico René Bazin nel 1916: «I musulmani possono diventare dei veri francesi? Eccezionalmente sì, ma in generale no. Molti dogmi fondamentali dell’islam si oppongono ai nostri principi». Parlava come Matteo Salvini.
«Francesi e cristiani non sono sinonimi».
E aggiunse: «Verrà il Mahdi che proclamerà una guerra santa per stabilire l’islam su tutta la terra, dopo aver sterminato o soggiogato tutti i non musulmani». In quello stesso anno fu ucciso dai senussiti.
«Gli islamici estremisti sono una piccola minoranza, glielo garantisco».
Cesare Mazzolari, vescovo in Sud Sudan, nel 2004 mi confidò piangendo: «Il momento del martirio è vicino. Molti cristiani saranno uccisi per la loro fede».
«Migliaia di musulmani, e tanti imam, già oggi vengono ammazzati dai jihadisti in Siria perché si rifiutano di combattere».
Come regolerebbe l’immigrazione dal Nord Africa verso l’Italia?
«Cercherei di scoprire quali sono gli interessi della mafia in questi traffici».
Perché a Malta non sbarca nessuno?
(Sfrega pollice e indice).
Il governo del suo Paese ha pagato?
«Immagino di sì».
Lei non diventerà vescovo, cardinale, papa. La vive come un’ingiustizia?
«Non invidio queste cariche. Sogno una vita semplice, nel deserto».
Però Pietro Parolin non ha escluso che una donna possa prendere il suo posto come segretario di Stato vaticano.
«Sarebbe già tanto se il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita non fosse presieduto da un cardinale. O se nel C9, il Consiglio istituito da papa Francesco per aiutare il pontefice nel governo della Chiesa, sedesse una donna».
Si sente una suora femminista?
«In che senso?».
Nel senso dello Zingarelli: «Chi sostiene e favorisce il femminismo».
«Allora sì».
Ma le avanza del tempo per pregare?
«Certo».
Quante ore al giorno?
«Tutte».
I CRISTIANI ORTODOSSI.
Lo scisma tra il Patriarcato ortodosso di Mosca e quello di Costantinopoli. Una situazione che può condizionare i rapporti dei circa 2 miliardi di cristiani distribuiti nei 5 continenti. Il clero ortodosso e il patriarca ecumenico Bartolomeo di fronte alla chiesa greco-ortodossa di Hagia Triada il 2 settembre 2018 a Istanbul, durante il secondo giorno dell'incontro della Gerarchia del trono ecumenico, scrive Orazio La Rocca il 23 ottobre 2018 su "Panorama". Il mondo cristiano continua a frantumarsi tra l'indifferenza quasi generale. La notizia del nuovo scisma che si è consumato nei giorni scorsi tra il Patriarcato ortodosso di Mosca e il Patriarca ortodosso di Costantinopoli è di fatti passata quasi inosservata nei grandi e piccoli giornali. Eppure, la nuova spaccatura che ha allontanato i due patriarcati ortodossi più importanti per storia, tradizione ed influenze politiche è destinata a condizionare i rapporti dei circa 2 miliardi di cristiani distribuiti nei 5 continenti, un miliardo e trecento milioni dei quali cattolici guidati dal pontefice romano, papa Francesco, che di fronte allo scisma ortodosso vedrà ulteriormente vanificati i suoi scopi di unire sotto un solo tetto l'intero universo cristiano d'Oriente e d'Occidente, da oltre mille anni separati in seguito allo storico scisma del 1054.
Dopo mille anni un nuovo grande scisma. Dopo quasi mille anni, la storia si ripete in campo ortodosso. Questa volta i cattolici non c'entrano e assistono con profonda preoccupazione da lontano agli scontri tra le varie anime dell'ortodossia. È stato uno dei leader del Patriarcato di Mosca, il metropolita Hilarion di Volokolamsk, capo del Dipartimento per le relazioni esterne, ospite al Sinodo dei giovani in corso in Vaticano, ad annunciarlo con determinazione al grido di “scisma! Scisma!” nel descrivere l'attuale spaccatura che si è creata nel mondo ortodosso dopo la decisione del Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli di concedere l'autocefalia (indipendenza) alla Chiesa ucraina, riconoscendo cioè il nuovo Patriarcato di Kiev che proprio da quello di Mosca si è staccato, e la successiva decisione da parte del Patriarcato di Mosca di rompere la comunione eucaristica con il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, che peraltro ha un primato d'onore e non effettivo su tutte le comunità ortodosse del mondo che, come è noto, sono tutte "autocefale", vale a dire non hanno un papa universale come i cattolici, ma ogni Chiesa nazione ha il suo capo supremo ed autonomo. Un gesto, quello compiuto dal patriarca ucraino, giudicato offensivo e di rottura dal patriarcato di Mosca e anche dallo stesso Vladimir Putin, notoriamente molto attento alle dinamiche delle Chiese ortodosse. Non è la prima volta che l'Ucraina è lacerata da dissidi di natura ortodossa e religiosa in generale. In passato ha dovuto far fronte agli scontri di tra ortodossi e i cosiddetti uniati, i cattolici fedeli al papa, originati nel 1946 dal Sinodo di Leopoli che su ordine di Stalin impose alle comunità cattoliche di rito greco, denominati uniati, di confluire nella chiesa ortodossa sottoposta al Patriarcato di Mosca. Vi furono preti e vescovi deportati in Siberia per aver resistito e negli anni '90, quando Gorbaciov riconobbe la personalità giuridica della chiesa uniate l'antagonismo tra uniati e ortodossi divenne altissimo perché i cattolici di rito greco (circa 4 milioni di fedeli) chiedevano di rientrare in possesso degli edifici sacri che gli ortodossi avevano incamerato. Tensioni che solo da qualche anno si sono almeno in parte superate.
E Mosca cancella il patriarca di Costantinopoli. Ed ora che succede? Difficile arrivare ad un accordo che, auspicato anche dal Vaticano, possa archiviare uno scisma destinato a vanificare tutto il cammino ecumenico fin qui fatto per riunire l'universo cristiano? Il Patriarcato dell'Ucraina in realtà si è distaccato da Mosca nel 1992, ma da allora il conflitto è rimasto latente, fino a quando il patriarca Bartolomeo ha deciso di riconoscerlo. Nel 1997 ci fu un precedente simile, quando Costantinopoli staccò la Chiesa Ortodossa dell'Estonia da quella della Russia e la eresse in Sede Arcivescovile alle proprie dirette dipendenze. Il Patriarcato di Mosca reagì nello stesso modo in cui sta reagendo ora ad una decisione più grave di quella di allora, quando dopo sei mesi i rapporti furono ristabiliti: malgrado il Patriarca di tutte le Russie dell'epoca, Sua Beatitudine Alessio, si ritenesse doppiamente offeso, essendo originario proprio dell'Estonia. "Per noi il Patriarcato di Costantinopoli – spiega Hilarion - si trova in una situazione di scisma e, quindi, abbiamo cancellato il nome del Patriarca Bartolomeo dalla lista ufficiale dei Patriarchi che noi chiamiamo dittici. Non sarà quindi commemorato dalla Chiesa ortodossa russa e cominceremo il dittico dal Patriarca di Alessandria". Inoltre "noi non parteciperemo ad alcuna celebrazione eucaristica insieme al Patriarcato di Costantinopoli e i nostri fedeli non potranno ricevere la comunione nelle chiese legate a Costantinopoli. Inoltre noi non parteciperemo ad alcun organismo organizzato o presieduto dal Patriarca di Costantinopoli o da suoi rappresentanti", avverte il capo del dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca. "Lo scisma lo ha scelto il patriarca Bartolomeo stesso: poteva scegliere di essere il centro di coordinamento per tutte le Chiese ortodosse o essere in scisma. Lui ha optato per lo scisma", puntualizza Kirill, che avverte deciso: “Non parteciperemo a nessuna Commissione presieduta o co-presieduta dal Patriarca di Costantinopoli. Significa che non parteciperemo in alcun dialogo teologico nel quale sono presenti rappresentanti del Patriarcato di Costantinopoli che presiedono o co-presiedono". Con tanti saluti al dialogo ecumenico e ai buoni rapporti tra le Chiese ortodosse.
COME FURONO INVENTATI I PALESTINESI.
Come furono inventati i palestinesi, scrive di Robert Spencer il 19 agosto 2018 su l’Informale. Nel 1948, il nascente Stato di Israele sconfisse gli eserciti di Egitto, Iraq, Siria, Transgiordania, Libano, Arabia Saudita e Yemen che volevano distruggerlo completamente. Il jihad contro Israele proseguì, ma lo Stato ebraico tenne duro, sconfiggendo ancora Egitto, Iraq, Siria, Giordania e Libano nella guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’Egitto e la Siria ancora una volta nella guerra dello Yom Kippur del 1973. Nell’ottenere queste vittorie contro enormi difficoltà, Israele riscosse l’ammirazione del mondo libero, vittorie che comportarono l’attuazione più audace e su più ampia scala nella storia islamica del detto di Maometto: “La guerra è inganno”. Per distruggere l’impressione che il piccolo Stato ebraico stesse fronteggiando ingenti nemici arabi musulmani e che stesse prevalendo su di loro, il KGB sovietico (il Comitato sovietico per la sicurezza dello Stato) inventò un popolo ancora più piccolo, i “palestinesi”, minacciato da una ben funzionante e spietata macchina da guerra israeliana. Nel 134 d.C., i Romani avevano espulso gli ebrei dalla Giudea dopo la rivolta di Bar Kokhba e ribattezzarono la regione Palestina, un nome tratto dalla Bibbia, il nome degli antichi nemici degli Israeliti, i Filistei. Ma il termine palestinese era sempre stato riferito a una regione e non a un popolo o a una etnia. Negli anni Sessanta, tuttavia, il KGB e il nipote di Hajj Amin al-Husseini, Yasser Arafat, crearono tanto questo presunto popolo oppresso quanto lo strumento della sua libertà, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Ion Mihai Pacepa, già vicedirettore del servizio di spionaggio della Romania comunista durante la Guerra Fredda, in seguito rivelò che “l’OLP era stata una invenzione del KGB, che aveva un debole per le organizzazioni di ‘liberazione’. C’era l’Esercito di liberazione nazionale della Bolivia, creato dal KGB nel 1964 con l’aiuto di Ernesto ‘Che’ Guevara (…) inoltre, il KGB creò il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, che perpetrò numerosi attacchi dinamitardi. (…) Nel 1964, il primo Consiglio dell’OLP, composto da 422 rappresentanti palestinesi scelti con cura dal KGB, approvò la Carta nazionale palestinese – un documento che era stato redatto a Mosca. Anche il Patto nazionale palestinese e la Costituzione palestinese nacquero a Mosca, con l’aiuto di Ahmed Shuqairy, un influente agente del KGB che divenne il primo presidente dell’OLP”. Affinché Arafat potesse dirigere l’OLP avrebbe dovuto essere un palestinese. Pacepa spiegò che “egli era un borghese egiziano trasformato in un devoto marxista dall’intelligence estera del KGB. Il KGB lo aveva formato nella sua scuola per operazioni speciali a Balashikha, cittadina a est di Mosca, e a metà degli anni Sessanta decise di prepararlo come futuro leader dell’OLP. Innanzitutto, il KGB distrusse i documenti ufficiali che certificavano la nascita di Arafat al Cairo, rimpiazzandoli con documenti falsi che lo facevano figurare nato a Gerusalemme e, pertanto, palestinese di nascita”. Arafat potrebbe essere stato marxista, almeno all’inizio, ma lui e i suoi referenti sovietici fecero un uso copioso dell’antisemitismo islamico. Il capo del KGB, Yuri Andropov, osservò che “il mondo islamico era una piastra di Petri in cui potevamo coltivare un ceppo virulento di odio antiamericano e antisraeliano, cresciuto dal batterio del pensiero marxista-leninista. L’antisemitismo islamico ha radici profonde… . Dovevamo solo continuare a ripetere i nostri argomenti – che gli Stati Uniti e Israele erano ‘paesi fascisti, imperial-sionisti’ finanziati da ricchi ebrei. L’Islam era ossessionato dall’idea di evitare l’occupazione del suo territorio da parte degli infedeli ed era assolutamente ricettivo al ritratto da noi fatto del Congresso americano come un rapace organismo sionista volto a trasformare il mondo in un feudo ebraico”. Il membro del Comitato esecutivo dell’OLP, Zahir Muhsein, spiegò in modo più esaustivo la strategia in una intervista del 1977 al quotidiano olandese Trouw: Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele per la nostra unità araba. In realtà, oggi non c’è alcuna differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni politiche e strategiche parliamo oggi dell’esistenza di un popolo palestinese, dal momento che gli interessi nazionali arabi esigono che noi postuliamo l’esistenza di un distinto “popolo palestinese” che si opponga al sionismo. Per ragioni strategiche, la Giordania, che è uno stato sovrano con confini definiti, non può avanzare pretese su Haifa e Jaffa mentre, come palestinese, posso indubbiamente rivendicare Haifa, Jaffa, Bee-Sheva e Gerusalemme. Tuttavia, nel momento in cui rivendicheremo il nostro diritto a tutta la Palestina, non aspetteremo neppure un minuto a unire Palestina e Giordania. Una volta che era stato creato il popolo, il loro desiderio di pace poteva essere facilmente inventato. Il dittatore romeno Nicolae Ceausescu insegnò ad Arafat come suonare l’Occidente come un violino. Pacepa raccontò: “Nel marzo del 1978 condussi in gran segreto Arafat a Bucarest per le istruzioni finali su come comportarsi a Washington. ‘Devi solo far finta di rompere con il terrorismo e riconoscere Israele, ancora, e ancora e ancora’, disse Ceausescu ad Arafat. (…) Ceausescu era euforico all’idea che Arafat e lui potessero riuscire ad accaparrarsi un Premio Nobel per la pace con la loro farsa del ramoscello d’ulivo. (…) Ceausescu non riuscì a ottenere il suo Premio Nobel per la pace. Ma nel 1994 Arafat lo ricevette, proprio perché continuò a interpretare alla perfezione il ruolo che gli avevano affidato. Aveva trasformato la sua OLP terrorista in un governo in esilio (l’Autorità palestinese), fingendo sempre di porre fine al terrorismo palestinese, pur continuando ad alimentarlo. Due anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il numero degli israeliani uccisi dai terroristi palestinesi era aumentato del 73 per cento”. Questa strategia ha continuato a funzionare alla perfezione, attraverso i “processi di pace” negoziati dagli Stati Uniti, dagli accordi di Camp David del 1978 alla presidenza di Barack Obama e oltre, senza posa. Le autorità occidentali non sembrano mai riflettere sul perché siano tutti falliti così tanti tentativi di raggiungere una pace negoziata tra Israele e i “palestinesi”, la cui esistenza storica oramai tutti danno per scontata. La risposta, ovviamente, sta nella dottrina islamica del jihad. “Cacciateli da dove vi hanno cacciato” è un ordine che non contiene alcuna mitigazione e che non accetta nessuno.
Nota: Questo è un estratto esclusivo dal nuovo libro di Robert Spencer, The History of Jihad From Muhammad to ISIS. Tutte le citazioni sono contenute nel libro. Traduzione in italiano di Angelita La Spada
GLI UTILI IDIOTI DELL’ISLAM.
Ecco gli utili idioti dell'islam francese. Bruckner contro il “progressismo halal” degli intellettuali, scrive il 16 Ottobre 2017 “Il Foglio. Quello che gli agenti di influenza dell’islamismo non tollerano più per i preti o i pastori, lo accettano per i mullah o gli imam”, scrive il filosofo e scrittore Pascal Bruckner a margine di una inchiesta del Figaro sugli attivisti, i giornalisti e gli intellettuali che in Francia portano acqua all’islam. “Alcuni vengono dall’anti-capitalismo, altri dal Terzo mondo, altri dall’odio per la Francia, alcuni non amano Israele o gli ebrei: sono tanti gli incentivi della struttura chiamata “islamosphère”. Che non ha nulla a che fare con la ‘fascinazione dell’islam’ di cui parlava l’orientalista Maxime Rodinson e che ha colpito le grandi figure della nostra cultura, Montesquieu, Voltaire, Napoleone o Michelet, che ammiravano Maometto o rimasero abbagliati dallo splendore dell’Impero Ottomano. In questa famiglia bisogna distinguere tra gli spiriti forti e gli utili idioti che vanno ripetendo che l’islamizzazione è un falso problema. E’ la posizione da sempre di un Olivier Roy, che accusò il filosofo Robert Redeker, minacciato di morte nel 2006 dopo un articolo sul Figaro, di aver ‘solleticato la fatwa’. Infine, ci sono i veri complici, agenti di influenza agli ordini della Fratellanza musulmana o dei wahabiti, come Edwy Plenel, Vincent Geisser, François Burgat e altri. L’islamosfera intende controllare qualsiasi discorso sulla religione del Profeta per liberarlo dalle sue responsabilità nei crimini jihadisti e per scaricare le colpe solo sulle nazioni occidentali. L’estrema sinistra che ha perso tutto, l’Unione sovietica, il Terzo mondo, la classe operaia, vede l’islam radicale come un proletariato surrogato per mobilitarsi contro le forze di mercato. Quello che non tollera più nei pastori o preti, si deve accettare per i mullah e gli imam, incarnazione di una religione “oppressa”. Quindi questo “progressismo halal” non esita a calpestare i propri valori, a cadere nell’idolatria impeccabile per il velo islamico, in amore per tutto l’abbigliamento barbuto come abbiamo parlato molto bene nel XIX secolo degli harem. Denunciare lo stupro, se commesso da immigrati, è un atto razzista, come spiega Caroline de Haas. Soprattutto perché questi attacchi, confermati dal sociologo Eric Fassin, sono atti politici diretti contro le donne bianche dominanti. Quale spettacolo comico! A noi la libertà, l’uguaglianza tra i sessi, il diritto di desistere dalle verità accettate. A te la sottomissione agli uomini, la religione, la sanzione per la bestemmia, il crimine di apostasia. Ex comunisti, trotzkisti, maoisti competono nella loro fedeltà al bigottismo purché attuato dai seguaci del Corano. Odiano la Francia, non perché opprimerebbe i musulmani, ma perché li libera. Pertanto, il nemico ai loro occhi diventa il secolarismo e i dissidenti dell’Islam che rivendicano il diritto di credere o non credere, di vivere come sentono meglio. Questi recalcitranti devono essere puniti, inchiodati alla gogna, come Alain Gresh ha chiamato l’imam Chalghoumi, “l’imam degli ebrei”. Nella nostra bellissima Repubblica, i collabos amano adornarsi con la maschera dei ribelli”. Articolo pubblicato da Le Figaro
L'islam moderato che ci vuole sottomettere. Oggi l'Europa si sta sottomettendo all'islam dopo aver accolto al suo interno il cavallo di Troia dell'islam moderato, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 27/08/2017, su "Il Giornale". In Gran Bretagna l'islam ha già sostituito il cristianesimo. Non con la violenza dei terroristi islamici ma grazie alle leggi dello Stato e alle regole della democrazia. Lo si è riscontrato lo scorso 12 luglio a Oldham, città della contea della Grande Manchester. Il sindaco «di rappresentanza» Shadab Qumer, musulmano del Partito Laburista, che presiede il Consiglio comunale ma non ha i poteri esecutivi del sindaco effettivo Jean Stretton, ha inaugurato il suo mandato entrando nell'aula consiliare con il suo imam e chiedendogli di fare un sermone. L'imam, dopo aver invocato Allah e Mometto, ha recitato in arabo una estrapolazione dei versetti 32-33 della Sura 5 del Corano: «Chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l'umanità intera». Poi in inglese ha invitato tutti i presenti, che hanno ascoltato in piedi e in silenzio, a unirsi nella preghiera rivolta ad Allah, indicato come l'unico Dio, per commemorare le vittime delle violenze che hanno insanguinato la Gran Bretagna, senza menzionarle e senza specificare che si è trattato di attentati terroristici islamici, sostenendo che «nessuna religione o cultura tollerano il comportamento estremista». A parte la falsificazione dei versetti coranici che in realtà legittimano l'uccisione specificatamente degli ebrei, per la prima volta in un'assemblea elettiva in seno all'Europa l'islam è stato accreditato come la religione di riferimento. Nella solenne riunione del Consiglio comunale di Oldham non c'è stata una preghiera cristiana, ma solo la preghiera musulmana. Il sindaco musulmano è la punta dell'iceberg di un processo che inizia con l'immigrazione più o meno regolare. Segue la crescita demografica grazie ai ricongiungimenti familiari e al più elevato tasso di natalità. Poi la formazione delle «comunità islamiche» che si auto-amministrano con proprie regole e addirittura con la «sharia», la legge coranica. In parallelo l'islam si radica attraverso la proliferazione di moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici. Quindi esplode il terrorismo da parte dei «puri e duri» che ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Ed è a questo punto che l'Europa sceglie di affidarsi ai sindaci musulmani che professano un «islam moderato» per sconfiggere i terroristi islamici. Per 1400 anni l'Europa ha rischiato di essere sottomessa all'islam con la violenza, ma è riuscita a sconfiggerlo con le vittorie militari a Poitiers, la Reconquista, Lepanto e Vienna. Oggi l'Europa si sta sottomettendo all'islam dopo aver accolto al suo interno il cavallo di Troia dell'«islam moderato». Possibile che chi ci governa non comprenda che sia i terroristi sia i sedicenti musulmani moderati perseguono lo stesso obiettivo di sottometterci all'islam? E che dobbiamo combattere non solo contro i terroristi ma soprattutto per salvaguardare la nostra civiltà laica e liberale dalle radici ebraico-cristiane?
Islam, l'arcivescovo Liberati: "Si credono superiori ma io non sono loro schiavo", scrive il 31 Ottobre 2017 “Libero Quotidiano”. Porgere l'altra guancia sì, ma abbassare la testa all'Islam no. Monsignor Carlo Liberati, arcivescovo e Prelato emerito di Pompei, è uno degli uomini di Chiesa che "resistono" all'avanzata religiosa, culturale e demografica del mondo musulmano in Occidente, favorita da relativismo, buonismo progressista, secolarismo. Intervistato da La Fede Quotidiana, Monsignor Liberati spiega perché dobbiamo stare in allerta: "Nella loro visione del mondo - spiega Liberati - che non è ovviamente condivisibile, gli islamici credono, sono coerenti, e pregano. E allora questa situazione di decadenza morale dell'Occidente li rende più forti e convinti. Assistiamo ad un lento processo di islamizzazione del nostro mondo e temo che, per via demografica, prima o poi saranno maggioranza". Quando questo avverrà "tutto si farà molto pericoloso. La storia del resto ci insegna che l'islam ha sempre cercato di sottomettere l'Occidente e di attaccarlo. La battaglia di Lepanto ne è un esempio. Spero che l'Occidente sappia reagire a questa offensiva islamica che ha la religione come sua motivazione". A chi invoca accoglienza e tolleranza, il vescovo di Pompei ribatte così: "Vogliono diritti? Bene, ma esistono doveri. Io non mi sento schiavo dell'islam e chiedo per lo meno la stessa pari dignità. Loro si credono superiori per natura e per la stessa indole vogliono comandare, sono tante volte arroganti".
"Io, carabiniere anti islam, congedato per mie idee". Maresciallo scrittore che si è espresso contro l'islam viene congedato dall'Arma. Il caso di Prisciano, che ora attende l'espressione del Tar, scrive Francesco Boezi, Sabato 16/09/2017, su "Il Giornale". Il maresciallo Riccardo Prisciano è stato congedato. Durante luglio del 2015, gli era stato notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Sentito da Il Giornale.it, il maresciallo ha dichiarato in merito alla sua vicenda: "Sono stato congedato per aver espresso idee di destra, libero dal servizio e nella normale dialettica democratica, riguardanti l'incostituzionalità dell'islam, la mia contrarietà ai matrimonio omosessuali, all'adozione di bambini da parte di persone dello stesso sesso, alla pratica dell'utero in affitto, all'attuale legge sull'aborto e per aver espresso perplessità sull'operato politico di Boldrini, Alfano, Renzi e Napolitano". "In due anni - aggiunge Prisciano - sono stato umiliato in ogni modo: sanzioni disciplinari, denunce (poi ovviamente archiviate), visite psicologiche, trasferimenti ad 800km dalla mia famiglia, note caratteristiche umilianti e financo il congedo per "non meritevolezza". Secondo quanto riferito dal maresciallo, prima del congedo ci sarebbero stati tre procedimenti disciplinari: 7 giorni di consegna con rigore e il trasferimento d'autorità in Sardegna, un provvedimento derivante dalla pubblicazione del suo libro "Nazislamismo", infine una denuncia da parte dei suoi superiori presso la Procura Militare di Roma per "insubordinazione con ingiuria" e "diffamazione militare aggravata". Queste ultime accuse sarebbero state archiviate. Il maresciallo sostiene di aver subito questi provvedimenti a causa delle sue prese di posizione. L'inizio della vicenda, infatti, risale a quando Prisciano, in qualità di scrittore, partecipò ad un convegno sulla "incostituzionalità dell'islam". Il 12 ottobre 2017 il Tar del Lazio dovrebbe esprimersi sul congedo. Il Consiglio di Stato, secondo un documento inviatoci da Prisciano, aveva ribaltato le sospensive precedentemente concesse dal Tar. Il maresciallo dichiara di essere in congedo da dieci mesi, di non percepire stipendio e di avere una figlia di 6 anni e un altro figlio in arrivo.
Giudizio (negativo) sull'islam: sospeso il prof. Critica il ramadan, una studentessa protesta. E la preside lo punisce: stipendio tagliato, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 28/07/2017, su "Il Giornale". Vietato dare giudizi (negativi) sull'islam. Lo sa bene Pietro Marinelli, 61enne docente di Diritto ed Economia all'Istituto superiore “Falcone-Righi” di Corsico, piccolo comune nell'hinterland milanese. Marinelli vanta oltre 30 anni di carriera, la laurea in Giurisprudenza, un'altra in Scienze religiose e un curriculum di tutto rispetto. Cui però ora dovrà aggiungere le accuse di islamofobia. Tutto inizia il 31 maggio scorso. Il professore entra in una classe quinta per la lezione di diritto internazionale. Tema: lo Stato Islamico. E visto che al “Falcone-Righi” ancora si rispettano le buone maniere, quando il prof entra in classe gli studenti si alzano in piedi. Tutti, tranne lei: un'alunna 18enne di origine egiziana che si giustifica affermando di essere in periodo di ramadan. “Una pratica religiosa non ti dà certo diritto di non rispettare una consuetudine dell'Istituto”, fa notare il docente. Ma tant'è. “Per sviluppare il suo senso critico ho provato a chiederle cosa significasse il ramadan. E lei sosteneva fosse solo un periodo di riflessione. Le ho detto che non è così. Che viene celebrato per ricordare la discesa dal cielo del Corano, parola increata di Allah”. Ne nasce allora una discussione in cui Marinelli spiega l'origine e il significato del rito musulmano, accennando però valutazioni critiche nei confronti dell'islam e di una pratica di digiuno che “non mi sembra umana”. Apriti cielo. La studentessa esce dalla classe senza permesso, salta la lezione sull'Isis e si becca una nota. Ma non è lei a doversi preoccupare. Poche ore dopo la madre scrive una lettera alla preside, Maria Vittoria Amantea, denunciando “un terribile" fatto "di intolleranza religiosa”. Nella missiva vengono riportate alcune frasi che Marinelli avrebbe pronunciato al fine di “offendere e sminuire" la fede musulmana: l'islam è una religione priva di senso; il Corano è una ridicolaggine insensata; il Ramadan è disumano; l'islam dovrebbe essere vietato dalla legge e via dicendo. “Alcune sono state palesemente esagerate – dice il professore – altre totalmente inventate”. Fatto sta che ragazza presenta pure un esposto ai carabinieri e lo stesso farà la preside “a tutela dell'onorabilità dell'istituto”. Nemmeno si trattasse di lesa maestà, scatta il procedimento disciplinare: Marinelli è accusato di aver offeso l'alunna e di essere venuto meno “al suo principale dovere come docente e educatore”. “Prima di avviare l'iter non hanno neppure tenuto conto della mia dichiarazione, protocollandola volutamente in ritardo”, denuncia lui, che in tutta risposta ha depositato due contro-esposti (la preside, contattata per telefono e mail, non è ancora risultata reperibile). Il 24 giugno il caso finisce in presidenza per l'audizione in difesa. Obiezioni, spiegazioni, precisazioni: tutto inutile. Arriva una punizione esemplare: sette giorni di sospensione e relativa decurtazione dello stipendio. Marinelli però rivendica “libertà di opinione”: “Io non ho offeso, ho solo dato una mia valutazione dell'islam alla luce dei miei studi. Una cosa sono le affermazioni sulle persone, altro quelle sulla religione. Credo rientri nei miei obblighi educativi stimolare gli studenti ad avere una visione critica della vita, anche rispetto alle proprie tradizioni religiose". Difficile dargli torto. "Come i cristiani ascoltano le lezioni sulle crociate o sull'Inquisizione e non presentano esposti contro i docenti - continua - così devono fare pure gli islamici. Anche quando si dice che l'Isis è il vero riferimento del mondo islamico oppure che nell'islam ci sono meno libertà rispetto al cristianesimo”. Il ragionamento non fa una piega. Ma non aiuta: condannato per aver violato gli articoli 3 e 19 della Costituzione (uguaglianza e libertà di culto) e due articoli del codice deontologico. “Io non ho insultato nessuno né limitato la libertà di alcuno. Ho solo espresso un giudizio sull'islam”. Tradotto: critichi Maometto e finisci nei guai.
Quel virus dentro l'islam. La verità che i buonisti non dicono: l'islam e la sua comunità laica sono state infettate e, quindi, vanno messe in quarantena, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 25/05/2017, su "Il Giornale". Non era solo, ovviamente, il terrorista della strage di Manchester. Ieri hanno arrestato il padre (un predicatore islamico), il fratello e altri conoscenti. Tutta gente che nella migliore delle ipotesi appunto conosceva le intenzioni criminali del congiunto e quanto meno ha taciuto, anche se è evidente che qualcuno ha materialmente collaborato all'attentato. Altro che «cani sciolti» e disquisizioni sulle prime e seconde generazioni. Dentro la comunità islamica apparentemente integrata ci sono sacche pericolose pronte a esplodere quando e dove meno te lo aspetti. Sono sacche che il più delle volte - anche in questa - vengono individuate dai servizi ma poi la cosa finisce lì. Non tanto per mancanza di mezzi e risorse ma perché le leggi ordinarie - soprattutto se parliamo di soggetti con regolare cittadinanza - impediscono nella maggior parte dei casi di andare oltre un generico stato di allerta. Questo per dire che l'attentato di Manchester non sarebbe andato a buon fine se l'Europa tutta si fosse dotata di leggi speciali che permettessero di arrestare, o comunque neutralizzare, persone anche solo sospettate di avere a che fare con l'Isis, un po' com'è avvenuto in Italia ai tempi del terrorismo politico e come in parte ancora avviene nella lotta alle mafie. Il problema, tecnicamente, non sarebbe complicato da affrontare. È che manca la volontà politica, perché il farlo sarebbe ammettere che una religione, l'islam, e la sua comunità laica sono state infettate e che, quindi, vanno messe in quarantena. A questa via non c'è alcuna alternativa, a meno di non volere continuare a contare i nostri morti. E scoprire ogni volta a cose fatte che sapevamo tutto prima, tutto meno il giorno e il posto esatto. La sicurezza nazionale non può continuare a essere una lotteria dove ogni tanto vinci ma il più delle volte perdi. Di questo dovrebbero parlare, i grandi del mondo al G7 che si apre domani a Taormina. Il resto, di fronte alle foto dei ragazzi di Manchester, ci appassiona davvero poco.
Islam, il Pd preme sullo ius soli. E il 40% dei nuovi italiani sarà musulmano. Il Pd prepara il blitz in parlamento. Martina: "Dobbiamo unire legalità e diritti". Se passerà lo ius soli, 800mila migranti avranno subito la cittadinanza italiana, scrive Sergio Rame, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". "Noi batteremo gli 'imprenditori della paura' unendo legalità e diritti, sicurezza e integrazione". È l'impegno del vicesegretario del Pd e ministro dell'Agricoltura, Maurizio Martina, che in un'intervista a Repubblica ha ribadito la volontà di far approvare lo ius soli perché "passi l'idea di un Paese più sicuro perché più inclusivo". Con le commissioni parlamentari che torneranno a riunirsi dal 4 settembre e le Aule che invece riapriranno il 12, inizia il rush finale per la diciassettesima legislatura, che formalmente si concluderà il 14 marzo del prossimo anno. La sinistra sta già lavorando al blitz in parlamento per far diventare legge loius soli. Una forzatura che, secondo la Fondazione Leone Moressa, regalerebbe la cittadinanza italiana a "800.600 ragazzi, circa l'80% dei minori stranieri residenti in Italia. A questi - spiegano - si aggiungerebbero 58.500 potenziali beneficiari ogni anno". Sulla nuova legge che di fatto regala la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati nati in Italia, le divisioni all'interno della maggioranza e la dura opposizione del centrodestra hanno spinto il governo ad un rinvio, con conseguente accantonamento anche dell'ipotesi di ricorrere al voto di fiducia. Si tratta ora di verificare se, nonostante le dichiarazioni al Meeting di Rimini del premier Paolo Gentiloni, il provvedimento sia finito ormai su un binario morto o se si riuscirà a riprenderne l'esame fino all'approvazione, magari anche con il sostegno di Sinistra italiana, che si è detta pronta ad un sì tecnico alla fiducia. "Non smetto mai di pensare ai tantissimi italiani di fatto nati e cresciuti qui che devono poter avere come i mie figli una cittadinanza piena", afferma oggi Martina. Secondo uno studio della Fondazione Moressa, pubblicato oggi da Repubblica, "tra i nuovi italiani sarebbe record di bambini con genitori romeni, albanesi o marocchini, ovvero le tre comunità più numerose in Italia". E poi: "cinesi, filippini, indiani, moldavi, ucraini, pachistani e tunisini". Di tutti questi "gli alunni provenienti da Paesi musulmani sono poco più di un terzo (38,4%)". Oltre al braccio di ferro sullo ius soli, in parlamento si giocherà la partita dell'accoglienza. Partita che il Pd di Matteo Renzi non vuole perdere. Nell'intervista a Repubblica Martina ha auspicato che Stato e Comuni lavorino insieme per accogliere i migranti: "Se 3.200 comuni su 8mila accolgono, si può fare ancora molto. La chiave - ha spiegato - è proprio l'accoglienza diffusa, gestibile e sicura che già tanti amministratori fanno con grande dedizione e impegno".
“Io, docente di una classe multietnica, vi spiego perché lo Ius Soli è una follia”, scrive il 10 novembre 2017 Marcello Foa su “Il Giornale”. Il mio ultimo post sull’inspiegabile campagna del Pd a favore dello ius Soli ha provocato molte reazioni, alcuni di voi mi hanno scritto anche privatamente. Tra queste una mi ha colpito in modo particolare. E’ la lettera scritta di getto di una docente, peraltro un tempo simpatizzante di Renzi e del Pd, che ogni giorno insegna in classi ormai multietniche e che dunque vive con mano cosa significhi l’integrazione. Non ci conosciamo ma mi ha scritto con slancio, come se fossi un amico di vecchia data, pregandomi di mantenerla riservata. Non voleva che fosse pubblicata. L’ho contattata e alla fine l’ho convinta ad autorizzarmi a divulgarla omettendo il nome e naturalmente qualunque riferimento al posto dove vive e insegna. Nei giornali queste missive vengono pubblicate come “lettere firmate”, il cui autore è noto alla redazione. Faccio mia questa antica consuetudine e vi propongo questa testimonianza. Buonasera. Sono un’insegnante di un istituto superiore. Nelle mie classi ho ragazzi stranieri stupendi e ragazzi italiani cialtroni e prepotenti ma potrei dire per alcuni casi anche viceversa. Devo riconoscere che il PD renziano che inizialmente mi ha attratto politicamente ora sulla questione dello Ius soli mi sta deludendo. Forse l’opinione pubblica non sa che già molti ragazzi di origine straniera sono italiani o che possono ottenere la cittadinanza italiana su richiesta al raggiungimento del diciottesimo anno. Quindi tutti questi piagnistei della Sinistra sostenuti dalla Chiesa cattolica non li capisco. E poi molti dei cosiddetti minori non accompagnati che sbarcano a centinaia sulle nostre coste spediti da genitori disperati (ma che procreano nonostante le mille difficoltá) in realtà si tolgono due anni come minimo per risultare più distanti dalla maggiore età. Me lo ha rivelato una ex mia studentessa dicendomi che è prassi diffusa. Pure lei aveva i dati anagrafici alterati, ma era una gran brava ragazza e l’ho aiutata come ho potuto fino alla fine del suo iter scolastico. Ho poi studenti di origine magrebina, cinese o indiana molto legati alle loro origini e tradizioni per i quali cinque o sei anni di scolarizzazione non bastano a farli sentire italiani. Vi sono delle eccezioni ovviamente, ragazzi e ragazze integrati e aperti, desiderosi sul serio di condividere i nostri valori e la nostra Storia, determinati a farsi una istruzione e posizione, ma altri non si sentono di appartenere alla cultura italiana o di frequentare italiani fuori dalla scuola. A scuola e fuori si autoghettizzano. Per loro la cittadinanza automatica è un vantaggio legato al Welfeare non a un’esigenza reale. Spesso le loro famiglie diffidenti non li mandano nemmeno in gita e loro dichiarano il desiderio di tornare nei loro paesi d’origine dove sentono di avere le radici. Si sposano solo tra loro, la comunità d’origine li condiziona molto. E poi tanti, dopo cinque dieci anni di permanenza in Italia se ne vanno con i genitori in altri paesi (Francia, G.B.ecc) alla ricerca di maggiori opportunità lavorative. Mi fanno spesso tenerezza perché penso al loro dramma di essere a cavallo sempre tra due realtà e due culture. Ci vuole tempo, deve passare del tempo…forse una generazione perché si sentano italiani. Devo altresì ammettere che ci sono anche tanti italiani gretti e e incivili ai quali revocherei lo ius sanguinis. Comunque sia, lo ius soli concesso in automatico non è corretto, non è giusto nei confronti di chi ha avuto genitori, nonni e bisnonni che si sono sacrificati per rendere questo Paese libero dalle dominazioni, dalla dittatura e uscire dalla povertà del Dopoguerra. La cittadinanza va desiderata e meritata. E questa non è una priorità, per ora, con tutti i problemi che abbiamo in Italia. Ecco questa è una testimonianza non certo di un’estremista ma di una docente equilibrata, che capisce e appena può aiuta i suoi studenti stranieri ma che, pur nella sua evidente umanità, non può negare la realtà, difficilissima, dell’integrazione in Italia. E reclama il rispetto dei valori più profondi e pregnanti della cittadinanza. Come darle torto?
Papa Francesco ordina lo ius soli all'Italia: cittadinanza dalla nascita. Bergoglio vuole anche che agli immigrati siano garantite pensioni e sanità, scrive Dario Martini su "Il Tempo" il 22 Agosto 2017. Papa Francesco entra a gamba tesa nel dibattito politico italiano e lo fa sul tema maggiormente divisivo che monopolizzerà lo scontro tra i partiti alla ripresa dalla pausa estiva: lo ius soli, il diritto di cittadinanza per gli stranieri nati in Italia. Al momento della nascita «va riconosciuta e certificata» la nazionalità e a tutti i bambini «va assicurato l’accesso regolare all’istruzione primaria e secondaria». Un appoggio senza mezzi termini alla proposta di legge del Pd che vede l’opposizione netta del centrodestra, Lega in testa. Non a caso la risposta di Matteo Salvini è la più dura di tutte: «Papa Francesco dice sì allo ius soli. Se lo vuole applicare nel suo Stato, il Vaticano, faccia pure. Ma da cattolico non penso che l’Italia possa accogliere e mantenere tutto il mondo. A Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare. Amen». Il Pontefice si spinge ancora più in là e parla anche dello ius culturae, ovvero il diritto di acquisire la cittadinanza al compimento di almeno un ciclo scolastico. Francesco, a tal proposito, ricorda la convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, che «offre una base giuridica universale per la protezione dei minori migranti. A essi - dice il Papa - occorre evitare ogni forma di detenzione in ragione del loro status migratorio, mentre va assicurato l’accesso regolare all’istruzione primaria e secondaria. Parimenti è necessario garantire la permanenza regolare al compimento della maggiore età e la possibilità di continuare degli studi. Per i minori non accompagnati o separati dalla loro famiglia è importante prevedere programmi di custodia temporanea o affidamento. Nel rispetto del diritto universale a una nazionalità, questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita». L’intervento del Papa, anticipato ieri, è contenuto nel suo messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si celebrerà il 14 gennaio, dal tema "Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati". A scanso di equivoci, Francesco entra pure nel merito delle competenze degli Stati, del tipo di leggi da attuare e dei fini da perseguire. Una presa di posizione che non poteva non scatenare polemiche. «L’apolidia in cui talvolta vengono a trovarsi migranti e rifugiati - spiega il Santo Padre - può essere facilmente evitata attraverso una legislazione sulla cittadinanza conforme ai principi fondamentali del diritto internazionale. Lo status migratorio non dovrebbe limitare l’accesso all’assistenza sanitaria nazionale e ai sistemi pensionistici, come pure al trasferimento dei loro contributi nel caso di rimpatrio». Inoltre, l’integrazione dei migranti dovrebbe avvenire «attraverso l’offerta di cittadinanza slegata da requisiti economici e linguistici e di percorsi di regolarizzazione straordinaria per migranti che possano vantare una lunga permanenza nel paese». A onor del vero, Francesco si pone anche il problema del rimpatrio delle persone che fuggono dai propri Paesi d’origine. E si preoccupa di come farli tornare indietro. Se non è proprio l’«aiutiamoli a casa loro» di Renzi, che scatenò feroci polemiche, poco ci manca: «Mi preme sottolineare - scrive il Papa - il caso speciale degli stranieri costretti ad abbandonare il paese di immigrazione a causa di crisi umanitarie. Queste persone richiedono che venga loro assicurata un’assistenza adeguata per il rimpatrio e programmi di reintegrazione lavorativa in patria». Il Pd, ovviamente, incassa l’endorsement del Pontefice e si schiera compatto al suo fianco, consapevole che avrà un autorevole alleato quando cercherà di far passare la legge in Parlamento. «Non c’è bisogno di dire che il Papa ha ragione - dice il ministro Delrio - Io sono stato il promotore della legge». Mentre il coordinatore della segreteria Dem, Lorenzo Guerini, si scaglia contro il segretario della Lega: «È inaccettabile il tono e il contenuto delle parole di Salvini verso il Santo Padre. In assenza di idee usa le parole come le pietre». I presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, si sono espressi più volte a favore del provvedimento e hanno assicurato un canale preferenziale affinché venga approvato entro la fine della legislatura. Renzi e Gentiloni, anche negli ultimi giorni, hanno ripetuto che sarà la loro priorità, definendola una «conquista di civiltà». Il momento, però, è delicato. Gli attentati di Barcellona non aiutano a creare un clima favorevole. Soprattutto se gli attentati in Europa degli ultimi anni hanno confermato un dato incontrovertibile: i terroristi erano quasi tutti giovani con la cittadinanza in tasca. Come detto, i pareri contrari sono molti. «La cittadinanza italiana è una conquista - dice il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri - Le leggi sull’ottenimento della cittadinanza attualmente in vigore sono sufficienti. Lo ius soli è una legge sbagliata. Ed è da irresponsabili volerla approvare ad ogni costo». Pur senza citare il Papa, ribadisce la propria contrarietà anche il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani: «La questione dello ius soli deve essere affrontata a livello europeo. In Italia io credo sia prematuro affrontare ora la questione perché siamo in campagna elettorale, ci sono temi gravissimi, il terrorismo, l’immigrazione, la disoccupazione giovanile, che sono priorità». Al Papa replica invece il leghista Roberto Calderoli: «Il Santo Padre sbaglia ad invocare l’introduzione nel nostro ordinamento dello ius soli e dello ius culturae che regalerebbe la cittadinanza italiana ad oltre due milioni di immigrati che, peraltro, non la richiedono neppure». La polemica, non è destinata a finire qui.
Il Papa predica bene. E poi razzola male. Dall’immigrazione ai rapporti coi leader sudamericani, scrive Antonio Rapisarda il 24 Agosto 2017 su "Il Tempo". "Chi sono io per giudicare un gay?". È un'espressione-manifesto, questa, di Papa Francesco. Una di quelle – recitate nelle sue ormai celebri "chiacchierate informali", stile quattro amici al bar, con i giornalisti nelle traversate aeree dei viaggi pastorali - che hanno delineato il codice di un personaggio che definire pop è ormai riduttivo: c’è chi parla di vera e propria mondanità, per lo meno riguardo al suo approccio sui temi liberal. Si dirà, se il Papa non giudica i comportamenti e le inclinazioni degli uomini (e delle donne) non giudicherà nemmeno quella degli uomini di Stato. Eh no, qui la la "predica" è pressocché onnipresente. Due esempi su tutti. Donald Trump sceglie di proseguire con la costruzione dei muri anti-immigrati? "Non è un cristiano". I leader che abbracciano il populismo? "Il populismo è cattivo e finisce male". Insomma, la scomunica e l’inferno – per lo meno in terra - sembrano dietro l'angolo sì ma a corrente alternata per Jorge Bergoglio. Inclinazione, questa del "predica bene, razzola male", che alimenta diverse contraddizioni del suo pontificato. Il primo disallineamento percettivo di Bergoglio si registra proprio in casa. Indica- to come guida da coloro che si sono sempre tenuti alla larga dalle tonache – uno su tutti Eugenio Scalfari -, Francesco si ritrova però Piazza San Pietro sempre più vuota ogni domenica che passa e le udienze ben poco frequentate. I numeri ufficiali parlano chiaro: nei primi tre anni del suo pontificato si è passati da un milione e mezzo di partecipanti a poco più di quattrocentomila. Per molti cattolici la cifra comunicativa del pontefice-pastore sta disorientando il gregge. Prendiamo il caso eticamente sensibile delle unioni civili. Sempre tra i cieli, ossia in una delle famose interviste in aereo, il 18 febbraio 2016 ad una domanda sull’aspro dibattito in Italia Bergoglio ha risposto duro: "Io non faccio politica, se la deve sbrigare la Cei". Peccato però che su altri argomenti sensibili, ossia le politiche sull’immigrazione e quelle sulla cittadinanza, l’entrata a piedi uniti nel dibattito sullo ius soli – con un’esortazione "sull’offerta di cittadinanza slegata da requisiti economici e linguistici" - ci sia stata, eccome. Ma come, si chiedono molti credenti, sui principi non negoziabili Bergoglio glissa mentre su questioni non strettamente legate alla fede è sempre molto loquace? Se lo sono chiesto, di certo...
SOCIALISMO ISLAMICO.
Socialismo islamico. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Socialismo islamico è un termine coniato da diversi leader musulmani per descrivere una forma più spirituale di socialismo, simile al marxismo islamico e all'affine socialismo arabo, che coniughi i valori dell'Islam (principale divisione tra loro e i marxisti "puri" dei paesi islamici) con la socialdemocrazia nata in Occidente, il secolarismo e l'uguaglianza e talvolta col nazionalismo arabo e il panarabismo. I socialisti islamici credono che gli insegnamenti del Corano e di Maometto - soprattutto lo zakat, uno dei cinque pilastri dell'Islam - sono compatibili con i principi di uguaglianza economica e sociale. Traggono ispirazione dallo stato sociale ante litteram istituito, secondo loro, da Maometto durante il suo governo a Medina. I socialisti musulmani non sono in genere di tendenza "liberale" come le loro controparti occidentali, anche se ci sono le dovute eccezioni. Come i cristiano-democratici, essi tentano di coniugare la democrazia con i principi culturali di origine religiosa, ma avversano la sharia e la commistione tra religione e potere politico. Molti di essi trovano le loro radici nell'anti-imperialismo. Molti leader socialisti musulmani credono generalmente nella democrazia rappresentativa o diretta e nella derivazione di legittimità da parte del popolo, al contrario dei leader dei partiti religiosi islamici, che proclamano di essere successori di Maometto, spesso sostenendo la democrazia islamica o la teocrazia, rigettata dagli islamosocialisti. Esempi di socialismo islamico sono l'ideologia del Libro Verde di Muammar Gheddafi in Libia, quella di Fatah in Palestina, del partito Baath di Iraq (Saddam Hussein e in seguito gli ex sostenitori del passato regime) e Siria (Hafiz e Bashar al-Assad) e dei Mojahedin del Popolo Iraniano e, in passato, il nasserismo in Egitto, il regime di Ben Ali in Tunisia e il Partito Socialista Rivoluzionario Somalo di Siad Barre.
ISLAM, SOCIALISMO E CAMALEONTISMO. LA PARABOLA DI AL QADDAFI, scrive Lawrence M.F. Sudbury su “In Storia”. Certo il personaggio è di quelli che non lasciano indifferenti: centinaia di capi di stato visitano l’Italia ogni anno, ma solo Muhammar Gheddafi (o meglio, con una traslitterazione dall’arabo un po’ più precisa di quella normalmente utilizzata, Mu’ammar al-Qaddafi) può riuscire a riempire le pagine dei giornali come in occasione della sua ultima visita del mese scorso. D’altra parte, chi altro presentandosi in un paese straniero in visita di stato, si porterebbe dietro una tenda beduina in cui soggiornare, uno stuolo di cavalieri berberi con relativi cavalli e una squadra di amazzoni-guardie del corpo pronte a sacrificare la loro vita per lui? Chi altri chiederebbe di organizzare un incontro con 500 hostess (pagate) da catechizzare sull’Islam, con tanto di regalo di una copia tradotta del Corano? Chi altri, con un tratto diplomatico a dir poco “inusuale”, non solo non si periterebbe di chiedere cinque miliardi all’Unione Europea per bloccare l’emigrazione clandestina che investe il nostro continente a partire dal suo paese, ma arriverebbe addirittura ad affermare che, in pratica, risulta inevitabile che a breve l’intera Europa si convertirà alla religione del Profeta? Anche dal punto di vista politico, le reazioni provocate dal “colonnello” (per autonomina, visto che il suo ultimo grado nell’esercito libico è stato capitano) sono state a dir poco diseguali: se da una parte si vantano rapporti privilegiati con lui e si considerano tali rapporti come una chiave per uno sviluppo commerciale in tutta l’Africa, dall’altra si è sollevato un coro piuttosto “bipartisan” contro l’idea di essersi piegati alle sue “stranezze” e di aver fatto dell’Italia un palcoscenico per i suoi proclami. Questioni di schieramenti interni e di alleanze politiche, certo, che, ovviamente, risultano contingenti: ben più interessante, allora, risulta cercare di capire chi sia quest’uomo odiato o idolatrato che, al di là delle sue eccentricità, a lungo è stato in grado, come vedremo, di tener testa alla più grande potenza militare del pianeta e ancor oggi non si perita, come nel caso del recentissimo braccio di ferro con la Svizzera, di rompere relazioni diplomatiche per questioni meramente personali. In realtà, della gioventù di Qaddafi prima della sua presa di potere in Libia (avvenuta a soli 27 anni), si sa ben poco, sia per la difficoltà di reperire dati storici all’interno dei clan bedu da cui la sua famiglia proviene, sia per uno stretto riserbo che l’ex ufficiale ha, stranamente visto le sue predisposizioni all’esternazione e all’autoincensamento, sempre dimostrato e che ha fatto nascere una ridda di pettegolezzi sulle sue origine, da quello relativo all’essere figlio illegittimo di un ufficiale corso dell’aeronautica della Francia libera di stanza in Libia durante la II Guerra Mondiale a quello riguardante una sua discendenza ebraica, come figlio di una ebrea convertita scacciata dalla sua famiglia per aver sposato un musulmano: nessuna delle ipotesi è, però, stata provata, anche se, almeno parzialmente, la prima potrebbe spiegare la lunga ostilità con l’occidente e la seconda il rapporto difficile con la “razza ebraica” che lo ha portato, subito dopo la “rivoluzione”, a scacciare tutti gli ebrei da Cirenaica e Tripolitania. Di certo, comunque, il rapporto altalenante e a lungo apertamente ostile nei confronti dell’Italia deriva dall’essere nato presso Sirte, nell’allora provincia coloniale fascista di Misurata e dall’essere rimasto ferito a sei anni dallo scoppio di una bomba italiana inesplosa che provocò la morte di due suoi cugini: sia quest’ultimo episodio che l’odio instillatogli dal suo clan per l’occupazione italiana sono stati riferiti, nel corso di varie interviste, dal diretto interessato. Dopo aver frequentato, dai quattordici ai diciannove anni, la scuola coranica di Sirte, nella quale si distinse per quell’incrollabile fede islamica che, a quanto pare, sembra ancora animarlo, Qaddafi, nella migliore tradizione bedu, entrò nell’Accademia Militare di Bengasi, al termina della quale e dopo un breve soggiorno di specializzazione in Gran Bretagna, ebbe, nel 1968, la sua prima (e unica) nomina come capitano di una unità militare nella sua regione natale. Già ai tempi della scuola coranica, il neo-ufficiale era entrato in contatto con le idee nazionaliste e relative ad una “via araba al socialismo” del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, rimanendone molto colpito, ma era stato nel periodo dell’Accademia che il giovane Qaddafi aveva sviluppato, proprio a partire dalle idee nasseriane che aveva fatte proprie, una profonda ostilità per il governo di re Idris, che, come molti altri militari e comuni cittadini, riteneva corrotto, infiltrato da elementi sionisti e prono ai voleri neo-coloniali occidentali. Per comprendere quanto ci potesse essere di sensato in simili opinioni, è necessario dare una rapida scorsa a quanto era accaduto nel paese al termine della II Guerra Mondiale. Il 21 novembre 1949 l’Assemblea generale dell’ONU aveva approvato una risoluzione in cui si affermava che la Libia dovesse diventare una nazione indipendente (dopo essere stata parte dell’Impero turco per poi divenire colonia italiana) prima del 1 gennaio 1952. I negoziati all’O.N.U., in rappresentanza del popolo libico, erano state affidati dai vari clan dominanti a Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi, una guida sufi già emiro della Cirenaica e della Tripolitania e strenuo sostenitore (con l’appoggio della Gran Bretagna) dell’indipendenza dal Regno d’Italia, e, quindi, quando la Libia, il 24 dicembre 1951, divenne il primo stato a raggiungere l’indipendenza attraverso le Nazioni Unite, sembrò naturale a tutti che il paese si trasformasse, come sancito dalla costituzione varata nell’ottobre 1951, in una monarchia costituzionale federale guidata proprio da re Idris I, i cui poteri risultavano notevolmente ampi. I problemi derivanti da tale eccessiva concentrazione di potere nelle mani reali non tardarono a farsi sentire già subito dopo le prime elezioni generali del febbraio 1952, quando i partiti politici furono aboliti, il governo federale entrò in conflitto con quelli locali della federazione nel tentativo di accentrare la politica nazionale e re Idris incominciò ad attuare una politica assolutistica. Tutti questi elementi, rientrando nel normale assetto governativo nord-africano, avrebbero potuto essere tranquillamente assorbiti dalla popolazione, se non fosse stato per la volontà del re di mantenere i suoi contatti con l’occidente che lo portò a stipulare, nel 1953, un trattato ventennale di amicizia e alleanza con la Gran Bretagna in base al quale quest’ultima avrebbe avuto basi militari in territorio libico in cambio di aiuti finanziari e militari e, l’anno successivo, un accordo con gli Stati Uniti, a cui si prometteva il diritto di costruire basi militari e un poligono aereo nel deserto (la Wheelus Air Base) in cambio di sovvenzioni economiche. Nello stesso periodo, la Libia strinse legami segreti con Francia, Italia, Grecia e Turchia, che offrirono programmi di aiuto tecnico e sociale, ottenendone in cambio mano libera nel gestire l’economia del nuovo stato. Ciò portò certamente ad un miglioramento del bilancio statale, ma il ritmo di crescita fu lento e la Libia rimase a lungo un paese povero e sottosviluppato fortemente dipendente dagli aiuti stranieri. La situazione cambiò improvvisamente e drammaticamente nel giugno del 1959, quando i prospettori della Esso confermarono la presenza di grandi giacimenti petroliferi a Zaltan in Cirenaica e di numerosi altri pozzi sparsi nella regione: lo sfruttamento commerciale dell’estrazione del greggio venne rapidamente sviluppato dai proprietari delle concessioni, con un ritorno del 50% dei profitti globali che, sotto forma di tasse, andava alla Libia, rendendola una nazione indipendente, ricca e con ampie potenzialità di sviluppo. Su questa base, nel 1963 venne lanciato da governo un piano quinquennale che, però, cercando di favorire in ogni modo lo sviluppo di investimenti stranieri in campo industriale, non solo deprimeva nettamente il settore agricolo, principale fonte di sostentamento di gran parte della popolazione, ma aboliva anche l’assetto federale a favore della centralizzazione e manteneva la Libia, pur parte integrante della Lega Araba e co-fondatrice dell’Organizzazione per l’Unità Africana, ai margini del mondo arabo, come chiaramente dimostrato dal basso profilo tenuto dal paese nel conflitto arabo-israeliano. Con questi presupposti legati al neo-colonialismo e fortemente opposti al trend nasseriano allora in pieno sviluppo, era ovvio che il governo di re Idris non suscitasse nessuna simpatia sia nelle masse che, tantomeno, in un esercito imbevuto di idee provenienti dal vicino Egitto. A farsi portavoce del malcontento fu un gruppo di ufficiali intermedi, guidato proprio da Qaddafi, che, approfittando dell’assenza del re, in Grecia per trattamenti medici, il 26 agosto 1969 organizzò un colpo di stato incruento che portò, il 1 settembre, alla dichiarazione di deposizione di Idris, all’arresto dell’erede al trono, principe Sayyid Hasan ar-Rida al-Mahdi as-Sanussi (a cui venne poi riservato, con la sua famiglia, un trattamento terribile, con anni di arresti domiciliari, confisca di tutti i beni e, infine, con l’assegnazione come abitazione di tre cabine presso i bagni pubblici di una spiaggia di Tripoli, cosa che gli provocò un ictus paralizzante a 60 anni e la conseguente morte due anni dopo) e alla proclamazione della “repubblica araba”. Il paese venne posto sotto il governo di un Consiglio di Comando della Rivoluzione, formato da 12 militari di tendenze panarabe presieduti dal giovane capitano Qaddafi, che subito salì al grado di colonnello. Pochi mesi dopo, accentrando sempre più il potere nelle sue mani, egli assunse anche il titolo di primo ministro, che, però, abbandonò nel 1972, mantenendo, comunque, il ruolo di comandante supremo dell’esercito. In brevissimo tempo Qaddafi si impose nettamente sulla giunta, diventando di fatto dittatore assoluto della “Jamahiryya” (neologismo coniato nel 1977 dal colonnello per indicare il “governo delle masse”) Islamica e sviluppando un regime basato su una miscela molto particolare di nazionalismo arabo, stato sociale e (pseudo-)democrazia popolare definita “Socialismo Islamico”. Nella pratica, si doveva trattare di una sorta di “terza via” tra comunismo e capitalismo, con l’unione dei principi del panarabismo con quelli della socialdemocrazia cosi come in seguito esposto in quel “Libretto Verde” che, pubblicato in tre volumi tra 1975 e 1979, sul calco del “Libretto Rosso” di Mao doveva essere il testo di riferimento per comprendere l’ideologia del nuovo stato. Nella realtà dei fatti, comunque, non tutto andò nella direzione di quel “paradiso dei cittadini arabi” che Qaddafi aveva preconizzato: se è vero che vi fu un innalzamento del salario minimo dei lavoratori, una loro partecipazione alla gestione delle aziende e, soprattutto grazie ai maggiori introiti petroliferi, dal 1977 in poi, una notevole campagna di lavori pubblici con la costruzione di strade, ospedali e acquedotti, è altrettanto vero che il nuovo regime si presentò immediatamente come repressivo nei confronti di ogni libertà individuale, con una adozione strettissima della Sha’aria islamica (con eliminazione dell’alcol da tutto il paese, chiusura di ogni locale notturno e norme morali rigidissime) e con l’eliminazione fisica di ogni voce dissidente, sia all’interno che all’esterno del territorio libico, fino all’editto del 26 aprile 1980 in cui si ordinava il rientro di ogni oppositore politico in Libia per essere giudicato da un tribunale rivoluzionario o, in caso di disobbedienza, la condanna a morte in contumacia per qualunque libico osasse criticare il nuovo assetto statale (e, infatti, nove oppositori della dittatura vennero assassinati in Europa, cinque dei quali in Italia). Nella pratica, dunque, il governo libico si caratterizzava e continua a caratterizzarsi come una sorta di autocrazia populista, in cui si fa grande ostentazione di termini quali “emancipazione popolare” o “educazione delle masse”, si vanta l’unicità dell’idea (anch’essa sviluppata nel “Libretto Verde”) di una piccola azienda privata e di una grande azienda nazionalizzata e si dà enorme risalto a elementi propagandistici, come quelli che, per un presunto taglio alle spese pubbliche (in realtà per ragioni di sicurezza), da sempre portano Qaddafi a dormire in tende beduine (per altro lussuosissime) o che lo hanno portato, nel corso del tempo, ad abbandonare, in nome di una “alternanza democratica”, tutti i suoi incarichi (pur rimanendo, come “Guida della Rivoluzione” padrone assoluto della vita e della morte di ogni libico e centro unico decisionale di tutto il paese), ma in cui viene negato ogni forma di diritto democratico. Al di là della continua negazione della libertà dei suoi connazionali, Qaddafi sì è, soprattutto, reso protagonista, fin dalla rivoluzione, di incredibili violazioni del diritto internazionale. Già dal 1969 il colonnello nazionalizzò tutte le proprietà petrolifere straniere (nonostante contratti legalmente sottoscritti dal governo precedente) e tutte le basi militari anglo-americane (espropriate con il materiale bellico in esse contenuto) e, il 15 ottobre 1970, con un atto a dir poco proditorio, al fine di “restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori”, espulse tutti i 20.000 italiani presenti nella ex-colonia, privandoli di ogni avere (inclusi i contributi INPS versati, trattenuti come presunto “danni di guerra”). Sempre in quel periodo, alla ricerca di una unita pan-africana, il dittatore non si peritò di sostenere regimi folli come quelli di Amin in Uganda e di Bokassa nella Repubblica Centroafricana e di propugnare la nascita di una fantomatica entità politica che avrebbe dovuto denominarsi Stati Uniti d’Africa e che, naturalmente, non vide mai la luce. Fu, però, negli anni ‘80 che la politica anti-occidentale libica raggiunse il suo culmine: Qaddafi divenne un aperto sostenitore di gruppi terroristici come l’IRA, l’ETA e Settembre Nero (fornendo finanziamenti, materiale bellico e addestramento militare), si rese responsabile di attentati (la cui paternità, a dire il vero, non fu mai provata essere libica, sebbene i sospetti fossero fortissimi) in Italia, Gran Bretagna e Francia e arrivò a lanciare un missile contro la Sicilia per questioni di violazioni di acque territoriali. Questo atteggiamento rese a poco a poco la Libia il nemico numero uno dell’occidente e le tensioni raggiunsero il loro apice quando Reagan venne eletto presidente degli Stati Uniti: l’amministrazione Reagan vedeva la Libia come uno “stato canaglia belligerante” a causa del suo atteggiamento intransigente in materia di indipendenza palestinese, del suo sostegno all’Iran nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein (1980-1988), e dei suoi aiuti ai “movimenti di liberazione” di tutti gli stati in via di sviluppo, tanto che il presidente arrivò a soprannominare Qaddafi il “cane pazzo del Medio Oriente” e a vietare l’importazione di petrolio libico nei cinquanta stati federali e l’esportazione di tecnologia statunitense nella Jamahiryya. Inizialmente gli stati europei non seguirono gli USA in queste decisioni, ma, nel 1984, quando la funzionaria di polizia britannica Yvonne Fletcher, in servizio di sorveglianza durante una manifestazione di protesta davanti all’ambasciata libica di Londra, venne uccisa da un colpo di arma da fuoco esploso dall’interno dell’ambasciata stessa (i responsabili, avvalendosi dell’immunità diplomatica, non furono mai assicurati alla giustizia), si ebbe la rottura delle relazioni diplomatiche tra Libia e Regno Unito (relazioni riprese solo oltre dieci anni più tardi). Infine, dopo alcuni attacchi americani a motovedette libiche che rivendicavano acque territoriali all’imboccatura del Golfo della Sirte nel gennaio-marzo 1986 (le rivendicazioni territoriali non erano nuove al colonnello, come prova la ventennale guerra di confine con il Chad), il 15 aprile 1986 Reagan ordinò la cosiddetta “Operazione Eldorado”, consistente in un bombardamento di obiettivi sensibili a Tripoli e Bengasi che provocò la morte di 45 militari e di 15 civili, tra cui una figlia adottiva di Qaddafi (che, a quanto pare dalle ultime versioni in circolazione, si salvò solo grazie all’avvertimento preventivo dell’allora premier italiano Bettino Craxi, in completo disaccordo con l’iniziativa americana). Arriviamo così al 21 dicembre 1988, quando un aereo della Pan Am esplose sopra la cittadina scozzese di Lockerbie, provocando la morte delle 259 persone a bordo e di 11 cittadini della località britannica. Subito le indagini si concentrarono su due cittadini libici, la cui responsabilità nell’attentato risultava così evidente da indurre l’ONU a chiedere al governo di Tripoli l’arresto dei due sospettati e la loro estradizione in Scozia. Al rifiuto di Qaddafi, le Nazioni Unite votarono la Risoluzione 748, che sanciva durissime sanzioni commerciali contro lo stato nordafricano, che, da parte sua, stava già vivendo una discreta contrazione economica. Per la maggior parte degli anni ‘90 la Libia visse, dunque, in una situazione di embargo e di isolamento diplomatico. Solo per intercessione del presidente sudafricano Nelson Mandela, in visita ufficiale da Qaddafi nel 1997, e del Segretario generale dell’ONU Kofi Annan, si riuscì, nel 1999, ad ottenere una soluzione compromissoria tale per cui gli imputati vennero consegnati per essere processati presso la Corte Internazionale dell’Aja in cambio della sospensione delle sanzioni internazionali (sebbene quelle statunitensi rimanessero in vigore). La vicenda giunse, comunque, finalmente a conclusione solo nel 2003, quando, due anni dopo la condanna di uno dei due imputati, la Libia, in una lettera alle Nazioni Unite, accettò di assumersi formalmente “la responsabilità delle azioni dei suoi funzionari” per quanto riguardava l’attentato e di pagare un risarcimento fino a 2,7 miliardi di euro o fino a 10 milioni di dollari ciascuno alle famiglie delle 270 vittime. Venti giorni dopo, Gran Bretagna e Bulgaria co-sponsorizzarono una risoluzione ONU, che aboliva le sanzioni sospese. La missiva di Qaddafi all’ONU segnava, in qualche modo, una importante inversione di rotta nella politica del colonnello, che da quel momento in poi sembrò fare di tutto per “sdoganarsi” nei confronti dell’occidente. In questo senso, alcuni passi risultarono fondamentali:
- già dal 1999, cioè in epoca ben precedente l’attacco dell’11 settembre, la Libia si impegnò a combattere Al Qaeda e a permettere libero accesso agli ispettori internazionali per controllare i propri depositi di armamenti (cosa mai avvenuta semplicemente perché la Libia non era già più ritenuta un pericolo dall’amministrazione Bush);
- dopo l’11 settembre 2001, Qaddafi stigmatizzò duramente l’attentato alle Torri Gemelle e apparve sulla emittente ABC in una intervista concessa a George Stephanopulos;
- dopo la caduta di Saddam Hussein, nel 2003, il leader della Jamahiryya rinnovò l’invito agli osservatori internazionali di controllare il suo programma militare e si dichiarò disposto a distruggere ogni arma di distruzione di massa in suo possesso. Sebbene l’amministrazione Bush abbia parlato di un atto dovuto alla paura di possibili ritorsioni, appare più verosimile che tali azioni rientrassero pienamente nel tentativo del colonnello di rilegittimarsi agli occhi dell’occidente (e, infatti, tre anni dopo la Francia concluse un accordo con la Libia per sviluppare un programma nucleare congiunto a scopi pacifici);
- nel marzo 2004 il premier britannico Tony Blair incontrò pubblicamente Qaddafi in una visita ufficiale a Tripoli e ne elogiò pubblicamente le nuove propensioni a fungere da ponte tra occidente e mondo arabo;
- il 15 maggio 2006 il Dipartimento di Stato americano ripristinò piene relazioni diplomatiche con la Libia, che venne rimossa dalla “lista nera” degli stati fiancheggiatori del terrorismo (evidentemente non tenendo conto del “terrorismo interno”, visto che, poco più di tre mesi dopo, Qaddafi invitò tutti i cittadini libici ad uccidere ogni oppositore del regime ...);
- nel luglio 2007 il presidente francese Sarkozy, in visita ufficiale in Libia, sottoscrisse una serie di accordi commerciali bilaterali con Qaddafi e alcuni accordi multilaterali che riguardavano tutta l’Unione Europea;
- nel settembre 2008 il segretario di stato americano Condoleezza Rice fu la prima “ministra degli esteri” americana a compiere una visita ufficiale in Libia dal 1953;
- il 23 settembre 2009 vide la prima apparizione, non priva di manifestazioni di protesta di sostenitori dei diritti umani, di Qaddafi all’Assemblea Generale delle nazioni Unite, presso la quale, per altro, il colonnello tenne un duro discorso di accusa contro la politica del Consiglio di Sicurezza, che definì “di feudalesimo della paura”.
Quale è stato il ruolo dell’Italia in questa curiosa parabola politica internazionale del colonnello?
Certamente uno dei ruoli più particolari tra quelli dei paesi europei, che ha visto lo sviluppo di relazioni italo-libiche a dir poco ondivaghe, fluttuanti tra l’aperta ostilità e la creazione di partnership privilegiate. Al momento del colpo di stato che depone Idris, infatti, Qaddafi sfrutta il passato coloniale italiano per crearsi un “nemico esterno” contro cui coalizzare la popolazione del suo paese: da qui le varie mosse propagandistiche quali la confisca dei beni italiani, l’istituzione del “giorno della vendetta” per ricordare la “cacciata dell’invasore” e, soprattutto, il lungo contenzioso sui danni di guerra, richiesti allo Stato italiano come risarcimento per aver il governo fascista trascinato la Libia (sua colonia) in guerra. Dal punto di vista del diritto internazionale, quest’ultima richiesta è, di per sé, risibile, essendo stata la Libia, tra il 1940 e il 1945, internazionalmente riconosciuta come parte integrante del Regno d’Italia, ma, sia per questioni relative agli interessi petroliferi italiani in territorio libico, sia per questioni geo-politiche legate ai flussi migratori e ai rapporti di vicinato sul Mediterraneo, non può essere certamente trattata alla leggera. In realtà, un “risarcimento”, in qualche modo, c’è stato già dai tempi della “rivoluzione verde”: con la confisca dei beni dei ventimila italiani espulsi nel 1970, infatti, lo stato libico ha incamerato circa 400 miliardi di lire dell’epoca, pari, all’incirca, a 310 miliardi di euro attuali, che non sono mai stati neppure menzionati all’interno dell’accordo Dini-Mountasser del luglio 1998, che avrebbe dovuto chiudere una volta per tutte il contenzioso tra Italia e Libia in materia. A questa cifra va aggiunta quella dei crediti vantati da oltre 100 aziende italiane tra anni ‘80 e 2000 e mai saldati, per varie motivazioni, da alcuni enti libici: tali crediti, che ammontano a oltre 620 milioni di euro, sono stati calcolati nel 2004 dal governo libico come elementi per un rimborso forfettario molto inferiore al valore reale e, al rifiuto dei debitori di accettare la proposta, come cifre da ricalcolare singolarmente, credito per credito (ricalcolo mai avvenuto nella pratica). Nonostante tutto ciò, il menzionato accordo Dini-Mountasser, sancito dal Comunicato Congiunto firmato il 4 luglio 1998, è chiaramente fortemente sbilanciato a favore della Libia, prevedendo un esborso (in realtà non chiaramente quantificato e mai ratificato dal parlamento) dell’Erario italiano a favore della Jamahiryya, risarcimenti ai libici danneggiati dalla guerra e aiuti per lo sminamento dei residui bellici, oltre che la creazione di una società mista pubblica e privata di cooperazione economica tra Italia e Libia. Visto che l’attuazione delle direttive del Comunicato procedeva a rilento, nel 2001, anche se non soprattutto per evitare il continuo ripetersi delle minacce libiche di ritorsione, in alcuni casi accompagnate dal sequestro di imprenditori italiani operanti nel paese nordafricano, l’Italia decide di compiere il “Grande Gesto”, consistente nella costruzione a Tripoli, con capitali a fondo perduto, di un ospedale oncologico supervisionato da specialisti italiani e di un’autostrada sulla costa libica tra Tunisia ed Egitto per un costo complessivo valutato tra 1,5 e 6 miliardi di Euro. Anche questa risoluzione finisce nel nulla (al di là di progetti più o meno ambiziosi), non essendo l’Italia in grado di sostenere l’esborso economico richiesto. Tra 2004 e 2008 i rapporti tra i due paesi si trascinano con alterne vicende, tra una visita a Tripoli del premier Berlusconi nel 2004 (con il colonnello Qaddafi che decide di rinominare il “giorno della vendetta” in “giorno dell’amicizia italo-libica”, sebbene negli anni successivi i giornali libici continuino a utilizzare il primo appellativo), la devastazione del Consolato Generale d’Italia a Bengasi e un proclama anti-italiano del leader libico a Sirte nel 2006 e convegni di riconciliazione organizzati dal premier Prodi nel 2007. Poi, nel 2008, avviene la svolta: il 30 agosto Berlusconi e Qaddafi firmano, a Bengasi, il cosiddetto trattato di Amicizia e Cooperazione.
E tutto si può dire fuorché esso sia minimamente svantaggioso per la Jamahiryya, prevedendo, nelle sue tre parti:
a) il risarcimento per le vicende coloniali attraverso la costruzione di un’autostrada di duemila chilometri lungo la costa libica, con una spesa totale 3,5 miliardi di euro, bilanciata in modo solo parziale dalla chiusura del contenzioso con le ditte italiane danneggiate dalle decisioni libiche prese nel 1970 (valore stimato di 600 milioni);
b) l’impegno da parte dell’Italia a realizzare infrastrutture in Libia per un valore di 5 miliardi di dollari tramite esborso di 250 milioni di dollari all’anno per 20 anni, con fondi reperiti tramite addizionale IRES a carico delle aziende petrolifere e gestiti direttamente dall’Italia tramite commesse a ditte italiane;
c) lo sviluppo di iniziative speciali a carico dell’Italia quali borse di studio e un programma di riabilitazione per i feriti dallo scoppio di mine.
In cambio, la Libia prenderà misure per combattere l’immigrazione clandestina dalle sue coste, e favorirà gli investimenti nelle aziende italiane, in particolare dell’ENI, operante nel deserto libico dagli anni ‘50. A seguito della risoluzione definitiva della questione, nel giugno 2009 Gheddafi ha compiuto la sua prima visita ufficiale a Roma, recandosi in Campidoglio, all’università La Sapienza (dove è stato duramente contestato), alla sede di Confindustria e incontrando le massime cariche italiane, arrivando costantemente in ritardo agli appuntamenti e sempre mostrando, appuntata sulla sua divisa militare una foto dell’eroe della resistenza libica anti-italiana Omar al-Mukhtar. Insomma, a quanto, pare questo nuovo corso della politica di Qaddafi potrà certamente essere positivo per la pace mediorientale, per la cooperazione mediterranea e, in prospettiva, forse anche per l’industria europea in generale e italiana in particolare, ma, fino ad ora, non sembra essere stata un grande affare per l’Italia, né dal punto di vista finanziario né, soprattutto, ieri come oggi, dal punto di vista del prestigio e dell’orgoglio nazionale.
ATTENTATO A BARCELLONA. DA KARL MARX A MAOMETTO.
Una cosa che saltava agli occhi di questo “Osservatorio sul martirio dei cristiani”; è quello che, sia gli islamici che i comunisti, ancora oggi uccidono i cristiani! Sono forse attualmente coalizzati per dare il colpo di grazia alla civiltà cristiana? “El islamismo, relevo del comunismo” – vignetta pubblicata su El Pais, nel 1992.
Articolo tratto da Tradizione Famiglia Proprietà Anno 7, n. 34 set. Nov. 2001. Pensatori socialcomunisti vanno da tempo affermando che il fondamentalismo islamico è succeduto al marxismo come motore della lotta di classe.
La nuova lotta di classe. Tramonto della minaccia sovietica. Prima del 1990, gli occidentali erano abituati a considerare il comunismo come un'ombra colossale incombente sui rapporti internazionali e sulla vita interna di ogni paese. Sul panorama mondiale aleggiava la costante minaccia di un'aggressione sovietica, che facilmente avrebbe potuto degenerare in guerra nucleare. Un'abile propaganda sfruttava questa situazione, incutendo negli occidentali il panico di una tale ecatombe, mentre sussurrava che l'unico modo di evitarla sarebbe stata una politica di concessioni. In tal modo si rafforzava ulteriormente le possibilità dell'URSS di esercitare una pressione psicologica per mezzo del ricatto nucleare. All'interno di ogni paese c'era poi la costante pressione della propaganda marxista, promossa dai partiti comunisti locali comandati da Mosca. C'era perfino la possibilità che un trionfo elettorale dei comunisti collocasse ipso facto il paese nell'orbita del Cremlino, per non parlare dei movimenti guerriglieri e terroristici spalleggiati da Mosca. Per questi ed altri motivi, la minaccia comunista occupava un posto fondamentale nel panorama mentale dell'uomo moderno. A un dato momento, questa minaccia è svanita. Il Muro di Berlino è stato abbattuto ed è finita la "guerra fredda" fra la NATO ed il Patto di Varsavia. Uno ad uno quasi tutti i vecchi governi comunisti hanno ceduto, sostituiti da regimi più o meno democratici che dicevano di voler attuare riforme di stampo liberista. Le due Germanie si sono unificate sotto l'egida di quella occidentale. L'URSS si è sgretolata. Il PCUS, punta di lancia della rivoluzione mondiale, ha votato la sua "autodissoluzione" ed ha adottato un altro nome. Come obbedendo ad un ordine preciso, i partiti comunisti occidentali hanno seguito le orme del loro padrone, rinnegando il passato marxista e cambiando a loro volta di nome. Così, nonostante la precaria sopravvivenza di "dinosauri" come Fidel Castro, nel breve spazio di due anni, il mostro che aveva tenuto il mondo col fiato sospeso per più di mezzo secolo, sembrò svanire nel nulla.
La spaventosa miseria del comunismo. Il problema del comunismo, come ogni problema sociopolitico, aveva un aspetto dottrinale ed uno pratico. Si trattava non solo di sapere se l'insieme di dottrine conosciute come marxismoleninismo fosse valido o meno a livello teorico, ma anche di sapere se la loro applicazione avesse ottenuto risultati soddisfacenti. Se il comunismo fosse stata la panacea pretesa dai suoi alfieri, come spiegarne l'eventuale fallimento concreto? Gli occidentali avevano appena una vaga idea della miseria causata dal comunismo in Russia. Abbattuta la "Cortina di ferro", si è invece rivelato agli occhi di tutti il clamoroso fallimento dell'esperienza sovietica. Per la prima volta il mondo ha potuto constatare la spaventosa eredità del comunismo: una situazione di miseria e di oppressione quale il mondo non aveva mai visto, e che il Cardinale Ratzinger ha giustamente qualificato come "la vergogna del nostro tempo". Questa constatazione ebbe un immediato riscontro in campo ideologico: apparve chiaro al buon senso dell'opinione pubblica che l'utopia comunista era irrealizzabile. Di fronte al clamoroso fallimento del socialismo reale, come potevano mai i comunisti continuare a difendere le loro dottrine? Così alla disfatta politica si aggiunse pure quella ideologica, scatenando all'interno dei vari PC una crisi d'identità non ancora risolta.
La morte delle ideologie. Questa duplice disfatta delle correnti comuniste si situa all'interno d'un panorama più ampio: la "morte delle ideologie". Da tempo dilaga nello spirito dell'uomo occidentale un tremendo indifferentismo morale, provocato dall'erosione del principio di non contraddizione, principio fondamentale e supremo del pensiero umano. Si parla perfino del tramonto dell'uso di ragione. Si diffonde un nuovo tipo umano incapace di interessarsi a ciò che oltrepassa il suo campo individuale, incapace quindi di emettere un giudizio profondo sugli avvenimenti, ridotto a un coacervo di emozioni, di umori e di reazioni istintive. Questo tipo umano presenta un grave problema anche per la sinistra, che si ritrova di colpo impossibilitata a mobilitare come prima le masse per le sue cause rivoluzionarie. Morto il comunismo come ideologia e distrutta la sua base operativa, come articolare un nuovo movimento rivoluzionario internazionale, tenendo conto anche di questa atonia ideologica? Occorreva ricostituire un certo quadro generale di fronte al quale le persone potessero essere sollecitate a schierarsi e scendere in campo.
Ritorna la lotta di classe? Un primo tassello della risposta è quello che si potrebbe definire il riciclaggio della lotta di classe. Secondo il marxismo, la società moderna era divisa fra i proprietari dei mezzi di produzione (i borghesi) e quelli che ne erano privi (i proletari), costretti perciò a vendere il loro lavoro ai primi. Da questa divisione scaturiva necessariamente un antagonismo, la lotta di classe, ritenuta il motore del processo rivoluzionario. Secondo questo mito, i borghesi sarebbero diventati sempre più ricchi e i proletari sempre più poveri. Pari passo, l'antagonismo si sarebbe fatto sempre più aspro fino all'esplosione finale, culminando nella rovina dell'ordine borghese e nell'instaurazione della dittatura del proletariato. La storia si è successivamente incaricata di sfatare questo mito. Nell'Occidente capitalista il proletariato ha migliorato la sua situazione economica fino a diventare in pratica un'agiata classe media; nel mondo socialista, invece, il capitalismo di Stato non ha prodotto altro che miseria e oppressione. Lungi dall’ammettere il fallimento di questo mito, i rivoluzionari lo hanno sostituito con un altro: una nuova tensione, più profonda, fra Sud (paesi poveri) e Nord (paesi ricchi) al posto della tensione Est-Ovest. All'antico antagonismo fra proletariato e borghesia a livello nazionale, e fra mondo comunista e mondo libero a livello internazionale, è subentrato questo nuovo antagonismo. Da questa prospettiva sparisce, almeno apparentemente, qualsiasi connotazione ideologica. Si tratta, dicono, d'una situazione di fatto: alcuni paesi sono poveri, altri sono ricchi. I primi producono materie prime a basso prezzo; i secondi le acquistano e le trasformano in prodotti industriali che poi vendono a prezzi maggiorati. Si stabilisce così un circolo vizioso per il quale i poveri diventano sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi. Questa crescente tensione sfocerà nello scontro fra i due mondi, dal quale uscirà vincente il Sud. Si instaurerà un ordine economico internazionale più "giusto", dove le ricchezze saranno ridistribuite e finalmente regnerà l'uguaglianza. Nel frattempo, i poveri avranno avuto diritto a partecipare direttamente all'abbondanza dei ricchi, trasferendosi nei loro paesi. Ed ecco la giustizia intrinseca che ci sarebbe negli enormi flussi migratori degli ultimi tempi. L'insediamento di queste masse umane, non più assimilabili dalla cultura locale come una volta, crea delle vere e proprie colonie del Sud nelle cittadelle del Nord. Queste colonie tenderanno solo a crescere, visto il loro alto tasso demografico. Oltre a destabilizzare la vita interna dei paesi ospitanti, a giudizio degli alfieri di questa nuova visione, queste colonie potrebbero eventualmente fornire masse di manovra per moti rivoluzionari. In casi estremi, alcuni paesi del Nord potrebbero perfino perdere la loro identità culturale e storica. Questa prospettiva offre alla sinistra un valido pretesto per mobilitare i suoi militanti e reclutare compagni di viaggio. L'intensa carica sentimentale dell'obiettivo, alimentata dalle agghiaccianti fotografie di squallide favelas, scheletrici bambini africani e via dicendo, permette alla sinistra di risparmiarsi la seccatura della persuasione ideologica, rivolgendosi direttamente al cuore delle persone.
Un'ideologia innominabile. Gli alfieri di questa nuova prospettiva dichiarano che in essa non c'è nulla di ideologico, e dunque niente di programmato, in quanto non sarebbe altro che il risultato di una situazione di fatto: lo squilibrio economico mondiale. Per cominciare, questa analisi ci sembra troppo semplicistica. Essa non prende in considerazione i motivi della povertà dei paesi del Sud. Molti di questi paesi, ricchi di risorse naturali, sono poveri per via della disastrosa applicazione di programmi di stampo statalista. Perché non se ne fa mai menzione?
Forse perché in tal modo si aprirebbe lo spiraglio di una possibile soluzione? C'è da augurarsi, infatti, che, abbandonando i disastrosi accentramenti economici e amministrativi e applicando invece le formule che hanno funzionato bene al Nord, questi paesi possano svilupparsi. Ma allora essi non sarebbero più il "Sud", si imborghesirebbero e la sinistra potrebbe rimanere ancora una volta senza massa di manovra...Desta poi meraviglia l'ampiezza del termine "povero". Gli alfieri di questa nuova prospettiva mettono sullo stesso piatto indigenza e povertà. Si tratta, invece, di due situazioni molto diverse. Nel caso di un paese indigente, l'aiuto dei paesi ricchi sarebbe un imperativo di giustizia, giacché il diritto delle popolazioni a vivere in condizioni di dignità prevale sul diritto dei paesi ricchi a godere dell'abbondanza. Ma fin dove deve spingersi l'imperativo, quando si tratta di un paese appena povero? Anzi, cosa vuoi dire povero? Secondo loro, è povero non solo chi ha troppo poco, ma chi ha meno di altri. Solo in questo senso relativo si potrebbe applicare il termine a paesi come Brasile, Argentina o Messico. Ma allora si cominciano a intravedere i lineamenti di una soggiacente ideologia. Essa si può così riassumere: è ingiusto che vi siano paesi ricchi e paesi poveri, così come è ingiusto che vi siano classi ricche e classi povere. In altre parole, è ingiusto che vi siano disuguaglianze. Perciò, al di là dei pretestuosi motivi economici, questa rivoluzione è ispirata al principio dell'egualitarismo — cioè alla stessa essenza del comunismo — che sussiste sentimentalmente nel cuore di milioni di persone. Siamo quindi in presenza di una ideologia innominabile. Ecco quindi delineati i contorni di una autentica rivoluzione mondiale in preparazione, proprio quando il comunismo sembrava morto. Difatti, pochi si accorgono dell'ispirazione neomarxista di questa rivoluzione, giacché il comunismo è stato ufficialmente dichiarato morto... "Si rischia una guerra di classe da fare impallidire il ricordo delle lotte sociali che fin qui hanno punteggiato la storia moderna", ammonisce Eugenio Scalfari.
Il neoproletariato. A questo punto qualche ottimista incallito potrebbe ingenuamente replicare: "Ma non dobbiamo preoccuparci! Cosa possono un pugno di straccioni contro l'immensa potenza economica, politica e, se fosse il caso, anche militare dell'Occidente?" Il nostro ottimista però non prende in considerazione un elemento fondamentale della situazione: l'esistenza di partigiani del Sud nelle roccaforti del Nord. Chi sono costoro?
Risponde Francesco Alberoni: "II neomarxismo rivoluzionario si differenzia da quello precedente perché non fa più riferimento al proletariato, ma alle 'moltitudini', cioè ai poveri, gli emarginati, i dissenzienti di tutto il mondo".
Ed egli passa quindi ad elencarne alcune componenti: "Per ora il popolo di Seattle eterogeneo, vi si esprimono preoccupazioni ecologiche per l'inquinamento, l'effetto serra, i prodotti transgenici, tensioni dovute al mercato globale, richieste di protezionismo, domande dei più poveri, pressioni per l'immigrazione, appelli religiosi all'uguaglianza". Questo popolo è, infatti, eterogeneo. Però, come abbiamo accennato all'inizio, considerato sotto l'angolazione che in seguito illustreremo, vi si può rilevare una profonda coerenza.
L'allargamento del concetto di "oppressione". Pur nella loro ampia varietà, le ideologie rivoluzionarie conservano sempre un nucleo in comune: l'idea d'una "liberazione" da una certa situazione di "oppressione". Nel marxismo l'oppressione era fondamentalmente quella economica esercitata dai borghesi ai danni dei proletari. Le oppressioni politiche e sociali erano considerate "emanazioni" di questa. Ma già dagli anni Trenta pensatori comunisti come Antonio Gramsci e i tedeschi della cosiddetta scuola di Francoforte cominciarono a sviluppare una teoria molto più ampia e sofisticata: l'oppressione culturale. Secondo questa teoria, la borghesia opprime i proletari non solo perché possiede i mezzi di produzione, ma anche perché "fabbrica" la cultura dominante. Senza nemmeno accorgersene, i proletari sarebbero costretti a vivere dentro una cornice culturale modellata dalle classi dirigenti, vale a dire tutto un sistema di valori, di criteri e di modi di essere orientati alla conservazione dello status quo. Così come i borghesi sarebbero i padroni dei corpi dei proletari perché acquistano il loro lavoro manuale, attraverso la cultura sarebbero anche i padroni delle loro menti. La cultura si sarebbe dunque trasformata in un'arma di oppressione molto più profonda e terribile di quella economica, giacché soggiogherebbe lo stesso spirito. Secondo questa prospettiva, la "liberazione" non sarà totale finché il proletariato non ripudierà la cultura dominante. E questo può avvenire solo con un profondo cambiamento di mentalità, e anche di temperamento, nel quale egli espunga da sé la cultura degli oppressori, adottando una "coscienza critica" nei loro confronti, che naturalmente tenderà a sfociare nella ribellione. Ed ecco il germogliare di una galassia di controculture, come quelle dei Centri sociali, dove si formano i militanti della nuova rivoluzione, liberi da condizionamenti culturali borghesi. Qualche anno dopo, teorici rivoluzionari come Wilhelm Reich e Herbert Marcuse hanno cominciato a lanciare l'idea di oppressione morale. Ispirati al freudismo più radicale, questi ideologi affermano che l'uomo ha il diritto di soddisfare ogni suo impulso senza dover subire nessuna coercizione. L'unico limite sarebbe il rispetto per il diritto degli altri. Questa teoria, inizialmente conosciuta come "freudomarxismo", trova nel "vietato vietare" sessantottino la sua formulazione essenziale. Per i freudomarxisti non basta "liberarsi" dalle strutture economiche, politiche, sociali e culturali. C'è un'altra rivoluzione molto più importante da fare, questa sì fondamentale: la distruzione della gerarchia interna nell'uomo, in virtù della quale la Fede illumina la ragione e questa guida la volontà, che a sua volta domina la sensibilità. Questa rivoluzione propugna una radicale liberazione della sensibilità e degli istinti contro gli inferiori freni inibitori imposti da secoli di cultura e di civiltà, che sanciscono il dominio dell'intelligenza e della volontà sulle passioni. Propugna quindi una rivoluzione finalizzata a distruggere le istituzioni che perpetuano socialmente quest'ordine morale, a cominciare dalla famiglia monogamica ed indissolubile, ritenuta l'origine di tutte le nevrosi moderne. Perciò una delle sue principali rivendicazioni è proprio l'illimitata libertà sessuale. Per sua stessa natura, questa esplosione passionale che ne deriva tende a trascinare nel vortice della lotta contro ogni autorità e "repressione" tutte le attività e tutti i rapporti umani: nella famiglia, ne lavoro, nella scuola, nell'economia, nella cultura, nella politica e via dicendo. Più recentemente si, sta facendo strada un'altra idea, ancor più vaga e struggente: quella di una sorta di oppressione psicologica. Secondo questa idea, pur in mezzo alla prosperità materiale, l'uomo contemporaneo è afflitto da un profondo e multiforme malessere. Questo malessere sarebbe da attribuirsi all'ipertecnicismo della società industriale, che ha finito col rompere certi equilibri naturali, producendo un ambiente ostico all'uomo. Insomma, la modernità sarebbe profondamente malata. Sarebbero riconducibili a questa causa lo stress della vita moderna, le paure per i cibi transgenici, il degrado dell'ambiente, le svariate nevrosi che affliggono gli abitanti delle grandi città, e così via. Ed ecco che, per "liberarsi" di questo malessere, dilagano pratiche orientaleggianti, come lo yoga, nonché diverse abitudini alternative alla moderna società occidentale. La propaganda neorivoluzionaria si farà tentare anche dal desiderio di sfruttare gli islamici come nuova categoria discriminata dopo gli attacchi dell'11 settembre, cercando di sommare la loro forza a quella della contestazione anti-occidentale? E questa l'idea soggiacente, per esempio, alla sinistra ambientalista, che nelle sue frange più radicali propone addirittura la fine della civiltà moderna ed il ritorno a forme primitive di vita, in nome di un ritrovato equilibrio mentale ed ecologico.
La rivoluzione totale di un nuovo proletariato multiforme. Sfruttando queste ed altre idee, la neorivoluzione supera gli schemi marxisti, che abbracciavano il campo economico, e quindi quello politico e sociale, per contestare radicalmente e allo stesso tempo tutte le forme di autorità e di coazione legale, morale o psicologica, in ogni campo e in ogni forma.
“l'Occidente nella tenaglia”. Spunta così la rivoluzione totale. Questa rivoluzione, spiega il teorico neomarxista francese Pierre Fougeyrollas, "significa veramente una rivoluzione nella maniera di sentire, agire e pensare, una rivoluzione nelle maniere di vivere (collettivamente ed individualmente), insomma una rivoluzione della civiltà".
Alla "oppressione culturale" si contrapporrebbe una "rivoluzione culturale". Secondo il copione marxista, la Rivoluzione avrebbe dovuto ricevere impulso prevalentemente dai proletari in rivolta contro l'oppressiva società capitalista. Nella neorivoluzione, questo proletariato viene affiancato da una sorta di nuovo, variegato "proletariato" socioculturale, composto da quelle categorie che, indipendentemente della loro situazione economica o sociale, si ritengono in qualche forma discriminate da fattori di un qualunque tipo: morali, culturali, psicologici, razziali, religiosi, ecc. Così le femministe si sentiranno discriminate dalla "cultura maschilista"; gli omosessuali si sentiranno discriminati dalla morale cristiana; gli immigrati dalla "xenofobia"; i drogati dalla legislazione proibizionista; le prostitute dal rifiuto sociale nei loro confronti; le minoranze etniche dal "razzismo"; i libertini si sentiranno oppressi da una società piena di regole; i nudisti dai "preconcetti borghesi" e via dicendo. La propaganda neorivoluzionaria si farà tentare anche dal desiderio di sfruttare gli islamici come nuova categoria discriminata dopo gli attacchi all'America dell'11 settembre 2001, cercando di sommare la loro forza a quella della contestazione anti-occidentale? Secondo il nuovo copione, ogni categoria di emarginati dovrà scrollarsi di dosso i fattori di oppressione che concretamente gravano su di essa, ponendosi alla testa, ognuna nel suo campo, di una lotta liberatrice. Per la naturale sinergia fra tutte queste "liberazioni", avremo quindi la rivoluzione totale di cui sopra. Questo mutamento di Rivoluzione implica anche una trasformazione delle strutture che la promuovono. Nella nuova prospettiva, il Partito comunista, come organizzazione politica, "dogmatica" e rigidamente articolata, viene superato. Le forze della neorivoluzione non si organizzano in partiti politici ma in "reti", ossia in gruppi di pressione che si muovono piuttosto in campo sociale e culturale, adottando spesso nomi ingannevoli, stabilendo coalizioni flessibili che si formano e si sciolgono al ritmo degli avvenimenti. L'uso di Internet permette a queste reti di comunicare in modo alquanto fluido e veloce. Il ruolo di queste reti non sarebbe quello di imporre un'ideologia, ma di acuire le tensioni etniche, morali, culturali, sociali e via dicendo; di "liberare" le energie rivoluzionarie latenti nelle varie categorie discriminate, e poi di coordinarne gli effetti disgreganti, finalizzando il tutto alla distruzione di quanto resta della civiltà cristiana. Nel loro insieme, queste reti svolgerebbero per la neorivoluzione un ruolo non molto diverso da quello svolto dal Komintern ai tempi della rivoluzione comunista. L'assenza d'un organo centrale darebbe poi l'illusione di movimenti piuttosto spontanei. Questo punto va sottolineato. Più di un commentatore ha argomentato che per l'assenza di una ideologia fondante, nonché di una proposta alternativa e di un coordinamento politico, i fatti di Genova non avrebbero il carattere di vera e propria rivoluzione. A nostro parere, essi non tengono nella dovuta considerazione tutta la portata dei cambiamenti nel processo rivoluzionario. Nell'agosto 1991 i leader delle varie reti si riunirono a Ginevra per cercare di "stabilire le basi d'un movimento mondiale che annoveri ONG 19, movimenti popolari, centri sociali e simili". Qualcuno parlò addirittura di formare una "Quinta Internazionale". Ma non è facile mobilitare persone contro un "sistema" troppo vago. Mancava un patente - casus belli - che permettesse a questa eterogenea accozzaglia di coagularsi e scagliarsi contro un nemico concreto. L'occasione fu servita su un piatto d'argento nel 1992. Preoccupata per gli effetti di un eccessivo sviluppo industriale sull'ambiente, l'ONU aveva convocato un "Vertice della terra" (Earth Summit) per esaminare il problema al più alto livello. Tenutasi a Rio de Janeiro, la II Conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente e lo Sviluppo (UNCED, nell'acronimo inglese) è stata forse la maggior assise della storia, con 118 capi di Stato, 4.000 ministri e sottosegretari di 170 paesi, nonché rappresentanti di 50 agenzie intergovernative. Mentre l'UNCED si riuniva in un centro convegni fuori città, nel Parque do Flamenco, sul lungomare carioca si teneva un "vertice alternativo" e non meno affollato: il Global Forum of NGOs and Social Movements (Forum Globale delle ONG e dei Movimenti Sociali). Presentandosi come la voce di tutti gli scontenti, gli emarginati, ed i contestatori dell'attuale ordine internazionale, il Global Forum radunò parecchie migliaia di persone in un immenso happening che si protrasse per una settimana. Vi erano rappresentate più di 800 ONG di 150 paesi. Fu un primo tentativo riuscito di articolare questa variopinta "quinta internazionale". Il vertice di Rio si prefiggeva di esaminare un problema cruciale per l'umanità: l'attuale modello di sviluppo industriale è compatibile col corretto uso delle risorse naturali? Oppure, l'eccessiva industrializzazione dei paesi ricchi sta svuotando le risorse e producendo anche un inquinamento che nuocerà alle generazioni future? In questo caso, non converrebbe ridurre il ritmo di sviluppo dei ricchi e abbassare il loro tenore di vita per conservare meglio l'ambiente? Così tutti, anche i poveri, potrebbero usufruire equamente delle risorse. Ecco come l'allora Primo Ministro di Norvegia Grò Harem Bruntland, vicepresidente dell'Internazionale Socialista nonché primadonna dell'UNCED, enunciava il problema: "Dobbiamo cambiare radicalmente i criteri di consumo e di produzione. Dobbiamo chiedere ai paesi sviluppati di cambiare il loro modello ormai inaccettabile. (...) Dobbiamo ammettere che noi, paesi industrializzati, abbiamo aumentato il nostro livello di vita abusando delle risorse naturali. (...) E adesso non possiamo dire al Terzo Mondo: pagate voi il conto. Siamo noi che dobbiamo pagare". Perfetto casus belli: un pugno di paesi industrializzati che, per incrementare il loro già altissimo livello di vita, saccheggiano le risorse naturali del pianeta a danno dei più poveri, i quali per giunta ne devono pagare le conseguenze anche in termini di inquinamento! E mentre i paesi ricchi, con a capo gli USA, difendevano a spada tratta il loro modello di sviluppo, il Global Forum insorgeva contro questa "ingiustizia planetaria". Il suo tono lo possiamo dedurre dal proclama rivolto ai convenuti da Femando Gabeira, ex-terrorista rosso e presidente del Partito Verde brasiliano: "Da questo raduno scaturirà una guerra fra il Nord ed il Sud del pianeta. L'inquinamento, la deforestazione, la sovrappopolazione e il buco dell'ozono saranno le armi di questa lotta". La neorivoluzione aveva individuato il nemico.
Da Seattle al World Social Forum di Porto Alegre: la neorivoluzione prende fiato. Negli anni successivi a Rio, gli alfieri di questa "quinta internazionale" si dettero a definire meglio il bersaglio, nonché a escogitare i mezzi per colpirlo. Correggendo leggermente il tiro, lasciarono scivolare a un secondo piano il discorso ambientalista — troppo soggetto a complicate discussioni scientifiche e comunque non atto alla mobilitazione delle masse — e puntarono il dito contro il nuovo spauracchio: la globalizzazione. Secondo questa visione, il mondo è governato dai paesi ricchi capeggiati dai cosiddetti G8. Essi manipolano i fili dell'economia e della finanza attraverso le aziende multinazionali. Per perpetuare questa situazione di privilegio hanno creato una serie di istituzioni che dettano le regole del commercio e della finanza internazionale, come la World Trade Organisation e il World Economie Forum, nonché istituzioni che possono intervenire ovunque, come il Fondo Monetario Internazionale, sempre, è chiaro, in difesa dei loro interessi. Questo strapotere economico conferisce loro anche il dominio politico nonché l'egemonia culturale. La globalizzazione non sarebbe altro che un processo atto a consolidare e accrescere questo potere ai danni dei poveri del pianeta. Non è nostro proposito discutere in questa sede quanto sia giusto o meno un ordine internazionale "globalizzato". Siamo comunque convinti che qualsiasi ordinamento che espropri le nazioni della loro legittima sovranità e i popoli delle loro identità culturali e anche religiose, non può essere ammissibile dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa alla quale facciamo riferimento. Anche se il libero commercio deriva dal l'ordine naturale e, nelle attuali circostanze, non può non produrre una certa internazionalizzazione dei rapporti umani, questo resta un punto fermo. Ma il fatto, è che i neorivoluzionari non sono contro la globalizzazione, ma contro una determinata globalizzazione: quella capeggiata dai paesi industrializzati. "[Questi ideologi], presentano proposte teoriche e pratiche che permetterebbero di visualizzare una globalizzazione di nuovo tipo, — spiega il giornale parigino Le Monde — [essi] tentano di lanciare le basi di un'altra globalizzazione". Sarebbe, nelle parole di un commentatore, "una globalizzazione dal volto umano".
World Social Forum di Porto Alegre, "l'atto costitutivo della Quinta Internazionale". Una prima occasione di confronto con questo nemico fu offerta dalla riunione della WTO a Seattle (USA), nel novembre 1999. Con un perfetto coordinamento, che lascia intravedere un'abile regia internazionale, decine di migliaia di militanti della "quinta internazionale" — che nel frattempo aveva abbandonato la sigla Global Forum — calarono sulla città statunitense per una catena di proteste "pacifiche". Puntualmente, queste proteste degenerarono nei più violenti scontri dai tempi della guerra del Vietnam, che lasciarono il centro di Seattle devastato e riuscirono perfino a bloccare la riunione della WTO. Le sinistre di tutto il mondo insorsero contro la "prepotenza" della polizia, e infuocate manifestazioni antiglobal si verificarono un po' ovunque. A Ginevra, 5000 persone bloccarono la sede centrale della WTO, mentre a Londra violenti scontri scoppiarono davanti a Euston Station. Era nato il "popolo di Seattle". Seguirono altre manifestazioni, tra le quali bisogna ricordare quella di Genova, nel maggio 2000, contro una conferenza di aziende nel settore della biotecnologia. Per la prima volta fecero irruzione le "tute bianche", armate con manganelli, maschere da gas, scudi ed altri attrezzi che non lasciavano dubbi sul fatto che i militanti della "quinta internazionale" si addestrassero alla guerriglia. A settembre toccò a Praga, dove migliaia di manifestanti protestarono contro la riunione annuale del Fondo Monetario Internazionale, scontrandosi con la polizia e causando ingente danni. Stesso copione a Nizza, in dicembre. Ma il vero atto costitutivo di questa "quinta internazionale" è stato il World Social Forum, convenuto nella città brasiliana di Porto Alegre nel gennaio 2001 in concomitanza con la riunione a Davos, Svizzera, del World Economie Forum. E interessante rilevare che fra gli organizzatori del Social Forum troviamo molti reduci dal Global Forum del 1992, il che ne evidenzia la continuità. Non è questa la sede per farne un'analisi approfondita, rileviamo appena qualche spunto utile per la nostra tesi. Del World Social Forum hanno partecipato più di 1.500 ONG, movimenti sociali e gruppi "alternativi" di tutto il mondo, per un totale di 15.000 persone provenienti da 122 paesi. Il membro italiano del Comitato organizzatore era Vittorio Agnoletto, che poi ritroveremo a Genova a svolgere il ruolo di portavoce della contestazione. L'elenco dei partecipanti ci offre uno squarcio della estrema complessità del neoproletariato: dai guerriglieri colombiani delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia) ai membri del PROUT, un movimento indiano che promuove la fusione fra marxismo e yoga; dai teologi della liberazione latinoamericani all'agitatore francese José Bove; dalla delegazione del governo comunista di Cuba (molto applaudita) ai movimenti animalisti; da gruppi africani tribalistici a dirigenti dell'Internazionale Socialista ai vertici del Partito dei Lavoratori brasiliano (PT), di ispirazione marxista. Fra i convenuti c'era anche una folta schiera di reduci di Seattle e di Praga. Tutta questa allegra accozzaglia era però compattamente unanime nel denunciare il grande nemico del nuovo millennio: il neoliberismo. Cogliendo il senso profondo dell'avvenimento, Le Monde Diplomatìque commentava in un editoriale: "Una sorta di - Internazionale Ribelle - è nata in Brasile, mentre i signori del mondo si riunivano a Davos, Svizzera". Da parte sua, in un documento ufficiale il Social Forum si definiva "un arcipelago planetario di resistenza". La varietà dei temi trattati riflette la stessa eterogeneità delle componenti di questo arcipelago planetario. Così, da infuocate sessioni in cui guerriglieri colombiani convocavano alla "resistenza armata contro il neoliberismo", si passava a show in cui attrici in topless auspicavano che "la Santa Madre Chiesa corregga gli errori delle tavole di Mosè e il sesto comandamento ordini di festeggiare il corpo". Una cosa, però, era palese: la consapevolezza che gli ideali del Social Forum fossero la continuazione, in termini moderni, del processo rivoluzionario. "Perché siamo qui? — si domandava nella sessione inaugurale il candidato marxista alla presidenza del Brasile, José Ignacio da Silva — Che cosa ci accomuna? Abbiamo lo stesso impulso che ha dato vita alla Rivoluzione Francese, alla Rivoluzione Messicana del 1911, alla Rivoluzione Cubana".
Il ruolo basilare del nuovo '68. Finalmente, nel luglio scorso, questa "internazionale ribelle" sbarca a Genova con armi e bagagli sotto il patrocinio del Genoa Social Forum (GSF), con le conseguenze che abbiamo visto. Non si è quindi trattato di una spontanea manifestazione di protesta, ma di una operazione lungamente pianificata. "I trecentomila che hanno sfilato in occasione del G8 — spiega Don Luigi Ciotti, fondato re del gruppo Abele e figura di riferimento del movimento no global — non sono spuntati dal nulla. Erano anni che centinaia e centinaia di gruppi, di associazioni, di piccoli movimenti lavoravano e costruivano e si sporcavano le mani". L'agenzia ADISTA definisce il GSF come "il cartello che riunisce oltre 500 gruppi, associazioni, ONG, sindacati, centri sociali in lotta contro il neoliberismo". Il fattore agglutinante è la consapevolezza di essere, in vari modi, i continuatori del processo rivoluzionario. Già Toni Negri, ex cattivo maestro di Potere Operaio e ideologo del movimento noglobal, proclamava a chiare note: "II popolo di Seattle? Un'eruzione, un grande fenomeno di libertà. (...) forse un nuovo Sessantotto". Da parte sua, il sociologo Sabino Acquaviva avvertiva: "Si sta giocando col fuoco. (...) C'è davvero il pericolo che si arrivi a qualcosa di simile al '68". Semmai, questo giudizio pecca di eccessiva cautela. Proclamando che il GSF "riprende i grandi valori del '68", Agnoletto dichiara "noi dobbiamo andare oltre".
Sinistra cattolica: Rispunta il cattocomunismo. Ma forse l'aspetto più rivelatore emerso dagli episodi di Genova è stato il ritorno della "sinistra cattolica" o del "catto-comunismo", che da più parti era stato dato troppo frettolosamente per defunto in seguito al tramonto dei movimenti rivoluzionari, suo humus naturale. Eccolo invece riciclato all'interno della neorivoluzione, di cui anzi in alcuni casi funge da forza tramante. Lo stesso Agnoletto, portavoce della contestazione, proviene da una doppia militanza: Associazione cattolica degli scout e Democrazia Proletaria. Tra le componenti della contestazione noglobal spiccano numerose sigle cattoliche. "C'è anche un pezzo di Chiesa all'interno del movimento di contestazione", rivela ADISTA, precisando che "è piuttosto folta la presenza di gruppi e organismi cattolici all'interno del GenoaSocial Forum". Sulla prima pagina del Corriere della Sera, Angelo Panebianco denunciava "la ripresa di quel fenomeno, noto come cattocomunismo, che tanto peso ha avuto nella storia del nostro Paese". E due settimane dopo rilevava: "C'è qualcosa di paradossale nel fatto che mentre la sinistra intellettuale, ormai da tempo, ha buttato il marxismo alle ortiche, esso continui a godere di così tanta popolarità in ambito cattolico". Purtroppo, non si tratta di un fenomeno marginale. Questi gruppi e organismi non solo vengono spalleggiati da rilevanti settori del cattolicesimo italiano, ma si fregiano perfino di autorevoli legittimazioni da parte di certi esponenti della gerarchia ecclesiastica. D'altronde, si sentono sicuri dell'acquiescenza di quelle non poche autorità che dovrebbero invece contrastarli. Non potremo mai sottovalutare questo apporto cattolico, vista la presenza del Papato sul suolo italiano e l'influenza che la leadership spirituale della Chiesa esercita sulla maggioranza degli italiani. Commentando il manifesto delle Associazioni Cattoliche che, volens nolens, portavano acqua al mulino del Genoa Social Forum, Antonio Gaspari notava che esso "ha creato una grande confusione, fornendo al Genoa-Social Forum visibilità, credibilità e soprattutto una massa di gente da manovrare per fini strettamente politici". E Panebianco rincarava: "Si è data una patente di legittimità ai contestatori, ingenerando nell'opinione pubblica la sensazione che la Chiesa condividesse il loro manicheismo morale. (...) Probabilmente, il governo non avrebbe mai dato quel passo [dialogare col GSF] se non avesse registrato una così massiccia adesione del mondo cattolico". Un'adesione che, tra l'altro, veniva sottoscritta anche da rappresentanti della sinistra come Pietro Burlando, Livia Turco e Marco Minniti, nonché dall'ex-segretario della Quercia Achille Occhetto.
C’è alleanza tra fondamentalismo islamico e comunismo? si sono tirati indietro, pur prendendo le distanze dalla violenza che, tutto sommato, è un fattore secondario e strumentale nella Rivoluzione, non la sua essenza. Dichiara Mons. Diego Natale, presidente del movimento Pax Christi e vescovo di Saluzzo: "È il nostro dovere tenere alta la speranza nata da una colossale mobilitazione dei cattolici. Il movimento sceso in piazza a Genova allarga gli orizzonti della Chiesa e della società". Analoga posizione ha preso Mons. Nogaro, vescovo di Caserta. Orfani del comunismo, i cosiddetti catto-comunisti sembrano alla ricerca di una nuova identità. Un po' dappertutto li vediamo adesso gioire per averla trovata nella contestazione noglobal. "La notte oscura continua", secondo un padre storico della teologia della liberazione, il sacerdote belga Joseph Comblin, "e tuttavia stanno comparendo luci che potrebbero annunciare tempi nuovi". In una dichiarazione all'organo neocomunista L'Unità, Don Luigi Ciotti segnala che "nel mondo cattolico stanno crescendo sempre più le aree 'impegnate' che giudicano l'attuale sistema capitalistico del tutto inadeguato a gestire questo passaggio di civiltà della storia dell'uomo. A Genova c'erano moltissimi gruppi cattolici". Fra le realtà che cominciano a rispuntare vi è la teologia della liberazione. In occasione del World Social Forum di Porto Alegre, il teologo belga Francois Houtart ha salutato il movimento noglobal come un chiaro segno della "rinascita della teologia della liberazione". Ma così come sbaglia chi vede nella neo rivoluzione una tardiva manifestazione del marxismoleninismo, sbaglia pure chi scorge in questa "rinascita" una semplice riedizione della teologia della liberazione.
Il riciclaggio della teologia della liberazione. La teologia della liberazione (TdL) non è spuntata ieri dal nulla. Essa è figlia di quelle correnti che, almeno dai tempi della Rivoluzione francese, si vanno adoperando per spiegare in chiave pseudoreligiosa le successive tappe del processo rivoluzionario e, quindi, trasbordarvi un certo numero di cattolici: una corrente di attivismo sociale di sinistra che comincia come "cattolicesimo sociale", si trasforma poi in "cattolicesimo democratico" e infine sfocia nel "socialismo cristiano"; e una corrente filosoficoteologica che, nata come "cattolicesimo liberale" ha dato vita al "modernismo" e successivamente alla "teologia nuova" o "progressista". La TdL ebbe il suo periodo d'oro fra gli anni 1960-1990, in concomitanza e in intima correlazione con l'apogeo della rivoluzione comunista, specialmente in America Latina. Col tramonto di questa rivoluzione, analogamente a ciò che è accaduto all'interno dei vari partiti marxisti, anche la TdL ha dovuto iniziare un processo di adattamento alle nuove realtà. A questo scopo, per esempio, si era tenuto un convegno mondiale di teologi della liberazione nella casa madre dell'Ordine Maryknoll a New York, nel luglio 1988. E così, come dal ventre della rivoluzione marxista è sorta la neorivoluzione, dal movimento della TdL stanno spuntando una serie di dottrine e di correnti che si prefiggono di offrire una giustificazione pseudoreligiosa alle nuove lotte rivoluzionarie.
Una "Rivelazione" dall'interno del processo rivoluzionario. Lungi dall'essere in contrasto colla vecchia TdL, questo adattamento non è che lo sviluppo logico delle sue premesse dottrinali. Per appoggiare la Rivoluzione permanente, la TdL si fonda sull'idea di una Rivelazione permanente. Negando la dottrina cattolica, secondo la quale la Rivelazione pubblica si è conclusa con la morte dell'ultimo Apostolo ed è integralmente contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione, la TdL sostiene che essa continua lungo la storia. Così la TdL distrugge l'idea d'un deposito della Fede completo e di un Magistero che lo interpreta infallibilmente, e va a cercare una rivelazione immanente nelle realtà socio-politiche in evoluzione. Secondo la TdL, questa rivelazione immanente si manifesterebbe preferenzialmente — diremmo quasi esclusivamente — mediante un aspetto concreto della realtà storica, e cioè i "poveri" od "oppressi", impegnati in una "prassi sovversiva". I teologi della liberazione parlano di "poveri", ma questo vocabolo non va inteso nel suo senso stretto, cioè riferendosi alle persone materialmente bisognose. Nella logica della TdL, "povero" è qualsiasi persona che in qualche modo si senta "oppresso" o "alienato", vittima cioè d'una situazione di discriminazione o di disuguaglianza. La TdL considera quindi come portatori di "rivelazione" i movimenti ed i processi storici rivoluzionari, cioè i grandi movimenti sovversivi politici, economici e culturali dei tempi moderni. Con l'orecchio rivolto a questi processi storici ed interpretando il loro senso profondo, secondo la TdL, possiamo in un certo modo sentire la voce di Dio che essi esprimono. A partire da queste premesse, è facile capire come la TdL sia riuscita ad inserirsi nella neo-rivoluzione. Basta sostituire "povero" con ognuna delle categorie del neoproletariato sopra descritte, analizzare le "oppressioni" che concretamente gravano su di esse e proclamare poi una "prassi Hberatrice" impregnata di "rivelazione divina". In questo modo si può ricavare una quantità praticamente infinita di teologie della liberazione: teologia nera, teologia indigenista, teologia femminista, teologia gay, teologia animalista e via dicendo. Le situazioni rivoluzionarie cambiano enormemente e quindi non esiste una rivoluzione statica. Il metodo della TdL è applicabile a situazioni e a processi rivoluzionari diversi e sempre mutevoli. Una di queste situazioni è, appunto, la contestazione noglobal. È molto significativo che, a giustificazione del suo ruolo da protagonista negli episodi di Genova, Don Vitaliano Della Sala abbia dichiarato che "Dio non è soltanto nel Vangelo, parla anche attraverso la storia". E la storia passa oggi per la contestazione noglobal che, tra l'altro, egli considera la continuazione della sovversione marxista: "Esiste un filo conduttore tra il nuovo movimento e la guerriglia del Che Guevara".
Una prassi rivoluzionaria. Secondo la TdL il "povero" pacifico e rassegnato non costituisce di per sé una fonte di rivelazione. Questo privilegio spetta unicamente a coloro che sono concretamente impegnati in una prassi sovversiva tesa a cancellare le situazioni di oppressione. Da questa prospettiva, sono solo quindi i rivoluzionari militanti, i partigiani di dottrine eversive e i fomentatori di rivolte a poter interpretare in modo adeguato la voce di Dio immanente nella storia. Le loro attività sovversive diventano luoghi privilegiati di rivelazione, la materia prima di cui sarà poi fatta la teologia della liberazione. Questo punto è importante. Più che una dottrina, la TdL è una prassi, e concretamente una prassi rivoluzionaria. "Ciò che noi intendiamo per teologia della liberazione è l'inserimento nel processo politico rivoluzionario", scrive il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez, fondatore della corrente. È perciò che i teologi della liberazione usano l'insolita espressione "fare teologia", anziché conoscere o studiare teologia. Non ci vuole troppa immaginazione per capire come, nella logica della TdL, un militante del Black Block sventolando una bandiera nera su una macchina bruciata e capovolta a Genova possa essere considerato un "povero" nell'atto di "fare teologia"...Quale futuro? Si svilupperà questa nuova TdL fino alle ultime conseguenze? Si impegneranno i progressisti cattolici fino in fondo nella contestazione noglobal? Trascineranno con loro la massa dei fedeli? La risposta a queste domande dipenderà largamente dalla risoluzione dei quesiti posti all'inizio. Davanti alla neorivoluzione si vanno formando due blocchi, separati da fessure molto più accentuate in profondità di quanto non appaiano in superficie. In termini più semplici, sarebbero i partigiani della contestazione e i suoi oppositori. Tutto dipenderà essenzialmente dalla rispettiva farce de frappe dei due schieramenti. Quale sarà maggiore? C'è però il grande dato nuovo: assistiamo anche al crescente spostamento d'una maggioranza finora inerte verso atteggiamenti, se non di attiva opposizione alla Rivoluzione, almeno di rifiuto delle sue manifestazioni più estremiste. Fin dove arriverà questo spostamento? Ecco la grande domanda alla quale solo il futuro saprà rispondere.
Una verità nascosta: L'ombra della Rivoluzione sul fondamentalismo islamico. Dopo gli attentati dell'11 settembre, il tema più trattato dai media è l'Islam. Le sue molteplici correnti vengono accuratamente suddivise, descritte e paragonate &a loro. In maniera superficiale, si ciancia su "moderati" e "radicali", e s'indaga sulle complesse divisioni etniche e culturali. "Personalità" islamiche, in verità del tutto sconosciute, vengono presentate all'Occidente e le parole arabe vengono utilizzate come se tutto il mondo le capisse. Dopo questo bombardamento psicologico, il lettore chiude il giornale, o spegne la tivù, con la sensazione di non aver ricevuto una informazione oggettiva e chiara sulla realtà. Un aspetto capitale della tematica sembra venirci meticolosamente nascosto: cosa è in realtà questo fondamentalismo islamico? S'identifica veramente con Maometto e col Corano? E se non s'identifica, cosa è allora? D'altra parte, perché la sinistra più radicale dell'Occidente, particolarmente il cosiddetto cattocomunismo, non riesce a nascondere la propria simpatia per i talebani fondamentalisti? Perché 23 vescovi di Brasile, Argentina e Messico, hanno duramente criticato gli attacchi angloamericani all'Afghanistan paragonandoli ad atti terroristici, con l'aggravante — secondo loro — di essere compiuti "da governi che si presentano come democratici, civilizzati e cristiani"? Infine, dietro le apparenze, esiste un denominatore comune che unisce la sinistra progressista al fondamentalismo islamico? Islam: mondo finora sconosciuto e poco significativo per l'Occidente. L'Islam, in quanto fede religiosa, è sparso in una immensità di popoli, che vanno dall'Atlantico fino alla Polinesia, alcuni dei quali immersi in una grande miseria. Fino a poco fa, il suo multisecolare torpore era perturbato solo da dispute locali. L'afflusso di petrodollari, che dovrebbero servire a promuovere lo sviluppo moderno nei domini islamici, sembrava Luis Dufaur non aver eliminato questa paralisi; Soltanto un pugno di emiri, sceicchi e sultani sprecava miliardi in lussi sfrenati, in genere di cattivo gusto e spesso immorali, mentre la massa delle popolazioni — seguendo gl'insegnamenti del "Profeta" sulla "sottomissione" ("Islam" appunto) — vegetava all'ombra di quegli arcimiliardari. Era diventata abissale la sproporzione tra l'organizzazione e lo slancio dell'Occidente, nato dalla civiltà cristiana — sebbene oggi profondamente corrotto dal neopaganesimo — e il disordine e l'immobilismo della pesante eredità di Maometto. Nel secolo XIX, quasi tutte le terre musulmane erano sotto controllo di nazioni europee, ricche e dinamiche. Se la paralisi non genera movimento, donde viene quel dinamismo? All'inizio del secolo XX, in quel magma da secoli sclerotizzato, esplose una tendenza nuova chiamata fondamentalismo. Essa è attiva, aggressiva, modernizzata nelle sue tecniche molte volte terroristica. All'improvviso incominciò a minacciare l'ordine occidentale neopaganizzato, un tempo cristiano, "padrone dell'universo". Dice l'adagio popolare: nessuno da quello che non ha. Siccome la paralisi non genera il movimento, il dinamismo può provenire solo da chi lo possiede. Un rapido giro nelle biografie dei capi islamici fondamentalisti mostra che essi, nella maggioranza, si laurearono nelle università dell'Occidente o in equivalenti scuole occidentalizzate nell'Oriente, I loro scritti riproducono le stesse idee che corrodono le basi cristiane delle società occidentali. E come se il virus rivoluzionario occidentale fosse stato iniettato in un brodo di coltura ristagnante, producendo una infezione esplosiva, con caratteristiche proprie ma con la stessa o maggiore pericolosità.
Il capo terrorista Bin Laden è un esempio caratteristico di questo processo di laboratorio della Rivoluzione. Figlio di miliardari, fu educato nell'esclusivo collegio Le Rosey, in Svizzera. La sua giovinezza fu quella di un playboy del jetset, in mezzo a lussi e scandali nelle grandi capitali occidentali, nel Libano e nell'Arabia Saudita. Sì, di quel jetset che tanto piace a certe sinistre...Hassan el Turabi, ideologo del regime persecutore dei cristiani in Sudan, si è laureato ad Oxford e alla Sorbona. Ali Benadi e Abasi Madani, capi fondamentalisti dell'Algeria, impararono le loro dottrine e tecniche sovversive in Europa. Anche i seguaci più stretti di Bin Laden provengono da ambienti colti e agiati. La lista è interminabile. Lo studioso francese Roger du Pasquier commenta che i teorici più autorevoli in seno ai movimenti integristi e attivisti impegnati nel mondo musulmano, nonostante il loro formale e superficiale rifiuto, manifestano in realtà una contaminazione intellettuale da concezioni occidentali moderne. Quali concezioni? Egli chiarisce: "Le forze sovversive che da due secoli hanno causato tante rivoluzioni e violenze in Occidente e in Oriente, perfino in Cina". Cioè, il socialismo e il comunismo, non nelle versioni ormai fallimentari, ma in versioni più aggiornate, come vedremo. Il lettore ricordi questo concetto e vedrà che può essere la chiave di lettura per capire molti degli avvenimenti attuali. Noti promotori della Rivoluzione anticristiana in Occidente sono divenuti musulmani. Da anni, personalità impegnate nella Rivoluzione politico-sociale e culturale che squassa le fondamenta cristiane dell'Occidente sono divenute musulmane, senza però rinunciare alle loro idee. Per esempio, Roger Garaudy, già responsabile del Partito Comunista francese per i rapporti con le religioni, ha predicato l'islamismo fino alla morte, come via superiore per raggiungere le mete utopistiche di Marx e Lenin. Cat Stevens, star della musica rock, anche lui si è sbattezzato nell'Islam e finanzia una ONG islamica. Lo stesso hanno fatto, fra gli altri, l'ecologista Jacques Cousteau, il coreografo Maurice Béjart, i cantanti Richard e Linda Thompson, il campione mondiale di box Cassius Clay, che aderì ai Musulmani Neri, movimento filomarxista capeggiato da Malcoim X, un altro convertito.
Primi tentativi d'inoculazione rivoluzionaria nell'Islam. Nei secoli di ristagno, ci furono tentativi di riaccendere il furore anticristiano islamico, ma non andarono oltre casi ristretti. Per esempio Muhammad Ibn Abdel Wahhab (17031787) formò una confraternita radicale — il wahhabismo — che sarebbe rimasta ignota se, in occasione della prima Guerra Mondiale, i suoi scarsi seguaci non si fossero alleati all'Inghilterra contro la Turchia. Dopo il conflitto, ricevettero come ricompensa il regno dell'Arabia Saudita. Fu alla fine del secolo XIX e durante il XX che crebbe la penetrazione di idee rivoluzionarie occidentali nel mondo musulmano.
Djamal edDin Afghani, a partire da Londra, attizzò l'insurrezione iraniana.
Muhammad Abduh (1849 - 1905), il suo continuatore, predicò le idee progressiste europee di tipo anticolonialista.
Nell'India Sayed Ahmad Kahn, che vantava il titolo di sir inglese, creò il nucleo del pensiero nazionalista musulmano, da cui nacque il Pakistan (il "Paese dei Puri").
Muhammad Iqbal (18731938), un altro baronetto inglese, laureato ad Oxford, Heidelberg e Monaco di Baviera, ammiratore di Hegel, Nietzsche e Bergson, fu colui che formulò l'idea e il nome del l'attuale Pakistan. Egli elogiava il marxismo e tentò di realizzare la sintesi fra il socialismo e la dottrina di Maometto.
Il suo discepolo, Abdui Ala Maududi, fortemente modernista, predicò una terza via fra il capitalismo e il comunismo ed è considerato il padre del fondamentalismo pakistano odierno.
Dalla notte al giorno, da Marx a Khomeini. Nella famosa rivoluzione di Khomeini in Iran, iniziata nel 1979, numerosi militanti della sinistra divennero fondamentalisti. L'intellettuale cristiano marxista Gahii Chuckri narra: "Fra gli aspetti che ancora sono presenti alla memoria, c'è il fatto di aver visto pensatori, noti per il loro passato marxista, diventare in un batter d'occhio islamici convinti. Sì, pensatori che appartenevano — in quanto battezzati — al Cristianesimo, si trasformarono, dalla notte al giorno, in musulmani estremisti; pensatori che appartenevano per cultura all'Occidente e al modernismo, diventarono fanatici dell'Oriente, senza alcuna remora o restrizione!". Il Partito Comunista iraniano (Tudeh) approvò la rivoluzione degli ayatollah: "II contenuto del processo di evoluzione storica prende oggi un aspetto religioso. Per i marxisti, è perfettamente naturale che la lotta di liberazione, a seconda delle condizioni del tempo e del luogo, assuma forme differenti. (...) Questa rivoluzione anti-imperialista, antidittatoriale e popolare è stata fatta secondo le parole d'ordine dell'Islam e sotto la direzione di un capo religioso celebre nell'Iran, l'imam Khomeini". Tornato da Parigi, Khomeini creò l'organizzazione terroristica Hezbollah. Il discorso inaugurale dell'organismo fu una parafrasi del sovversivo grido di Marx ed Engels, "Proletari di tutto il mondo, unitevi!".
"Finora gli oppressi erano disuniti e nulla si ottiene dalla disunione. Adesso che è stato dato un esempio di efficacia dell'unione degli oppressi in terra musulmana, questo modello dev'essere diffuso dappertutto e prendere il nome di 'Partito degli Oppressi, sinonimo del "Partito di Dio" (Hezbollah). Gli oppressi devono regnare sulla terra, questa è la volontà dell'Altissimo, di Allah". Come si vede, si tratta del vecchio marxismo travestito da islamismo. Bruno Etienne, professore d'Islamismo all'università di Aixen Provence in Francia, spiega l'affinità fra Marx e il fondamentalismo: "La lotta di classe, come Engels l'aveva prevista, non sbocca nella rivoluzione tranne che quando essa si può presentare in termini religiosi; la finalità dell'islamismo radicale è molto mondana: creare un regno ugualitario che rovesci l'arroganza dei padroni".
Per svelare le profondità del fondamentalismo. Nulla ha contato tanto nella genesi del fondamentalismo quanto l'associazione egiziana Fratelli Musulmani, fondata nel 1928 da un modesto professore, Hassan alBanna. "La resurrezione islamica, che si manifesta oggi nel mondo arabo, proviene direttamente o indirettamente dall'organizzazione dei Fratelli Musulmani", spiega un sito islamico americano che pubblica la sua biografia. In una opera chiave, al Banna insegna che il dovere dei Fratelli è "espandere l'Islam in tutti gli angoli del globo, finché non ci sarà più rivolta ne oppressione e la religione di Allah avrà prevalso". Insegna anche il loro slogan: "La morte sulle vie di Allah dev'essere la nostra più nobile aspirazione". In questa Fraternità, sunniti e shiiti marciano fianco a fianco e mantengono una unità di azione.
Nel 1989, il regime di Teheran divulgò un opuscolo che accumulava esempi di concordanze e collaborazioni fra sunniti e shiiti radicali in seno ai Fratelli. Esso trascrive lodi sperticate della Fraternità a Khomeini e, viceversa, esalta al Banna come grande artefice di questa unità. Ai suoi primordi, l'organizzazione simpatizzò per le idee nazifasciste, nazionaliste, anticapitalistiche e antiebraiche, all'epoca di moda in Europa. Tale tendenza non ha mai smesso di esistere nel movimento fondamentalista, ma in genere è stata accresciuta da altri elementi.
Sayyid Qutb il Gramsci del fondamentalismo rilegge il Corano in chiave rivoluzionaria. Nessuno segnò tanto la Fraternità Musulmana quanto Sayyid Qutb (19061966), che rappresentò per il fondamentalismo ciò che l'italiano Gramsci fu per il comunismo, cioè fece con Maometto quello che il pensatore sardo fece con Marx: una rilettura rivoluzionaria. Negli Stati Uniti, Qutb conobbe la rinascita pentecostalista del protestantesimo, basata sul ritorno alle cosiddette fondamenta. Di conseguenza il "fondamentalismo" venne esteso al neoislamismo, anche se questo non impiega mai tale termine. Qutb riadattò la vulgata musulmana alle utopie rivoluzionarie occidentali. E necessario, secondo lui, che l'Islam torni alla sua natura originaria, alle sue fondamenta; e riformulò tali fondamenta parafrasando la dottrina anarchica della disalienazione (nessuno dev'essere sottomesso a nessuno). Nel suo libro basilare insegna: "L'Islam è una dichiarazione generale di liberazione del l'uomo nel mondo dalla dominazione da parte dei suoi simili; (...) il rifiuto completo del potere di ogni creatura, sotto ogni forma; il rifiuto di ogni situazione di dominazione su esseri umani per opera di organizzazioni o situazioni, di qualunque forma. Quando il potere è in mano ad esseri umani, questi impersonano il Creatore e di conseguenza vengono accettati dai loro simili. Orbene, questo è misconoscere ed espropriare il potere di Allah.
"Insieme Iran e Cuba sono in condizione di mettere in ginocchio l'America.” Fidel Castro all'Università di Teheran, nel corso di un giro per i paesi arabi radicali lo scorso maggio. (AFP, 10052001). Fino a dove potrà arrivare questa sorta di simbiosi fra fondamentalismo islamico e comunismo? e questi usurpatori devono essere eliminati. Questo comporta la negazione del regno degli esseri umani, per sostituirlo con un regno divino sulla terra". Qutb sapeva che un regno diretto di Allah sugli uomini non è realizzabile e allora proponeva un regime intermediario in cui una organizzazione poco visibile guidasse i popoli, fino al momento in cui ogni governo cesserebbe e gli uomini passerebbero a vivere in contatto diretto con Allah. Cioè, qualcosa di analogo alla "avanguardia del proletariato" di Lenin.
Le somiglianze fra il progressismo cattolico e il fondamentalismo islamico. Secondo il Corano, Dio si rivelò originariamente ad Abramo. A causa della prevaricazione degli ebrei, si manifestò poi a Gesù. Ma anche i cristiani falsificarono la rivelazione divina, e allora Dio si manifestò a Maometto. Il Corano sarebbe il messaggio definitivo indiscutibile e Maometto l'ultimo dei "profeti". Qutb spiega l'apostasia dei cristiani seguendo il pensiero del progressismo occidentale. Le prime comunità cristiane, secondo lui, avevano un diretto contatto con Dio, senza intermediari ne autorità ne dottrine razionali. Ma il riconoscimento di un magistero teologico e pastorale razionale portò alla catastrofe. E aggiunge: "La più grande calamità fu il successivo evento del trionfo storico del cristianesimo. Esso accadde quando l'imperatore romano Costantino abbracciò la nuova religione". E poi, secondo Qutb, i concili definirono verità di fede e rafforzarono l'autorità pontificia. Qutb vedeva difensori della "vera religione" negli eretici ariani, monofisisti e giacobiti, scomunicati dalla Chiesa. L'apostasia, secondo la sua tesi, culminò nel Medioevo. Qutb se la prende contro il monachesimo medioevale, l'ubbidienza e la castità praticata da monaci e frati. "Furono introdotti nel credo — asserisce — dogmi astratti assolutamente incomprensibili, inconcepibili ed incredibili (...) il più sorprendete dei quali fu il dogma riguardante l'Eucarestia, contro cui si rivoltarono Martin Lutero, Giovanni Calvino e Ulrich Zwingli, ponendo le basi di quel fenomeno storico-religioso chiamato Protestantesimo". Egli aborrisce anche l'Inquisizione, che punì Giordano Bruno con la morte e Galileo Galilei con le censure ecclesiastiche. Nelle eresie e nelle contestazioni alla Chiesa cattolica, egli vede segni precursori di un ritorno al messaggio primitivo del Cristianesimo, che sarebbe rimasto integro nell'Islam. "L'Europa si ribellò al Cristianesimo; l'Europa si ribellò contro l'arbitrio degli uomini di Chiesa. Ma l'Europa ribelle rimase tanto segnata dalla Chiesa che non se ne può sperare la salvezza". L'europeo, secondo lui, in ogni cosa ragiona logicamente, fa distinzioni, per influenza della Chiesa prevaricatrice. La missione del fondamentalismo: completare la Rivoluzione anticristiana. Questa è una delle chiavi di lettura per comprendere il fenomeno del fondamentalismo islamico. Siamo allo stadio culminante del processo rivoluzionario, denunciato e analizzato da Plinio Correa de Oliveira. Qutb riverisce i "principi della Rivoluzione francese e i diritti di libertà individuale, all'inizio dell'esperienza democratica nordamericana". Tuttavia, lamenta che "questi valori non si sono mai pienamente sviluppati ne realizzati interamente. Essi sono insufficienti per far fronte alle esigenze di una umanità in evoluzione". La salvezza, concludeva l'ideologo dei Fratelli Musulmani, non verrà dall'Occidente ma dall'Islam, che completerà ciò, che la ribellione contro il Cristianesimo non è riuscita a fare. "Ciò presuppone una operazione di risurrezione islamica che sarà seguita prima o poi dalla conquista del comando del destino umano nel mondo". "L'Islam è destinato a tutto il genere umano: il suo campo di azione è la terra, tutta la terra", che deve costituirsi in una Repubblica islamica universale, sotto la guida di autorità religiose coperte dal segreto.
Sradicare dalla terra tutte le vestigia della Cristianità. Ecco la finalità del ritorno alle fondamenta: scacciare dalla terra le ultime vestigia di Cristianità che ancora sopravvivono nei Paesi un tempo cattolici. Cioè, gli ultimi riflessi soprannaturali sull'ordine temporale, che sono fra i beni più preziosi donati al mondo dai meriti della Passione e Morte di Nostro Signore Gesù Cristo. Qutb espone una visione abbastanza chiara del processo rivoluzionario che, dalla decadenza del Medioevo, va corrodendo la Civiltà cristiana. Tuttavia, gli aggiunge un epilogo tragico che pochi hanno intravisto: alla fine della Rivoluzione anticristiana non si realizzerà un mondo di piaceri e libertà, ma una sinistra tirannia materiale e morale, sotto la frusta del fanatismo fondamentalista islamico.
Una Rivoluzione che supera il comunismo sclerotizzato. Per quanto riguarda la proprietà privata, il prof. Olivier Carré riassume così le massime di Qutb: "Nell'Islam, il proprietario non ha mai il diritto di usare o di abusare del suo bene. Nell'Islam, la proprietà privata è un mezzo sociale al servizio delle utilità. Ma allora come spiegare il fatto che fondamentalisti islamici si dichiarino anticomunisti? L'ayatolah Baqir assadr, chiamato "il Khomeini iracheno", giustiziato nel 1980, così risolve la difficoltà. Egli sintetizza la dottrina comunista: "II fine inconscio che il marxismo attribuisce al movimento della storia consiste nell'eliminazione degli sbarramenti sulla strada dello sviluppo delle forze produttive. Questo fine sarà raggiunto mediante l'abolizione della proprietà privata e la costruzione di una società comunista". E, in seguito, introduce la critica fondamentalista: "Dopo questa liberazione, la storia si fermerà e tutte le potenzialità e l'impulso dell'uomo nuovo spariranno". Per evitare che l'evoluzione si fermi, spiega l'ayatollah, ci vuole un orizzonte nuovo che trascini gli uomini oltre il comunismo.
Una teologia della liberazione per il mondo islamico? Questo orizzonte nuovo dev'essere religioso. Dice as Sadr: "Porre Allah come fine della marcia evolutiva costituisce l'unica struttura ideologica che può offrire al movimento umano una inesauribile energia". In questa prospettiva i comunisti classici rappresentano una sclerosi e devono essere eliminati. Il compito verrà quindi assegnato ai religiosi. L'orizzonte nuovo ha anche una finalità di rottura. Nel mondo musulmano, l'autorità naturale e religiosa dei capi tribali ed etnici è tenuta in grande considerazione. Per i rivoluzionari era impossibile distruggere quel resto di ordine naturale appellandosi alle dottrine laiche moderne, "perché prima o poi il movimento nuovo mostrerà la sua vera faccia di nemico dichiarato della Religione. Questo porterà a un grande spreco di energie ed esporrà l'opera in corso ai pericoli provenienti dalla maggioranza dei conservatori del mondo islamico". Questo risultato diventa ottenibile solo sotto vesti religiose. Del resto, mutatis mutandis, lo stesso avviene con il progressismo cattolico che, per motivazioni analoghe a quelle dei fondamentalisti musulmani, ha fatto ricorso alla teologia della liberazione.
Dalle "mille e una notti" alle tenebre infernali. Il fondamentalismo non mira a riaccendere il mondo delle Mille e una notti, degli affascinanti tappeti, dei mitici emiri e sceicchi del deserto, degli slanciati ed eleganti minareti e delle dorate moschee, del TajMahal. Quell’universo di meraviglie riflette aspetti positivi che oggi languiscono nell'Islam. Il fondamentalismo mira anzi a estinguere quelle potenzialità dell'anima che potrebbero far sbocciare civiltà da favola — se si convertissero all'unica vera Chiesa, quella santa, cattolica e apostolica — e vuole anzi una civiltà proletarizzata, miserabilista, tribale. E a questo scopo, per convenienza, si maschera con antiche e sacrali venustà. La rivoluzione ugualitaria occidentale inoculata nell'islamismo genera il mostro fondamentalista. Roger Garaudy, già dirigente del PC francese poi diventato islamico, raccontò le sue conversazioni col dittatore libico Muhammar Gheddafi. Significativa vignetta pubblicata sul giornale spagnolo El Pais, nel 1992. Pensatori socialcomunisti vanno da tempo affermando che il fondamentalismo islamico è succeduto al marxismo come motore della lotta di classe. Fino a poco tempo fa ritenuto in Occidente sostenitore del terrorismo internazionale. Gheddafi gli fece vedere la traduzione politica del versetto II13 6 del Corano: "E una democrazia diretta senza deleghe di potere e senza alienazione. Niente si sostituirà al popolo, ne partiti ne parlamenti. Democrazia diretta attraverso comitati e congressi popolari, come emanazione immediata delle imprese, delle cooperative agricole, delle università, dei villaggi e dei quartieri". In altre parole, un aggiornamento del modello che i soviet non sono riusciti a realizzare e che le sinistre riciclate tentano di raggiungere impiegando varie forme di autogestione. Nel 1995, Garaudy pubblicò il libro Verso una guerra di Religione? Il dibattito del secolo, prefatto da Leonardo Boff, teologo della liberazione ed ex religioso. L'ex frate francescano qualificava Garaudy come un profeta che, assieme a Mons. Helder Camara, avrebbe posto le fondamenta per una convergenza cristiano-marxista in chiave anti-capitalistica, e aggiungeva che il fondamentalismo islamico vive dello stesso fuoco libertario della teologia della liberazione. Garaudy annuncia una guerra di religione, non fra la Chiesa cattolica e l'Islam, ma quella dei credenti ribelli contro ogni forma di autorità, perché questa sarebbe intrinsecamente complice del capitalismo consumistico ed edonistico. Infatti, il fondamentalismo islamico fa parte di un vasto movimento che oltrepassa i limiti dell'islamismo storico. Il molto documentato Atlas Mondial de l'Islam Activiste constata che "la rinascita islamica non è un fenomeno isolato, ma s'inserisce in un movimento globale di rifiuto del materialismo mercantilistico e mediatico, che dilaga nel mondo da decenni. Questo movimento ha una dimensione naturalistica: quella ecologista, e una religiosa: il ritorno alle fondamenta". Il fondamentalismo è oggettivamente un alleato delle forze del caos, che si sono manifestate nel World Social Forum di Porto Alegre, nelle sommosse di Seattle, Praga e Genova e nella sovversione ecclesiastica progressista. Il fondamentalismo, feccia dell'Occidente, cerca di realizzare una sintesi della Rivoluzione con l'Allah maomettano. Questa funesta convergenza ricorda la tesi di uno storico articolo del prof. Plinio Corréa de Oliveira: "Se Oriente e Occidente si uniscono fuori della Chiesa, genereranno mostri". Il fondamentalismo islamico e il terrificante attentato dell'11 settembre ne costituiscono una tragica conferma.
Attentati a Barcellona e Cambrils: chi sono le vittime e i feriti. 14 i morti, il più piccolo ha solo 3 anni. Hanno perso la vita anche 2 italiani e un'italoargentina. Non ce l'ha fatta neanche il piccolo Julian, scrive il 21 agosto 2017 Panorama. Il bilancio degli attentati terroristici che hanno colpito la Catalogna è salito a 14 morti: uno dei feriti di Cambrils è deceduto. Il pomeriggio del 17 agosto un furgone bianco si è scagliato sulla Rambla di Barcellona, cercando di travolgere quanti più passanti: 13 morti e 120 feriti, di cui 15 gravi. Tra le vittime che hanno perso la vita anche un bambino di 3 anni e due italiani. Tre invece gli italiani feriti. Sono 34 le nazionalità diverse coinvolte. Poche ore dopo la strage nel capoluogo catalano, nella notte un nuovo attacco a Cambrils, 120 chilometri a sud di Barcellona, nella provincia di Tarragona. Sei civili e un agente sono rimasti feriti: uno di questi è poi deceduto. Cinque terroristi sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia. Dopo ore di apprensione per la sorte di due italiani, in tarda mattinata del 18 agosto la Farnesina ha confermato che due italiani sono morti nell'attentato di Barcellona. Sono Bruno Gulotta e Luca Russo: lo comunica il premier Gentiloni su Twitter.
Il datore di lavoro di Bruno Gulotta, 35 anni, di Legnano (Milano), aveva confermato già in mattinata la morte del giovane nell'attentato di Barcellona, comunicatagli dalla compagna di Bruno. Gulotta lavorava alla Tom's Hardware Italia, che sul suo sito pubblica un necrologio: "Oggi per noi è giornata di lutto. Ci stringiamo tutti con affetto alla compagna Martina e ai due figlioletti di Bruno". E ancora: "La notizia ci è giunta all'improvviso ieri sera. Il collega e amico è stato travolto e ucciso da un infame terrorista. Era lì in ferie con la compagna e i due figli".
Luca Russo, 25 anni, di Bassano del Grappa (Vicenza), laureatosi in ingegneria a Padova l'anno scorso, era a Barcellona con la fidanzata, rimasta ferita ma non in gravi condizioni. "Aiutatemi a riportarlo a casa. Vi prego": è l'appello scritto su Facebook della sorella di Luca, Chiara Russo. Proprio su Facebook Luca il 15 giugno aveva scritto il suo ultimo post: "Nasciamo senza portare nulla, moriamo senza portare via nulla. E in mezzo litighiamo per possedere qualcosa".
Carmen Lopardo, 80 anni, da più di 60 residente in Argentina, originaria della provincia di Potenza, è tra le vittime dell'attentato di Barcellona. Lo rendono noto fonti argentine. La signora italoargentina era in Spagna come turista.
Tra chi ha perso la vita a Barcellona c'è anche un bambino spagnolo di 3 anni, Javi Martinez, la vittima più giovane. È morto anche un suo zio. Il bambino era insieme alla mamma e allo zio di quest'ultima, entrambi morti.
Lo zio della donna, Francisco López Rodríguez, aveva invece 56 anni ed era insieme a sua moglie, che si è salvata ma è ricoverata in ospedale in gravi.
È morta ed stata identificata, tra le 13 vittime di Barcellona anche un'argentina-spagnola di 40 anni, Alejandra Pereyra, che viveva da una decina di anni a Barcellona.
Tra i dispersi dopo l'attacco di Barcellona c'è stato a lungo Julian Cadman, un bambino australiano di 7 anni. Purtroppo è morto. Il suo caso ha tenuto col fiato sospeso. Era a Barcellona insieme alla madre, Jumarie, di origine filippine, per partecipare a un matrimonio. Stava passeggiando sulla Rambla quando il van si è scagliato contro la gente e lo ha separato dalla mamma, che è stata ricoverata in ospedale ed è in gravi condizioni, in coma. Il suo viso sorridente ha popolato i tweet disperati del nonno e altri famigliari che lo stavano cercando: "Questo bimbo è scomparso dopo l'attentato, ritwittate questa foto per ritrovare questo piccolo angelo". Fino all'epilogo peggiore. Poi il messaggio della famiglia: "Siamo stati benedetti per averlo avuto con noi. Ci ricorderemo per sempre il suo sorriso. I nostri pensieri e le nostre preghiere vanno alle famiglie delle altre vittime".
La polizia conferma che tra le persone uccise nell'attentato a Barcellona ci sono tre tedeschi.
Tra le vittime identificate c'è una donna belga di 44 anni, Elke Vanbockrijck, di Tongeren. Era in vacanza con suo marito e i figli adolescenti quando è stata travolta e uccisa.
Una 61enne di Saragozza è l'unica vittima dell'attentato di Cambrils: è stata accoltellata al volto da un terrorista in fuga.
Tra i dispersi di Barcellona il 43enne americano Jared Tucker, di Lafayette, in California. Sua moglie Heidi Nunes, 40 anni, lo sta cercando. Erano in città per festeggiare il primo anniversario di nozze. Lei stava guardando una vetrina, suo marito si era allontanato per andare in bagno, quando ha sentito le grida e si è nascosta in un chiosco di souvenir.
Tra i feriti di Barcellona ci sono anche tre italiani, due dei quali sono stati già dimessi. Il terzo è Marta Scomazzon, la fidanzata di Luca Russo: non è grave, ha fratture ha gomito e piede.
Tra i feriti anche 26 francesi, 11 dei quali gravi. Il presidente francese, Emmanuel Macron ha scritto su Twitter: "La Francia paga un pesante tributo in questo terribile attacco di Barcellona. Massimo appoggio alle vittime, alle loro famiglie e ai loro familiari".
Barcellona, la 15esima vittima degli attentati di cui nessuno parla: un morto di "serie B", scrive il 20 Agosto 2017 “Libero Quotidiano”. In verità, le vittime degli attacchi a Barcellona sono 15, e non 14. Eppure tra loro c'è un morto di "serie B", del quale non si tiene conto nei conteggi ufficiali. Lui è Pau Pérez Villan, 34 anni, spagnolo. Il giorno dell'attentato si trovava a bordo di una Ford Focus bianca, che presumibilmente - è sostanzialmente certo - è stata rubata da uno dei killer. Pau è stato accoltellato a morte dalle bestie e sbattuto sui sedili posteriori dell'auto in fuga. Lì è stato ritrovato, massacrato a suon di fendenti. Inizialmente, e per brevissimo tempo, sospettato di essere un terrorista, poco dopo la verità sul suo tragico destino è stata delineata. Ma di lui nessuno, o quasi, ne parla. Pau è la 15esima vittima della furia islamista a Barcellona.
Il poliziotto eroe di Barcellona: 6 colpi, 4 morti. Il nuovo eroe della Spagna è il poliziotto che ha ucciso 4 terroristi a Cambrils nella tragica notte subito dopo l'attentato di Barcellona, scrive Franco Grilli, lunedì 21/08/2017 su "Il Giornale". Il nuovo eroe della Spagna è il poliziotto che ha ucciso 4 terroristi a Cambrils nella tragica notte subito dopo l'attentato di Barcellona. Sulla sua identità c'è molta confusione. In un primo momento si era parlato di un agente, poi di una poliziotta e infine di un poliziotto ex legionario. Per motivi di sicurezza i Mossod d'Esquadra hanno preferito non rivelare il nome dell'agente. Ma qualche indiscrezione sul suo passato e su come sono andate le cose in quella notte iniziano ad emergere. Come riporta El Mundo, l'agente ieri di fatto avrebbe ricevuto un applauso spontaneo da parte dei colleghi durante una riunione nel quartier generale della polizia catalana. Umile ha fatto spallucce, ma sa bene che con la sua pistola, uccidendo 4 terroristi ha salvato diverse vite sottraendole ai rischi di un altro possibile attacco. L'agente avrebbe esploso i colpi appena si è trovato nella traiettoria dei terroristi che avanzavano dopo aver forzato un posto di blocco. I jihadisti avevano già ucciso una persona e si preparavano ad accoltellare chiunque si fosse trovato sul loro percorso. A questo punto l'agente, con 11 anni di esperienza, ha di fatto esploso sei colpi. Mira precisa: 4 morti. Adesso viene sostenuto anche da un gruppo di psicologi e prova a trovare quella serenità che a Cambrils ha perso.
Attentato Spagna. I documenti di Es Satty e del kamikaze di Nassiriya trovati nel 2006 nella stessa casa, crocevia di 3 stragi. Nel 2006 i documenti dell'imam ritenuto ispiratore dell'attacco terroristico a Barcellona furono rinvenuti insieme a quelli di Bellil Belgacem, l'algerino che si fece esplodere in Iraq uccidendo 19 italiani, in un'abitazione di Vilanova i la Getru, a 50 km dalla capitale catalana. La casa era di Mohamed Mrabet Fahsi, ritenuto capo della cellula finita a processo per il massacro di Atocha dell'11 marzo 2004, scrivono M. Pasciuti e A. Tundo il 20 agosto 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Faceva il garzone in macelleria. Prima di lasciare la Spagna alla volta di Nassiriya, dove si sarebbe lanciato con un camion imbottito di esplosivo contro un gruppo di soldati italiani uccidendone 19, Bellil Belgacem aveva lasciato tutti i suoi oggetti personali e i documenti in casa di Mohamed Mrabet Fahsi, che della macelleria era il padrone. In quella stessa casa la polizia aveva ritrovato i documenti di Abdelbaki Es Satty, l’imam che le autorità catalane considerano ‘mente’ della cellula che voleva far esplodere la Sagrada Familia a Barcellona. Da quella casa di Vilanova i la Geltru, 50 chilometri a sud dalla capitale della Catalogna, passa un filo rosso che parte dall’eccidio dei militari italiani del 12 novembre 2003 in Iraq, transita per l’attacco di Atocha dell’11 marzo 2004 a Madrid e arriva al furgone che il 17 agosto ha ucciso 13 persone sulla Rambla. Un particolare che rafforza l’idea degli investigatori secondo cui la cellula “aveva contatti con altri Paesi europei”.
L’operazione Chacal. Fahsi, il macellaio di Vilanova, era la mente delle due cellule che egli stesso aveva creato a metà del 2003 come parte del Gruppo islamico combattente marocchino (Gicm), con ramificazioni in Francia, Belgio, Olanda, Algeria, Marocco, Turchia, Siria e Iraq e accusato di aver preparato il massacro dell’11 marzo 2004 a Madrid nel quale morirono 192 persone. Per il ministero dell’Interno spagnolo era stato lui a convincere Belgacem a diventare mujaheddin, fare della guerra santa il suo orizzonte di vita e farsi esplodere contro la base di Nassiriya uccidendo 12 carabinieri, 5 soldati dell’esercito e 2 civili italiani. La polizia aveva fermato Fahsi solo nella notte del 10 gennaio 2006. Quel giorno, in due operazioni simultanee tra la Catalogna, Madrid e i Paesi Baschi denominate Chacal e Camaleon-Genesis, finirono dentro 15 cittadini marocchini, 3 spagnoli, un turco e un algerino. Tra loro l’imam della moschea locale Mohamed Samadi e un uomo di nome Mostapha Es Satty.
Il documento di Es Satty. Gli agenti uscirono dal palazzo portando con sé casse di documenti trovati in stanze “piene zeppe di carte”: centinaia di pagine scritte in arabo, francese e inglese, documentazione “molta e buona” secondo gli inquirenti, in grado di “estendere l’inchiesta a più fronti”. Ora un rivolo minuscolo di quella indagine potrebbe collegarsi a quella sulla strage di giovedì. Nella sentenza di primo grado è scritto nero su bianco che tra le carte sequestrate a Fahsi c’erano anche le fotocopie dei documenti di Abdelbaki Es Satty, la ‘mente’ della strage sulle Rambla nonché cugino di quel Mostapha finito a processo dopo le operazioni del 2006 e poi assolto.
Le assoluzioni. Il 13 gennaio 2010 l’Audiencia Nacional aveva condannato in primo grado 5 dei 7 mandati a processo a un totale di 34 anni di carcere: Omar Nachka a 9 anni, Fahsi a 7, Saffet Karakoc a 8, Djmel Dahmani e Redouan Ayach a 5 per integrazione e collaborazione con organizzazione terrorista per aver reclutato kamikaze da inviare in Iraq a commettere attentati. E qui il filo rosso prende di nuovo la direzione della capitale iberica: secondo la Audiencia il leader del gruppo, Omar Nachka, aveva aiutato la fuga dalla Spagna di uno degli autori materiali degli attentati alle stazioni di Madrid, Mohamed Belhadj, fornendogli un passaporto e 700 euro in contanti. Alla Corte suprema non erano bastate le prove per confermare la condanna. Ma l’ombra di quella cellula torna ad affacciarsi sull’inchiesta di Barcellona.
Il carcere e le preghiere con El Conejo. A undici anni di distanza dagli arresti, un nome impresso in bianco e nero tra le centinaia di pagine sequestrate a Fahsi è diventato il vertice della cellula jihadista che ha insanguinato la Rambla. Non prima di passare dal carcere per un’inchiesta legata all’immigrazione clandestina. È il gennaio 2012 quando Abdelbaki Es Satty viene rinchiuso a Castellon. Mentre è dentro, il futuro imam di Ripoll viene incaricato di organizzare la preghiera per i detenuti musulmani e stringe “amicizia e conoscenza” con Rachid Aglif, alias El Conejo, condannato in via definitiva a 18 anni. “Il Coniglio” non è un personaggio qualunque sullo scacchiere del jihadismo europeo. Fu infatti tra i protagonisti della riunione in un fast food di Carabanchel durante la quale venne deciso l’acquisto degli oltre 200 chili di esplosivo utilizzati per la strage di Atocha.
I viaggi a Vilvoorde, la patria dei foreign fighters. Dopo quel periodo in carcere, Es Satty era tornato a Tangeri, per poi rientrare in Spagna. Si era inabissato nel 2014 a Ripoll, 10mila abitanti ai piedi dei Pirenei. Una comunità musulmana di poco più di 500 persone, tranquille e operose. Viene scelto come imam, litiga e apre un nuovo centro di culto. Lì lontano da sguardi indiscreti inizia la sua opera di proselitismo. Viaggia spesso. A volte verso il Marocco, anche lo scorso luglio assieme ai presunti appartenenti alla cellula, altre verso il Belgio dove si chiude la ‘rotta’ più battuta del Gruppo islamico combattente marocchino. Mentre il Segretario di Stato per l’immigrazione di Bruxelles dice che quel nome è sconosciuto al Dipartimento, fonti investigative hanno rivelato a un quotidiano belga che Es Satty ha soggiornato più volte dal 2015 a Diegem e Vilvoorde, uno dei centri nevralgici dell’islamismo radicale europeo da dove sono partiti diversi foreign fighters. L’ultimo viaggio risalirebbe a pochi mesi fa.
I preparativi nel silenzio di Ripoll. Il sospetto degli inquirenti spagnoli – che hanno confermato i “contatti della cellula con altri Paesi europei” – è che in Belgio possa aver ricevuto istruzioni su come organizzare un attentato. Lo avrebbe voluto ad alto impatto emotivo, l’imam. Per questo aveva indottrinato e istruito quel gruppo di ragazzini che frequentavano la sua moschea. Si era procurato 120 bombole di gas e anche il Tatp, l’esplosivo con il quale sono stati firmati anche gli attentati di Parigi, Manchester e Bruxelles. È morto sepolto dallo scoppio accidentale dei suoi stessi ordigni prima di completare l’opera. Ma oggi Abdelbaki Es Satty, grazie ai baby-terroristi che aveva convinto a seguirlo, non è più solo il nome su un documento d’identità sequestrato al macellaio Mohamed Mrabet Fahsi né l’uomo che guidava le preghiere in carcere di Rachid Aglif. Tutti lo avevano dimenticato. E invece si stava preparando nel silenzio delle colline di Ripoll.
Perché la Spagna? E perché proprio Barcellona? Una delle più celebri strade del mondo, la "strada globale" per eccellenza, in Europa: bersaglio perfetto per colpire tutto l'Occidente, scrive il 18 agosto 2017 Alessandro Turci su Panorama. Sparandogli alla schiena, l’attentatore turco che uccideva ad Ankara l’Ambasciatore russo nel dicembre scorso non scelse l’ormai atroce urlo di battaglia Allah Akbar. Urlò un macabro manifesto programmatico: “Noi moriamo ad Aleppo. Voi qui”. L’Aleppo di oggi è Raqqa, dove lo Stato islamico collassa proprio in queste ore, e Ankara è diventata Barcellona. Anche questa volta l’attacco arriva proditorio alla schiena, ma invece di un solo uomo, sono molti a cadere. E tutta gente comune.
Perché Barcellona? Il copione è quello di Nizza, di Londra, di Berlino. Pure rimane l’interrogativo: perché la Spagna e perché proprio Barcellona? Tra tutte le celebri strade del mondo, forse solo La Rambla rappresenta la strada globale. Non è la Promenade des Anglais di Nizza, elegante passeggiata che seleziona il suo pubblico di habitué come fosse un salotto all’aperto; La Rambla è la principale strada del turismo spagnolo ed europeo, dove tutte le nazionalità del pianeta sono rappresentate, e non solo all’apice del mese di agosto, ma in ogni periodo dell’anno. Lo stile di vita occidentale trova quindi nella Rambla una cartolina quasi perfetta: tra i caffè multiculturali, la gioventù proveniente da ogni parte del pianeta, i negozi di souvenir e le grandi catene dei marchi della globalizzazione. In una parola il bersaglio perfetto, perché tutto è racchiuso in un marciapiede. Totalmente indifeso. Oggi non si è colpito il cuore del sistema economico, come con le Torri Gemelle, né il cuore politico, come con Madrid nel 2004 considerata la responsabile, agli occhi degli jihadisti, della guerra a Saddam. Oggi si è colpito il simbolo della spensieratezza, riversando su persone a passeggio l’angoscia cieca di una guerra fanatica che si svolge altrove, cancellando forse per sempre la distanza geografica ma anche quella delle coscienze.
La storia si ripete? La Spagna, dopo gli attentati del 2004, aveva messo in atto una serie d’importanti politiche preventive. I risultati fino ad oggi erano stati incoraggianti, nonostante l’elevato numero di mujahiddin che il Califfato ha continuato ad arruolare in questi ultimi anni sul suo territorio. Per gli attentati del 2004 (192 morti e oltre 2000 feriti) le due exclave di Ceuta e Melilla avevano giocato un ruolo determinante. Da lì venivano o erano transitati i commandos dell’atto terroristico. Dopo anni di collaborazione con il Marocco e il rafforzamento del muro di contenimento dei migranti (e delle infiltrazioni annesse) qualcosa forse non ha funzionato. Da oggi in avanti sventare simili attacchi, come evitare la guerra di civiltà, sarà possibile solo attuando un’agenda politica chiara. La soluzione del conflitto siriano e della relativa frustrazione sunnita è il primo elemento. Inoltre sarà necessaria la distinzione netta tra flussi di migranti pacifici e infiltrazioni terroristiche al loro interno.
Il Califfato non è morto. Il Califfato, pure in fase di sgretolamento per come lo abbiamo conosciuto sino ad oggi, dimostra di essere vivo e di poter colpire l’Occidente. La sua strategia non è la riconquista della Spagna cattolica. Non è una forza che guarda al passato: vuole invece rappresentare una minaccia per il nostro futuro, con un obiettivo preciso e angosciante, l’instaurazione del terrore permanente nell’opinione pubblica. Un’arma psicologica che potrebbe causare danni immensi se la reazione fosse affidata unicamente agli slogan sulla guerra di civiltà. In Siria, come in Iraq, c’è una guerra di poteri e d’interessi nella quale l’Occidente gioca un ruolo determinante. La soluzione di questo conflitto è il primo passo per togliere all’ISIS la sua forza di offesa, ora che ha dimostrato di poterci colpire anche in assenza di uno stato territoriale e probabilmente dello stesso Califfo. Le comunità islamiche occidentali devono però fare contemporaneamente la loro parte, ormai nessun alibi è più accettabile. Nessuna contiguità col Terrore è più ammissibile.
Da Karl Marx a Maometto. La diabolica alleanza spagnola tra sinistra e fondamentalisti. Nel 2004, la Fallaci nella "Forza della ragione" scrisse: "A Madrid il processo di islamizzazione procede spedito", scrive Sabato 19/08/2017 2Il Giornale". Oriana Fallaci: "Ma, soprattutto, il discorso vale per la Spagna. Quella Spagna dove da Barcellona a Madrid, da San Sebastian a Valladolid, da Alicante a Jerez de la Frontera, trovi i terroristi meglio addestrati del continente. (Non a caso nel luglio del 2001, cioè prima di stabilirsi a Miami, il neodottore in architettura Mohammed Atta vi si fermò per visitare un compagno detenuto nel carcere di Tarragona ed esperto in esplosivi). E dove da Malaga a Gibilterra, da Cadice a Siviglia, da Cordova a Granada, i nababbi marocchini e i reali sauditi e gli emiri del Golfo hanno comprato le terre più belle della regione. Qui finanziano la propaganda e il proselitismo, premiano con seimila dollari a testa le convertite che partoriscono un maschio, regalano mille dollari alle ragazze e alle bambine che portano lo hijab. Quella Spagna dove quasi tutti gli spagnoli credono ancora al mito dell'Età d'Oro dell'Andalusia, e all'Andalusia moresca guardano come a un Paradiso Perduto. Quella Spagna dove esiste un movimento politico che si chiama «Associazione per il Ritorno dell'Andalusia all'Islam» e dove nello storico quartiere di Albaicin, a pochi metri dal convento nel quale vivono le monache di clausura devote a san Tommaso, l'anno scorso s'è inaugurata la Grande Moschea di Granada con annesso Centro Islamico. Evento reso possibile dall'Atto d'Intesa che nel 1992 il socialista Felipe González firmò per garantire ai mussulmani di Spagna il pieno riconoscimento giuridico. Nonché materializzato grazie ai miliardi versati dalla Libia, dalla Malesia, dall'Arabia Saudita, dal Brunei, e dallo scandalosamente ricco sultano di Sharjah il cui figlio aprì la cerimonia dicendo: «Sono qui con l'emozione di chi torna nella propria patria». Sicché i convertiti spagnoli (nella sola Granada sono duemila) risposero con le parole: «Stiamo ritrovando le nostre radici». Forse perché otto secoli di giogo mussulmano si digeriscono male e troppi spagnoli il Corano ce l'hanno ancora nel sangue, la Spagna è il paese europeo nel quale il processo di islamizzazione avviene con maggiore spontaneità. È anche il paese nel quale quel processo dura da maggior tempo. Come spiega il geopolitico francese Alexandre Del Valle che sull'offensiva islamica e sul totalitarismo islamico ha scritto libri fondamentali (e naturalmente vituperati insultati denigrati dai Politically Correct) l'«Associazione per il Ritorno dell'Andalusia all'Islam» nacque a Cordova ben trent'anni fa. E a fondarla non furono i figli di Allah. Furono spagnoli dell'Estrema Sinistra che delusi dall'imborghesimento del proletariato e quindi smaniosi di darsi ad altre mistiche ebbrezze avevan scoperto il Dio del Corano cioè erano passati da Karl Marx a Maometto. Subito i nababbi marocchini e i reali sauditi e gli emiri del Golfo si precipitarono a benedirli coi soldi, e l'associazione fiorì. Si arricchì di apostati che venivano da Barcellona, da Guadalajara, da Valladolid, da Ciudad Real, da León, ma anche dall'Inghilterra. Anche dalla Svezia, anche dalla Danimarca. Anche dall'Italia. Anche dalla Germania. Anche dall'America. Senza che il governo intervenisse. E senza che la Chiesa cattolica si allarmasse. Nel 1979, in nome dell'ecumenismo, il vescovo di Cordova gli permise addirittura di celebrare la Festa del Sacrificio (quella durante la quale gli agnelli si sgozzano a fiumi) nell'interno della cattedrale. «Siamo-tutti-fratelli.» La concessione causò qualche problema. Crocifissi sloggiati, Madonne rovesciate, frattaglie d'agnello buttate nelle acquasantiere. Così l'anno dopo il vescovo li mandò a Siviglia. Ma qui capitarono proprio nel corso della Settimana Santa, e Gesù! Se esiste al mondo una cosa più sgomentevole della Festa del Sacrificio, questa è proprio la Settimana Santa di Siviglia. Le sue campane a morto, le sue lugubri processioni. Le sue macabre Vie Crucis, i suoi nazarenos che si flagellano. I suoi incappucciati che avanzano rullando il tamburo Gridando «Viva l'Andalusia mussulmana, abbasso Torquemada, Allah vincerà» i neofratelli in Maometto si gettarono sugli ex fratelli in Cristo, e giù botte. Risultato, dovettero sloggiare anche da Siviglia. Si trasferirono a Granada dove si installarono nello storico quartiere di Albaicin, ed eccoci al punto. Perché, malgrado l'ingenuo anticlericalismo esploso durante il corteo della Settimana Santa, non si trattava di tipi ingenui. A Granada avrebbero creato una realtà simile a quella che in quegli anni fagocitava Beirut e che ora sta fagocitando tante città francesi, inglesi, tedesche, italiane, olandesi, svedesi, danesi. Ergo, oggi il quartiere di Albaicin è in ogni senso uno Stato dentro lo Stato. Un feudo islamico che vive con le sue leggi, le sue istituzioni. Il suo ospedale, il suo cimitero. Il suo mattatoio, il suo giornale «La Hora del Islam». Le sue case editrici, le sue biblioteche, le sue scuole. (Scuole che insegnano esclusivamente a memorizzare il Corano). I suoi negozi, i suoi mercati. Le sue botteghe artigiane, le sue banche. E perfino la sua valuta, visto che lì si compra e si vende con le monete d'oro e d'argento coniate sul modello dei dirham in uso al tempo di Boabd il signore dell'antica Granada. (Monete coniate in una zecca di calle San Gregorio che per le solite ragioni di ordine pubblico il Ministero delle Finanze spagnolo finge di ignorare). E da tutto ciò nasce l'interrogativo nel quale mi dilanio da oltre due anni: ma com'è che siamo arrivati a questo?!?"
Quegli accordi segreti che ci hanno salvato dalla violenza islamica. Fu Moro il primo garante di intese ambigue col terrorismo arabo. Con tragiche eccezioni, scrive Paolo Guzzanti, lunedì 21/08/2017, su "Il Giornale". Tocchiamo ferro: tutto può succedere, ma è un fatto che solo l'Italia finora è stata risparmiata da stragi del terrorismo islamico come quelle che hanno insanguinato Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, Belgio e Stati Uniti. Sappiamo dall'intelligence che sono in arrivo tremila terroristi specializzati per l'attaccare l'Europa, e che i servizi segreti sono impegnati in una guerra estrema fatta di tecnologia e intercettazioni. É un dato di fatto che l'Italia la sta facendo franca da decenni, rispetto agli altri Stati colpiti dal terrorismo. Fra pochi mesi, nel maggio 2018, saranno trascorsi quarant'anni dall'assassinio del leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Fu questo statista il garante di patti segreti e contratti indecenti fra cui quello con il mondo islamico, a cominciare dai palestinesi dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e con Gheddafi, all'epoca molto aggressivo nei confronti dell'Italia che, pure, aveva favorito il colpo di Stato nel 1969. Quella politica di accordi segreti e non sempre decenti col mondo islamico fu poi battezzata con il nome di «lodo Moro» e consisteva in un patto non scritto tra servizi segreti italiani, l'Eni, l'Olp palestinese e Stati del mondo islamico. Rispetto alla Francia e all'Inghilterra, l'Italia aveva il vantaggio di aver perso le colonie e si era risparmiata anche le feroci guerre di decolonizzazione. Il «lodo» consisteva nel concedere mano libera ai terroristi islamici in Italia nelle loro attività contro altri Paesi, risparmiando il nostro: occhi chiusi e portafoglio aperto erano gli strumenti di quella politica. In Libano il colonnello Stefano Giovannone del servizio segreto italiano svolgeva il ruolo di abile smistatore di richieste e scambi. Su tutto lo scacchiere mediorientale e dell'Europa dell'Est, l'Eni svolgeva una sua politica energetica totalmente autonoma dal governo, fin dalla sua fondazione quando aveva al comando l'ex partigiano cattolico Enrico Mattei, che per la sua intraprendenza fu fatto precipitare con il suo aereo sabotato, sembra, dai servizi segreti francesi. Questa losca ma operativa «pax islamica» fu interrotta da gravi e sanguinose eccezioni. Nel 1985 un attacco palestinese all'aeroporto di Fiumicino e alla Sinagoga del Ghetto ebraico romano si concluse con una decina di morti. Nello stesso anno i palestinesi di Forza 17 dirottarono la nave italiana Achille Lauro dove trucidarono il cittadino ebreo americano Leon Klinghoffer paralizzato su una sedia a rotelle, delitto che portò ad una tensione altissima durante il governo Craxi, con soldati americani e carabinieri italiani nella base siciliana della Nato a Sigonella. Molti, fra cui chi scrive (come ex presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta Mitrokhin) ritengono che la strage di Bologna del 2 agosto 1980 fosse un atto di rappresaglia violazione del «lodo Moro» seguita agli arresti di alcuni membri del gruppo palestinese Fplp di George Abbash. Grazie allo stesso patto agiva indisturbato in Italia il terrorista Ilich Ramirez Sànchez, detto «Carlos lo sciacallo» che agiva per conto di molti gruppi terroristici arabi e su direttive della Stasi della Germania orientale attraverso la centrale del Kgb di Budapest. Carlos dall'ergastolo parigino mandò più volte messaggi in chiaro sulle responsabilità della strage di Bologna. A Parigi nel 2005 andai a raccogliere la testimonianza del giudice Jean-Luis Bruguière, il «Falcone francese» che aveva fatto condannare Carlos, il quale rivelò retroscena del tutto ignorati anche sull'attentato al papa Giovanni Paolo Secondo l'undici maggio 1981. L'Italia godeva ancora dei privilegi di uno Stato-cerniera fra Ovest ed Est, fino alla fine della guerra fredda nel 1989, che determinò la vendetta americana inglese e francese contro la classe dirigente italiana con un'operazione del Fbi «Clean Hands», poi nota come «Mani Pulite», orchestrata dal FBI con la partecipazione del procuratore Rudolph Giuliani, concedendo di fatto mano libera alla successione dei comunisti di Achille Occhetto la cui ascesa fu bloccata dalla famosa «discesa in campo» di Silvio Berlusconi. Il lato americano dell'operazione «Clean hands» è narrata in ogni dettaglio in «The Italian Guillotine» di Burnett e Mantovani, mai tradotto in italiano. Erano tramontati i tempi del «lodo Moro», ma l'Italia aveva comunque immagazzinato l'esperienza di decenni, poi dispiegata in con una nuova strategia dal governo Berlusconi per fronteggiare attraverso la Libia di Gheddafi l'esodo dall'Africa in Europa. Quella politica che è stata in questi giorni riproposta da Berlusconi e Tajani per una polizia confederata europea che metta insieme tutte le capacità ed esperienze. Finora i nostri servizi segreti godono della fama meritata grazie allo scampato pericolo. Secondo il politologo americano Edward Luttwak, l'Italia ha sviluppato una strategia efficace contro il terrorismo islamico e dovrebbe essere presa ad esempio. Sarà il futuro immediato a dire se Luttwak eccede o no nella sua valutazione della capacità italiana di tenersi alla larga dalla furia islamica.
Ma per gli "intellò" cattocomunisti il problema sono i razzisti e Trump. Da «Avvenire» a «Repubblica», predica sugli italiani intolleranti con gli immigrati. E il presidente Usa diventa un filonazista, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 21/08/2017, su "Il Giornale". Se in Johnny Stecchino il vero problema della Sicilia non era la mafia ma il traffico (e in second'ordine la siccità), nell'Europa delle stragi islamiste la vera piaga non è il radicalismo jihadista ma il razzismo degli europei, in particolare degli italiani novelli nazisti. Una lettura che trova concordi gli editorialisti dell'area clerico-progressista, da Repubblica ad Avvenire. Proprio il quotidiano della Cei, a tre giorni dalla mattanza di Barcellona, titola sull'emergenza che deve scuotere le nostre anime: l'«ordinario razzismo» dei connazionali. Mentre le città italiane si blindano per prevenire attacchi di camion kamikaze al grido Allah Akbar, il giornale dei vescovi riassume le piaghe che affliggono il nostro presente: «Propaganda sulle spiagge, discriminazioni e perfino aggressioni. Tanti episodi di un'estate segnata dall'intolleranza. E sulle Rete si muove la vasta galassia neofascista». Dopo il caso del bagnino di Chioggia ammiratore del Duce, e quindi le «polemiche strumentali sull'immigrazione e le Ong», l'altro caso che preoccupa il quotidiano dei vescovi è quello dell'ambulante senegalese cacciato dai bagnanti in una spiaggia di Cagliari. Viene interpellato anche uno psichiatra per certificare come «razzismo e nazionalismo siano frutto di un'ignoranza radicata». Nessuna disamina psichiatrica invece sull'adesione dei giovani maghrebini all'estremismo islamico, mentre sul tema viene ospitata un'intervista ad un'attivista marocchina che ringrazia Barcellona perché «ha capito che il nemico non è l'islam». Concorda in pieno con Avvenire il parroco di Pistoia, don Massimo Biancalani, prete pro-immigrati che sui social posta la foto di una piscina con a mollo una decina di giovani africani, corredata dal seguente commento: «E oggi piscina! Loro sono la mia patria, i fascisti e i razzisti i miei nemici!» (subito rilanciata da Salvini). Ma l'allarme è identico a quello suonato dal gruppo Espresso, e il suo giornale laico Repubblica (ma con la linea diretta tra Scalfari e Bergoglio la sintonia col Vaticano è diventata forte). Anche una presa in giro del tormentone sugli immigrati che vivono a sbafo inventato dall'autore satirico Luca Bottura (Samuel L. Jackson e Magic Johnson a Forte dei Marmi scambiati per migranti che se la spassano) viene raccontato in termini preoccupati come «un esperimento sociale che rivela molto sui razzisti». Del resto qualche settimana fa l'Espresso è uscito con una copertina con la svastica su fondo rosso e il titolo: «Nazitalia». Spiegazione dello storione di copertina, l'inchiesta sui nuovi nazisti del 2017: «Squadracce, violenze, xenofobia. L'estrema destra esce allo scoperto. Nella criminalità ma anche dentro le istituzioni». Mentre su Repubblica il Fondatore trova un nuovo aggettivo per gli attentati: «Sovversivi». L'altra grave minaccia che incombe sulla nostra società, oltre al razzismo (con propaggini hitleriane) degli italiani, si trova dall'altra parte dell'Atlantico, e costituisce il dramma personale del corrispondente dagli Usa Vittorio Zucconi. Si tratta di Donald Trump, la cui elezione alla Casa Bianca è un trauma ancora non smaltito. Trump «un re folle», Trump «un presidente che non sa quello che fa», Trump «ha perso il timone la Casa Bianca è alla deriva», con Trump «finisce il secolo americano». E poi naturalmente l'ombra del nazismo: «Si dice che la Casa Bianca, il circolo dei collaboratori più stretti, fra i quali americani ebrei in posizioni importanti, e lo stesso genero Jared Kushner, siano «sconvolti» da questo giustificazionismo del capo di fronte a cortei che intonavano slogan nazisti». La sciagura del filonazista Trump, il razzismo degli italiani, i bagnini col busto del Duce, le piaghe da risolvere nel tempo delle stragi islamiste. Oltre al traffico.
Julian Cadman è morto, la foto straziante dalla Rambla: l'eroe Harry cerca di salvarlo, ma non può fare nulla, scrive il 21 Agosto 2017 “Libero Quotidiano”. La storia di Julian è far le più strazianti che ci ha consegnato la strage di Barcellona. Prima disperso, poi "ritrovato" dunque ufficialmente morto. È lui la 15esima vittima della furia islamica che si è abbattuta sulla Rambla: una vita spezzata a 7 anni nel nome di Allah. E ora spuntano anche le foto, brutali, impressionanti, di Julian dopo che il furgone lo aveva travolto. È disteso, sulla Rambla. Su di lui un uomo, Harry Athwal, un inglese di 44 anni. Era al ristorante, ha raccontato al Mirror. "Ho guardato su entrambi i lati e alla mia destra c'era quel bambino in mezzo alla strada. Sono corso dritto da lui". Ha provato a soccorrerlo, ma è morto. Niente da fare. Harry, in Gran Bretagna, sta diventando "un simbolo di coraggio, umanità e aiuto alle vittime", parole scritte da El Mundo.
"Julian è salvo". Invece era morto. Troppe gaffe sulla pelle del bimbo. Il piccolo australiano di 7 anni disperso dopo l'attentato dato per vivo da «El Mundo» per l'ansia di buone notizie, scrive Andrea Cuomo, Lunedì 21/08/2017, su "Il Giornale". C'era una buona notizia da Barcellona. E ora non c'è più. Julian Cadman, il bambino anglo-australiano di 7 anni scomparso dopo l'attentato sulle Ramblas, l'altro ieri era stato dato per salvo, malconcio ma vivo. E ieri invece quel piccolo sorriso stiracchiato comparso sui volti provati di chi ha seguito le notizie dell'ennesimo assalto all'Europa si è spento: Julian è morto. La notizia l'ha data ieri la britannica Sky News. I funzionari del consolato australiano a Barcellona sabato sera sono andati ad accogliere Andrew, il padre del piccolo, all'aeroporto e lo hanno accompagnato all'obitorio per il riconoscimento della salma. La madre del piccolo, Jumerie detta Jom, è rimasta gravemente ferita ed è ricoverata in ospedale. Giovedì, subito dopo l'attacco del furgone sulla folla delle Ramblas, la donna era stata soccorsa dal farmacista-eroe Fouad Bakkali nel suo negozio, con due gambe rotte e altre ferite in tutto il corpo. La donna, malgrado le sue condizioni, si era subito preoccupata dei figlio smarrito. Anche il nonno, dall'Australia, aveva fatto un appello su facebook per avere notizie del nipote.
Sulla sorte di Julian si sono rincorse molte voci contrastanti nei tre giorni successivi all'attentato. Sabato il sito del quotidiano spagnolo El Mundo aveva raccontato che il bambino era stato trovato in un ospedale della città catalana e la notizia era stata ripresa dai giornali di tutto il mondo, in particolare da quelli australiani e britannici. Una notizia poi rivelatasi atrocemente falsa, ma probabilmente giustificata dall'ansia dei media spagnoli di trovare storie commoventi e possibilmente positive sulla mattanza delle Ramblas. La notizia infatti era stata datat frettolosamente e senza fare ulteriori riscontri. La morte è stata confermata dall'ufficio britannico per gli Affari Esteri e il Commonwealth, che in una dichiarazione ha detto che Julian (nato e cresciuto in Gran Bretagna, nel Kent) «è stato strappato via da noi mentre visitava le bellezze di Barcellona con la madre». Julian e la madre erano giunti in Spagna dall'Australia per partecipare a un matrimonio. «Julian - dicono i familiari nello stesso comunicato - era un amato e adorato membro della nostra famiglia. Era così pieno di energia, divertente e sfacciato, portava sempre un sorriso sui nostri volti. Siamo stati fortunati per averlo avuto nella nostra vita e ricorderemo i suoi sorrisi e custodiremo la sua memoria nei nostri cuori». La famiglia di Julian ha trovato anche le forze per ringraziare le autorità spagnole e tutti coloro che negli ultimi giorni si sono adoperati per aiutarli: «La loro gentilezza è stata incredibile in un momento per noi difficili. Sappiamo di non essere l'unica famiglia ad aver sofferto per i tragici eventi di giovedì e le nostre preghiere e i nostri pensieri sono per chi ha perso qualcuno».
Islam e terrorismo: ecco la foto che smaschera l’ipocrisia dei media, scrive Marcello Foa il 18 agosto 2017 su "Il Giornale". Dunque riepiloghiamo: la Cia aveva avvertito i servizi spagnoli sul rischio di un attentato proprio alla Rambla. L’Isis già in febbraio aveva minacciato azioni terroristiche nelle aree frequentate dai turisti e il rischio era così elevato che, come ha sottolineato ieri Germano Dottori durante lo speciale su Rai3, alcuni tour operator hanno reclutato in segreto più di 100 ex membri delle truppe speciali britanniche, affinché controllassero siti sensibili, come le spiagge di Ibiza. Sulla strage di Barcellona è già stato detto quasi tutto, mi limito a due osservazioni. La prima. Considerato l’altissimo livello di allarme era così difficile blindare le Ramblas con delle protezioni anti intrusione, come avviene in molte piazze europee? Purtroppo siamo di fronte, come già avvenuto a Parigi e a Nizza, a un clamoroso fallimento dei servizi di intelligence, in questo caso spagnoli. La seconda. E’ giunto il momento di smascherare l’ossimoro dietro a cui si trincerano le autorità dopo fatti come questi. Il refrain è sempre lo stesso: orrore per gli attentati, ma noi siamo migliori, noi non dobbiamo aver paura; dunque dobbiamo continuare a mantenere le frontiere aperte e ad accogliere gli immigrati islamici. Paradossalmente fino ad oggi questo approccio è stato vincente, ma razionalmente non sta in piedi. Anche l’ultimo attentato in Finlandia è avvenuto al grido di Allah Akbar. E questo perbenismo porta a inaccettabili forme di autocensura. Guardate queste immagini. Vi ricordano qualcosa? La prima la conoscete tutti. I media non si sono fatti scrupoli nel mostrare l’immagine del piccolo Aylan, perché serviva a giustificare moralmente l’immigrazione, ma la seconda immagine, segnalata su twitter, non diventerà una hit mondiale. La maggior parte del pubblico non la vedrà mai, eppure mostra un altro bambino di tre anni ucciso assieme alla madre dei terroristi islamici sulla Rambla. Viene censurata. Perché se venisse diffusa susciterebbe un’altra ondata emotiva ma nel senso contrario a quello desiderato dal mainstream multiculturale e globalizzante. E’ un’ipocrisia, ma rivelatrice. Così si gestisce l’opinione pubblica. Sia chiaro: sebbene le cause del terrorismo non possano essere banalizzate e ha ragione chi sostiene che a destabilizzare il Medio Oriente siamo stati noi occidentali, in primis gli americani in Irak, Afghanistan, Libia e Siria, è innegabile che l’immigrazione incontrollata a cui stiamo assistendo da mesi e che riguarda principalmente l’Italia, sia fonte di destabilizzazione sociale, per la mancata integrazione di masse enormi di migranti a cui è impossibile garantire un lavoro e una normale accoglienza, e dunque di fenomeni estremi, come l’aumento della violenza, della criminalità, dell’estremismo religioso e, infine, del terrorismo. Ecco perché ha ragione chi manifesta gridando “io non ho paura”. Ma quel grido andrebbe accompagnato con l’urlo: “Enough is enough” come dicono gli inglesi. Ovvero l’immigrazione incontrollata, soprattutto quella islamica, non è più accettabile. Ovvero, in italiano, abbiamo sopportato abbastanza.
Ci uccidono per strada e rispondiamo coi gattini. E Facebook, lento con l'Isis, censura le immagini di Barcellona, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 19/08/2017, su "Il Giornale". Mentre i corpi ormai freddi sanguinavano ancora sulle grosse piastrelle roventi della Rambla di Barcellona, sul web impazzavano le foto dei gattini. Sì dei gattini. Non è solo una stupida moda (era già avvenuto per altri attentati), non è neppure un tormentone. No è l'auto anamnesi del popolo del web, che è quel che resta dell'Occidente più che tramontato, che poi siamo tutti noi. È lo stupido esercizio di chi vuole chiudere gli occhi davanti alla realtà, cancellare la morte ed esorcizzare la paura pensando che il terrore si possa combattere con un meme. È l'immagine di una cultura malata, rassegnata e già sottomessa, che non ha la forza di tirare fuori gli artigli e mette la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Una società che pensa di poter arginare la violenza con le marce della pace, le fiaccolate, i gessetti colorati, i fiori nei cannoni, i vari je suis e la solita retorica muffosa delle braccia aperte e dell'accoglienza a tutti i costi (e Barcellona è stata una delle capitali di tutto questo). Loro ci ammazzano e noi postiamo felini. Mentre i nostri colleghi umani sono sbudellati sull'asfalto delle nostre città. È tutto un cortocircuito di ipocrisie buoniste. Un fuggi fuggi dalla realtà per non vedere quello che i nostri occhi dovrebbero guardare: le decine di corpi riversi sul cemento, le vittime di una furia tutt'altro che cieca, ma anzi precisa nella sua follia sterminatrice. Siamo noi i ciechi, che fingiamo di non vedere, affetti da una presbiopia politicamente corretta che ci fa vedere nitidamente le stragi a migliaia di chilometri da noi e sfoca quelle nelle nostre strade. Persino Facebook, sempre lento e macchinoso nel rimuovere i contenuti osceni e i profili di propaganda dell'Isis, allestisce in fretta e furia un avviso che preceda le immagini della strage. «Questo video potrebbe mostrare contenuti grafici violenti o sangue». No, care felpe radical della Silicon valley, non «potrebbe». Questi video «mostrano» le immagini del cancro che sta togliendo la vita all'Occidente. Mostrano il nostro sangue. Non devono essere censurati come si fa coi filmati pornografici. Non debbono essere vietati ai minorati di buonismo. Devono essere visti da tutti. Il corpo del piccolo Aylan, esanime sulla battigia di una spiaggia turca, aprì gli occhi del mondo sul dramma delle migrazioni. E quindi si poteva pubblicare. Invece l'immagine del bambino riverso sul selciato spagnolo va rimossa. Oscurata. Nascosta nelle pieghe del web. Anticipata da un avviso per non sconvolgere i benpensanti. Non si sa mai che qualcuno dalle nostre parti si accorga che siamo in guerra. Shhh. Fate silenzio. Non diteglielo. L'orrore, invece, va guardato in tutto il suo schifo. Per poterlo combattere. La prossima volta, sperando che mai ce ne sia un'altra, se proprio si vogliono censurare le immagini della morte con foto di animali, almeno si pubblichino i maiali. La cosa più vicina a queste bestie islamiche. Con rispetto parlando. Per i maiali.
"Così Boldrini & C. ci portano gli islamisti in casa". Lo scrittore accusa: "Da immigrato dico che la loro non è accoglienza, ma complicità morale", scrive Elena Barlozzari, Domenica 20/08/2017, su "Il Giornale". «Un altro nostro concittadino massacrato dai terroristi islamici, amici della Boldrini, sostenuti dalla sinistra italiana». Un j'accuse concentrato in 140 caratteri, digitati a caldo, con la mente che corre lungo la Rambla insanguinata. È la provocazione che lo scrittore di origine russa Nicolai Lilin affida a Twitter. E che ha scatenato le polemiche.
Dopo la strage di Barcellona, perché tirare in ballo Boldrini e «compagni»?
«Prima di esser etichettato come razzista solo perché parlo schiettamente, ci tengo a fare una premessa: anche io sono emigrato in Italia, a suo tempo, dalla Federazione Russa. Conosco e riconosco il valore dell'integrazione. Ma quello che vedo negli ultimi anni non ha nulla a che vedere con l'accoglienza. Far arrivare nel nostro Paese un flusso incontrollato di migranti, a discapito della sicurezza di un intero continente ed in barba alle sue leggi, non basterà a lavare le coscienze dell'Occidente e di personaggi come la Boldrini che, quando iniziò la guerra terroristica in Siria, sbandieravano la tesi dei ribelli moderati. Ma i ribelli moderati non sono mai esistiti, esistono i terroristi. E chi li ha spalleggiati e coperti, oggi, è moralmente responsabile anche del sangue sparso sulla Rambla».
La Boldrini ha cinguettato: «La nostra resistenza sarà più forte della ferocia».
«La Boldrini che parla di resistenza quando ha contribuito a consegnare il nostro Paese agli islamisti? Paradossale. La comunicazione boldriniana incarna la quintessenza dell'ipocrisia. Basta pensare che ha accolto il presidente della Rada ucraina già fondatore di un partito apertamente ispirato a quello Nazionalsocialista, Andriy Parubiy, a Montecitorio. Non ci si può ammantare di pacifismo e poi stringere la mano a simili personaggi».
Sembra determinato. Perché ha rimosso il suo commento dai social?
«Perché ho ricevuto delle pressioni enormi. Il portavoce della Boldrini si è scomodato a contattare la redazione televisiva con cui collaboro. Le lascio immaginare lo scopo della telefonata. Così, per non creare problemi alle persone con cui lavoro, ho cancellato il mio tweet. Ecco la loro democrazia e meno male che il dittatore sarebbe Putin».
Si è sentito minacciato?
«Nonostante le modalità usate per chiudermi la bocca, no. Le minacce della Boldrini non mi fanno paura, ma è giusto tener fuori da questa polemica chi non ha alcuna responsabilità per le mie parole».
E dalla Rete?
«Sono arrivate le offese di chi, da un lato, insulta me e, dall'altro, sostiene una che come vola un'offesa è pronta a querelare».
Dai suoi colleghi scrittori ha ricevuto un pizzico di solidarietà?
«Affatto, ma la cosa non mi ha stupito. Gli intellettuali in Italia sono molto bravi ad indignarsi con chi, a differenza loro, va controcorrente».
Teme intoppi per la sua carriera?
«Non temo per me, ma per l'Italia. Perché se la terza carica dello Stato arriva a intimidire chi esprime delle idee che non le vanno a genio significa che nel nostro Paese la democrazia non gode di ottima salute».
Lei è stato in Cecenia ai tempi della minaccia jihadista. Come siete risusciti a contenere così efficacemente il fenomeno?
«Solo combattendo. Risposte dure e lotta senza quartiere. Questo è l'unico modo per vincere la guerra contro il terrorismo».
E di gessetti colorati e immagini di gattini cosa ce ne facciamo?
«Possono servire a sensibilizzare l'opinione pubblica, a togliere la paura. Ma parallelamente bisogna adottare una strategia di contrasto al terrorismo che sia incisiva. L'Europa non si è ancora attrezzata a sufficienza perciò ci rimangono solo i gattini. E non bastano».
Da ex membro dei reparti speciali, secondo lei, l'Italia cosa rischia?
«Non penso che qui succederà qualcosa, i jihadisti sono folli ma non così stupidi da giocarsi il loro unico trampolino d'ingresso al vecchio continente».
Nicolai Lilin: "Attenti, l'obiettivo della Boldrini è eliminare la nostra cultura, scrive il 20 Agosto 2017 Gianluca Veneziani su “Libero Quotidiano”. Chiamatela educazione boldriniana. Guai a scrivere un post polemico contro la presidenta della Camera, guai a sostenere in modo provocatorio che sarebbe amica dei jihadisti, guai a dissentire dal suo pensiero filo-immigrazione indiscriminata. Subito si abbatte su di te la scure della repressione, fatta di chiamate per invitarti a moderare i toni e a cambiare linguaggio, di pressioni sul luogo di lavoro affinché non ripeta mai più prodezze simili o di insulti per darti dell'ignorante e comunicarti che d' ora in poi verrai boicottato ovunque tu parlerai, sempre che ti venga lasciata ancora libertà di parola. Lo scrittore italiano, di origini russe, Nicolai Lilin, autore del bestseller Educazione siberiana, è finito sulla graticola per aver postato su Twitter, all' indomani della strage di Barcellona, un pesante j' accuse contro la Boldrini: «Un' altro nostro concittadino massacrato dai terroristi islamici, amici della Boldrini, sostenuti dalla sinistra italiana». Apriti cielo: offeso sui social, invitato a rimuovere il post, ha dovuto assistere a «sollecitazioni» da parte dell'entourage della presidenta affinché d' ora in poi sia più cauto nelle sue esternazioni. Con il rischio non esplicitato, in caso di perseveranza, di non poter più continuare a parlare e pubblicare sui media e con le case editrici per le quali oggi lavora. Atteggiamenti che lo scrittore, ai nostri taccuini, non esita a definire «intimidatori e fascisti».
Lilin, per cominciare, ci spieghi il senso del suo tweet.
«Quella frase rientra in una strategia provocatoria che sto mettendo in atto da tempo per richiamare l'attenzione della Boldrini sulla strage di cittadini nel Donbass da parte dei nazisti ucraini, che la sinistra boldriniana non solo omette di raccontare ma addirittura sembra sostenere. Il mio riferimento era all' incontro dello scorso giugno tra la presidente della Camera e il presidente della Rada, il Parlamento ucraino, Andriy Parubiy: parliamo di un conclamato nazista, impegnato nella feroce repressione di chiunque si opponga al governo golpista di Kiev. Ebbene, i nazisti ucraini, come comprovato da diversi documenti, agiscono in stretta collaborazione con i miliziani dell'Isis. Sostenere gli uomini di Parubiy, come fa la Boldrini, significa stare anche dalla parte dei terroristi islamici. E questa è la conferma della solidarietà selettiva di cui la presidente è la principale interprete, quell' ipocrisia ideologica che la porta a indignarsi giustamente per i bambini morti nel Mediterraneo ma a ignorare deliberatamente i bambini uccisi dai nazisti nel Donbass. In tal modo, e qua è il più grande paradosso, pur di attaccare Putin, la sinistra boldriniana diventa alleata del nazismo».
Era questo l'unico significato del suo messaggio?
«No, intendevo anche dire che la Boldrini e i suoi seguaci sostengono i ribelli siriani ostili ad Assad, che si sono dimostrati essere tutt' altro che moderati, ma veri e propri radicalisti islamici. Da ultimo, mi riferivo al fatto che le sballate politiche sull' immigrazione di questo Paese di cui la Boldrini è uno dei massimi rappresentanti - politiche che pretendono di cancellare la nostra cultura importando modelli retrogradi e delegano alle ong quello che dovrebbe essere compito esclusivo dello Stato - favoriscono la guerra tra poveri, la marginalità di chi arriva da noi, la mancata integrazione, che poi è il presupposto per l'integralismo».
Dopo la pubblicazione del suo tweet, quali sono state le reazioni istituzionali?
«Il portavoce della Boldrini ha chiamato Tgcom, per cui conduco il programma La versione di Lilin, sollevando un polverone e chiedendo spiegazioni sul perché avessi scritto quel tweet. Chiamare il luogo dove lavoro è un metodo fascista, perché preferisce le intimidazioni al chiarimento personale. Non solo: diversi scrittori hanno contattato la Einaudi, con cui pubblico i miei libri, e manifestato il loro dissenso contro di me, inducendo la casa editrice a mettermi in guardia e a essere più prudente nelle future esternazioni. Da ultimo, molti troll boldriniani si sono scatenati contro di me, insultandomi con toni razzisti in quanto russo che offenderebbe la nostra lingua, solo perché ho scritto "un'altro" anziché "un altro". È così la sinistra boldriniana: più attenta a un apostrofo che alle vite umane di chi viene ammazzato in Ucraina».
Ora quali conseguenze teme? Pensa verrà denunciato dalla Boldrini?
«Che faccia pure. Sono stato ferito in guerra mentre combattevo contro i terroristi ceceni, figuriamoci se posso aver paura di una denuncia. Né posso temere chi su Twitter annuncia che mi boicotterà ai festival letterari. È anche questo un sintomo della cultura ai tempi della Boldrini: incapacità di distinguere tra letteratura e pensiero politico e tentativo di mettere a tacere tutte le voci di dissenso, bruciando simbolicamente i libri proibiti. L' ennesima manifestazione di un metodo fascista».
IL FASCISMO ISLAMICO. QUELLO CHE I FASCISTI NON VORREBBERO SAPERE…
Mussolini, Hitler e l’islam: quello che i nuovi fascisti non vorrebbero mai sapere. Cosa pensavano davvero i due dittatori della religione musulmana, scrive Lorena Cacace il 18 Dicembre 2015 su "Nano Press". “Se c’era lui, altro che invasione: non entrava nessuno in Italia”. In questi tempi d’isteria collettiva sul tema immigrazione, il populismo regna sovrano, sui social media e, purtroppo, anche in politica. A un problema di enorme difficoltà, si vuol dare una risposta semplice e immediata, mentre di semplice e veloce non c’è nulla in un fenomeno che ha radici antiche, con intrecci sempre più complessi e di difficile risoluzione. Come in una sorta di autodifesa, s’invoca il passato e “l’uomo forte”. Così, i nuovi neofascisti o neonazisti (spesso da tastiera) sognano il ritorno di un Duce o di un Fuhrer, dimenticando una cosa fondamentale: Benito Mussolini e Adolf Hitler erano entusiasti della religione musulmana e avevano rapporti più che ottimi con i paesi islamici.
Quando pensiamo a Hitler e all’ideologia nazista, ci immaginiamo una difesa dei valori tradizionali dell’Occidente. Mussolini lo disse chiaramente coniando lo slogan “Dio, patria e famiglia”. Tutto ciò è vero, senza alcun dubbio, ma c’è molto di più. La questione della religione è stata centrale anche nella Germania nazista e nell’Italia fascista e l’islam ha trovato grandi appoggi da parte dei due dittatori. Semplificando, si potrebbe usare il detto “il nemico del mio nemico è mio amico”: visto che il nemico numero uno erano gli ebrei, coloro che li avversavano (come i leader musulmani) erano alleati preziosi. C’è però molto di più.
HITLER VOLEVA ESSERE MUSULMANO. “La nostra sfortuna è stata avere la religione sbagliata. Perché abbiamo avuto il cristianesimo con la sua mitezza e flaccidità? L’Islam è una Männerreligion, una religione da uomini”. Parola di Adolf Hitler. La rivelazione arriva dal libro scritto dal professore Stefan Ihrig, “Atatürk in the Nazi Imagination” (Ataturk nell’immaginario nazista), a cui il Wall Street Journal e altri media statunitensi hanno dedicato lunghi articoli. Nel testo, Ihring sostiene che non fu Benito Mussolini a ispirare le prime azioni del Fuhrer, ma Mustafa Kemal Atatürk, il Padre di tutti i Turchi. Il motivo? Lo sterminio degli armeni (il primo dell’epoca moderna) e la cacciata dei greci dalla Turchia. Hitler in particolare era affascinato dalla religione musulmana che riteneva più adatta allo spirito germanico rispetto “a quella melensa e sacerdotale del cristianesimo”. L’idea che i “veri musulmani sono dei guerrieri”, fece breccia nella visione del mondo del Fuhrer per cui il mito del Superuomo era l’unico faro da seguire. Non quindi i valori del cristianesimo su cui si fonda (volente o nolente) l’Occidente, come oggi urlano i neofascisti (“salviamo il presepe”, “fuori i musulmani dall’Europa”): l’uomo che voleva portare la “razza ariana” alla guida del mondo, sognava di essere musulmano. I contatti tra figure dell’islamismo più radicale e la Germania nazista sono accertati. Celebre è l’episodio che riguarda Haj Amin al-Husseini, Gran Mufti di Gerusalemme (e uno dei primi teologi dell’Islam radicale). Hitler siglò un accordo con lui per creare la “Musligermanics”, primo contingente di combattenti nazisti non germanici ad arruolarsi nelle SS. I due fondarono una scuola per imam militari a Dresda, ma fu tutto l’entourage nazista a dare grande attenzione al mondo musulmano. Il ministro della Propaganda nazista ordinò ai giornalisti di non parlar male dell’Islam e anzi di sottolinearne il valore, come ricorda David Motadel nel libro “Islam and Nazi Germany’s War”. Antisionista, antifrancese e antibritannico, Hitler trovò nell’Islam radicale un alleato di grande importanza.
MUSSOLINI E LE MOSCHEE. Più complessa è il rapporto tra Benito Mussolini e la religione musulmana. La storia sembra narrare di due Mussolini molto diversi tra loro: quello che si fregiò del titolo di Protettore dell’Islam e quello che negò la costruzione della moschea a Roma. Il primo rimanda alla celebre foto del Duce a cavallo con la Spada dell’Islam, arma cerimoniale che gli venne donata nel 1937 con l’annessione della Libia all’Italia. Quando, tre anni prima, il Paese nordafricano entra a far parte dei domini extraterritoriali dell’Italia fascista, Mussolini fece costruire strade, scuole, ospedali e moschee per i “musulmani italiani della quarta sponda d’Italia”. A spingerlo non è certo uno spirito umanitario: è la politica e, in particolare, l’avversione alla suddivisione dell’Africa e del Medio Oriente decisa da Francia e Inghilterra dopo la Prima Guerra Mondiale. Sono le mire espansionistiche del fascismo a muovere le fila, nient’altro. Il titolo di Protettore dell’Islam fu fortemente voluto da Mussolini perché gli dava la stessa autorità del Califfo su quelle terre: la religione viene piegata all’opportunità politica. La vicenda della moschea di Roma è esemplare. Secondo la leggenda, Mussolini rispose che solo quando avrebbe avuto il permesso di costruire una chiesa a La Mecca, avrebbe acconsentito all’edificazione di una moschea nella Capitale. In realtà, il Duce era più che favorevole a realizzarla in vista dell’annessione dell’Albania e quindi dell’aumento degli italiani di fede musulmana. A fermarlo fu il Vaticano (che decise di andare a braccetto con il governo fascista pur di ottenere i Patti Lateranensi). A differenza di Hitler, Mussolini non era affascinato dalla religione in sé, ma la usò per scopi politici contro il nemico comune (Francia e Inghilterra in primis). Che le peggiori dittature razziste di allora fossero filo-islamiche in chiave anti-ebraica (e contro Francia e Inghilterra) dovrebbe far riflettere in un solo senso: usare la religione come arma politica è sempre un errore. Allora come oggi.
IL FASCISMO E L'ISLAM. Mussolini paladino dei Musulmani? Un recente saggio ricostruisce luci e ombre dell'ambigua vocazione filoaraba del dittatore, scrive Alessandro Frigerio. In oro massiccio, finemente cesellata dagli abili artigiani berberi, la spada dell'Islam puntava dritta al cielo. Sotto, un Mussolini un po' appesantito nel fisico, ma rinvigorito nello spirito dalla recente conquista dell'Impero, la sguainava con soddisfazione, al culmine di una cerimonia sfarzosa e coreograficamente perfetta. Era il 20 marzo 1937, e nell'oasi di Bugàra, appena fuori Tripoli, si consumava l'atto finale del corteggiamento del fascismo nei confronti degli Arabi e dell'Islam. La spada, consegnata da Iusuf Kerbisc, capo di un contingente berbero utilizzato dagli italiani fin dal tempo della Grande Guerra contro i "ribelli", era il simbolo attraverso il quale una parte del mondo arabo voleva esprimere l'approvazione per la politica islamica del fascismo. Una politica che dopo il 1945 verrà dimenticata, oppure sbrigativamente inserita nella categoria del più classico opportunismo mussoliniano. Ma che per un decennio, dai primi anni Trenta fino allo scoppio del conflitto mondiale, sembrò interpretare, talvolta in modo disordinato, l'essenza stessa del fascismo, perennemente combattuto tra rivoluzione e ordine, tra la vocazione a farsi paladino revisionista del trattato di Versailles e le ambizioni coloniali da ultima arrivata tra le grandi potenze. A illuminare l'argomento è appena giunto un agile volume scritto da Enrico Galoppini, studioso e profondo conoscitore del mondo arabo (Il fascismo e l'Islam, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma, 2001, pp. 166), che ricostruisce alcuni aspetti delle inclinazioni filoaraba e filoislamica di Mussolini, indagandole alla luce dei più recenti studi e delle fonti giornalistiche d'epoca, seguendole nel suo percorso disordinato ma incessante, così simile, spiega l'autore, a un fiume carsico che "balzava periodicamente agli onori delle cronache per poi scomparire e proseguire lontano dagli sguardi dei più". La sorgente nascosta della politica verso il Medio Oriente risaliva agli anni Venti, e di organico aveva ben pochi aspetti, ereditata com'era da quella dell'Italia liberale. La lontana Rodi nel Dodecaneso, la Tripolitania e la Cirenaica ancora non completamente "pacificate" e le due teste di ponte in Africa orientale, l'Eritrea e la Somalia italiana, costituivano un lascito dei primi sessant'anni del Regno d'Italia. Ma negli anni Venti di una specifica politica araba ancora non si poteva parlare. Troppo forte era l'esigenza di Mussolini di giocare la carta della credibilità con l'Inghilterra per azzardare mosse che potessero dispiacere, troppo impellente la necessità di riconquistare saldamente le zone interne della Libia per poter fare degli arabi degli interlocutori politici. E, infine, ancora troppo influenti erano le spinte cattoliche, soprattutto dopo i Patti Lateranensi, per immaginare un avvicinamento al mondo islamico. Ma nei primi anni Trenta Mussolini si scopre giocatore sempre più audace e decide di sfoggiare una maggiore autonomia e un più marcato dinamismo. Il mondo arabo, sottoposto ai mandati di tipo semicoloniale di Francia e Inghilterra, diventa così una carta appetibile. Ma ancora Mussolini non ha deciso come giocarla. Lusingare le aspirazioni indipendentiste o farsi addirittura protettore dell'Islam? E ancora, spendere tutto per indurre l'Inghilterra a un gentlemen agreement che sancisca l'influenza italiana nel Mediterraneo o prendersi ciò vuole in barba a tutto e tutti? Una cosa però è certa. Fascismo e mondo arabo-islamico concordano nel sentirsi reciprocamente insoddisfatti per le sistemazioni di Versailles. E oltretutto possono dire di vantare anche dei nemici in comune. La Francia, principale beneficiaria dei "mandati", che in Siria e in Libano attizzava il particolarismo e si ergeva a protettrice dei cattolici d'Oriente. L'Inghilterra, che reprimeva il nazionalismo arabo e agevolava l'emigrazione ebraica in Palestina. E' così che scattano le prime iniziative di "attenzione" verso il mondo arabo. Nel 1930 nasce a Bari la Fiera del Levante, quattro anni dopo Radio Bari inizia a trasmettere anche in lingua araba, a Roma si organizzano un paio di convegni degli studenti asiatici, si promuovono pubblicazioni e partono le prime sovvenzioni a giornalisti e giornali arabi. Inizia un lavorio occulto per prendere contatto con esponenti nazionalisti e panarabi mediorientali. Fino a quando nel 1934 Mussolini enuncia a chiare lettere la sua svolta. "Gli obiettivi storici dell'Italia hanno due nomi: Asia e Africa. Sud e Oriente sono i punti cardinali che devono suscitare la volontà e l'interesse degli italiani", dichiara alla seconda assemblea quinquennale del regime. E aggiunge, per sgombrare il campo da fraintendimenti, che "Non si tratta di conquiste territoriali, e questo sia inteso da tutti vicini e lontani, ma di un'espansione naturale, che deve condurre alla collaborazione fra l'Italia e le nazioni dell'Oriente immediato e mediato". Insomma, Italia come ponte tra Oriente e Occidente alla ricerca di una "espansione spirituale, politica, economica" che andasse ben oltre l'ambito ormai sempre più stretto del Mare Nostrum. Fin qui i fatti, forse non troppo noti ma già documentati anni addietro da Renzo De Felice (Il fascismo e l'Oriente, il Mulino, 1988). Il merito del volume di Galoppini è invece un altro, e cioè quello di chiarire quali furono le strategie di penetrazione tra gli Arabo-Musulmani e di individuare l'immagine, tutta personale, che il fascismo tentò di offrire di sé e dell'Islam al mondo. La difficoltà a stabilire "quanto l'opinione pubblica araba fosse davvero ben disposta nei confronti dell'Italia fascista, oppure convinta della strumentalità della sua politica islamica", la si deve soprattutto all'impossibilità a individuare nel mondo arabo-islamico, negli anni Trenta così come oggi, un interlocutore privilegiato. A livello religioso non esisteva un vero e proprio rappresentante dell'Islam, essendo questa religione priva di una gerarchia strutturata sulla falsariga di quella ecclesiastica. Sul piano politico, invece, mentre esistevano gruppuscoli nazionalisti e indipendentisti, sulla cui affidabilità permanevano tuttavia numerosi dubbi, a livello di politica 'alta' il fascismo doveva confrontarsi con la maggiore influenza di Francia e Inghilterra sulle èlites politiche arabe. A parte alcuni contatti con la corte egiziana, che non lasciarono grande traccia, in Medio Oriente il fascismo preferì puntare tutto sulla carta 'antiborghese' e sul 'fattore islam'. L'Italia si propose quindi come paladina di giustizia contro le 'demoplutocrazie', avvicinandosi preferibilmente agli esponenti tradizionali del mondo islamico piuttosto che agli intellettuali nazionalisti. Si aprirono così canali privilegiati con il Gran Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Huseyni e con movimenti palestinesi contrari all'ebraizzazione della Palestina, si fornì assistenza economica e tecnologica all'Iraq, si guardò al sovrano saudita Ad Ibn Sa'ud come a un nuovo "Duce d'Arabia". Nacquero anche organizzazioni arabe d'ispirazione fascista, soprattutto in Egitto e in Siria. Strutturate spesso come formazioni paramilitari e caratterizzate, sulla scia della migliore liturgia nostrana, da divisa colorate (le camicie azzurre, le camicie verdi), queste formazioni ammiravano del fascismo l'aspetto militaristico, la sua volontà di rivalsa rispetto alle potenze occidentali e il suo oscillare continuo fra tradizione e progresso. Ma il filofascismo arabo si esaurì in queste e poche altre manifestazioni, non assumendo mai vere e proprie connotazioni ideologiche. Del resto, come ha puntualmente chiarito Renzo De Felice, "la qualifica di 'fascisti' attribuita anche da studiosi di rilevo al Mufti di Gerusalemme, a el-Gaylani, a Chandra Bose e ad altri esponenti dei movimenti nazionali asiatici ed africani che furono in contatto e collaborarono con qualcuna o tutte le potenze del Tripartito prima e durante la seconda guerra mondiale non regge ad uno studio ravvicinato delle vicende attraverso le quali si svilupparono i loro contatti e la loro collaborazione e alla immagine, al giudizio che di essi hanno i loro rispettivi popoli. […] Quanto al Mufti, in lui il movimento nazionale palestinese vede uno dei maggiori protagonisti della propria lotta nella fase antibritannica e anche sovrani arabi moderati, come quello dell'Egitto, negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, videro in lui un uomo da accogliere e trattare col massimo rispetto". Come mette bene in luce il volume di Galoppini, quel che invece s'impone dalla metà degli anni Trenta è "un'interpretazione dei rapporti con il mondo arabo-islamico che tende a stabilire un'analogia tra il fascismo e l'Islam. L'Italia lascia il posto al 'fascismo'; la rivoluzione starebbe dando i suoi frutti, lasciandosi alle spalle l'Italietta liberale". Sulla stampa italiana si comincia a parlare di razza araba e della sua superiorità rispetto non solo agli ebrei ma anche agli altri popoli di colore. In barba all'universalità del messaggio del Corano gli arabi vengono identificati come una sorta di razza eletta all'interno del mondo musulmano. E "a furia di assimilare in tutto l'Islam al fascismo - scrive Galoppini - si finiva per scambiare […] l'Islam per un regime d'ordine, quale per certi versi il fascismo fu". La consegna della spada dell'Islam a Tripoli, nel 1937, costituì l'apice della politica di Mussolini verso il mondo arabo. E da questo punto di vista la Libia fu il laboratorio dove la sua sperimentazione fu più intensa. Per non apparire imperialista e fugare ogni dubbio sulla sua 'vocazione' islamica il fascismo dovette però faticare non poco. Già in occasione della conquista dell'Etiopia la propaganda di regime dovette arrampicarsi sui vetri per fornire una giustificazione umanitaria alle operazioni e all'impiego di alcuni contingenti libici: la guerra d'Etiopia fu fatta passare per una guerra di liberazione dei mussulmani contro le vessazioni perpetrate dal governo 'schiavista' e filoccidentale del Negus. E per recuperare qualche punto anche a livello di immagine, in Libia il fascismo intervenne massicciamente costruendo e restaurando moschee, inaugurando scuole di cultura islamica e fornendo agevolazioni ai pellegrini diretti alla Mecca. La colonia libica rivestì a tutti gli effetti il "ruolo di vetrina delle buone disposizioni italiane nei confronti dell'Islam".
(Alcune righe prese dalla cronaca dell'anno 1937 - Ndr.) "A Tripoli, davanti una moltitudine araba convenuta per lo storico incontro, viene utilizzata una hollywodiana coreografia; l'"apparizione" di Mussolini su un cavallo bianco che spunta dalla cima di una duna del deserto seguito da duemilaseicento cavalieri, mentre lui snuda la fiammeggiante "spada dell'Islam" d'oro massiccio ricevuta dai capi arabi: Toccò il vertice della popolarità. La sua apoteosi sembrava pari a quella di Alessandro Magno; ebbe la sensazione che anche lui stava compiendo una "missione"; la riunione di popoli di varie razze, colore, lingue e religione. Gli balenò anche a lui, forse, come al macedone, "l'unificazione mondiale". L'onnipotenza sulla Terra. L'"Alessandrite" che ha contagiato tutti in 2300 anni. In Egitto - si disse e si scrisse - Mussolini compiva il suo secondo "miracolo" religioso; i secolari "infedeli saraceni", alla Mecca, davanti alla Kaaba, (era l'assurdo degli assurdi) invocarono Allah di proteggerlo e da lui farsi proteggere; lui "cristiano" (opportunista dei Patti Lateranensi) il "protettore dell'Islam!". Solo in seguito si seppe che quegli arabi erano degli arabo-spagnoli legati ad alcuni esponenti fascisti, "registi" della coreografia e che avevano recitato la parte come in un film, anzi era veramente un film, per i cinegiornali, e servivano per fare propaganda.
La missione civilizzatrice del fascismo voleva trasmettere l'idea che il bravo mussulmano fosse anche un bravo suddito coloniale, devoto al suo capo. "È questa la gente della Libia che ha giurato fedeltà all'Italia di Mussolini - si legge in una cronaca dell'epoca -, che è pronta ad agire ad un suo cenno, a prendere le armi contro il nemico comune". Ma i risultati della politica filo-araba, perseguita nel corso di tutti gli anni Trenta, alla fine si dimostreranno decisamente scarsi. L'Inghilterra li sopravvaluterà ampiamente, cadendo preda di una psicosi da 'italiano sotto il letto'. Una psicosi che contribuirà, assieme alla conquista italiana dell'Etiopia, a far perdere a Mussolini quel poco credito conquistato a Londra fino ad allora. Con la Germania, invece, l'Italia non riuscirà mai a stabilire una strategia comune. A Hitler, disinteressato alle colonie e attento esclusivamente alla conquista dello spazio vitale a est, la carta araba interessava solo in funzione antibritannica. Ma in alcuni casi ciò contribuì a fare del Reich un rivale di Mussolini, in quanto il totale disinteresse coloniale nazista fu in molti casi percepito dal mondo arabo come assai meno ambiguo del tentativo mussoliniano di tenere assieme il 'posto al sole', l'impero coloniale, con la tutela del modo arabo e dell'Islam.
Il fascismo e l'Islam, di Enrico Galoppini, Edizioni all'insegna del Veltro, 2001, pp. 166.
Il Duce amico dell'islam (persino nel cognome). C'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto, scrive Giancarlo Mazzuca, Venerdì 05/08/2016, su "Il Giornale". Sotto i colpi dei micidiali attentati perpetrati dai terroristi dell'Isis, ora l'Europa intera, nonostante le parole del Papa, guarda all'Islam con sentimenti d'odio e di grandissima paura. Ma c'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi, pur tra luci ed ombre, di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto. Un grande «feeling» che venne propiziato dall'affettuosa amicizia che il futuro duce intrattenne, quando era ancora direttore dell'Avanti!, con la giornalista Leda Rafanelli di fede musulmana. E che, poi, culminò con il matrimonio di Tripoli del 20 marzo 1937, testimone di nozze Italo Balbo, quando un impettito Mussolini, in sella a un magnifico puledro, sguainò la famosa spada dell'Islam ricevuta in dono dai berberi. Quell'immagine è diventata il simbolo di un lungo corteggiamento nato nel 1919, prima ancora della Marcia su Roma, con la pace di Versailles alla fine della Prima guerra mondiale. Quella conferenza più che un trattato si rivelò, infatti, un vero e proprio «diktat» non solo per la Germania sconfitta, ma anche per l'Italia che, pure, quella guerra l'aveva vinta. A ispirare lo spirito di rivalsa nei confronti dell'asse franco-inglese era stato Gabriele D'Annunzio, il Vate della «vittoria mutilata» e il protagonista dell'impresa di Fiume, che mise il Belpaese sullo stesso piano del mondo arabo da sempre in conflitto con le potenze coloniali. Pur con le dovute differenze, il nazionalismo che cominciava a serpeggiare in una parte dell'Europa era della stessa matrice di quello che già si respirava sulla «quarta sponda». Revanscisti gli uni, revanscisti gli altri, divenne quasi naturale cercare punti d'incontro. Se la conquista dell'Etiopia venne presentata - i due amici-nemici Mussolini e D'Annunzio in primis - come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani, il «bel suol d'amore», Tripoli, diventò il terreno fertile per rinsaldare quell'intesa cordiale che oggi sembra davvero una grandissima utopia. Nel 1939, infatti, il governatore Balbo, nonostante i dissapori con il duce, fece ottenere la cittadinanza speciale italiana a tutti i libici islamici della costa, a differenza dei beduini e degli ebrei che restavano cittadini di serie B. Ci furono, in quegli anni, tanti punti d'incontro: se già nel 1934 Radio Bari cominciò a trasmettere programmi in lingua araba perché la comunicazione era un pallino del duce, i rapporti commerciali con i Paesi dell'Islam divennero intensi tanto che lo Yemen dell'imam Yahyà si trasformò, di fatto, in un protettorato italiano. Parallelamente, dalle parti della Mezzaluna, si diffusero movimenti giovanili che guardavano al fascismo con particolare interesse, dalle Falangi Libanesi al Partito Giovane Egitto, dalle Camicie Verdi a quelle Azzurre. Anche allora, comunque, non tutti si trovarono d'accordo sull'innamoramento per gli «infedeli»: a parte il malumore di qualche alto prelato, è il caso di Leo Longanesi, romagnolo come Mussolini e amico della prim'ora, che, all'indomani dell'«incoronazione» del duce con la spada dell'Islam, sentenziò: «Sbagliando s'impera». Eppure, piccola curiosità, il fatto che Benito fosse amico del mondo musulmano starebbe nel cognome stesso: secondo un'ipotesi, non del tutto infondata, Mussolini deriverebbe da muslimin, plurale di muslin che, in arabo, significa musulmano. Strani gli scherzi del destino...
Benito Mussolini, in un libro l'amicizia tra il Duce e l'islam, scrive il 23 Aprile 2017 “Libero Quotidiano”. E' un tema poco esplorato, quello del rapporto tra Fascismo e nazismo da una parte e musulmani dall'altra. Ma negli ultimissimi tempi, due libri hanno fatto luce su questi rapporti, evidenziando come fossero forti e strutturali, in una chiave soprattutto anti-ebraica. "Bambini in fuga" di Mirella Serri racconta soprattutto del forte legame non solo ideologico tra Adolf Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme. In "Mussolini e i musulmani", invece, Giancarlo Mazzucca e Gianmarco Walch si concentrano sul fascino che islam e mondo arabo ebbero sul Duce. Un interesse che, scrivono i due autori, ebbe origine da un misto di ragioni di carattere personale e di politica estera. Nel primo caso si trattò di una affettuosa amicizia che Mussolini intrattenne con la giornalista Leda Rafanelli, detta l'odalisca, di fede musulmana, negli anni Dieci del Novecento. Nel secondo caso, negli anni Trenta, fu l'antisemitismo a spingere il capo del governo italiano e gli islamici dalla stessa parte della barricata. In quegli anni il Duce guardò con sempre maggiore attenzione ai paesi islamici, imponendo nel 1934 a Radio Bari di trasmettere programmi in lingua araba e curando i rapporti commerciali con quei Paesi, da cui, come scrive il quotidiano Il Messaggero, venne ricambiato con fervore: là nacquero infatti diversi movimenti come le Falangi Libanesi, le Camicie Verdi, il Partito Giovane Egitto e le Camicie Azzurre che seguivano il fascismo come esempio tramite il quale nazionalizzare le masse per via autoritaria. Il feeling proseguì negli anni di guerra con il progetto di costruire in Italia una legione araba fedele alle forze dell'Asse, con la benedizione del Gran Muftì di Gerusalemme, al quale Mussolini nel '36 diede la disponibilità a fornire uomini e materiale per mettere in atto l'avvelenamento dell'acquedotto di Tel Aviv, città nella quale avevano trovato rifugio gran parte degli Ebrei in fuga dalle leggi razziali in Europa. Il piano fu poi abbandonato, ma al Gran Muftì arrivarono dal governo italiano 138mila sterline, che allora erano una cifra davvero cospicua.
CHE COS'E' IL DAESH (ISIS) E CHI SONO I SUOI CALIFFI.
Dobbiamo chiamarlo Stato Islamico, Isis o Daesh? L’Occidente non ha deciso come combatterlo, ma neanche come nominarlo. Dall’appellativo che gli diamo, dipende anche il ruolo che gli riconosciamo, scrive Francesco Zaffarano su “La Stampa” il 16/11/2015. L’Occidente non ha ancora deciso come combatterlo, ma se è per questo non sa neanche come chiamarlo. Sulle pagine di questo giornale abbiamo sempre usato il termine Isis, ma questa fetta di radicalismo islamico non ha un solo nome. Scegliere come chiamarlo non è un aspetto superfluo: saper dare un nome alle cose è il primo passo per capirle. La disputa, in questo caso, è tra chi lo chiama Stato Islamico e chi preferisce il termine Daesh. Nel primo gruppo c’era il Dipartimento di Stato americano, che dal 2014 ha deciso di usare Islamic State of Iraq and the Levant (Isil) come nome del gruppo; nel secondo, tra gli altri, c’è il presidente Francois Hollande, che ha usato il termine Daesh parlando dei responsabili degli attentati di Parigi. Barack Obama ha sempre utilizzato il primo nome: da qualche giorno, invece, il segretario di stato John Kerry ha iniziato ad usare il termine Daesh.
STATO ISLAMICO. Quando parliamo di Stato Islamico (vale anche per le varianti Is, Isis, Isil) ci riferiamo a uno Stato a tutti gli effetti, come almeno pretende di essere quello guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il cosiddetto Isis, un tempo, era una sezione irachena di al-Qaida, diventata poi Stato Islamico in Iraq, Stato Islamico dell’Iraq e della Siria e, infine, autoproclamatasi Stato Islamico. L’appiattimento del nome fino ad arrivare al semplice Stato Islamico è semplicemente un tentativo di rimuovere le particolarità geografiche, fornendo una sola entità Stato. Basti pensare che un altro modo per indicare lo Stato Islamico è al-Dawla, letteralmente «Lo Stato». Peccato che questo Stato non abbia dei veri e propri confini omogenei, né un territorio unito. Non a caso, i nomi precedenti all’autoproclamazione voluta da Abu Bakr al-Baghdadi nel 2014 comprendono specifiche aree geografiche, come Stato Islamico in Iraq e al-Sham (termine arabo che si può tradurre con Grande Siria) o come quel Isil in cui la “L” sta per Levante, cioè potenzialmente anche i territori di Israele, Palestina, Giordania e Libano.
DAESH. Come Isis, anche Daesh è un acronimo: significa al-Dawla al-Islāmiyya fī ʿIrāq wa l-Shām, cioè “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, o “della Grande Siria”. Apparentemente il significato è lo stesso ma l’accezione attribuita a Daesh (oDāʿish, per essere precisi) è spesso dispregiativa, perché somiglia a un altro termine arabo che significa «portatore di discordia». Secondo il The Guardian , addirittura, la Francia avrebbe preferito il termine Daesh perché simile al francese dèche, cioè «rompere». Che il termine sia disprezzato dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi è confermato anche dalle testimonianze di chi racconta di punizioni corporali per chi utilizza pubblicamente il nome Daesh.
MA QUINDI? Decidere tra Stato Islamico e Daesh significa dare forma a quella realtà. Praticamente tutte le testate giornalistiche optano per Isis, per una questione di semplicità e di uniformità. Ma a suggerire una risposta, dopo gli attentati del 13 novembre, è stato Enrico Letta, ex premier italiano e attuale direttore dell’Istituto di studi politici di Parigi. Letta: «Smettiamola di chiamarlo Stato Islamico, sono terroristi e come tali vanno trattati #Daesh».
Un nemico, tanti nomi. Era Isis, adesso è Daesh. Ecco perché Hollande e Obama preferiscono usare un'altra definizione per lo Stato islamico, scrive Andrea Cuomo Venerdì 20/11/2015 su “Il Giornale”. Non esistono più i nemici di una volta. Per dire: i nazisti o i comunisti. Un bel nome definito, da scolpire nel marmo dell'odio e del disprezzo, da pronunciare trattenendo il fiato. Ora invece chi ci uccide e ci minaccia, come si chiama? Is, Isis o Daesh? Sono la stessa cosa o sono cose diverse? Abbiamo o non il diritto di saperlo? La questione non è di lana caprina. Dare il nome alle cose è il primo passo per identificarle e conoscerle. E conoscerle serve quindi, magari, combatterle. Il fatto che i terroristi islamici cambino ragione sociale in continuazione come fossero una pizzeria di quartiere o una ditta ci spiazza e ci smarrisce, non ci dà punti di riferimento, rende tutto più oscuro, più minaccioso. Facciamo chiarezza. La nuova definizione con cui stiamo appena prendendo confidenza è Daesh. L'hanno usata il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian all'indomani dgli assalti di Parigi, lo stesso presidente francese François Hollande, il segretario di stato Usa John Kerry, perfino il presidente americano Barack Obama. Tutti si riferivano a quella entità che fino a ieri eravamo abituati a chiamare Isis. Anche Daesh è una sigla: riassume in una parola spendibile nei titoli (e con qualche aggiustamento nella traduzione e nella traslitterazione) la formula araba al Dawla al Islamiya fi al Iraq wa al Sham. Che vuol dire «Stato islamico dell'Irak e del Levante», locuzione quest'ultima che si ricollega al toponimo che veniva usato un tempo per indicare quella regione chiamata anche grande Siria e che comprende il Sud Est della Turchia, la Siria, la Giordania, la palestina, Israele e il Libano. Un retaggio coloniale che contiene peraltro un ulteriore sfregio per l'islam in arme. Non molto diverso da Isis, sigla questa volta inglese della locuzione «Stato islamico dell'Irak e della Siria». e allora perché Daesh? Per due ragioni: perché adottare una sigla di una frase in arabo rende meno «agibile» il concetto di Stato islamico, un po' come prendere le distanze da una definizione che, in quanto tale, può sembrare una legittimazione. E poi perché Daesh ha un suono che, per gli arabi, richiama il concetto di distruzione, calpestìo, sbattere contro qualcosa. Un po' come chiamare qualcosa «Crash». E si sa, dare un brutto nome a qualcosa è già quasi come condannarla alla «damnatio memoriae». Non è un caso che, come ha riferito l'Associated Press, a Mosul, città siriana controllata dall'Isis (o comunque vogliamo chiamare i simpatici seguaci del Califfo) alcuni miliziani avrebbero minacciato di tagliare la lingua a quanti usino la parola Daesh in riferimento allo Stato islamico. Adotteremo anche noi in Italia questo disprezzo onomastico? Ci proveremo, forse. Ma con un po' di rammarico. Si sa, noi siamo abitudinari. C'eravamo appena abituati all'Isis, e alcuni di noi già si sgomentano quando sui giornali leggiamo la sigla accorciata Is, quella in cui scompare ogni riferimento geografico. Sigla peraltro prediletta dai tagliagole, che vedono così esaltato l'aspetto istituzionale della loro esistenza. A complicare tutto esistono poi altre sigle. Ad esempio Isil, usata da molti giornali americani, che altro non è che la traduzione inglese di «Stato islamico dell'Irak e del Levante». Poi c'è Sid: Stato islamico del Califfato, scelto in alcune occasione dai jihadisti per definirsi. E poi ecco comparire Nins, una sigla acronimo di «Not Islamic not State» (traduzione: non-Stato-non-islamico»), scelta negazionista fatta da Ban Ki-moon, segretario generale dell'Onu, che per la verità non ha conosciuto alcuna fortuna. Anzi, ha finito per generare ulteriore confusione.
Che cos'è il Daesh e chi sono i suoi Califfi. Non solo Siria e Iraq. In altri cinque luoghi tra Asia e Africa lo Stato islamico ha proclamato le sue “province”. Ecco come sono nate e chi sono i leader, scrivono Giuliano Battiston, Federica Bianchi, Francesca Mannocchi e Roberta Zunini il 21 dicembre 2015 su "L'Espresso". È trascorso un anno e mezzo da quando Abu Bakr al-Baghdadi ha proclamato lo Stato islamico (Daesh in arabo) subito dopo la presa di Mosul, in Iraq. Da allora almeno 42 sigle fondamentaliste, attive dall’Africa Occidentale all’Estremo Oriente, hanno giurato fedeltà e obbedienza al sedicente Califfo e si sono rese responsabili di attentati in suo nome. E se nell’area compresa tra Iraq e Siria c’è il nucleo originario che ha dato vita a uno Stato di fatto, con capitale Raqqa, un esercito di 30-40 mila soldati, e una popolazione di circa dieci milioni di abitanti, altrove sono sorte altre cinque “province” del Califfato, su aree che i suoi uomini controllano spargendo il terrore e imponendo la Sharia come legge fondamentale. Dall’Afghanistan al Caucaso, dalla Libia al Sinai, per finire in Nigeria, ecco come al-Baghdadi è riuscito a piegare sotto il suo comando gruppi un tempo autonomi, di quali alleanze ha goduto, quali emissari ha usato per convincerli a unirsi alla battaglia comune nel tentativo di formare, a poco a poco, la Umma, cioè la nazione comune di tutti i musulmani. Con un ritratto dei leader locali, piccoli “califfi”, all’ombra della sua carismatica figura.
NIGERIA. Abubakar Shekau, leader di Boko Haram, sembra avere molteplici vite. «Muore più spesso di una batteria dell’iPhone», ha commentato Ryan Cummings, analista militare a proposito delle molte volte in cui è stato dato per ucciso in battaglia. La verità è che quello che agli inizi del millennio era un movimento islamista di una povera regione nordorientale della Nigeria, con la sua adesione a Daesh è diventato il gruppo islamista più temuto d’Africa. Se l’azione fino ad oggi più eclatante, il rapimento di 280 ragazze, è avvenuta dopo l’adozione del franchising di Daesh, la trasformazione da setta predicante a gruppo del terrore era già iniziata nel 2009 ad opera di Shekau. Abubakar Shekau è un incrocio tra un gangster e un imam, è nato in un villaggio al confine con il Niger e di lui non si conosce nemmeno l’età (pare abbia attorno a 40 anni). Per anni ha studiato in una madrassa da cui è stato allontanato per le tendenze troppo radicali. Ha continuato gli studi islamici al Borno State College, elemento che gli è valso il soprannome di “Darul Tawheed”, esperto di monoteismo, dell’unicità di Allah. Negli 11 anni di studi alla madrassa i genitori non sono mai andati a trovarlo: un dolore che si sarebbe trasformato in rabbia cieca tanto da essere internato in un ospedale psichiatrico da cui è evaso. Per sbarcare il lunario subito dopo gli studi ha venduto profumi e unguenti al mercato, sempre vestito di bianco e con la testa avvolta in un turbante. Fatale l’adesione a Boko Haram una setta fondata da un imam carismatico, Mohammed Yusuf, per lottare pacificamente contro uno Stato corrotto. Grazie alla sua incredibile capacità di attrarre giovani combattenti Shekau divenne velocemente il braccio destro di Yusuf e quando questi nel 2009 fu ucciso dai poliziotti che lo avevano catturato, assunse il comando dell’organizzazione. Prima sparì per un anno dalla circolazione (secondo molti in campi di addestramento di al Qaeda) e poi tornò più agguerrito che mai. Sposò una delle quattro mogli di Yusuf e ne adottò i figli. Cominciò a formare un esercito. Chiunque entrava in conflitto con lui era immediatamente ucciso, inclusi altri capi dell’organizzazione più moderati. «Mi diverto ad uccidere chiunque Dio mi chiede di uccidere, nello stesso modo in cui mi diverto ad uccidere polli e montoni», ha spiegato in un video. In sei anni Boko Haram ha ucciso più di 4000 persone nella sola Nigeria in attacchi contro chiese, organizzazioni internazionali, caserme e villaggi. Ha stretto legami con gli islamisti affiliati all’Is in Chad e in Niger. Ma la sua competenza di questioni internazionali è limitata: più volte ha dichiarato di voler uccidere Margaret Thatcher e papa Giovanni Paolo II.
LIBIA. Lo scorso agosto, durante un sermone nella moschea al Rabat di Sirte, un giovane ragazzo di fronte a un folto gruppo di fedeli ha dichiarato la città “Emirato Islamico Libico”. Il giovane è Hassan al Karami (conosciuto anche come Abu Muawiyah al-Libi) attuale leader spirituale dello Stato islamico in Libia, è nato nel 1986 a Bengasi ed è stato uno dei leader di Ansar al Sharia. Molti componenti della sua famiglia erano uomini di Gheddafi. La famiglia Karami rappresenta dunque perfettamente la doppia faccia dell’Is libico: da un lato ex gheddafiani nostalgici del regime, dall’altro appartententi (e finanziatori) di Ansar al Sharia (l’organizzazione salafita che ha spianato la strada agli uomini del Califfo). Wolfram Lacher, nel suo “Libya: a Jihadist Growth” scrive: “Molti giovani libici hanno combattuto in Iraq nel 2005-7. Già allora una delle famiglie di spicco nell’orbita estremista era quella dei Karami”. Secondo fonti locali anche Hassan al Karami avrebbe combattuto in Iraq, ancora molto giovane, nel 2006. A quell’esperienza si deve la sua conoscenza con Abu Musab Al Zarqawi, predecessore di Al Baghdadi e si deve a questo incontro il ruolo di primo piano nell’esportazione dello Stato islamico a Sirte. Una volta tornato in Libia il giovane Hassan ha studiato a lungo in una scuola coranica diventando il punto di riferimento del consenso intorno all’Is. Hassan Al Karami era presente al primo Daw’ah (dichiarazione di proselitismo) allo Stato islamico il 30 ottobre 2014, in cui - da predicatore - invitata i cittadini a giurare fedeltà al Califfo e sarebbe stato lui ad ordinare la prima attività di Hisbah (polizia islamica) a Sirte, chiedendo ai combattenti di distruggere un santuario alla periferia della città. Nei primi mesi del 2015 è emerso come protagonista dell’affiliazione all’Is in un elenco pubblicato dalla Brigata 166 di Misurata, che ha provato ad arginare lo Stato islamico a Sirte, prima di ritirarsi. Oggi Sirte ha due categorie di leader: i locali, appunto i Karami, e gli stranieri: nel quartier generale comanda un pachistano, la prigione è in mano a un uomo del Kwait, l’Università è presieduta da un nigeriano di Boko Haram. Secondo alcuni cittadini di Sirte, i miliziani di Daesh avrebbero ucciso decine di uomini e crocifisso diversi cittadini, per dissuadere i residenti a ribellarsi. Dopo la soppressione della rivolta della tribù Ferjani, ordinata da Hassan al Karami, il leader ha annunciato la decapitazione dei rivoltosi e ordinato alle famiglie di Sirte di cedere le proprie figlie affinché diventino spose dei miliziani. Secondo una fonte dell’intelligence di Misurata, Karami oggi sarebbe anche il negoziatore per lo scambio di prigionieri tra Misurata e Sirte. Di nuovo la doppia faccia dell’Is libico: ai gheddafiani è stata data la possibilità di festeggiare l’anniversario della rivoluzione verde del rais, i Karami avrebbero chiesto la liberazione del cugino gheddafiano Ismail, in carcere dalla rivoluzione del 2011, in cambio di alcuni miliziani prigionieri delle brigate di Misurata. Un drone italiano sorveglia un'installazione nel territorio del Daesh. Sembrano magazzini ma hanno una recinzione alta e lampade che illuminano il perimetro esterno. Non si notano movimenti. Ma la ricognizione ha permesso di scoprire che si tratta di un impianto petrolifero. Nel giro di pochi secondi un bombardiere della coalizione sgancia una serie di ordigni che distruggono uno a uno gli edifici. E restano le fiamme del petrolio che brucia.
CAUCASO. Abu Bakr al-Baghdadi, «la guida dei fedeli», «ha accettato il vostro atto di fedeltà e ha nominato lo sceicco Abu Mohammed al-Qadari come governatore del Caucaso». Con queste parole il 23 giugno 2015 il portavoce dello Stato islamico, Abu Mohammed al-Adnani, ha annunciato la nascita della nuova provincia del Califfato nel Caucaso, il Vilayat Kavkza. A guidarla è stato chiamato al-Qadari, uno dei tanti pseudonimi di Rustam Asilderov, jihadista dalla lunga esperienza, già a capo della provincia del Dagestan per conto dell’Emirato islamico del Caucaso, la rete fondata nel 2007 per unire sotto un unico cappello i movimenti radicali islamisti che operano nell’irrequieta periferia russa. In quell’occasione, il portavoce del Califfo è stato chiaro: tutti i «mujahedin dello Stato islamico nel Caucaso» sono tenuti a unirsi «alla carovana di al-Qadari, ascoltarlo e obbedirgli in tutto, tranne che nel peccato». La nomina di Rustam Asilderov premia un uomo giovane, ma già veterano del jihad: nato il 9 marzo 1981 nella valle di Kadar, nel cuore del Dagestan, da anni è tra i protagonisti della guerriglia islamista anti-russa, erede della prima e della seconda guerra cecena. Arrestato nel 2007 e poi rilasciato, ha scalato i vertici dell’Emirato del Caucaso, da semplice guerrigliero fino a leader. Nominato nel maggio 2010 a capo del settore centrale della provincia del Dagestan, l’8 agosto 2012 è diventato il capo militare e il referente ideologico della provincia. Nel dicembre del 2014, in un video diffuso sui social, lo strappo. Asilderov ha disconosciuto l’autorità di Aliashkab Kebekov, l’allora leader dell’Emirato islamico del Caucaso. Nel video, Asilderov precisa che avrebbe dichiarato fedeltà al Califfo perfino prima, ma che ha ritardato perché sperava di convincere Kebekov, il suo ex mentore, a lasciare l’orbita di al Qaeda per unirsi al Califfo. Asilderov «è salito sul carro del vincitore», dicono di lui gli ex compagni di jihad. Ma per ora può vantare solo il titolo onorifico. Non è riuscito infatti a convincere i notabili di Raqqa, la capitale de facto dello Stato islamico, a dirottare significative risorse verso la provincia del Caucaso. Né a sferrare attacchi importanti contro il nemico storico, il governo russo. L’unico attentato rivendicato dai suoi uomini risale al 2 settembre, contro una caserma nel distretto di Magaramkentsky, nel Dagestan del Sud. Mentre due mesi fa ha dovuto lanciare un appello, sottoscritto dal Califfo in persona, per reclutare nuovi militanti. Per l’uomo-forte di Putin in Cecenia, Ramzan Kadyrov, la nuova provincia dell’Is nel Caucaso «è solo un bluff», «un manipolo di banditi nascosti nelle grotte». Eppure il Cremlino guarda con preoccupazione al nuovo corso. Lo scorso ottobre Eduard Kaburneyev, che guida la sezione del Dagestan del Comitato investigativo russo, ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sul gruppo di Asilderov. Accusato di voler sovvertire la Costituzione con l’obiettivo di violare l’integrità territoriale del Paese. Anche l’amministrazione Obama non sottovaluta la minaccia. A settembre il segretario di Stato americano, John Kerry, ha incluso Asilderov e la vilayat da lui governata nella lista delle organizzazioni terroristiche.
AFGHANISTAN. Il Califfo al-Baghdadi ha messo nelle
mani di Hafiz Saeed Khan la partita più importante: strappare ai nemici di al
Qaeda l’Afghanistan, il Paese in cui è nato il jihad contemporaneo. Nato nel
1972 nella cittadina di Mamozai, nell’agenzia di Orakzai, una delle aree
pachistane in cui l’autorità di Islamabad è subalterna alle leggi tribali, tre
figli e due mogli, dal 26 gennaio 2015 Hafiz Saeed Khan è il governatore della
provincia dello Stato islamico nel Khorasan. Un’area che storicamente include il
territorio dell’attuale Afghanistan, le zone orientali dell’Iran, oltre a
porzioni significative di Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan, ma che per lo
Stato islamico si estende fino al subcontinente indiano. La partita cruciale si
gioca però in Afghanistan e Pakistan, i due Paesi su cui sembra puntare
militarmente Hafiz Saeed Khan, e dove il Califfo ha adottato la
consueta politica espansionistica: reclutare con denaro contante, sfruttando
il malcontento dei jihadisti disillusi, in rotta di collisione con le
organizzazioni di provenienza. È il caso del governatore del Khorasan. Hafiz
Saeed Khan è stato infatti per molti anni un pezzo da novanta
del Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP), i Talebani pakistani, una rete fondata nel
2007 per unire i gruppi paramilitari che operavano nelle aree tribali del
Pakistan e nel Khyber Pakhtunkhwa e che oggi condividono con i cugini afghani
poco più del nome. Già emiro del TTP per la regione dell’Orakzai, Hafiz Saeed
Khan è entrato in rotta di collisione con il suo gruppo nel novembre 2013,
quando non gli è stato concesso il comando. Un anno dopo, alla fine del 2014, ha
annunciato il distacco dal TTP, riconoscendo l’autorità del Califfo. La nomina
a wali (governatore) del Khorasan per lo Stato islamico è avvenuta pochi mesi
dopo. Quando il portavoce del Califfo, Abu Mohammad al-Adnani, ha reso pubblico
un video di 7 minuti in cui si congratula con il nuovo wali e mette in guardia i
suoi uomini: «Le fazioni, le baionette e i fucili contro di voi si
moltiplicheranno». Così è stato. I talebani afghani, che con al Qaeda hanno
stabilito un’alleanza tattica, vedono come fumo negli occhi Hafiz Saeed Khan, il
Califfo e la loro pretesa egemonica sul jihad in Afghanistan. A distinguerli, ci
sono differenze ideologiche e dottrinarie. E soprattutto l’obiettivo: la partita
dei talebani è tutta interna ai confini nazionali, quella del Califfo in
Khorasan è transnazionale. Non a caso, Hafiz Saeed Khan ha intensificato le
attività di reclutamento nelle province afghane al confine con il Pakistan, lì
dove è più diffuso l’Islam salafita, alieno ai talebani, di scuola deobandi. E
dove è più facile mobilitare tutti quei pashtun che non riconoscono la Durand
Line, il confine tra Afghanistan e Pakistan tracciato a tavolino nel 1893. Nella
provincia afghana di Nangarhar, gli uomini di Hafiz Saeed Khan sono più forti
che altrove. Hanno campi di addestramento che portano i nomi dei padri tutelari
dell’Is, e dopo aver costretto i talebani sulla difensiva puntano
ad accerchiare e colpire il capoluogo, Jalalabad, e a controllare la strada che
da lì conduce al posto di confine di Torkham. I soldi non mancano. Nella sola
provincia di Nangarhar, Hafiz Saeed Khan - che l’intelligence afghana ha dato
per morto lo scorso luglio ma che le nostre fonti assicurano essere ancora alla
guida del gruppo - disporrebbe di 40 milioni di dollari. Utili per comprare
nuove reclute, ma insufficienti per mettere in piedi una struttura di comando
unitaria. Per questo, Hafiz Saeed Khan ha inviato degli emissari in Iraq, per
discutere con la leadership centrale dello Stato islamico. E il Califfo ha in
mente di spostare i suoi consiglieri arabi, ora di stanza in Pakistan e a Dubai,
proprio in Afghanistan. L’obiettivo è chiaro: entro il 2016 imporre il proprio
sistema di giustizia in tutta la provincia di Nangarhar. Nei due anni
successivi, strappare l’Afghanistan ai talebani. Colpendo al cuore i nemici di
al Qaeda.
SINAI. Nel video più recente, datato metà agosto, Abu Osama al Masri, è in ginocchio accanto a una messe di armi e munizioni, mostrata con orgoglio, come se fosse l’unico raccolto fruibile nel deserto del Sinai. E in effetti, da quando nel 2014 l’arida penisola egiziana è stata da lui proclamata provincia dello Stato islamico, le armi sono spuntate ovunque, compresa la bomba che avrebbe fatto esplodere l’aereo civile russo uccidendo più di 200 persone. Ma sia in questo video sia in altri, il volto e le mani dell’imam egiziano, 42 anni, sono oscurati. Questione di sicurezza e di vitiligine. Il jihadista, laureato in studi islamici all’università al Azhar del Cairo, non si è mai fatto riprendere in viso e le poche foto che esistono sono il risultato di lunghe ricerche dei servizi segreti di mezzo mondo. Mentre i guanti neri servirebbero a coprire il problema dermatologico. Di lui si sa molto poco, anche dopo la scalata al vertice del Wilayat Sinai, la“provincia del Sinai” dell’Is. Ovviamente Abu Osama al Masri è il nome di battaglia. «Avvelenate il loro cibo, sorvegliateli ovunque, in casa, per strada, usate qualsiasi oggetto per distruggerli, farli a pezzi, mettete degli esplosivi nelle loro auto e abitazioni, colpite le loro ambasciate», è il proclama con cui ha debuttato nel ruolo di leader, rivolto alle cellule nei Paesi degli “Infedeli”. L’esplosione, nel luglio scorso, davanti all’ambasciata italiana al Cairo, è stata attribuita alla sua organizzazione. Prima di assurgere a guida del Wilayat Sinai, gli obiettivi dell’uomo senza volto erano locali, ora le sue trame sono diventate globali. Come dimostra l’attentato all’aereo russo di cui si è attribuito il “merito”. L’estate scorsa ha pubblicato un video con la decapitazione di quattro beduini, accusati di aver passato informazioni a spie israeliane. In passato, sarebbe stato lui la mente dietro l’attacco nella località turistica israeliana di Eilat sul Mar Rosso, così come di un attentato suicida nel 2013 contro la sede della Direzione sicurezza a Mansoura: 16 morti e un centinaio di feriti. Anche la decapitazione di William Henderson, esperto di energia americano che lavorava in una raffineria, porterebbe la sua firma. Intercettando gli scambi di messaggi dopo l’esplosione dell’Airbus, si evince che «Wilayat Sinai» si aspetti di ricevere, come regalo per l’efficienza, dalla casa madre irachena più armamenti e foreign fighters per rafforzare i propri ranghi e denaro fresco con cui ungere i capi delle tribù beduine locali, indispensabili per poter agire indisturbati.
I soldi illegali tra l'Italia e il Califfato: "Mille dollari per il martirio di tuo fratello". Intercettato un kamikaze italiano che svela come l'Isis riesca a spostare denaro quando e dove vuole, anche nel nostro Paese. E lo reinvesta nella guerra santa. Il procuratore Roberti: «Seguirne i movimenti permette di individuare le reti italiane prima che colpiscano». Così funziona il finanziamento del terrorismo, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 19 giugno 2017 su "L'Espresso". Lonate Pozzolo è un comune del Varesotto a due passi dal super-presidiato aeroporto della Malpensa. In una frazione c’è la casa di Sami, nato in Tunisia nel 1979 ma cresciuto in Lombardia, dove nel 2008 ha sposato un’italiana con cui ha messo al mondo una bambina. Dopo anni di pacifica esistenza, Sami sparisce dall’Italia all’improvviso, il 14 giugno 2015, con un aereo di linea decollato dalla Malpensa e atterrato a Istanbul. Lui stesso, tra luglio e agosto, chiama i familiari rimasti in Italia e spiega che si è «arruolato nello Stato islamico» e ne va fiero. I parenti italiani e musulmani stentano a crederci, la notizia li sconvolge. Il 20 settembre a Lonate Pozzolo arriva un’altra chiamata internazionale via Internet. Uno sconosciuto, che parla in arabo classico, annuncia che Sami «ha partecipato a un’operazione di martirio: è morto cinque giorni fa». Probabilmente è uno dei tre kamikaze che il 14 settembre 2015 hanno fatto una carneficina con autobombe e attentati simultanei nella città di Hasakah, nella zona di confine tra Siria e Iraq. Il misterioso interlocutore dichiara che l’autoproclamato Califfato ha stabilito di «donare mille dollari» alla famiglia del «martire», che potrà ricevere anche il «video-testamento» di Sami. I soldi e il filmato sono pronti, basta comunicare l’indirizzo dove farli arrivare. Dal fronte di guerra, direttamente qui in Italia. A ricevere la comunicazione dell’Isis è il fratello di Sami, che vive in Lombardia da quando era piccolo, lavora onestamente e si considera «un musulmano vero che odia la guerra, il terrorismo e la violenza». Il ragazzo italo-tunisino rifiuta i soldi del Califfato. Il portavoce dell’esercito nero gli risponde che «allora questi mille dollari verranno usati per comprare armi per i combattenti». E poi tronca la conversazione, mentre il fratello di Sami inizia a piangere. L’offerta di quella mazzetta di dollari targati Isis, una specie di “trattamento di fine rapporto” per l’attentatore suicida di Lonate Pozzolo, è stata ricostruita da un’inchiesta dei carabinieri del Ros di Milano, finora inedita. Le intercettazioni finali mettono a fuoco una questione fondamentale per la nostra sicurezza. Un’organizzazione terroristica che tra Siria e Iraq ha creato uno Stato, ora sotto assedio, non può usare bonifici bancari o normali canali finanziari. Per spostare dollari dal Califfato all’Italia (o viceversa) c’è bisogno di complici, almeno di un postino in grado di consegnarli personalmente, se necessario, anche a Lonate Pozzolo. Quando offre il denaro al fratello di Sami, il portavoce dell’Isis è tranquillo, sicuro. Il suo messaggio è una dimostrazione di forza: possiamo spostare soldi quando e dove vogliamo. Anche in Italia.
Le indagini sui finanziamenti al terrorismo jihadista sono iniziate negli Stati Uniti dopo le stragi dell’11 settembre 2001 con aspettative enormi, ma hanno prodotto effetti scarsi. Solo ora in Italia cominciano a dare i primi risultati concreti, che L’Espresso è in grado di documentare. L’odore dei soldi porta ai santuari del terrore in Siria e Iraq, naturalmente. Ma anche in paesi ufficialmente schierati contro l’Isis come Arabia Saudita, Libano, Egitto o Giordania. Tra Milano e Brescia, in particolare, le indagini stanno ricostruendo movimenti di denaro, gestiti da integralisti, per un totale di oltre sei milioni di euro. È la prima volta che l’Antiterrorismo riesce a tracciare flussi così sostanziosi. Il contrasto finanziario al terrorismo è un’attività molto complessa, a cui partecipa l’élite degli investigatori italiani, dal Ros dei carabinieri allo Scico della Guardia di Finanza. La cabina di regia è in via Giulia a Roma, nel palazzo della Direzione nazionale antimafia, che dopo l’ultima riforma coordina anche l’antiterrorismo. Il procuratore Franco Roberti, fin dall’inizio del suo mandato, ha messo la questione dei soldi in cima alle priorità del suo ufficio. «Seguire i movimenti di denaro è fondamentale», spiega Roberti a L’Espresso, «soprattutto perché permette di risalire alla rete di rapporti in cui è inserito il singolo sospettato. Ricostruendo gli scambi è possibile identificare altri soggetti potenzialmente legati a cellule terroristiche. Tale attività funziona però solo se tempestiva, altrimenti il rischio è che si perdano le tracce». Ma in Italia esiste una rete di finanziatori del terrorismo? Il procuratore risponde con un esempio volutamente vago: «Ricordate Salah Abdeslam, uno dei terroristi del teatro Bataclan di Parigi? Dall’analisi dei suoi trasferimenti di denaro abbiamo ricostruito tutta una serie di collegamenti con persone che vivono in Italia. E da qui, seguendo altri movimenti finanziari, siamo risaliti ancora a nuovi soggetti». Roberti non fornisce dettagli sulle indagini in corso, ma il concetto è chiaro: i soldi non girano mai per caso. Nella storia italiana è Giovanni Falcone che ha insegnato a seguire la pista del denaro per colpire la mafia. Una lezione che oggi si rivela utile anche nella lotta al terrorismo globale. Con una differenza: per i boss, riciclare soldi sporchi significa nasconderli. Gli eserciti jihadisti invece devono reinvestirli nelle loro guerre sante: servono a comprare armi, esplosivi, a pagare gli stipendi dei miliziani e persino a liquidare, come nel caso di Sami, i familiari dei caduti. Ricostruire tutti i passaggi del denaro, come impone il codice, è un grosso problema. «Quando i soldi arrivano in Siria, Iraq o altre zone di guerra è molto difficile, se non impossibile capire a chi effettivamente sono destinati», osserva il procuratore Roberti. «Cosa diversa è se parliamo di denaro movimentato tra soggetti che vivono in Europa o in Paesi come la Tunisia, dove le autorità sono collaborative e ci forniscono ottimi spunti per le inchieste in corso». L’impossibilità di indagare in certi stati esteri spiega perché queste indagini rischiano di restare monche: una procura dimostra che esiste una rete di integralisti che, dall’Italia, manda soldi in Siria o Iraq; qui però le tracce del denaro si perdono; quindi l’accusa di terrorismo cade e i processi si fanno solo per reati finanziari, come se il problema si riducesse a una sorta di abusivismo bancario. Eppure queste indagini restano cruciali, come chiarisce lo stesso Roberti: «Anche se forse non conosceremo mai i nomi dei destinatari finali, a noi interessa individuare i contatti italiani che stanno dietro a quelle transazioni. Indagini che hanno dato vigore a sospetti su personaggi che non conoscevamo. Quando notiamo imponenti flussi di denaro dall’Italia verso Siria e Iraq, come abbiamo verificato, è logico ritenerli molto sospetti. Insomma, gli accertamenti finanziari offrono l’opportunità di individuare le reti italiane ed europee dei terroristi prima che colpiscano». A complicare i controlli sono le tecniche di invio del denaro. Il perfetto tesoriere jihadista raccoglie tante piccole somme, spesso di provenienza lecita, con la giustificazione di un’attività d’impresa o di una fondazione caritatevole. «Chi gestisce queste movimentazioni spesso non lo fa per professione», osserva Roberto Pennisi, il magistrato della procura nazionale che coordina le inchieste del distretto di Brescia, una delle zone più calde per le infiltrazioni jihadiste: «Può essere un qualsiasi commerciante o imprenditore, che per questo è più difficile individuare. E per muovere i soldi usa sistemi come i money transfer, il metodo informale chiamato “hawala” o i tradizionali spalloni».
“Hawala” è una compensazione tra crediti e debiti basata su rapporti di fiducia. In Lombardia, ad esempio, c’è un mediatore che riceve diecimila euro. A quel punto contatta un soggetto fidato che gli deve gli stessi soldi, ma vive in Siria. Il mediatore si limita a fargli sapere che vanno consegnati a una certa persona. Il risultato è che i soldi arrivano a destinazione senza che nessuno debba spostarli. Alla base del sistema c’è la rete fiduciaria dei mediatori-tesorieri, che incassano una percentuale per il servizio. Muovono soldi sulla parola. Una parola che vale oro. Adesso le nuove indagini cominciano a chiudere il cerchio. L’analisi dei movimenti di denaro collegati a tre jihadisti partiti dall’Italia per andare a combattere in Siria, in particolare, ha permesso di individuare un canale di finanziamento di Al Nusra, il fronte militare nato da una costola di Al Qaeda in Iraq. Dopo aver combattuto tra Siria e Yemen, i tre jihadisti sono tornati in Italia. E ora gestiscono una rete di raccolta e trasferimento di denaro con base in Lombardia, ma collegata a un network più ampio, con diramazioni in Austria, Germania e altri paesi europei. Altre inchieste confermano l’utilizzo di spalloni (corrieri di valuta) al servizio dell’Isis. Un ventenne italo-tunisino partito da Milano per arruolarsi nell’Isis in Siria ha ricevuto in questi mesi almeno diecimila euro dall’Italia. Con due passaggi collaudati: tramite un’agenzia di money transfer, i soldi arrivano in Turchia; da lì un complice li ritira e li consegna a uno spallone, che li porta con sé in Siria, attraversando la frontiera in auto o anche a piedi. Il sistema dei money transfer è stato utilizzato anche da Nadir Benchorfi, l’italo-marocchino arrestato dalla Digos di Milano nel dicembre scorso: secondo l’accusa, progettava una strage in un centro commerciale di Sesto San Giovanni, dove si era fatto assumere mentre già cercava armi. Nadir, che ha confessato e poi ritrattato, inviava da mesi tutti i suoi risparmi, oltre seimila euro, a reclutatori dell’Isis sparsi fra Turchia, Palestina, Francia e Algeria. Soldi divisi in piccoli versamenti, tra 50 e 600 euro alla volta, spediti con i money transfer. Almeno un accredito è servito a un guerriero dell’Isis per comprarsi un kalashnikov in Siria. Ma senza le intercettazioni via Internet, nessuno avrebbe saputo che i soldi di Nadir finivano ai tagliagole di Daesh (la sigla dell’Isis in arabo): gli stessi che gli hanno lavato il cervello chiedendogli di sparare contro la folla in Italia. Lo Stato islamico raccoglie soldi anche taglieggiando, attraverso alcuni trafficanti di esseri umani, i profughi siriani e altri migranti in fuga dalla guerra. In Libia si è arricchito con i disperati uno scafista ora ricercato per la strage al museo del Bardo a Tunisi. Ma ci sono anche sospetti jihadisti che organizzano viaggi via terra, meno rischiosi e più costosi, dalla Siria verso l’Europa, attraverso Slovenia e Croazia. Questi integralisti non usano barconi, ma affittano furgoni e mini-van. I soldi versati dai loro clienti per evitare la morte in mare, finiscono in una cassa comune gestita a livello europeo. Poi il malloppo viene trasferito in contanti ai «fratelli jihadisti in Siria». La pista dei soldi ha portato gli inquirenti italiani a ricostruire anche i contatti di Najim Laachraoui, il cittadino belga di origine marocchina che ha partecipato alle stragi dell’Isis, con tecniche militari, in Belgio e Francia: era il kamikaze che si è fatto esplodere il 22 marzo 2016 all’aeroporto di Bruxelles. E ora iniziano a emergere anche «flussi sospetti in entrata verso l’Italia», avverte preoccupato il pm Pennisi. L’allarme dopo tante stragi jihadiste sta moltiplicando le denunce. Secondo gli ultimi dati della procura nazionale, tra il 2015 e il 2016 in Italia sono state segnalate 710 operazioni sospette per possibili finanziamenti al terrorismo, che hanno portato all’apertura di ben 46 indagini giudiziarie, dal Nord al profondo Sud. Ma se il terrorismo non ha confini, spesso gli inquirenti devono fermarsi alla frontiera statale. «Non esistono meccanismi rodati di condivisione europei sul tema del finanziamento», denuncia il procuratore Roberti: «Utile sarebbe una legislazione comune. Grazie a Falcone, per noi italiani è diventato normale seguire il denaro. Per il resto d’Europa, no».
Il ruolo chiave, nelle stragi in Europa, dei jihadisti di casa nostra addestrati in Siria, Iraq o Yemen, ha portato in primo piano le indagini internazionali sui cosiddetti foreign fighters, i combattenti stranieri arruolati dall’Isis o dalle organizzazioni affiliate con Al Qaeda. Secondo i dati del ministero dell’Interno aggiornati a questa settimana, che L’Espresso può anticipare, i guerrieri islamisti made in Italy sono saliti a 125. La lista comprende tutti i soggetti che hanno abitato in Italia anche in passato (e quindi potrebbero riattivare contatti pericolosi) e che hanno effettivamente raggiunto le zone di guerra. In questo elenco, quindi, non compaiono aspiranti jihadisti come Youssef Zaghba, l’italo-marocchino morto nella strage di Londra con altri due kamikaze dell’Isis: era stato fermato a Bologna (e poi scarcerato) prima di poter partire con il suo biglietto aereo per la guerra. Tra i 125 islamisti che sono invece arrivati in Siria, 24 sono cittadini italiani: 8 sono partiti dal nostro paese, come le convertite Alice Brignoli e Maria Giulia Sergio, 16 da altri stati. Il picco del reclutamento si è raggiunto tra il 2015 e il 2016. Da allora le sconfitte e l’assedio dell’Isis hanno ridotto anche le partenze dall’Italia. Almeno 33 dei nostri jihadisti risultano morti in battaglia. L’allarme più elevato ora riguarda il ritorno degli integralisti trasformati dalla guerra in macchine del terrore. Dei 125 combattenti collegati al nostro Paese, almeno 22 sono rientrati in Europa. Dieci di loro sono stati localizzati in Italia: arrestarli è difficile, perché sono partiti per la guerra prima che diventasse reato, ma vengono tenuti sotto controllo costante. E quando non funziona la giustizia, può scattare l’espulsione. Ma solo per gli stranieri.
Proprio le ultime indagini sugli stragisti collegati ai foreign fighters hanno spinto i carabinieri del Ros a ipotizzare, nella relazione riservata aggiornata al dicembre scorso, la possibile esistenza di «una cellula dell’Isis attiva in Italia», quantomeno per «proteggere la fuga o la latitanza di altri terroristi». In questo quadro globale, la nostra sicurezza dipende dalla quantità di soldi che finanziano la “divisione stragi” di Daesh. Gli strateghi del Califfato hanno creato infatti una centrale terroristica, chiamata “Unità operazione esterne”, che è arrivata a contare circa 1.500 combattenti-istruttori. Una scuola di terrorismo, come spiegano i rapporti riservati visionati da L’Espresso, che prepara «attentati su larga scala, con un numero elevato di vittime». La recluta impara a «utilizzare ogni tipo di arma, fabbricare bombe con prodotti chimici in commercio» (come acetone e acqua ossigenata), «confezionare cinture esplosive, progettare rapimenti e occupazioni di edifici». Il corso base dura appena cinque settimane. Dopo di che il combattente può essere mandato a colpire anche in Europa, di solito nello Stato che conosce meglio. Questo pericolo è proporzionale al numero dei foreign fighters: Francia, Gran Bretagna, Germania e Belgio hanno quantità spaventose di jihadisti, tra cinque e venti volte di più dell’Italia. Sotto questo aspetto, rischiamo come la Spagna, che ne conta 133. Mentre la Tunisia, l’unica democrazia nata dalle primavere arabe, è minacciata da oltre seimila jihadisti. La divisione stragi dell’Isis, dunque, è un vero esercito che costa caro. Oggi la crisi dello Stato islamico, sotto assedio da Mosul a Raqqa, riduce le entrate locali e aumenta l’importanza dei finanziamenti esteri. Sollecitati apertamente anche dai jihadisti italiani intercettati dalle nostre forze di polizia.
Anche l’apparato propagandistico è un costo: l’arma vincente di Daesh è stata l’eccezionale capacità di fare il lavaggio del cervello, via Internet, a decine di migliaia di giovani in crisi. I combattenti catturati, come confermano i dossier riservati, spiegano che a Raqqa, fino a pochi mesi fa, funzionava a pieno ritmo «un ufficio multimediale di grandi dimensioni, collocato in una base segreta, con tecnologie all’avanguardia, 120 telecamere, stazione radio, studi di registrazione...». Ai computer lavorano tecnici cresciuti in Occidente, ma la pubblicazione in rete è decisa da un team di sauditi. Solo per gli studi di Raqqa, secondo i dossier riservati, lo Stato islamico avrebbe speso 2 milioni e mezzo di dollari all’anno. Conquistando con i suoi media un’enorme capacità di reclutamento su scala mondiale. In questa guerra ideologica a distanza, decisa dai soldi e dalla propaganda, il fronte più caldo sta diventando il carcere, dove fragilità, solitudine e disperazione dei detenuti diventano arma dei reclutatori. Anis Amri, il terrorista del camion di Berlino, ucciso in una sparatoria con la polizia a Sesto San Giovanni, si era radicalizzato mentre scontava una condanna a 4 anni in Sicilia. L’Espresso ha raccolto molte altre vicende allarmanti. Un anno fa, nel super-carcere di Sassari, gli agenti hanno trovato, nella cella di un marocchino, fotocopie di appunti scritti a mano sugli attentati di Bruxelles, con i nomi di Hollande, Sarkozy e passaggi inquietanti su Palazzo Chigi e sul «nostro esercito di Allah in Italia». A Reggio Emilia tre detenuti hanno esultato per le stragi dell’Isis in Belgio. Il 6 dicembre 2016 il marocchino Dihani Younescon è stato espulso dall’Italia con una motivazione impressionante: detenuto per reati comuni, si è radicalizzato a Regina Coeli, dove ha manifestato «odio contro l’Italia», al punto da rivelare ad altri reclusi che, dopo il ritorno in libertà, sarebbe stato pronto a fare un attentato contro il Vaticano. Utilizzando un’auto piena di esplosivo e un kalashnikov che, a suo dire, un complice era pronto a procurargli nella capitale. Secondo gli ultimi dati del gennaio 2017, nelle carceri italiane si contano ben 126 soggetti filo-jihadisti che cercano di fare proselitismo tra gli altri detenuti. Altri 165 sono «monitorati» costantemente e 76 «attenzionati», come si dice in gergo, sempre per sospetta radicalizzazione. L’indagine dei carabinieri sul kamikaze di Lonate Pozzolo, in compenso, è stata archiviata dai magistrati antiterrorismo di Milano perché l’unico possibile imputato, lo stesso Sami, è morto. Tutti gli altri suoi familiari e conoscenti, intercettati e controllati per mesi, sono risultati estranei all’Isis. Il fratello, in particolare, si è più volte scontrato con Sami, accusandolo di aver tradito il vero Islam scegliendo la violenza del Califfato. Del portavoce di Daesh che era pronto a mandare mille dollari in Italia, però, si sa solo che parlava, in tutta libertà, dall’Arabia Saudita. Lo Stato ultra-integralista che ha allevato generazioni di jihadisti, ma si presenta come il grande alleato dell’Occidente nella guerra all’Isis.
Terrorismo, ecco le trame islamiste in Italia. Decine di inchieste aperte in tutto il Paese. L'allarme dei servizi nella relazione al parlamento. Ma soprattutto i dati investigativi finora emersi e riportati nell'ultimo rapporto della procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Così la provincia e le carceri si sono trasformate in covi per fondamentalisti, scrive Giovanni Tizian il 14 marzo 2016 su "L'Espresso". Nato nel cuore dell’Europa a pochi chilometri da Stoccarda. Residente in un tranquillo paesone del nordest italiano. Era un perfetto insospettabile, il macedone Ajhan Veapi. Ma il profilo anagrafico non deve trarre in inganno: gli investigatori del Ros dei carabinieri lo reputano un reclutatore dello Stato islamico nel nostro Paese. Uno di quelli che arruola aspiranti jihadisti e li fa viaggiare lungo la "rotta balcanica". La via che conduce alla guerra santa più vicina a noi. Veapi arruolava mimetizzato nella quiete friulana. Indottrinava per conto di un imam itinerante bosniaco e fedele al Califfato. I sermoni del macedone avevano convinto tre persone a partire per la Siria: un suo connazionale, un serbo e un pakistano. Due di loro sono morti in combattimento, mentre il terzo è tuttora in forza all’Is. Si nascondono così gli aspiranti terroristi nella anonima provincia italiana. La caccia ai jihadisti di casa nostra è aperta. E si è fatta ancora più intensa nell’anno santo del Giubileo. C’è persino una pista, al vaglio degli inquirenti di una procura del Sud, che conduce nei quartieri del radicalismo islamico del Belgio con il possibile coinvolgimento di presunti estremisti. In tutta Italia nel mirino ci sono i foreign fighters ancora in guerra e altri che hanno intenzione di tornare in patria, i gruppi del salafismo radicale di origine balcanica, ma anche i possibili "lupi solitari", che nel mosaico del terrore, per la loro imprevedibilità, sono le schegge più insidiose. L’attenzione è dunque altissima. A maggior ragione dopo l’allarme lanciato dagli 007 italiani. Che nel loro dossier presentato al Parlamento segnalano i fattori di pericolo per il nostro Paese, sottolineando che il territorio italiano è, oggi, ancora più esposto ad attacchi di commando armati in stile Parigi. Coincide, l’analisi dei servizi, con i primi risultati dell’attività della procura nazionale antimafia guidata da Franco Roberti, che dall’approvazione delle nuove norme antiterrorismo ha ottenuto la delega al coordinamento delle inchieste sul terrorismo. Il procuratore definisce Daesh (acronimo arabo per Stato islamico) «uno Stato-mafia». Una miscela di radicalismo ideologico, violenza terroristica, imprenditorialità criminale e dominio territoriale con proiezioni internazionali: in pratica «i connotati essenziali e tipici delle associazioni di tipo mafioso». Per incassare quattrini il metodo utilizzato dall’Is non è diverso da quello usato dai talebani: il narcotraffico è lo strumento privilegiato per accumulare risorse. E non si tratta solo di ipotesi: «Dai più recenti sviluppi delle attività in tema di terrorismo riconducibile all’Is, sono emerse rilevanti connessioni, fra cellule terroristiche operanti in Europa e trafficanti di stupefacenti» osservano i magistrati della procura nazionale nell’ultima relazione annuale. Per incassare quattrini il metodo utilizzato dall'Is non è diverso da quello usato dai Talebani: il narcotraffico è lo strumento privilegiato per accumulare risorse. E non si tratta solo di ipotesi: «Dai più recenti sviluppi delle attività pre-investigative svolte da questo Ufficio in tema di terrorismo riconducibile all’Isis, sotto il profilo finanziario, sono emerse rilevanti connessioni, fra cellule terroristiche operanti in Europa e trafficanti di stupefacenti» osservano i magistrati della procura nazionale nell'ultima relazione annuale. «La radicalizzazione ha ormai assunto le medesime caratteristiche, sebbene non ancora le stesse dimensioni, con cui si presenta negli altri Paesi europei» è scritto nel rapporto, che prosegue: «Alcuni fattori che avevano inizialmente ritardato lo sviluppo del fenomeno – quali l’assenza o la scarsità di immigrati di seconda o terza generazione oppure i limitati casi di conversione – stanno gradualmente venendo meno. Il minor numero di casi è sostanzialmente dovuto alle più ridotte dimensioni del bacino di persone vulnerabili ai messaggi radicali».
Occhi puntati anche all’interno delle carceri, che possono trasformarsi in laboratori dell’indottrinamento religioso. Le spie di questo fenomeno sono numerose, come raccontato da "l’Espresso" ormai un anno fa e come conferma l'indagine recente sui due foreing fighters arrestati dalla procura di Roma pochi giorni fa. Uno dei due indagati macedoni si è avvicinato all'Is proprio durante la detenzione. Secondo le ultime stime in prigione si trovano circa diecimila musulmani praticanti. E sarebbero cinque i musulmani che durante la detenzione hanno abbracciato la causa islamista e una volta usciti sono partiti per campi d’addestramento in Siria o in Iraq. Prima degli attentati di Parigi i detenuti sotto osservazione per estremismo religioso e proselitismo erano 200. Attualmente sarebbero 282. Un'indagine a Bologna sta cercando di verificare alcuni indizi su presunti maestri del proselitismo all'interno del penitenziario: gli investigatori sono partiti da alcune informazioni e dalle dichiarazioni di un detenuto che avrebbe raccontato della presenza di alcuni attivisti jihadisti nel carcere emiliano. «La maggioranza dei detenuti, ristretti per reati comuni, sono esposti al rischio di possibili attività di proselitismo. In tale ottica bisogna attenuare il "bisogno di appartenenza ad un gruppo", dei detenuti comuni di fede islamica, che, se abbandonati a se stessi, vivono la detenzione come un fallimento rispetto alle loro aspettative nel momento in cui sono giunti in Italia e possono pertanto essere attratti da un gruppo terroristico che li faccia sentire più importanti. Per evitare il rischio del "radicalismo" nelle carceri, possibile fonte di formazione di cellule terroristiche appare opportuno investire innanzitutto nella formazione interculturale del personale della Polizia Penitenziaria e nell’apertura delle carceri a rieducatori di fede musulmana, adeguatamente preparati e moderati. Non c’è dubbio che il principale strumento di prevenzione da attuare sia quello di consentire ai detenuti di fede islamica di vivere la propria religiosità in condizioni di dignità» si legge nel rapporto della procura antimafia. Fuori dai penitenziari, invece, i detective stanno monitorando l’ambiente del fondamentalismo islamico. Dal riciclatore legato al terrorismo internazionale con interessi a San Marino al combattente siriano transitato dall’Italia per sottoporsi a un intervento maxillofacciale, dall’imam di un paese della Romagna sospettato di "adescare" giovani per il jihad al ragazzo, con problemi psichici, partito dalla provincia bolognese per combattere in Iraq e bloccato dalle autorità irachene. Più di un sospetto anche su un egiziano, ritenuto un reclutatore, transitato in Italia dalla Francia, e su un cittadino kosovaro domiciliato sull’Appennino modenese, ma al momento irreperibile, sospettato, come scrive la procura nazionale antimafia, di «progettare un attentato a Vienna». Anche le procure marchigiane, molisane, lombarde, venete, calabresi e pugliesi lavorano senza sosta per scovare potenziali jihadisti. Ed eventuali connessioni con traffici illegali spesso monopolio delle nostre organizzazioni mafiose. Se nelle Marche gli inquirenti vigilano su un gruppo legato al ai terroristi tunisini di Ansar Al Sharia, in Molise il monitoraggio è concentrato su personaggi ben noti che in tempi recenti hanno viaggiato in zone calde, dove sono presenti campi di addestramento per jihadisti. Nonostante l'impegno, però, i numeri del contrasto al terrore islamista restano ancora molto bassi. Per fare un esempio: le misure di prevenzione personali (foglio di via, sorveglianza speciale) e patrimoniale(sequestro e confische di beni) applicate sono appena sei in tutto il territorio. Uno dei primi a essere colpito da è stato un cittadino kosovaro nel bresciano. Sono provvedimenti difficili da applicare. In questo senso la procura nazionale chiede un miglioramento normativo su due strumenti che nella lotta ai clan mafiosi funzionano a meraviglia. Ma c'è dell'altro. E, questa volta, la richiesta di aiuto viene da una procura molto esposta in tema di repressione del terrorismo islamico. A Bari solo nell'ultimo anno sono stati aperti sei fascicoli contro persone note per terrorismo. Ma gli inquirenti si scontrano con una serie di problematiche che rendono queste indagini particolarmente difficili: «La difficoltà di trovare interpreti, vuoi per la molteplicità dei dialetti arabi; vuoi per il timore che gli stessi interpreti manifestano nei confronti dei soggetti intercettati. Altra seria problematica è la carenza da parte della polizia giudiziaria di idonee apparecchiature per le intercettazioni telematiche, indispensabili per i reati di terrorismo».
I bambini del Califfato a scuola di guerra: così il Daesh istruisce i futuri kamikaze. Centinaia di orfani che hanno perso i genitori in combattimento, riuniti in una casa a Mosul. Dove imparano il Corano, la cura per l'alimentazione e le pratiche militari. Tra peluche, macchine radiocomandate e tute mimetiche digitali, scrive Piero Messina il 23 marzo 2016 su "L'Espresso". I bambini del Califfato hanno una nuova casa tutta loro. Una casa dove imparare il Corano e l’arte della guerra. E’ stato inaugurato a Ninive - a pochi chilometri da Mosul, in quella che un tempo era la capitale dell’impero assiro babilonese - l’orfanatrofio destinato ad accogliere tutti i bambini che hanno perso i genitori in combattimento. Sono in centinaia, divisi in fasce d’età che vanno dalla prima infanzia fino all’età puberale, sono figli dei foreign fighter e dei miliziani siriani e iracheni, quelli ad essere stati accolti nella nuova “Caring” house delle bandiere nere. Per promuovere questa iniziativa, Daesh ha lanciato in rete un video di oltre dieci minuti. Il progetto viene presentato da un religioso vestito di nero con un gilet in pelle scura. La missione viene spiegata come la giusta ricompensa per “togliere ai ricchi e dare ai poveri”. L’imam racconta come trascorrono le giornate quei bambini, educati alla sharia, e impegnati in mille attività. Il documentario mostra la cura nell’alimentazione dei piccoli ospiti, con frutta fresca di stagione, succhi di frutta e panini kebab. Per le bimbe è stata creata una sala apposita dove imparare l’arte del ricamo e dell’artigianato, mentre ai maschietti vengono distribuiti giocattoli da montare e pistole giocattolo. Le aule scolastiche sono ampie e ogni studente ha a disposizione un banco con un tableu sul quale vengono riprodotte le lettere dell’alfabeto arabo. Nel pomeriggio i bimbi vanno a lezione di sharia, con un imam vestito in tenuta mimetica da combattimento e bandana nera. Poi si passa alle attività ginniche. Per le bambine ci sono corsi di danza ritmica e ginnastica libera mentre i maschietti hanno a disposizione una palestra e un campetto esterno. Per ognuno di loro c’è un armadietto di metallo dove custodire gli oggetti personali. E le immagini mostrano chiaramente quale sia la finalità di quell’istituto così vicino al frontline del conflitto siro iracheno. Accanto ai peluche e alle macchine radiocomandate, gli orfani del Califfo hanno la tuta mimetica digitale, obbligatoria da indossare prima di entrare in palestra. Accompagnati da un istruttore appena più grande di loro, i piccoli “miliziani” si addestrano alla corsa, all’acrobatica e in ogni genere di training pre militare. Anche il kindergarten all’aperto, con scivoli colorate e altalene, diventa un laboratorio di guerra, con i piccoli ospiti che mostrano alla videocamera la loro abilità nelle capriole e nei salti. E’ la scuola dei kamikaze di domani? Tutto lascia pensare di sì. Ogni giorno l’orfanatrofio (lo mostrano le immagini del video) riceve la visita di un leader militare vestito di bianco con mitra a tracolla. E’ il primo esperimento formativo realizzato da Daesh ed è in linea con la sempre crescente mobilitazione di bambini e giovani da mandare in frontiera. Secondo i dati raccolti nel database da Ctc Sentinel, centro di studi di West Point, nel periodo tra gennaio 2015 e gennaio 2016, le milizie islamiche hanno mandato a morire in azioni kamikaze 89 bambini. E’ la multinazionale junior del terrore: i bambini sfruttati in combattimento vengono da Siria, Tunisia, Libia e Iraq, ma si registrano vittime di nazionalità britannica, francese ed australiana. Nel campione utilizzato dai ricercatori di West Point, che ha setacciato i profili twitter del Califfato in cerca di elogi funebri, vengono certificati i “martiri” di bambini in Iraq (il cinquanta per cento dei casi), Siria (36 per cento), mentre il resto si riferisce ad azioni compiute in Yemen, Libia e Nigeria. Anche le fasce d’età fanno paura: in alcuni casi, l’Isis avrebbe utilizzato bambini di età inferiore agli otto anni, come nel caso di Jihadi junior, un bimbo di appena cinque anni che sarebbe stato costretto a farsi esplodere contro un blindato nemico. La ricompensa per il martirio è la gratitudine del Califfo e la notorietà nei circuiti social legati all’Islamic State. Al primo posto della surreale e particolarissima “top ten” dei video Is più visti in rete c’è quello dedicato al martirio di Abu Imara Al Omri, un ragazzo di undici anni utilizzato come bomba vivente contro un camion nemico. Nel video di commemorazione, il ragazzo viene filmato mentre abbraccia il padre (anche lui un jihadista) prima di entrare in azione. In realtà, il numero delle vittime è probabilmente sottostimato, avvertono gli analisti di West Point. Ed è l’ulteriore conferma di come Daesh abbia avviato una politica di recruiting verso i più giovani. Lo dimostra anche uno degli ultimi numero della rivista Dabiq, con la pubblicazione di un appello del gruppo estremista per incoraggiare le madri a sacrificare i loro figli per il califfato.
Il terrorismo islamista in Italia tra fede e spaccio. Nel nostro paese il proselitismo dell'Isis si intreccia sempre di più con la criminalità comune. E cresce soprattutto dietro le sbarre e tra chi ha difficoltà ad integrarsi, scrive Floriana Bulfon il 2 dicembre 2016 su "L'Espresso". Tinello, tende rosse, mattonelle bianche e sul fornello acceso si sperimenta l’esplosione. L’ordigno è stato appena assemblato nella stanza accanto. Taglierino, martello, lo zolfo ricavato dai fiammiferi e poi un cilindro cavo da riempire. Tutorial di prototipi di bombe e inneschi fai-da-te. Si trovano sul profilo di Farees Alfqeeh, alias Alfaqi Abdulkhaleq, yemenita ma forse somalo, ventinovenne trapiantato a Trieste. Li illustra in canottiera dal suo appartamento, nel centrale quartiere a ridosso dell’Ospedale Maggiore. Farees in città è conosciuto. Una sera con un suo amico ha fatto volare i tavolini di un bar e picchiato due ragazze. Ha anche precedenti per furto, rapina e ubriachezza. Ora si diverte sui social, garantisce che è solo un gioco. Fa il segno di vittoria dalla camera trasformata in sala di preghiera. Il letto accanto è quello di Karim, giovane iracheno già in contatto con i foreign fighters Pirabl Shwan rientrato a Bolzano, sottoposto a perquisizione, e infine salito su un volo per la Turchia, e Sheikhani Mohamed. Lui era partito da Brescia e, dopo aver militato sotto la bandiera nera del Califfato, ha raggiunto Trieste con la preparazione di un combattente. Da gennaio 2015 sono state espulse dall’Italia per motivi legati al terrorismo jihadista 123 persone, più di una cinquantina solo negli ultimi otto mesi. Oltre la metà di loro ha precedenti di polizia per reati minori. Vite comuni di delinquenti comuni. Soldi quando tutto fila liscio e carcere quando il piano non riesce. E poi un motto di spirito: fare la guerra santa in casa nostra. È su questa strada che si muovono gli investigatori dell’Antiterrorismo: intercettare “born-again Muslims”, giovani musulmani di nascita non praticanti con trascorsi legati a spaccio di droga e pratiche non conformi ai dettami dell’Islam in cerca di “redenzione” o che vedono nel sedicente Stato islamico la possibilità di avere, almeno per una volta, un ruolo da protagonisti. «La presenza di soggetti con precedenti nei gruppi terroristici è in crescita e, in un momento in cui lo Stato islamico perde progressivamente il controllo del territorio in Iraq e Siria, potrebbero concretizzare il jihad proprio dove vivono, usandolo per dare una veste di rispettabilità a comportamenti violenti», sottolinea un esperto del nostro Antiterrorismo. E così non viene sottovalutata la lettera in cui un detenuto segnala: «Tre tunisini che conosco sono pronti a immolarsi». Qualche giorno dopo la polizia giudiziaria si precipita all’ufficio matricola del penitenziario e lui svela che quei suoi connazionali vivono da anni in una tranquilla provincia del nord Italia, campano spacciando e ora si sono buttati nel business dei migranti. «Al solito prezzo di 400 euro» Mohamed Kamel Eddine Khemiri, tunisino di San Marcellino nel casertano, che si definiva «issiano finché avrò vita», è stato arrestato dal Ros perché procurava contratti di lavoro e buste paga fittizie rilasciate da aziende tessili compiacenti. Un intreccio, quello tra criminalità comune e terrore, delineato in una recente analisi dall’International centre for the study of radicalisation and political violence di Londra che evidenzia come «già oggi più del 40 per cento delle cellule terroristiche in Europa siano finanziate attraverso i proventi di spaccio e furti». Gran parte degli ultimi attentati nel Vecchio Continente ha visto protagonisti giovani con un passato di criminalità comune, lupi solitari o cellule autogestite che hanno colpito “soft target”, ossia obiettivi con bassi livelli di sicurezza, con armi comuni o ordigni da costruire nel garage di casa seguendo istruzioni reperibili su Internet come quelle descritte da Alfqeeh. Gli investigatori hanno quindi modificato gli indici spia di radicalizzazione: «Non ci concentriamo solo su cambiamenti quali farsi crescere la barba, non bere alcolici o indossare abiti tradizionali», rivelano. «Gli attentatori del Belgio erano delinquenti abituali con condotte apparentemente non distanti da quelle di altri criminali non musulmani. È necessario condividere i dati tra le forze dell’ordine, tener conto, in Italia in particolare, del ruolo della criminalità organizzata nel gestire le attività più remunerative e prestare attenzione ai flussi di finanziamento». Seguire il denaro e facilitare lo scambio di informazioni, la lezione di Giovanni Falcone. Soldi che viaggiano attraverso operazioni di money transfer e carte prepagate. Così a Bari un quarantenne di Erbil, già noto alla Digos perché vicino a un suo connazionale ritenuto responsabile di “favoreggiamento all’ingresso in Europa di persone collegate alla cellula italiana di Ansar Al Islam, sarebbe stato incaricato di procurare visti d’ingresso. Obiettivo: «Favorire l’immigrazione e la permanenza clandestina di personaggi che starebbero pianificando azioni di tipo terroristico». «Questi criminali sono i falliti di cui parlava il Profeta», denuncia Ahmed El Balazi, l’imam di Vobarno, paesino del bresciano dove è cresciuto Anas El Abboubi, il giovane rapper marocchino andato a combattere in Siria. Qualche mese fa alcuni suoi amici avrebbero cercato di fare proselitismo in particolare tra ragazzi con precedenti per minacce e rapina. Per El Balazi: «Sono giovani non seguiti dalle famiglie, che non vivono bene né in Italia né nel loro paese di origine. Si sentono non accettati, inutili». Una condizione che si può acuire proprio nel luogo che dovrebbe fermare ogni violenza: il carcere. «Fratello farò un po’ di soldi e andrò. Non voglio più stare dietro a questo mondo», scriveva in chat il macedone Karlito Brigande, uno dei tanti alias di Vulnet Maqelara. Un passato da militante dell’UçK - l’Esercito di liberazione nazionale che si prefiggeva la costituzione di una Grande Albania etnica - poi la criminalità e infine il carcere di Velletri. Una volta in libertà s’è messo a cercare in rete i discorsi di Abu Bakr al-Baghdadi, un fucile mitragliatore m48 e ha organizzato il suo viaggio destinazione Iraq con l’obiettivo di immolarsi. Quando i Carabinieri lo fermano nel suo appartamento, tra i palazzoni della periferia sud-est di Roma, trovano manoscritti in lingua araba, contatti con utenze macedoni, monegasche, saudite e anche quelle di due giovani che abitano nel quartiere, sospetti jihadisti alla fine arrestati per possesso di documenti contraffatti e cocaina. Sul tavolo c’è anche un foglio con annotato “Barhoumi Firas” l’imam fai-da-te che in carcere gli scriveva «sai non tutti gli uomini sono uomini, il leone rimane leone, il cane rimane cane» e Karlito era pronto a sentirsi leone: «Ripeto tante volte la parola Allah perdonami dal peccato mi purifico per te». In Italia i detenuti sono circa 54mila, 11mila quelli provenienti da aree di religione musulmana, ma solo 6.600 praticanti. «A questi vanno aggiunti altri 1.400 che non dichiarano la propria appartenenza religiosa al momento dell’ingresso in carcere, forse anche per ragioni prudenziali», spiega Santi Consolo, a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il timore è quello di esporsi a un controllo maggiore dichiarando di essere musulmani. 41 sono i reclusi con l’accusa di terrorismo internazionale e si trovano solo in parte nel circuito AS2, “Alta sicurezza, livello 2”, del carcere di Rossano Calabro. «Per curare il percorso di deradicalizzazione - nota Consolo- si devono evitare eccessive concentrazioni, per questo motivo li abbiamo destinati anche ad altri istituti attrezzati per percorsi rieducativi mirati». Altri 380, di cui alcuni italiani, sono monitorati. Oltre mille agenti vengono dedicati al controllo del fenomeno e si pone particolare attenzione alle seconde generazioni: «Su 480 detenuti nelle carceri minorili ne stiamo attenzionando una decina e circa la metà di questi sono nati in Italia», rivela Consolo. Per evitare che si diffondano messaggi violenti, soprattutto tra i più giovani e vulnerabili, la preghiera deve svolgersi correttamente. «Come avviene per i detenuti di altre confessioni anche per i musulmani che si trovano in carcere, la religione può aiutare a superare l’avvilimento divenendo in qualche modo anche un fattore di riabilitazione», nota Mohammed Khalid Rhazzali, docente di sociologia della politica e della religione presso l’università di Padova e autore della prima e più completa ricerca sul tema, “L’Islam in carcere”. A novembre 2015 il Dap ha siglato un protocollo d’intesa con l’Unione delle comunità e Organizzazioni islamiche, ad oggi in carcere però sono autorizzati ad entrare solo 14 imam e poco più di una ventina di mediatori che parlano arabo e possono intercettare eventuali incitazioni all’odio o segnali di radicalizzazione.
Facebook, le pagine italiane che inneggiano all'Isis. Toni violenti, messaggi di minaccia e vendetta. Lodi al Califfato e all'Islam come religione del sacrificio. Ma anche critiche ai musulmani moderati, considerati ipocriti e apostati. Ecco come sul social network si diffondono messaggi pericolosi. Chi li segue? Italiani di fede islamica, alcuni dei quali si definiscono alla ricerca di informazioni, scrive Brahim Maarad l'1 marzo 2017 su "L'Espresso". I toni sono sempre violenti. I messaggi sono di minaccia e di vendetta. Le bandiere sono quelle dello Stato islamico. Per finire nella rete del terrore non è necessario imparare l’arabo o seguire gli account inglesi. I messaggeri di al-Baghdadi parlano un ottimo italiano. Sono italiani di nascita e musulmani estremisti di fede. Se li si accusa di inneggiare al terrorismo si offendono. E per difendersi diffamano. Ecco quindi che tutti i musulmani moderati sono ipocriti, apostati. I governi occidentali sono satanici. I combattenti di Raqqa e Mosul sono invece dei partigiani. E’ il proselitismo che si fa strada, aiutato dalle logiche degli algoritmi della rete. Una delle pagine più attive su Facebook è “Cronache islamiche”. In due versioni, la prima da oltre 4.200 fans e la seconda, quella attiva attualmente, che supera i 750 like. Uno dei post più recenti riguarda un articolo sui preti accusati di pedofilia in Australia. Il commento è inequivocabile: «La Chiesa cattolica è un cancro da debellare, anche con la forza». Seguono nella pagina gli aggiornamenti sulla guerra dello Stato islamico, sostenuto senza esitazione. «L’Isis è l’unico Stato nel mondo islamico che produce autonomamente le proprie specifiche tipologie di armi moderne, da droni di combattimento, fucili da cecchino, carri armati a missili di terra e di aria. Questo fatto è senza precedenti nel mondo islamico. Nessun esercito nel mondo musulmano produce le proprie armi uniche eccetto lo Stato Islamico. Mentre il mondo Musulmano è in gran parte arretrato a causa del laicismo, il Califfato guidato dall'Isis è diventato più moderno e sviluppato nella guerra, proprio come fecero i Califfati islamici del passato, in solo tre anni. Quando capiranno gli Usa che non esiste nessuna forza nel mondo musulmano che sia in grado di affrontare lo Stato Islamico di continuo?», è l’elogio alla politica militare del califfato datato 23 febbraio scorso. L’indottrinamento è affidato direttamente alle parole di Anwar al-Awlaki, considerato il Bin Laden dell’informatica, ucciso dalla Cia nel 2011. E’ del 22 febbraio scorso il post che riporta una sua citazione: «Fratelli e sorelle, questa religione non è la religione della parole, non è la religione di dimostrare quanta conoscenza possiedi, questa religione è solo la tua volontà di sacrificio per Allah». A rincarare le dosi ci sono le parole del predicatore australiano Muhammad Junaid Thorne: «Non si preoccupano se leggi il Quran, ma quando inizi ad applicarne il contenuto, quello è il momento in cui diventi pericoloso!». L’amministratore della pagina dà invece una propria interpretazione del significato di democrazia: «Secondo le nostre leggi e i nostri valori, attaccare ospedali, scuole, moschee e mercati è legittimo ma guidare un'autobomba verso un obiettivo militare è barbarie». Le reazioni eclatanti non si sono fatte mancare in risposta agli attentati in Europa. In particolare questo è stato il post di commento alla tragedia di Berlino in cui hanno perso la vita dodici persone, tra cui una cittadina italiana: «12 persone morte in Germania e i media ne parleranno almeno per un anno intero. Centinaia di innocenti stanno morendo in Siria e in Iraq a causa dei bombardamenti dell’Occidente ma i media non vi accenneranno neanche per un minuto. E’ arrivato il momento di gettare via il televisore!». Pare che la pagina sia stata più volte segnalata e qualche volta gli amministratori Facebook sono intervenuti. In un’occasione bloccando tutto per una settimana; a seguito della reiterazione c’è stato un blocco di oltre un mese. L’amministratore della pagina non ha risparmiato le sue critiche lanciando le accuse di censura. Alle nostre domande però non ha voluto rispondere: «Io con la feccia come voi non ho nessun interesse a dialogare». Seguendo la pagina, Facebook propone in automatico altre pagine con contenuti simili: “Puro Monoteismo”, “Prigionieri sunniti in Iran”. Una addirittura l’hanno chiamata “Islam religione di pace” però parla solo di guerra. Chi, anche ignaro della campagna di proselitismo, dovesse finire in quella rete rischia di essere inondato di articoli e immagini che inneggiano alla violenza e al terrore. Così come vengono suggerite nuove possibili amicizie legate a quei contenuti. Una ulteriore spinta verso il buio della bandiera nera dell’Isis. Sono diciannove le persone individuate tra le amicizie in comune, tra loro anche un imam di un centro islamico. Contattati alcuni di loro, molti dicono di non essere a conoscenza dei contenuti veri proposti dalle pagine seguite. «Ho cliccato mi piace ma non seguivo», è la giustificazione più ricorrente. C’è però anche chi ammette di «essere alla ricerca di informazioni sull’islam» e quindi di essere finito in quella pagina perché ritenuta «interessante». E’ di solito il primo passo per sposare una causa folle.
Terrorismo, quei capi dell’Is venuti dall’Italia. Sono jihadisti esperti. Hanno già combattuto in Bosnia e Cecenia. Prima di andare in Siria hanno vissuto nel nostro paese. Molti di loro hanno raggiunto posizioni di comando nelle truppe del Califfato, scrive Paolo Biondani il 25 marzo 2016 su "L'Espresso". Vengono dall’Italia e sono jihadisti molto esperti. Sono seriamente sospettati di essere diventati nel “califfato” leader di milizie sanguinarie, capaci di trasformare giovanissimi fanatici in micidiali macchine da guerra. Sono quasi tutti tunisini, la nazione che ha il maggior numero di foreign fighters (oltre tremila solo in Siria). A vent’anni erano partiti dall’Italia per le prime Jihad: hanno combattuto in Bosnia, Afghanistan, qualcuno anche in Algeria e Cecenia. Tornati in Italia, dopo l’11 settembre 2001 sono stati arrestati e condannati in una serie di processi tra Milano e Bologna. Dopo diversi anni di carcere duro, tra il 2007 e il 2011 sono stati espulsi dall’Italia, dove avevano creato solide reti di fiancheggiatori e reclutatori. In Tunisia hanno approfittato della primavera araba per rifondare due diverse filiere jihadiste, che hanno inviato decine di giovani combattenti in Siria, prima con il fronte jihadista al Nusra, poi con il califfato. Almeno tre sono morti in battaglia. Gli altri, almeno una mezza dozzina, sono diventati capi: hanno più di quarant’anni, hanno il carisma dei reduci delle guerre fondative dell’ideologia jihadista e hanno usato le loro esperienze e capacità belliche per diventare capi-brigata, istruttori e addestratori della nuova generazione di giovani combattenti. «I tunisini che avevamo arrestato in Italia», riassume un dirigente dell’anti terrorismo della polizia di Stato, «sono tutti morti in guerra o diventati capi militari dello Stato islamico in Siria e ora anche in Libia». I loro nomi campeggiano nella lista nera dei 93 «foreign fighters» finora collegati all’Italia. Tra una guerra e l’altra alcuni di questi leader italo-tunisini hanno avuto figli (almeno sei), cresciuti tra bombe e jihad, che oggi hanno vent’anni o più. E sono pronti a seguire le orme dei padri. Almeno uno di questi «figli di jihadisti» è già partito per la Siria, dove è rimasto ferito in combattimento. E poi c’è la piccola colonia di bambini italiani nell’autoproclamato Stato islamico. “L’Espresso” ne ha contati sette. Sono tutti molto piccoli e vivono da mesi con almeno un genitore jihadista, partito dal nostro Paese per raggiungere il Califfato nero. La loro età va da uno a sette anni. Le loro drammatiche storie sono documentate da diverse indagini di polizia e carabinieri dell’antiterrorismo. Ai loro sette nomi si aggiungono altri casi, non meno di sei, di bimbi nati in zone di guerra da un papà combattente straniero che era sparito dall’Italia, giurando vendetta, dopo essere stato inquisito e incarcerato dalle nostre autorità. E ora in mezzo a questi tagliagole stanno crescendo anche bambini italiani. Il caso più recente ha per protagonista Alice Brignoli, 39 anni, la mamma italiana sospettata di essere partita per il Califfato siriano-iracheno con i suoi tre figlioletti, tutti molto piccoli, insieme al marito Mohamed Koraichi, 31 anni, cresciuto a Lecco con i genitori, due onesti immigrati di origine marocchina. La scomparsa dell’intera famiglia (rivelata per la prima volta da “Repubblica” nel novembre scorso) era stata denunciata dalla madre di lei, Fabienne Schirru, che vive e lavora in Brianza. Ora le indagini dei carabinieri del Ros confermano che Alice, il marito e i loro tre figli maschi sono partiti un anno fa dalla Lombardia con la loro macchina, si sono imbarcati su un traghetto dal Sud Italia e negli ultimi giorni di febbraio del 2015 hanno effettivamente raggiunto la frontiera tra Turchia e Siria, in una zona controllata dal cosiddetto Stato islamico. I loro bambini sono cittadini italiani a tutti gli effetti, ma da allora vivono lì, tra guerre e stragi: Seed ha appena due anni, Hossama ne ha cinque, Ismaeil sei e mezzo. Le foto della coppia, recuperate da “l’Espresso”, confermano visivamente la loro radicalizzazione religiosa: lei indossa il velo, lui ha la lunga barba tipica degli integralisti. Alice è nata da genitori italiani ed è rimasta cattolica fino ai trent’anni. Lui, fino a dieci anni fa, non seguiva alcuna religione, era un ragazzo sbarbato che amava i vestiti italiani e le discoteche. La loro conversione è stata improvvisa. E il salto finale nell’ideologia del Califfato è maturato in pochi mesi, non nelle moschee di Lecco, ma su Internet. Alice e Mohamed si conoscono una decina di anni fa in una ditta lecchese dove lei è segretaria e lui fa l’operaio saldatore. Si sposano il 31 maggio 2008, in municipio, tra i genitori e pochi intimi. Vanno ad abitare a casa di lei, nel centro del paese di Bulciago. Si convertono insieme all’Islam. Lei ha già 30 anni, è una donna determinata, non sottomessa. Il caso di Alice e dei suoi tre bambini non è isolato. Da Barzago, sempre nel Lecchese, nel dicembre 2014 è sparita una donna di origine albanese, Valbona Berisha, con un figlio che oggi ha sette anni. Le indagini l’hanno localizzata nel Califfato: vive con un combattente. Suo marito Afrim, che fa l’ambulante, è andato invano a cercare lei e il bimbo in Siria. In Italia ora deve mantenere le due figlie che gli sono rimaste: lei ha portato in guerra solo il maschio. Dalla provincia di Belluno, due anni fa, è partito per il Califfato un imbianchino bosniaco di 33 anni, Ismar Mesinovic, portando con sé il figlio di tre anni. L’uomo è morto in guerra, ad Aleppo, nel gennaio 2015. Da allora il bimbo vivrebbe in Siria con altri bosniaci. La mamma, che è nata a Cuba ma vive in Italia, lo ha riconosciuto in una foto della propaganda jihadista: un piccino biondo in divisa che imbraccia un mini-mitra. Altri casi sono documentati dall’inchiesta su Maria Giulia Sergio, l’italiana partita per la Siria nel settembre 2014 con il marito guerriero Aldo Kobuzi e una cordata di albanesi che vivevano in Maremma. Nel febbraio 2014, aveva già raggiunto il Califfato la sorella di lui, Serjola Kobuzi, con il figlio di un anno. Quando è partita aveva vent’anni ed era di nuovo incinta. E le jihadiste italiane hanno potuto festeggiare la nascita in Siria del suo secondo “jihadi junior”.
CI UCCIDONO I FIGLI.
Ci uccidono i figli, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 24/05/2017, su "Il Giornale". Più di trenta bambini e ragazzi inglesi uccisi da un terrorista islamico i cui genitori libici erano stati accolti come fratelli. A volte sembra di essere dei preti, chiamati a celebrare con una certa frequenza il funerale con la solita omelia, ritoccata di volta in volta in base alle circostanze. Tanto che alla fine fai fatica a trovare parole nuove e tutto appare come un già visto e sentito. Solo che qui non siamo in chiesa e rivendichiamo almeno il diritto di bestemmiare contro Allah, un dio crudele e assassino. È inutile disquisire su che nesso ci sia tra immigrazione e terrorismo. Tutti i terroristi - è un fatto - sono immigrati di prima o seconda generazione e tenere separati i piani è esattamente il vicolo cieco nel quale ci hanno portato o, meglio, ci siamo infilati in nome di una distorta interpretazione - e purtroppo applicazione - dei sani principi occidentali di accoglienza e solidarietà. È vero che non tutti i tedeschi sono stati complici delle camere a gas, ma ciò non ha impedito l'avverarsi dell'Olocausto. È vero che non tutti i sessantottini sono stati terroristi, ma la teoria dei «compagni che sbagliano» è quella che ha permesso il radicarsi della violenza con la sua lunga scia di morti. La questione non è se i muri sono belli o brutti, etici o scandalosi. Vivreste in una casa senza porte? Ecco, un Paese non può rinunciare alle sue frontiere e al loro meticoloso e severo controllo, altrimenti diventa terra di conquista e scorrerie. Diventare cittadino italiano - o europeo - non può essere un fatto tecnico o burocratico. E neppure una necessità individuale. Lo status deriva dall'accettazione incondizionata e sincera di diritti e doveri non solo materiali. E non mi sembra che questo sia ciò che sta avvenendo. Chi sostiene l'inverso, non può chiamarsi fuori dalle conseguenze che ciò comporterà. Scendere in piazza con la fascia tricolore al petto a difesa dell'immigrazione clandestina, come ha fatto solo pochi giorni fa il sindaco di Milano Beppe Sala, equivale a dare copertura morale e politica a trafficanti e mafie, cioè al brodo di coltura dei terroristi. Eugenio Scalfari ci ha messo quarant'anni ad ammettere di aver sbagliato a legittimare, con la sua penna, gli assassini del commissario Calabresi. Quando lo faranno Sala e i suoi tanti ispiratori ed emuli, purtroppo per noi sarà troppo tardi.
Salvini da Floris, boato in studio e ovazione: "I terroristi islamici che ammazzano bambini? Figli di cani", scrive il 24 Maggio 2017 "Libero Quotidiano". Boati di approvazione e applausi: Matteo Salvini conquista la platea di DiMartedì nella serata in cui si commenta la strage Isis di Manchester in cui hanno perso la vita oltre 20 persone, tra cui molti giovanissimi. "Chi ammazza un bambino è figlio di un cane. Anzi i cani sono migliori", attacca il segretario della Lega Nord incassando la prima ovazione nel talk di La7 condotto da Giovanni Floris. Quando in studio un giornalista spiega che "Il Corano è come la Bibbia", Salvini non si trattiene e su Facebook commenta: "Ignorante e complice". E a chi, come qualche parlamentare del Pd, attribuisce la responsabilità degli attentati terroristici alla "mancata integrazione", risponde secco: "Quindi se uno si fa esplodere e uccide 22 bambini è colpa nostra? Se non gli diamo casa e lavoro ci ammazzano tutti? Non ho paura dei terroristi, ho paura di alcuni italiani che fanno finta di non capire".
Attentato di Manchester, chi sono le vittime. Tanti i giovanissimi. Ha 8 anni la più piccola. Ci sono anche diverse mamme che attendavano fuori dall'Arena. Nessun italiano coinvolto, scrive il 24 maggio 2017 Panorama. È di 22 morti e 120 feriti (60 persone sono state curate per strada subito dopo l'attentato, mentre altre 59 sono state invece ricoverate negli ospedali), l'ultimo bilancio delle vittime dell'attentato di Manchester, al concerto di Ariana Grande. Tra le vittime molti bambini (12 deceduti). "Sin qui non si hanno notizie di italiani coinvolti", ha detto il ministro Angelino Alfano. La polizia di Manchester, che ha contattato tutte le famiglie, avverte che per l'identificazione ufficiale sarà necessario aspettare gli esami forensi, che richiederanno 4 o 5 giorni. Ritiene di conoscere l'identità di tutte e 22 le vittime ma al momento solo 12 sono state identificate. Ecco il triste elenco.
Georgina Bethany Callander. Si chiama Georgina Bethany Callander e aveva 18 anni la prima vittima identificata dell'attacco terroristico. Sul suo profilo Twitter la ragazza si era detta entusiasta alla vigilia del concerto della sua beniamina alla Manchester Arena. In passato aveva pubblicato anche una sua fotografia con la popstar.
Saffie Rose Roussos. La seconda vittima identificata è una bambina di 8 anni, Saffie Rose Roussos, di Preston. La piccola era al concerto con la madre Lisa e una sorella, entrambe ferite e ricoverate in due ospedali diversi.
John Atkinson. La polizia di Manchester ha rivelato il nome della terza vittima dell'attentato alla Manchester Arena, poi rivendicato dall'Isis. Si tratta di John Atkinson, 28 anni, originario di Radcliffe in Bury.
Angelika e Marcin Klis. Una coppia di polacchi che risultava tra i dispersi è stata dichiarata morta all'indomani dell'attentato. Si tratta di Angelika e Marcin Klis, rispettivamente di 40 e 42 anni, di York. La figlia Alex aveva pubblicato una loro foto sul suo profilo Facebook. I due stavano aspettando le figlie dopo lo show di Ariana Grande.
Olivia Campbell. La mamma l'ha cercata a lungo; aveva postato una sua foto su Twitter pregando: "Se qualcuno la vede mi contatti". Ma Olivia Campbell, ragazza di 15 anni di Bury, nelle ultime ore è stata identificata tra le vittime colpite a morte. Olivia era andata al concerto con il suo migliore amico, ricoverato all'ospedale dopo l'esplosione, ma di lei a lungo non ci sono state tracce. La madre ha raccontato: "L'ultima volta che l'ho sentita erano le 20.30, era al concerto, e mi ha ringraziato per averla fatta andare".
Martin Hett. Martin Hett, 29 anni, manager delle pubbliche relazioni di Stockport, dopo essere stato a lungo tra i dispersi (suo fratello Dan aveva postato la sua foto sul suo profilo Facebook), è stato confermato tra i deceduti.
Nell Jones. Tra le vittime c'è Nell Jones, 14 anni, uno studente descritto come brillante e molto popolare.
Kelly Brewster. Impiegata 32enne di Sheffield, Kelly Brewster era al concerto con la sorella. La sorella ce l'ha fatta, lei no.
Jane Tweddle-Taylor. 51 anni, receptionist in una scuola, Jane Tweddle-Taylor era tra le madri che aspettava i figli all'uscita del concerto. Non tornerà più dai suoi tre figli.
Alison Howe. Alison Howe, 45 anni, anche lei è una mamma che attendeva fuori dall'Arena.
Lisa Lees. Lisa Lees, 47 anni, altra madre travolta dalla furia omicida di Salman Abedi.
La poliziotta. Una delle vittime della strage alla Manchester Arena è una agente donna del corpo di polizia del Cheshire. Era fuori servizio e al concerto con il marito, che versa in gravi condizioni, e i figli rimasti feriti.
Tra i dispersi. Non si hanno più notizie di Chloe Rutherford e Liam Curry, coppia di fidanzatini rispettivamente di 17 e 19 anni.
Disperazione e caos tra i famigliari alla ricerca dei figli presenti al concerto. Alcuni dei genitori feriti nell'attacco terroristico alla Manchester Arena, ricoverati in un ospedale della città, si sono rifiutati di essere curati prima di sapere il destino dei loro figli, di cui non hanno avuto notizie dall'esplosione. A riferirlo un medico dell'ospedale Manchester Royal.
Il macabro invito della rivista dell'Isis: «Colpire i bambini non è sbagliato», scrive martedì 23 Maggio 2017 “Il Messaggero". Un attentato esplosivo al concerto di un idolo dei teenager come Ariana Grande, con tanti ragazzi ad affollare l'evento. La possibilità di colpire anche bambini nelle azioni jihadiste è teorizzata nel quinto numero della rivista “Rumiyah” - promossa dall'Isis - in un articolo chiamato “Collateral carnage”. Il magazine - 9 i numeri usciti finora - è diventato un punto di riferimento per le strategie e la propaganda dello Stato islamico. «Uno non dovrebbe addolorarsi - si legge nell'articolo - per l'uccisione collaterale di donne e bambini miscredenti, perchè Allah ha detto: “Non addolorarti per i miscredenti”. Invece, bisognerebbe realizzare che Allah ha decretato la loro morte dalla sua esatta giustizia e grande saggezza. Il combattente deve fare il massimo per portare avanti la causa di Allah, indipendentemente dal massacro collaterale prodotto tra le masse di infedeli». Inoltre, prosegue Rumiyah, «si dovrebbe ricordare che gli infedeli hanno ucciso molte più donne e bambini musulmani. E, comunque, anche se non fosse così, sarebbe ancora consentito colpire le masse di miscredenti senza riguardo per le uccisioni collaterali di donne e bambini». La rivista cita poi «il benedetto massacro di Nizza» come «un eccellente esempio del massacro collaterale provocato durante il corso della jihad». I sostenitori del sedicente Stato islamico (Isis),, che ha rivendicato la strage, stanno celebrando sul web la strage compiuta ieri sera. «Utenti che frequentano i forum pro-Is definiscono l'attacco a Manchester “un colpo riuscito e sorprendente” alla Gran Bretagna» e sostengono che l'attentato sia una rappresaglia per i raid aerei della coalizione internazionale a guida Usa contro il gruppo jihadista, ha affermato la direttrice di Site. «Sembra che le bombe sganciate dall'aviazione britannica contro i bambini di Mosul e Raqqa siano appena tornate indietro a #Manchester», ha scritto su Twitter un utente chiamato Abdul Haqq, riferendosi alle città dell'Iraq e della Siria obiettivi dei raid della coalizione anti-Isis, di cui la Gran Bretagna è membro. «Uccideteli ovunque siano», è il post pubblicato dall'utente “manchestearena” corredato da hashtag come #britain #england #London e #Manchester. Altri utenti hanno condiviso post che auspicano l'entrata in azione di «lupi solitari» e video di minaccia agli Usa e all'Occidente diffusi in passato dalla propaganda jihadista. Twitter, ha riportato il Daily Mail, ha già chiuso numerosi account di sostenitori dell'Isis che festeggiano la strage.
Se per il Corano i piccoli sono soltanto esseri inferiori. Alle radici dell'odio: per il testo sacro dell'islam i bambini non sono intoccabili e possono finire nel mirino dei terroristi, scrive Magdi Cristiano Allam, Mercoledì 24/05/2017, su "Il Giornale". È stato un giovane terrorista islamico suicida a farsi esplodere in mezzo a bambini e ragazzini inglesi che si divertivano ascoltando la musica della cantante Ariana Grande sua coetanea a Manchester. Lui incarna l'ideologia della morte che non solo disprezza la vita altrui ma disconosce la sacralità della propria vita. Loro condividono la cultura della vita che è ancor più legittimata e assolutamente inviolabile proprio per la loro tenera età.
Nella nostra Europa dalle radici cristiane i bambini assurgono a modello di una innocenza dell'anima che si eleva alla santità naturale. L'evangelista Marco (c. 10, vv. 13-14) scrive: «Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s'indignò e disse loro: Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio». All'opposto nell'islam i bambini sono considerati, al pari delle donne, esseri antropologicamente inferiori, alla stregua dei beni materiali che si acquisiscono, si ereditano o si depredano attraverso le razzie. Allah nel Corano equipara i figli ai beni materiali e li concepisce come una «tentazione» che allontana i fedeli dalla vera fede: «Sappiate, che i vostri beni e i vostri figli non son altro che una tentazione. Presso Allah è la ricompensa immensa (8, 28)». Nelle razzie effettuate da Maometto per depredare le carovane nel deserto o sottomettere al suo potere le tribù arabe politeiste, ebraiche o cristiane, venivano subito uccisi gli uomini mentre le donne e i bambini, in quanto esseri inferiori, venivano venduti al mercato degli schiavi dopo averne abusato sessualmente, erano parte integrante del bottino alla stregua delle bestie, dei terreni e degli oggetti materiali. Questa concezione dei bambini era già presente nella società araba pre-islamica, che mette al centro la «comunità» e dove le persone si legittimano sulla base del loro status e della loro funzione. Lo stesso Maometto fu un bambino infelice, figlio unico di un padre che morì prima che lui nascesse nel 570, mentre la madre morì quando lui aveva appena 6 anni. Così come fu un uomo sfortunato: sei dei suoi figli morirono prima che lui morisse nel 632. Gli sopravvisse solo la figlia Fatima che però morì pochi mesi dopo, fu l'unica a dargli due nipoti maschi, entrambi uccisi al pari del loro padre, Ali ibn Abi Talib, cugino e genero di Maometto. Fu così che Maometto morì senza eredi maschi, in una società dove non avere figli maschi era ritenuta una disgrazia. La considerazione che Maometto ebbe dei bambini raggiunse l'apice quando, a 50 anni, sposò Aisha, di appena 6 anni, che divenne la sua moglie prediletta. È in questo contesto religioso che i terroristi islamici usano spregiudicatamente i loro bambini per farli esplodere come carne da cannone e uccidono mostruosamente i nostri bambini come se la loro vita non contasse nulla. La radice del male è in Maometto e nel suo Allah.
La proposta shock di Magdi Allam dopo la strage terroristica dell'Isis a Manchester: "Mettiamo fuorilegge l'Islam se vogliamo vincere questa guerra". Il giornalista e scrittore: "Di fronte a 22 bambini e ragazzini massacrati dal terrorismo islamico suicida, cosa dobbiamo fare concretamente? Finalmente avremo il coraggio di combattere la radice del male, che è l'islam come religione?”, scrive il 23.05.2017 "Libera tv". “Mettiamo fuorilegge l'islam senza criminalizzare i musulmani se vogliamo vincere questa guerra”. È la proposta shock del giornalista e scrittore Magdi Allam all’indomani della strage di Manchester. Allam l’ha formulata in un video pubblicato sul suo profilo Facebook che potete guardare in fondo dell’articolo. Il giornalista, ricordiamo, è un ex musulmano convertitosi al cristianesimo con tanto di battesimo ottenuto da Papa Ratzinger in persona. Una conversione tuttavia conclusasi con l’abbandono della Chiesa “perché troppo relativista nei confronti dell’Islam”. Magdi Allam ha anche intrapreso una carriera politica all’interno del centrodestra. “Di fronte a 22 bambini e ragazzini massacrati dal terrorismo islamico suicida - afferma Allam nel video - mentre si divertivano ascoltando la musica a Manchester, cosa dobbiamo fare concretamente? Continuare a ripetere che mai e poi mai dobbiamo cambiare il nostro stile di vita? Che i terroristi islamici vanno condannati ma che l'islam è una religione di pace? Continueremo a limitarci a perseguire i singoli terroristi islamici solo se in flagranza di reato? O finalmente ci libereremo dell'ipocrisia, vinceremo la paura, avremo il coraggio di denunciare, combattere e sconfiggere la radice del male, che è l'islam come religione e di cui gli stessi musulmani sono le principali vittime?”
Quei versetti di Maometto che condannano violentemente la musica, scrive il 23/05/2017 Magdi Cristiano Allam su "Il Giornale". La strage di bambini e ragazzini consumatasi a Manchester durante un concerto della giovane cantante Ariana Grande, la si comprende anche considerando la condanna assoluta della musica da parte di Maometto. Lo Shaykh Abdu-r-Rahman Pasquini, predicatore del Centro Islamico di Milano e Lombardia di Segrate, in provincia di Milano, interpellato dal sito “Civiltà islamica”, ha sostenuto senza mezzi termini: «A mio avviso, a ragion veduta e con cognizione di causa, non ho problema a dire che tutti i musicisti appartengono alla categoria dei “satanassi antropomorfi”». Un altro italiano convertito all’islam, Massimo Abdul Haqq Zucchi, in riferimento al caso di due famiglie musulmane che a Torino nel 2015 preferirono trasferire i loro figli in un’altra scuola anziché farli partecipare alle lezioni di musica, espresse la sua solidarietà «in ottemperanza ai precetti islamici, che come è noto vietano l’uso e l’ascolto di strumenti musicali, con la sola esclusione degli strumenti a percussione». Zucchi ha quindi elaborato un modulo, a beneficio dei genitori musulmani, per la “Richiesta di esenzione dall’uso di strumenti musicali”, in cui menziona i detti in cui Maometto condanna tassativamente la musica. «Allah l’Altissimo mi ha affidato la missione profetica, affinché io sia guida e misericordia per i credenti, e mi ha ordinato di porre fine all’uso degli strumenti musicali: flauti (strumenti a fiato), strumenti a corda, e ogni usanza tipica dell’ignoranza pre-islamica.». «Nel giorno del giudizio Iddio verserà piombo fuso nelle orecchie di chiunque sia stato ad ascoltare una canzonettista accompagnata dal suono di strumenti musicali (a corda e a fiato)». «Il canto fa germogliare l’ipocrisia nel cuore come la pioggia fa germogliare la vegetazione». «Verrà un giorno in cui la mia comunità sarà sottoposta a durissime prove. Gli fu chiesto: “Quando, o Apostolo di Allah?”, ed egli disse: “Quando appariranno in essa canzonettiste e strumenti musicali e si considererà cosa lecita consumare bevande alcoliche”». «Ci saranno un giorno dei musulmani che considereranno lecito fornicare, vestire seta, usare strumenti musicali». Ecco perché, precisa Zucchi, l’islam ha vietato specificatamente l’uso degli strumenti musicali a fiato e a corda. Significa che è illecito l’uso e l’ascolto di strumenti musicali come il liuto, il mandolino, il flauto, il cembalo, e ovviamente la chitarra. È permesso solo l’uso del tamburello ai matrimoni, alle circoncisioni e in altre circostanze, anche se ci sono delle campanelle attaccate ad esso. Da questo insieme tocchiamo con mano la totale incompatibilità che c’è tra la comune civiltà dell’uomo e specificatamente il nostro stile di vita, in cui la musica primeggia come un’arte connaturata alla nostra umanità e eleva la nostra spiritualità, ed un islam che odia e condanna a morte gli artisti e tutti noi che amiamo l’arte. La strage del concerto di Manchester è parte integrante di una guerra scatenata dall’islam contro la nostra civiltà. Dobbiamo combattere per difenderci e salvaguardare il nostro inalienabile diritto ad essere pienamente noi stessi dentro casa nostra.
Uccidere in nome di Allah, scrive il 22 maggio 2017 Giovanni Giacalone su "Gli occhi della guerra" de "Il Giornale". Il caso di Ismail Hosni, l’attentatore italo-tunisino che la sera del 18 maggio ha aggredito in Stazione Centrale a Milano due militari e un agente di Polizia desta sempre più perplessità, non tanto per il profilo in sé del personaggio in questione, che connota caratteristiche comuni a molti altri attentatori improvvisati che hanno colpito target in Europa, ma piuttosto per quell’apparente voler sminuire a tutti i costi il comportamento e le caratteristiche di un soggetto e di un fatto le cui dinamiche sembrano invece abbastanza evidenti e più o meno in linea con altri precedenti casi. Profili con una storia delinquenziale ben nota, di scarso spessore religioso e radicalizzatisi in poco tempo. La lista è lunga ma prendiamo alcuni recenti casi:
Adrian Russel Ajao “Khalid Masood”, l’attentatore di Westminster del 22 marzo 2017, cittadino britannico di origini nigeriane. Masood aveva pesanti precedenti penali ma non condanne per terrorismo. Pare che in passato fosse stato indagato dall’intelligence per “estremismo violento”.
Karim Cheurfi, cittadino francese di origine maghrebina, attentatore degli Champs Elysees dello scorso 20 aprile, non era catalogato alla voce “fiche S”, la schedatura che indica una minaccia alla sicurezza nazionale francese. Era piuttosto un delinquente che aveva trascorso in carcere quindici dei suoi trentanove anni. Chaurfi odiava i poliziotti e da quando era in libertà usciva solo per comprare alcol e sigarette. Non era mai stato visto pregare e non aveva mai dato nessun segno di radicalizzazione. L’Isis aveva però rivendicato l’attacco tramite la propria agenzia di stampa.
Ziyed Ben Belgacem, cittadino francese di origine tunisina, il 18 marzo scorso attaccava una pattuglia di militari all’aeroporto di Orly, cercando di sottrarre l’arma a una soldatessa, per poi essere ucciso dagli agenti. Pregiudicato comune con precedenti per furti, rapine e spaccio di stupefacenti, era stato condannato a più riprese.
Questi sono solo alcuni casi recenti di “cittadini europei” di seconda o terza generazione con scarso background religioso ma che si sono rapidamente radicalizzati ed hanno messo in atto attacchi contro le Forze dell’Ordine. Anche Ismail Hosni aveva diversi precedenti penali, così come i suoi genitori. Frequentava e spacciava assiduamente nella zona della Stazione Centrale, tanto da essere anche stato fermato dagli agenti lo scorso dicembre. Hosni dal settembre 2016 postava su Facebook video inneggianti all’Isis. Eppure alcune dichiarazioni provenienti dall’entourage istituzionale e dallo stesso attentatore destano perplessità, ad esempio, per il sindaco di Milano Beppe Sala si tratterebbe di un italiano violento: “Il criminale che ha colpito le forze dell’ordine è figlio di madre italiana e di padre nordafricano ed è italiano a tutti gli effetti. Ciononostante a qualcuno fa comodo buttare questo atto criminoso sul conto dei migranti”. Sala non tiene conto del fatto che Ismail Hosni aveva vissuto gran parte della propria vita in Tunisia ed era rientrato in Italia soltanto nel 2015. Il fatto che avesse madre italiana o cittadinanza italiana non fa di lui necessariamente un soggetto “italiano” ed integrato, come del resto dimostrano i fatti. Altro punto di interesse: nella mattinata del 19 maggio emergeva la notizia su Milano Today secondo cui il questore di Milano assicurava ai giornalisti che non vi fossero, al momento, elementi per indicare in Hosni un estremista islamico. Al di là della barba da salafita di Hosni al momento dell’attacco, ciò che risulta chiaro fin da subito è che Hosni sul proprio profilo Facebook pubblicava filmati inneggianti all’Isis, con tanto di commenti apologetici, a partire dal settembre 2016. Il profilo Facebook di Hosni era “in chiaro”, ovvero visibile a tutti e veniva curiosamente oscurato immediatamente dopo l’attacco. Hosni era tra l’altro già noto alle forze dell’ordine e pare fosse già stato segnalato dall’intelligence. Nella mattinata del 21 maggio emerge che con il passare delle ore perderebbero peso anche i filmati in possesso di Hosni che hanno indotto gli inquirenti ad accusare il soggetto di terrorismo internazionale. Pare infatti che molti giovani magrebini, assolutamente innocui dal punto di vista della radicalizzazione religiosa, li guardino spesso per curiosità. Certo, quindi Hosni pubblicava video dell’Isis su Facebook per nutrire la curiosità di altri giovani maghrebini curiosi ed innocui. Poi una sera passeggiando tranquillamente in Stazione Centrale con due coltelli da cucina, siccome era nervoso, ha accoltellato una pattuglia? Magari era depresso? Magari era psicologicamente instabile? Chissà. Dulcis in fundo, Hosni in carcere avrebbe dichiarato di non essere praticante e neanche musulmano. Altra affermazione che stride alle orecchie di chiunque conosca un minimo la dottrina islamica. Se Hosni è infatti nato da padre musulmano lo è in automatico perché così prevede la legge dottrinaria islamica. Differente è il discorso sulla pratica, infatti Hosni poteva tranquillamente non essere praticante, ma la domanda è un ‘altra: “quanti degli attentatori che hanno colpito l’Europa negli ultimi 24 mesi lo erano?” Sono i fatti a parlare. Se poi Hosni si era convertito ad altra religione è un altro discorso, ma sarebbe un caso ben raro, soprattutto in Tunisia e comunque non difficile da documentare. E’ evidente che a molti non è ancora chiaro il profilo del nuovo terrorista islamista, spesso un disadattato violento, a volte di seconda o terza generazione ma non sempre (Anis Amri era un profugo arrivato col “barcone” ad esempio), non necessariamente religioso, che si radicalizza in poco tempo e colpisce.
Attentatori arabi e figli di immigrati diventano improvvisamente “inglesi” o “francesi”: Storia di una narrazione ridicola, scrive il 24 maggio 2017 Alessandro Catto su "Il Giornale". Quando siamo esposti ad attentati jihadisti, purtroppo frequenti negli ultimi tempi, viviamo sempre più spesso il triste spettacolo messo in scena da molta stampa, intenta a precisare quasi fin da subito la nazionalità “europea” degli attentatori. Capita così che i radicalizzati delle banlieue figli di immigrati tunisini diventino di colpo “francesi”, manco stessimo parlando di agricoltori bretoni; capita che l’attentatore di Manchester, figlio di immigrati libici, diventi immediatamente un “inglese”, una nazionalità annunciata con così tanto zelo e sicurezza che a prima vista e a primo udito qualcuno potrebbe davvero convincersi di avere a che fare con una sorta di Mr. Bean squilibrato, voglioso di farsi saltare per aria in qualche concerto. La realtà è che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina, e questa serie di uscite di molti mass media, a voler a tutti i costi certificare la provenienza nostrana di molti attentatori sembra essere una strategia per inculcare la sensazione che non sono sempre gli immigrati a compiere attentati di questo tipo, ma che anche i residenti, gli inglesi, i francesi possono compiere questo tipo di gesto, con quella miserabile sofisticazione alla “vedi? Erano francesi! Erano come noi!”. Una specie di propaganda rassicurante per evitare di citare sempre il marocchino, il libico, il mediorientale. Propaganda capace di smentirsi da sola, tuttavia. Se per questi cronisti, infatti, la provenienza culturale, geografica ed etnica è una sorta di camicia sostituibile alla bisogna, così come la cittadinanza e la nazionalità, sono gli stessi immigrati, anche radicalizzati, a mostrarci che le identità invece esistono eccome. Esistono ed emergono in contrasto ad una immigrazione senza criterio, capace di stipare individui in periferie affollate senza la benché minima possibilità di emancipazione, in contrasto a quel mondo dipinto dai professionisti dell’accoglienza come spazioso, tollerante e pieno di opportunità, i cui lustrini spesso lasciano spazio alla desolazione e alla disillusione una volta che lo si vive in prima persona, notando quanto poco spazio spesso ci sia per l’emersione sociale ed una degna sopravvivenza. L’identità, in situazioni di emergenza, diventa per molti immigrati l’unico motivo di orgoglio e di contrasto in un mondo lontano dalle fanfare a cui erano stati abituati. Non basta chiamare inglese un libico per farlo sentire un cittadino britannico, non bastano le ridicole manifestazioni a suon di gessetti, ponti e arcobaleni per risolvere le migliaia e migliaia di contraddizioni create da vent’anni a questa parte da una immigrazione sregolata, in cui una multiculturalità imposta in casa d’altri ha preso il posto di una più responsabile gestione multipolare del mondo, favorendo l’emancipazione dei popoli nelle loro terre e nelle loro case.
Anzi, proprio il fenomeno dello jihadismo fa spesso perno su un sentimento di odio nei confronti degli occidentali, visti come colpevoli e primi responsabili della crisi del mondo arabo e dell’attacco all’Islam. Spesso l’odio è addirittura culturale, con una repulsione verso quegli stessi miti portati in trionfo dai fautori del multiculturalismo, delle società aperte, laiche, democratiche. Un cortocircuito davvero terribile, ma veritiero, come se mezza stampa fosse impegnata ad appiccicare etichette di europeità ad un mondo che ne fa volentieri a meno, e che proprio nel contrasto con l’Occidente e nell’identità islamica trova ormai l’unica ragione di vita. Questo gioco sulle nazionalità falsate e sulle identità negate, infatti, viene continuamente sbeffeggiato proprio da quegli stessi immigrati che di questo gioco al ribasso sull’identità non ne possono più e ne fanno volentieri a meno. Forse devono accorgersene solamente i grandi mass media, tanto bravi a chiedere spazio, ascolto e dignità quanto abili a distorcere percezioni, a promuovere narrazioni di parte. Con buona pace di debunkers e sbufalatori professionisti, spesso rigorosamente silenti quando la grande stampa ci dipingeva le opportunità delle primavere arabe di pace e dei partigiani di democrazia del Medioriente, sarebbe interessante alzare una volta per tutte il velo da questo tipo di narrazioni inutili e ridicole, da questo infantile gioco sulle identità. Con buona pace di tutti, cominciando una volta per tutte a rintracciare cause ed effetti del dramma della radicalizzazione.
Noi vogliamo integrarli, loro vogliono solo disintegrarci, scrive Laura Tecce il 23 maggio 2017 su "Il Giornale". «Grazie Milano, sicura e accogliente» aveva twittato sabato scorso il premier Paolo Gentiloni, che evidentemente non conosce bene la città, nel giorno della marcetta voluta dal sindaco Sala e dall’assessore Majorino al grido di “Siamo tutti migranti” e hastag #20maggiosenzamuri. Soliti slogan retorici, petulanti e falsamente pietistici. Neanche fantasia hanno. Ma del resto c’è poco da inventarsi di fronte ad una realtà lontana anni luce dalla bella favoletta che i campioni del multiculturalismo ci vogliono raccontare. Cioè una Milano sicura, pacifica, dove i poliziotti non vengono accoltellati e tutti siamo sereni e tranquilli, grazie ad un’amministrazione che opera “scelte che pongono al centro la forza dell’integrazione e della convivenza”. Che belle parole. Anche Manchester e prima ancora Parigi, Bruxelles, Berlino sono città “sicure e accoglienti”? Ovvio. Siamo noi razzisti, xenofobi, populisti che viviamo in un mondo parallelo e in una realtà distorta, un mondo fatto di attentati e di violenze quotidiane, di stupri, rapine, degrado. Ci diranno che non c’entrano nulla i poveri profughi che scappano dalla guerra e che arrivano da noi con le migliori intenzioni, del resto sui cartelli visti alla marcia di Milano preparati dalle “associazioni caritatevoli” e opportunamente messe in mano ai nostri fratelli immigrati c’era scritto «vogliamo fare i modelli», «Siamo musicisti». Se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere. Ci diranno che chi compie le stragi nelle nostre città europee sono cittadini francesi, inglesi, belga, olandesi, tedeschi: questi sono i più pericolosi, perché mentono sapendo di mentire. A plasmare il loro giudizio non è il raziocinio, il ragionamento o la – seppur minima – conoscenza delle basilari nozioni sociologiche. No, la loro è una mentalità ideologica fondata sull’inganno consapevole. Essere cittadino di un Paese non vuol dire infatti essere parte integrante di una comunità e averne interiorizzato regole morali e comportamentali. Sia quelli che arrivano sui barconi sia quelli che già sono qua non vogliono integrarsi e mai lo faranno. Spesso si cita a sproposito il termine “integrazione” non tenendo conto del fatto che essa sia in realtà un processo con due attori: chi opera l’integrazione (agenzie primarie e secondarie di socializzazione) e chi deve essere integrato. Che appunto deve aderire ai principi sanciti da ambiti culturali quali la morale e l’etica, codificati poi in sistemi normativi di tipo legislativo. Quindi l’interiorizzazione di valori e regole da una parte e accettazione di nome giuridiche e norme comportamentali sono essenziali per una completa integrazione, che ovviamente è impossibile anche per quelli che vengono definiti immigrati di seconda generazione in quanto il primo e più importante step per l’integrazione è la socializzazione primaria, vale a dire la trasmissione al neonato e successivamente al bambino da parte della famiglia di quell’insieme di competenze sociali, valori, norme attraverso il quale la società riproduce sé stessa. Non è difficile da comprendere che questi individui abbiano avuto dalle famiglie di origine insegnamenti tutt’altro che in linea con i valori occidentali. Stiamo assistendo inesorabilmente al fallimento delle politiche volte alla tolleranza senza regole, al multiculturalismo senza identità, al falso mito dell’integrazione a tutti i costi, al buonismo senza giustizia. Ai ciechi sostenitori del buonismo acritico, ai filosofi delle idee universali, ai pacifisti duri e puri in marcia, a tutti coloro che per vigliaccheria o, peggio ancora, per moda radical chic terzomondista, fingono di non vedere, si oppongono la “coerenza” e la ferrea determinazione dei terroristi islamici, per i quali non valgono le nostre regole, la nostra razionalità, la nostra separazione fra terreno e divino, fra temporale e spirituale. Ovviamente chi prova a spiegarlo, anche con toni pacati e argomentazioni solide, viene tacciato di razzismo tout court. Avanti su questa traiettoria, dunque: l’Europa come gigantesco campo di battaglia e di conquista, dove assassini senza scrupoli sono nutriti e coccolati da demagoghi e illusionisti che per bieco interesse personale e ideologico irretiscono una popolazione che paga la propria credulità di lungo corso.
"Le donne non parlino italiano sennò aprono le gambe a tutti". L'inchiesta shock sulle famiglie musulmane in Italia. Le donne islamiche non possono parlare né integrarsi: "Non ce ne frega niente", scrive Rachele Nenzi, Mercoledì 24/05/2017, su "Il Giornale". Cosa impedisce alle donne islamiche di parlare italiano? Molte donne, infatti, rimangono sempre in gruppo tra loro e difficilmente si esprimono in pubblico. Soprattutto se di fronte ad una telecamera. Striscia La Notizia, allora, ha provato a chiedere alle donne musulmane il perché di tanta reticenza. E le loro risposte fanno riflettere, e non poco, sul mancato desiderio di integrazione che hanno gli immigrati che arrivano in Italia. Alla faccia delle marce pro-immigrazione. "Perché non parlate italiano", chiede l'inviata di Striscia ad una donna che preferisce rimanere a volto coperto. "Noi non restiamo qui per sempre, torneremo nel nostro paese", risponde la signora. In realtà, si tratta di una scusa per non ammettere che non c'è alcuna volontà di integrarsi. Un'altra ragazza, infatti, spiega che è da 10 anni che vive in Italia e "non ce ne frega niente di imparare l'italiano". E pio aggiunge: "Non ci interessa perché non siamo stabili qui". Quando la cronista le fa notare che dopo 10 anni in un Paese uno non può considerarsi solo in transito, la donna non fa una piega. Poi però emergono altri elementi altrettanto inquietanti. Una ragazza infatti spiega di non aver mai imparato la nostra lingua perché "mio marito non vuole". Mentre un'altra aggiunge: "Non abbiamo nulla da imparare qui. Avete visto come vanno in giro le ragazze? Io ho due figlie, non esiste che le educhi qui. Questo Paese è sbagliato: se educo mia figlia qui finisce che apre le gambe a chiunque". Come a dire: le occidentali sono tutte poco di buono. E la situazione non migliora quando l'inviata chiede agli uomini di spiegare come mai le donne non parlino italiano. "La donna è fatta per stare a casa", risponde un immigrato. "Mia moglie esce solo accompagnata da me, che parlo egiziano con lei", ripete un altro. E così addio a tutti i buoni propositi sull'immigrazione.
Donne e jihad, un fenomeno in crescita, scrive il 18 aprile 2017 Lorenzo Vita su "Gli occhi della Guerra" de "Il Giornale". Il fenomeno del terrorismo femminile è stato molto spesso sottovalutato in Occidente. Probabilmente per colpa di un inconscio pregiudizio non tanto maschilista, quanto della considerazione della donna nell’Islam. L’Occidente ha per anni analizzato il fenomeno in modo errato, considerando la donna terrorista come una sorta di oggetto nelle mani della jihad di impronta maschile. In sostanza, poiché per gli occidentali l’islam renderebbe la donna come un oggetto, allora la conseguenza è che la donna jihadista sia, di fatto, un oggetto in mano alle volontà terroristiche dell’uomo. L’erroneità di questa interpretazione ha di fatto escluso che per molto tempo si discutesse del ruolo della donna all’interno del jihadismo, il più delle volte contrapposto all’emancipazione della donne europea piuttosto che compreso nel suo fondamento sociale nel mondo islamico. Il cliché della donna sottomessa senza ruolo all’interno dell’islamismo ha però una grossa lacuna nella percezione della realtà. C’è, infatti, una realtà ben diversa da quella prospettata dal sistema occidentale, che è invece la femminilizzazione della jihad. Secondo quanto affermato dal Real Instituto Elcano di Madrid, istituto specializzato nello studio dei fenomeni e delle relazioni internazionali, il 10% dei foreign-fighters sarebbe di sesso femminile. Non è una cifra bassa, al contrario, è in netta crescita rispetto al passato. Negli ultimi tre anni, sono stati, infatti, sempre crescenti i numeri delle donne impegnate nel terrorismo. Secondo le analisi, da una parte c’è un motivo prettamente organizzativo e militare: con la perdita di terreno del Califfato in Siria e Iraq e con il numero di morti tra gli uomini, le donne possono diventare un bacino di reclutamento di notevole importanza. Il loro ruolo sta quindi cambiando in virtù della differenza di numeri e valori degli uomini. Da oggetto di piacere degli uomini o donne impegnate nella semplice gestione della casa o della retrovia, nel tempo il reparto femminile jihadista ha iniziato anche a impegnarsi attivamente nella commissione di attentati e attacchi di varia natura. Dall’altra parte però non è da sottovalutare anche l’importanza dell’educazione occidentale che queste donne hanno ricevuto. Infatti, la maggior parte delle ragazze che giungono in Siria e Iraq viene da Paesi occidentali, in particolare dall’Europa, dove hanno potuto in molti casi ricevere un’educazione molto più approfondita rispetto alla media delle donne dei paesi arabi e delle province. Questo incide evidentemente sulle possibilità di queste donne di influire nel processo decisionale di un movimento jihadista sempre più debole e sempre più fatto di cellule solitarie. In sostanza, le donne musulmane, giovani, e di cittadinanza europea, che giungono in Siria e Iraq, arrivano con la consapevolezza sempre maggiore di andare nel Califfato anche con l’idea di poter contare qualcosa e di lottare per qualcosa più grande di loro. È dunque una rivoluzione del concetto di jihadismo per come viene inteso in Europa, dove l’idea della donna islamica è quella dell’oggetto in mano allo schiavismo maschilista. In realtà, sono le donne stesse che vedono nel Califfato una possibilità di riscatto sociale rispetto alle periferie sociali d’Europa. Che è poi lo stesso ideale che lega molti cosiddetti lupi solitari nella loro volontà di unirsi all’Isis, cioè la necessitò di sentirsi parte di qualcosa di più grande rispetto alle frustrazioni quotidiane. Questo riscatto della donna nell’universo jihadista procede parallelo con l’evoluzione della stessa donna nell’islam europeo. Sono sempre più le donne islamiche che ritengono di dover esprimere le proprie posizioni, così come le donne che scendono in piazza per i propri diritti di donna musulmana. La stessa larga affluenza nelle manifestazioni contro i divieti di niqab, burqa o di burkini, nei Paesi occidentali, dimostra come vi sia un ripensamento del concetto di donna islamica all’interno della comunità. Non è più la semplice donna ancillare all’uomo, ma una donna con una sua autonomia di pensiero e di azione. Questa indipendenza e autonoma rispecchia una particolare evoluzione che può condurre a due tipologie di donna all’interno del mondo islamico. C’è una donna che diventa consapevole dell’importanza della propria posizione all’interno della fede, e si batte per essa come cittadina islamica. C’è poi una donna, più pericolosa, che si evolve in female fighters diventando una donna che pone la propria vita al servizio della guerra santa. Diventa una mujiaiahdat, una donna-combattente. E se il fenomeno è in crescita, occorre anche trovare nuove alternative nella lotta al terrorismo. L’idea che il terrorista sia un lupo solitario, tendenzialmente maschio, solo e con un retroterra alle spalle di frustrazione, deve cedere il passo anche alla possibilità che dietro un attentato o un piano terroristico vi possa essere una donna che vede nella jihad un riscatto morale, religioso e sociale. Perché la donna non è un oggetto, da nessuna parte, ma trova una sua via particolare, in ogni società, per raggiungere l’emancipazione. Como lo fa un uomo, lo fa una donna, e questo, per un islamista radicale, può significare anche jihad.
Il terrorismo visto dai salotti, scrive Luigi Iannone il 23 maggio 2017 su "Il Giornale". Chi si fosse perso le dichiarazioni delle ultime ore sui fatti tragici di Manchester da parte di intellettuali, deputati, giornalisti o frequentatori del jet set, stia pure tranquillo. Sono le stesse di Parigi, Bruxelles, Londra e di decine di altre città, quando nel mentre si contavano i morti e i feriti, c’era già chi invitava la popolazione a vivere normalmente la propria vita. Come se nulla fosse successo; come se quell’evento fosse simile ad un voltar pagina ad un libro di fiabe.
Perché il bestiario di frasi fatte è utile per ogni occasione, e il registro non cambia sia che si tratti di Parigi, di Bruxelles, di Londra o di Manchester. Chiunque ne voglia avere contezza può fare una superficiale ricerca in internet e ritroverà le stesse facce di bronzo con le medesime espressioni affrante e con uguale corollario di inutili e irritanti rassicurazioni. Una nenia molesta anche al solo ascolto disinteressato ma che diventa oltremodo offensiva e crudele quando reiterata e moltiplicata dalla potenza dei media. E perciò leggerete e ascolterete frasi del tipo: <<tutto deve andare avanti come se nulla fosse successo>>, <<non modifichiamo i nostri stili di vita>>, <<non dobbiamo rinunciare alla metro e ai luoghi affollati>>. Insomma, un catalogo di ferocia inconsapevole nel momento in cui la gente comune è invece consapevole di essere obbligata a frequentare i mercati, a prendere metropolitane e di rado pure a tentare di ritemprarsi su qualche lungomare affollato. Perché non si tratta di non voler rinunciare ai propri stili di vita, quanto piuttosto di essere impossibilitati a fare diversamente. E allora questi inviti hanno un sapore di ferocia inconsapevole, soprattutto se tale lagna della ‘normalità’ viene incoraggiata da chi in vita sua non ha preso e non prenderà mai una metro perché magari utilizza i taxi, più veloci e comodi. Da chi non sa cosa sia un bus cittadino e, probabilmente, fa vacanze in luoghi sublimi dove non v’è alcun contagio con la folla e con i folli. Dico questo non per dilettarmi in un pauperismo da quattro soldi, che incita al livore e alla cattiveria verso chi è benestante, ma perché questa ossessiva e irritante calma olimpica di chi vive negli ovattati salotti buoni non si può avere la pretesa di inocularla nelle vene della gente comune. La realtà è molto più complessa di quanto non si percepisca dai salotti radical-chic e di conseguenza il finto ecumenismo di certe asserzioni può risultare ripugnante.
Caro Vecchioni, fieri di essere degli imbecilli. Il cantautore insulta chi non sfila con gli immigrati. E tace sugli estremisti, scrive Massimiliano Parente, Mercoledì 24/05/2017, su "Il Giornale". Oh, ma quanto saranno carini e lucidati ogni giorno i pulpiti delle anime belle della militanza buonista? Accendi la televisione e c'è una predica da Fabio Fazio di Veltroni, cambi canale e senti Vecchioni offendere chiunque non abbia partecipato alla marcia a favore dei migranti, il corteo contro la Schiavitù. La sintesi è questa: solo gli imbecilli possono essere contrari, e ne consegue che l'Italia è formata da imbecilli in quanto chiunque non abbia partecipato lo è. Sfortuna vuole che il guru Vecchioni non faccia in tempo a dare degli imbecilli a tutti e l'indomani un altro islamico si fa saltare in aria uccidendo decine di persone. Che c'entrano le due cose? Butto lì qualche ragionamento sicuramente imbecille: anzitutto mi piacerebbe vedere una fluviale marcia di musulmani (diciamo qualche milione) che protestano contro l'integralismo islamico, o almeno capire perché non ne organizzano una, magari sono degli imbecilli, dovrei chiederlo a Vecchioni. Ammenoché non sia imbecille io ad aspettarmi una bella protesta musulmana, ma allora, considerandone l'assenza, significa che i musulmani stanno zitti zitti nei confronti dell'Isis? Che sono complici? Collaborazionisti? Magari addirittura imbecilli? No, perché è imbecille dirlo: bisogna distinguere, dialogare, comprendere, spaccare il capello in quattro. In ogni caso mai dare dell'imbecille a un islamico. Anche quando ci mettono le bombe sotto al culo contare fino a dieci, precisare che quello non è l'Islam, che bisogna accogliere tutti fino a scoppiare, perché sono buoni, perché siamo tutti buoni. Insomma, Vecchioni è uno tra i pochi illuminati, non è imbecille per niente. Magari è pure vero, se continuiamo a considerarlo un maître à penser. Che forse dovrebbe chiedersi se gli altri, questi imbecilli che non ci sono, non abbiano le loro ragioni, anche perché non sono benestanti come lui e in fondo l'immigrazione selvaggia è una guerra tra poveri. Poveri, e pure imbecilli. Alla fine ha ragione Salvini quando accusa Vecchioni di essere solo un riccone, perché a sentirli parlare, il milionario Fazio, il milionario Veltroni, il milionario Saviano, sembrano tutti poverissimi e sensibilissimi e pronti ad affrontare qualsiasi pericolo pur di cambiare il mondo mentre l'unica cosa a cambiare per adesso è la loro dichiarazione dei redditi. Quindi, forse, sono i più cinici: sanno che i buoni sentimenti rendono bene.
"Sapete dove dovete mettere gli immigrati?". La fucilata di Vittorio Feltri: uccisa la sinistra, scrive il 21 Maggio 2017 Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano". Quelli della sinistra non hanno mai capito niente dell'Italia. Lo dimostra il fatto che non sono riusciti a governarla per più di 24 mesi. Romano Prodi col suo Ulivo profumato di incenso è stato due volte presidente del Consiglio e in entrambe le circostanze è durato un paio di anni, poi si è dovuto dimettere essendogli crollata addosso la maggioranza. Un tentativo lo ha fatto pure Massimo D' Alema. Anche lui ha resistito poco tempo. Fu costretto a cedere il timone ad Amato, prima craxiano, quindi opportunista e pronto a saltare qualsiasi fosso. Di Monti è nota la mesta vicenda. Di lui si ricordano tre cose: il loden, le tasse e la mancata spending review. Egli rimase al comando un annetto. In seguito arrivò Bersani, ma non ebbe fortuna: i grillini lo mandarono a defecare. Discese dal cielo democristiano Letta, il nipote, e alcuni mesi più tardi fu scalzato da Renzi, sostituito dal mite Gentiloni, asservito alle banche, tanto è vero che ha regalato 8 miliardi al Monte dei Paschi di Siena, l'istituto di credito gestito con le terga dai suoi compagni del Pd. Nel giro di alcuni lustri i progressisti hanno dimostrato platealmente di essere incapaci di guidare anche una carriola, figuriamoci Palazzo Chigi. Il che dovrebbe bastare a convincere gli italiani a non votarli più. Ma non sarà così in quanto gli avversari della sinistra sono spariti nelle nebbie della stupidità. La prossima battaglia elettorale sarà la comica finale. I signorini del Pd e i loro sodali si stanno portando avanti per perdere consensi. Basti pensare che oggi scendono in piazza a Milano con l'intento di favorire l'immigrazione, persuasi che le migliaia di neri e di islamici giunti nel nostro Paese non siano sufficienti a garantirci la felicità. È incredibile. I suddetti signorini affermano che i profughi sono una ricchezza per la Patria e reclamano nuovi arrivi. Promettono festosa accoglienza e integrazione, case, assistenza e lavoro per gli stranieri. Premono perché si abbattano i muri e si costruiscano ponti. Mentre almeno il 70 per cento dei nostri concittadini è esasperato a causa delle invasioni barbariche, i bamba milanesi, con in testa il sindaco Sala, sfilano in corteo affinché i famosi barconi intensifichino il trasporto nella penisola di sfigati, che poi siamo obbligati a mantenere nelle nostre città già abbastanza infestate. Siamo al paradosso. Coloro che ci amministrano, invece di risolvere il drammatico problema delle immigrazioni di massa, fanno il diavolo a quattro per aggravarlo, e minacciano di portare a termine il progetto suicida, addossando al popolo l'onere di finanziare la folle operazione. Dato che la gente non è scema come i progressisti, se ne guarderà bene dal dare il suffragio a questi fighetti animati dal proposito di ricevere le orde di extracomunitari nelle periferie che scoppiano e sono ai limiti della sopportazione. Sia chiaro, se i partecipanti alla marcia pro africani sono generosi al punto da volerli sul nostro territorio, non ci opponiamo. A una condizione: se li portino a casa loro, in corso Venezia, in San Babila, in via Manzoni e li facciano accomodare in salotto o in camera da letto. Non osino parcheggiarli al Lorenteggio o a Lambrate. Di Vittorio Feltri
Twitter si scusi per l'Isis, non per Trump. Le scuse (inutili) di Twitter & Co, scrive Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 22/05/2017, su "Il Giornale". Ci voleva Trump perché i big della rete si accorgessero che il web è diventato un Far West nel quale ognuno può sparare le prime cavolate che gli passano per la testa. Ci voleva Trump. Presidente bizzarro sì, ma democraticamente eletto dal popolo americano. Non bastavano i video di ragazzi bullizzati, i ricatti sessuali, le violenze private sbandierate pubblicamente, i filmati di sgozzamenti, i tutorial per sbudellare gli «infedeli» e i milioni di link che rimandano a pratiche e manuali di terrorismo. Evidentemente non erano abbastanza per vellicare le anime belle della Silicon Valley. Riavvolgiamo il nastro. Ieri sul New York Times Evan Williams, cofondatore di Twitter, si batte pubblicamente il petto: se Trump ha vinto grazie al mio social network, chiedo scusa. Per poi chiosare amaramente che internet è guasto, non funziona più, è morto (ma va!). Un luogo virtuale pieno di imbecilli reali. Parzialmente vero. Così com'è innegabile che se entriamo in un qualunque bar del mondo possiamo trovare una simile quantità di cretini. Perché la rete è divenuta la mimesi - a tratti caricatura - del mondo reale, un'appendice della quotidianità, un arto ormai non amputabile del nostro corpo. Certo, i padri fondatori di tutte le reti del mondo, pensavano di creare un paradiso digitale che unisse tutto il mondo nel nome della comunicazione e della fratellanza universale. Un bel sogno cyberhippy fatto di bit e innaffiato con Lsd. Ma soltanto un sogno, appunto. Dal quale i signori del web sembrano essersi svegliati tardivamente. E con il piede sbagliato. Riportiamo la questione alle nostre latitudini. Perché il problema del web non è solo un cruccio per filosofi attorcigliati alle loro riflessioni. Pochi giorni fa tre agenti sono stati aggrediti alle otto di sera alla stazione centrale di Milano. L'aggressore, come è noto, era un italiano di origini tunisine, noto alle forze dell'ordine e probabilmente all'inizio di un percorso di radicalizzazione islamica. Lo dimostrerebbe anche un video, preso da YouTube e pubblicato su Facebook dal ragazzo lo scorso 24 settembre, con in calce un commento che lascia poco spazio all'immaginazione: «Il miglior inno dell'Isis». Ora, com'è possibile che un soggetto sotto la lente delle forze dell'ordine lasci tracce così visibili di radicalizzazione senza che nessuno se ne accorga? Ma, soprattutto, come è possibile che né Facebook né YouTube segnalino e rimuovano questi contenuti? Il profilo del ragazzo è stato chiuso il giorno del suo arresto, ma il video dell'inno al Califfato è ancora lì che galleggia nell'oceano della rete, insieme ad altre migliaia di filmati prodotti dai seguaci della bandiera nera. Invece il problema è Trump. Forse i signori della rete così occhiuti nel controllo e nella censura del politicamente scorretto, dovrebbero cercare anche di impedire alle truppe dell'Isis di imperversare sulle loro autostrade digitali. Perché tutto quello che è virtuale, prima o poi diventa reale.
Ma l'Isis non si batte con fiori e chitarre. Spettacolo di melassa e ipocrisia inutile Come i concerti per l'Africa degli anni '80, scrive Francesco Maria Del Vigo, Martedì 06/06/2017, su "Il Giornale". Non sarà cantando una canzone degli Oasis (bellissima) che sconfiggeremo l'Isis. Purtroppo. Non sarà l'ennesimo concertone spolverato di buoni sentimenti a cambiare le cose. Per carità, nulla di personale contro Ariana Grande e tutte le star che si sono raccolte attorno a lei, due sere fa a Manchester, per dire no al terrore. Ma sono trent'anni, dai tempi dei Live Aid per aiutare il Terzo Mondo fino alle schitarrate in difesa dell'ambiente, che le multimilionarie star della canzone pontificano squadernando ipocrisia e melassa. E l'Africa è ancora lì, con tutti i suoi drammi e le sue miserie, e il buco nell'ozono - se ne faccia una ragione Bono Vox - non si rammenda grazie a una canzonetta. Ma la passerella di Manchester è andata un passo avanti. Perché se quelli degli anni Ottanta potevano essere derubricati come scemi di guerra in tempo di pace, questi sono scemi di guerra in tempo di guerra. Ma non lo sanno. E continuano a sciorinare il solito armamentario da hippie in naftalina. La solita idea che bisogna mettere i fiori nei cannoni al posto dei proiettili, anche se i fiori continuano a finire - settimana dopo settimana e, oramai, giorno dopo giorno - sulle tombe dei martiri di questa guerra oscena e bastarda. È cambiata la musica ma i musicisti non l'hanno sentita. «Vincerà l'amore» hanno salmodiato tutti i cantanti che, uno dopo l'altro, si sono succeduti sul palco. Tolleranza, amore universale, fratellanza. Parole bellissime, certo, ma ahinoi fuori moda, non adatte a questi tempi. L'arena inglese era il simbolo stesso di un Occidente che gioca con le parole, che non ha più la forza di sfogliare il dizionario e andare a leggere il loro reale significato. Che le usa come se fossero un balsamo per anestetizzare le proprie paure. Preferiamo tutti parlare di amore e tolleranza, piuttosto che di odio e guerra, infilando la testa nella trincea del politicamente corretto. Ma ogni tanto bisogna cambiare il disco. Bastava fare una panoramica, guardare una delle belle inquadrature aeree del prato dell'Old Trafford Cricket Ground, per vedere che quella festa era un funerale (blindato) della retorica del peace & love, un festival danzante sull'orlo del precipizio. Centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa radunati in un «anello di acciaio» con i mitra spianati in mano, metal detector agli ingressi, droni ed elicotteri nel cielo plumbeo d'Inghilterra. L'illusione pacifista sopravvive solo circondata da un cordone di militari che nei mitra hanno pallottole e non boccioli di rosa. Perché siamo in guerra. E bisogna dirlo. E se necessario pure cantarlo.
Tutto virtuale, tranne il sangue, scrive Marco Travaglio il 5 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Tutto questo sangue per una non-partita e per un non-attentato: ma com’è stato possibile? Alle due di notte siamo qui al pronto soccorso del Gradenigo, un piccolo ospedale in riva al Po, del tutto inadeguato a fronteggiare la fiumana dei feriti che continuano ad affluire da piazza San Carlo, luogo della non-partita e del non-attentato. Alla fine saranno più di 200, sui 1500 e passa del bilancio ufficiale. Fra loro c’è mia figlia Elisa,18 anni, che aveva deciso di vedersi la finalissima con un amico e un’amica davanti al maxischermo. Alle 22.15, subito dopo il terzo gol del Real, mi appare il suo numero sul cellulare. Provo a rincuorarla: “Dài, pazienza, è andata così…”. Ma la voce dall’altro capo non è la sua. E’ quella del suo amico, che assicura: “Elisa sta bene, ma non può parlare, ha male a una gamba”. Brivido gelato nella schiena. Me la faccio passare a forza: ansima, piange, ripete “vienimi a prendere, voglio andare subito via di qui, c’è stato un attentato, una bomba, non so, mi hanno calpestata, mi hanno camminato sopra, non mi sento più la gamba sinistra, e gli scoppi continuano, stiamo scappando verso piazza Vittorio”. La prego di calmarsi e di restare collegata, intanto salto in macchina con mia moglie e voliamo a prenderla, appena in tempo prima che anche in piazza Vittorio Veneto si scateni il panico per l’ondata dei fuggitivi che, attraverso via Po e le strade laterali, sciamano via dal luogo della non-partita e del non-attentato. La carico in auto che trema ancora come una foglia e fatica a parlare. E mi fiondo al pronto soccorso più vicino. Lì già sono in fila quattro o cinque feriti, i più lievi, quelli che ce la fanno a camminare. Poi, nel giro di mezz’ora, ecco tutti gli altri, fino a riempire i minuscoli locali del piccolo ospedale. Sanguinano tutti, tanto. Chi dal capo ferito, chi dal naso rotto, chi dalle gambe e dalle braccia completamente tinte di rosso scuro. Mai visto tanto sangue, neppure in un film di Dario Argento. Molti sono scalzi, a piedi nudi: nella calca hanno perso le scarpe, figurarsi le infradito. Altri hanno smarrito borse e zainetti, documenti e telefonini compresi: chiedono in prestito quelli superstiti per chiamare casa e rassicurare. Dicono che solo un petardo e uno scherzo da teste di cazzo è impossibile: qualcosa di grave dev’essere successo per forza. Chi ha sentito dire di una bomba, chi di un balcone crollato, chi di un’auto esplosa nel parcheggio sotterraneo, chi ha udito le raffiche di una mitragliatrice. E poi le voci di attentato, accompagnate dai rituali “una bomba, una bomba!” e dall’immancabile “Allah u akbar”. Tutti, in fila scomposta davanti alle infermiere di turno, pensano di avere la priorità assoluta e rumoreggiano per l’attesa. La gran parte non è di Torino: sono venuti apposta dal Sud, dalla Calabria, da Napoli, dall’Abruzzo. Qualcuno da Roma. Due persino dalla Svizzera. Hanno fatto ore di treno, preso l’aereo, organizzato pullman non per vedere la partita. Quella si giocava a Cardiff e la dava in diretta Canale 5. No, sono saliti fino a Torino per vedere Canale5 ingrandito da un maxischermo in piazza e in piedi, anziché seduti sul divano di casa propria. E avere la sensazione di essere allo stadio, con altri 30mila. E soffrire insieme. E moltiplicare l’adrenalina. E possibilmente, alla fine, festeggiare a distanza 11 calciatori in maglia bianconera che, fra l’altro, nello stadio vero, si sono pure dimenticati di giocare. Il trionfo dell’assurdo, il virtuale al cubo, il surrealismo puro. Alla fine potranno raccontarla lo stesso, questa folle serata, come i superstiti dell’Heysel il 29 maggio ‘85, che però almeno erano davvero allo stadio, anche se poi la finale Juve-Liverpool fu mezza vera e mezza finta, disputata solo per motivi di ordine pubblico. Già, l’ordine pubblico. Tutto quel sangue si spiega solo con l’enorme quantità di bottiglie di vetro finite in frantumi durante il fuggi-fuggi. Un tappeto di cocci taglienti su tutta la piazza. I testimoni sanguinanti non parlano d’altro: “La polizia ha transennato la piazza per farci entrare solo dopo averci perquisiti e controllato gli zaini e le borse, a caccia di armi e bottiglie di vetro. Poi, appena dentro il recinto, decine di ambulanti coi carrelli vendevano birre in vetro”. Così le transenne si sono rivelate non solo inutili, ma dannose, facendo da tappo all’onda di fuga, frenando il deflusso e aggravando a dismisura il bilancio. Una follia di cui il prefetto e il questore dovrebbero rispondere. Alle 2 Elisa è ancora in sedia a rotelle col ghiaccio sulla gamba, nessuno ha potuto visitarla, ci sono casi più urgenti. Vuole andare a casa. La carichiamo in spalla e ce ne andiamo, sperando che non abbia nulla di fratturato. “Non andrò mai più in piazza per una partita, e nemmeno allo stadio”, dice lei alla fine della più lunga serata della sua vita. In macchina, la radio informa di un attentato a Londra. Un attentato vero. Ma che differenza fa. Ormai i terroristi, anche quando non ci sono, è come se ci fossero.
A Torino scappa pure il sindaco. Appendino, questore, prefetto: scaricabarile sulla strage sfiorata, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 06/06/2017, su "Il Giornale". A Torino, da piazza San Carlo non sono malamente scappati soltanto i tifosi della Juventus che stavano assistendo alla finale di Champions. Anche lo Stato se la sta dando a gambe levate, mettendo in scena un vergognoso scaricabarile tra le istituzioni coinvolte. Ognuna delle quali - Comune, prefettura, questura - rivendica di avere fatto tutto a regola d'arte e che semmai le colpe sono da ricercare altrove. Ma altrove dove? Che ci sta a fare un Comitato per la sicurezza e l'ordine pubblico, che cosa si fanno a fare riunioni su riunioni, cosa si compilano a fare moduli e permessi se poi tutto è lasciato al caso e 1.500 persone - record nazionale - finiscono all'ospedale in un colpo solo? Non voglio buttarla in politica, ma una cosa così può succedere solo in una città amministrata dai grillini, che saranno anche giovani e carini (la Appendino, sindaca di Torino è entrambe le cose) ma non hanno nessuna esperienza di lavoro, di politica, né di vita. Ieri è stato imbarazzante vederla farfugliare impaurita che lei «ha seguito la prassi». E se anche fosse, peggio mi sento, perché significa che esiste una prassi, da lei adottata, che contempla la possibilità che si compia una strage. Il questore si trincera dietro la possibile non costituzionalità di un'ordinanza che avrebbe potuto proibire l'introduzione nella piazza di bottiglie di vetro (causa del maggior numero di feriti) ed evitare quindi, o almeno limitare, i danni. Discutono (dopo) da fini giuristi, invece di applicare (prima) banali misure di buon senso, peraltro già sperimentate in mille occasioni. È il trionfo dello Stato burocratico, quello che i grillini dicevano di volere abbattere e che invece stanno consolidando, come dimostra anche la situazione in cui è precipitata Roma. La Appendino e il prefetto di Torino, questo sì, sono persone fortunate. Nulla, quella sera, era stato pensato per affrontare il peggio come da mesi avviene in tutta Europa in caso di assembramenti pubblici. Il caso ha voluto che oggi non fossimo qui a piangere morti. Ma non possiamo continuare ad affidarci al caso. Non vogliamo innescare una caccia alle streghe, ma il fatto che a due giorni dai fatti ancora non ci sia un'ipotesi di reato o un indagato ci lascia perplessi. Perché è evidente che in piazza San Carlo qualcuno ha sbagliato e di grosso.
Parigi, trovato video di Isis a casa dell'attentatore di Notre Dame. Secondo il portavoce dell'esecutivo francese Farid Ikken non ha mai dato segni di radicalizzazione e quello di ieri a Parigi sarebbe solo un "atto isolato", scrive Ivan Francese, Mercoledì 07/06/2017, su "Il Giornale". Ha un nome l'attentatore di Parigi: il responsabile dell'assalto a Notre Dame di ieri pomeriggio, in cui è rimasto ferito un poliziotto, sarebbe Farid Ikken, 40enne algerino dottorando in scienze dell'informazione all'università di Metz, in Lorena. Residente alla periferia della capitale, è attualmente in ospedale per le ferite alle gambe riportate nel tentativo di attacco di ieri. Secondo le dichiarazioni rese questa mattina dal portavoce del governo francese Christophe Castaner, avrebbe agito "in apparenza solo" e non avrebbe dato segni di radicalizzazione in passato. Il presidente dell'università dove era immatricolato, Pierre Mutzenhardt, interrogato da France Bleu Lorraine Nord, ha spiegato che fino ad ora Ikken non aveva fatto "nulla che potesse essere considerato sospetto". Se queste ipotesi dovessero essere ulteriormente accreditate si andrebbe confermando la pista di un atto isolato, nonostante la rivendicazione, da parte dello stesso attentatore, di essere "un soldato dell'Isis". Parlando questa mattina con l'emittente radiofonica Rtl, Castaner ha aggiunto di "non avere, al momento, ulteriori elementi di indagine". Tuttavia, secondo una fonte investigativa citata dal quotidiano parigino Le Figaro, durante una perquisizione a casa di quello che ormai è il sospettato numero uno sarebbe stato ritrovato un video in cui Ikken proclamava la propria affiliazione allo Stato Islamico. Si tratterebbe dunque di un atto isolato, ma comunque di un gesto premeditato e non di un raptus di violenza. Una circostanza confermata anche dal ritrovamento di due coltelli addosso all'attentatore, oltre al coltello con cui ha tentato di aggredire un poliziotto.
Londra, chi sono i terroristi del ponte e del Borough Market. Khuram Butt, 27 anni, origini pakistane e Rachid Redouane, 30, marocchino-libico, Youssef Zaghba, 22 anni, italo-marocchino, scrive il 7 giugno 2017 Luigi Gavazzi su "Panorama". I terroristi che hanno agito sabato sera - alle ore 9:58 (Gmt) - sul London Bridge e il Borough Market, colpendo direttamente e uccidendo sette persone e ferendone decine, erano tre. La polizia britannica, intervenuta subito dopo l’allarme, li ha uccisi nel giro di otto minuti. Sono stati identificati dalla polizia che tra lunedì sera e martedì ha diffuso anche i nomi:
- Khuram Butt, 27 anni, originario del Pakistan, sposato con figli, che dovrebbe essere il capo della cellula che ha colpito sabato sera.
- Rachid Redouane, 30 anni, marocchino-libico.
- Il terzo attentatore identificato è Youssef Zaghba, 22 anni, di nazionalità italiana, di padre marocchino.
Sembra abbastanza evidente che fosse Khuram Butt, l'uomo di origine pakistane, il capo della "cellula" che ha colpito sabato sera. Il punto al centro delle analisi della stampa e della politica britannica - oltre che delle indagini - è se e come i segni da jihadista che ha lasciato in questi anni, potessero essere individuati, trasformati in informazioni e in impulso ad agire per fermarlo da parte della polizia e dell'intelligence. In particolare sono evidenti e decisamente difficili da sottovalutare i contatti con Sajeel Shahid, 41 anni, sospettato di essere l'addestratore in Pakistan dei terroristi degli attentati a Londra del luglio 2005. Attraverso questi contatti Butt sarebbe arrivato a Anjem Choudary, un vero esempio di "Predicatore dell'odio". Ora è in carcere in Gran Bretagna, dopo essere stato condannato per propaganda a favore dell'Isis. Dalle sue labbra, pare, pendesse anche Khalid Masood, l'attentatore di Westminster di marzo 2017. Poi c'è la controversa faccenda delle informazioni trasmesse dall'Italia all'intelligence britannica su Youssef Zaghba, italo-marocchino di 22 anni, il terzo uomo di sabato. Zaghba è figlio di madre italiana e padre marocchino. Secondo il Corriere della Sera, Youssef Zaghba è stato fermato nel 2016 all’aeroporto di Bologna mentre stava cercando di andare in Siria. Aveva lavorato fino a poco prima dell’attentato di sabato 3 giugno in un ristorante di Londra. Probabilmente era sulla lista di persone pericolose della polizia italiana. Il Corriere sostiene anche che le autorità italiane avessero avvertito quelle britanniche e marocchine dei numerosi spostamenti sospetti di Zaghba. Sembra che i genitori di Youssef Zaghba avessero vissuto per un certo tempo insieme in Marocco, prima di separarsi. La madre si è poi trasferita a Bologna. Il 15 marzo del 2016 all'aeroporto di Bologna, Zaghba venne fermato dalla polizia. Aveva uno zaino e un biglietto di sola andata per Istanbul. Sul telefono gli agenti trovarono immagini e video religiosi; secondo la Repubblica anche collegabili all'Isis. Il Tribunale del Riesame stabilì però che non ci fossero sufficienti elementi per accusarlo di terrorismo, e venne scarcerato. Le autorità italiane vennero informate di questo tentativo di partenza. In Gran Bretagna i media si chiedono cosa abbia fatto l'Home Office al momento del ritorno di Zaghba nel Regno Unito. Secondo il Guardian Zaghba è stato identificato dopo un arresto effettuato martedì mattina a Barking. È il tredicesimo arresto nell'ambito dell'indagine. Si tratta di un uomo di 27 anni che viveva nello stesso edificio dove abitava Khuram Butt. Khuram Butt aveva 27 anni ed era noto a Barking con il soprannome di Abs. Nato in Pakistan è però cresciuto in Gran Bretagna. Era noto alla polizia che lo aveva indagato in particolare nel 2015. Aveva connessioni con il gruppo estremista al-Muhajiroun, il cui leader Anjem Choudary è stato incarcerato nel 2016 per propaganda a favore dello Stato Islamico. Butt veniva però considerato dall'anti-terrorismo fra i meno pericolosi. Butt era piuttosto conosciuto come estremista a Barking. Sui media già lunedì circolava la testimonianza di una signora italiana residente nel quartiere da 14 anni, Erica Gasparri, che sostiene di aver segnalato alla polizia quest'uomo, perché aveva avvicinato il figlio facendogli "discorsi strani sull'Islam". Butt era un tifoso dell'Arsenal e indossando la maglia del club londinese ha compiuto la strage di sabato 3 giugno. Abitava con la moglie e tre figli in una palazzina di Kings Road, dove la polizia ha effettuato gli arresti domenica. Il Guardian scriveva lunedì che una persona definita come ex amico di Butt avrebbe contattato la polizia di Barking a proposito delle sue opinioni manifestate dopo alcuni attacchi ispirati dall'Isis. Ha anche detto alla Bbc che Abs era solito guardare video on line del predicatore estremista americano Ahmad Musa Jibril. "Ho chiamato la hot-line antiterroristica", ha detto il testimone, "ho spiegato perché pensavo si fosse radicalizzato". Butt è anche apparso in un documentario di Channel 4 sui jihadisti britannici mentre discute con dei poliziotti dopo che una bandiera dell'Isis era stata esposta a Regent's Park a Londra. Era anche stato ripreso accanto a due predicatori estremisti, noti alla polizia e all'intelligence britanniche. Abitava agli Elizabeth Fry Apartments di BArking con la moglie e due figli. Khuram Butt non sembra insomma lontano dai profili di Salman Abedi, l'attentatore del concerto di Ariana Grande a Manchester (23 morti) o di Khalid Masood, l'attentatore del Westminster Bridge in marzo, entrambi noti alla polizia come estremisti ma non al centro di nessun programma di sorveglianza. Su Rachid Redouane, il secondo terrorista identificato, si sa molto meno. Nato 30 anni fa, aveva in precedenza usato lo pseudonimo Rachid Elkhdar. Di origini marocchino-libiche faceva lo chef. La polizia irlandese ha detto che aveva vissuto fino a pochi mesi fa a Dublino dove si sarebbe trasferito cinque anni fa. Non era comunque noto alle autorità per attività sospette o pericolose. È stato probabilmente identificato perché aveva con sé durante l'assalto di sabato 3 giugno un documento di identità rilasciato dalla Garda National Immigration Bureau di Dublino. A Londra viveva a Dagenham, in un caseggiato non lontano da quello dove viveva Kharim Butt a Barking. Secondo la polizia di Dublino, Rachid Redouane aveva vissuto a Rathmines, nella zona sud della capitale irlandese. Aveva sposato anche una donna irlandese - che secondo il Guardian è fra gli arrestati di domenica - dalla quale si era però separato da alcuni mesi. Gli assalitori, oltre al van per travolgere i passanti sul London Bridge, hanno usato armi da taglio, “lunghi coltelli”, come li hanno definiti i testimoni. Amaq, l’agenzia dello Stato islamico domenica notte ha rivendicato all’Isis la responsabilità dell’attacco. I responsabili delle indagini stanno anche cercando di stabilire l’esistenza di un’eventuale rete di supporto ai tre terroristi, o di una “cellula” simile a quelle riscontrate più volte negli attentati in Europa di questi mesi. In questi giorni, a Metropolitan Police ha arrestato una ventina di persone a Barking, a East Ham, zone entrambe nell’est della città. Molti dei fermati sono però già stati rilasciati. Le persone private della libertà sono detenute nel quadro delle violazioni alla legge atiterrorismo britannica: possono essere trattenute in custodia per due settimane prima di un atto giudiziario di conferma dell'arresto e di rilascio.
"Mio figlio, logorato dentro": parla la madre dell'attentatore italo marocchino di Londra. "Abbiamo sempre controllato le sue amicizie, ma da internet gli arrivava di tutto. Poi a Londra ha frequentato le persone sbagliate. Capisco gli imam che non ne vogliono celebrare il funerale: va lanciato il segnale che l'Islam non è questo". L'intervista alla madre di Youssef Zaghba, uno dei killer della strage del 3 giugno, scrive Brahim Maarad il 6 giugno 2017 su "L'Espresso". Youssef Zaghba «Mi ha chiamato al telefono giovedì scorso, nel primo pomeriggio. Con il senno di poi mi rendo conto che quella nei suoi piani era la telefonata di addio. Pur non avendomi detto nulla di particolare, lo sentivo dalla sua voce». A parlare in esclusiva all'Espresso è Valeria Khadija Collina, la madre di Youssef Zaghba, uno dei tre terroristi responsabili dell'attentato che ha ucciso sette persone a Londra. Questa mattina gli agenti della Digos di Bologna, città in cui vive, sono venuti a cercarla a casa: aprendo la porta Valeria ha pensato che le avrebbero fatto altre domande su suo figlio perché la donna, musulmana da 26 anni, ne aveva segnalato la sua scomparsa. Gli agenti però l’hanno subito fermata: «Purtroppo non siamo qui per questo, siamo venuti per dirle un’altra cosa. Suo figlio è morto». Negli istanti successivi ha ripercorso con la mente gli ultimi giorni, per ricordare gli ultimi contatti e cercare di comprendere l’incomprensibile. Youssef, il 22enne italo marocchino che già l’anno scorso aveva tentato di imbarcarsi da Bologna su un volo per la Turchia, a Londra si è trasformato in un soldato dello Stato Islamico. Prendendo parte al duplice attentato che ha causato 7 morti e 48 feriti.
Quand’è stata l’ultima volta che l’ha sentito?
«Mi ha chiamato al telefono giovedì scorso, nel primo pomeriggio. Con il senno di poi mi rendo conto che quella nei suoi piani era la telefonata di addio. Pur non avendomi detto nulla di particolare, lo sentivo dalla sua voce. Anche perché era solito mandare messaggi, non chiamava sempre».
Di cosa le ha parlato?
«Abbiamo scherzato su come mi avrebbe accolta all’aeroporto di Londra. Sarei dovuta andare a trovarlo fra dieci giorni per festeggiare con lui la fine del mese di Ramadan. Aveva da poco comprato un’auto usata, gli ho chiesto se ci avrebbe messo sopra le bandierine per me».
E quand’è che ha perso i suoi contatti?
«Già il giorno dopo non rispondeva più. Mi ha chiamato suo padre dal Marocco per dirmi che non riusciva a rintracciarlo. Allora ho chiesto a un suo amico di Londra di andarlo a cercare. Non l’ha trovato da nessuna parte».
Non ha pensato a lui quando ha visto gli attentati?
«No. Solo dopo ho scoperto che gli identificati erano suoi amici e mi sono detta che magari si sta nascondendo dalle autorità per non finire nei guai, visto che in Italia è ancora monitorato».
A causa del suo tentativo di partire per la Siria?
«Sì, l’anno scorso. Mi disse che sarebbe andato tre giorni a Roma, lo accompagnai a Bologna e qualche ora dopo mi chiamarono dall’aeroporto per raccontarmi il tutto. È stato in quell’occasione che ho conosciuto gli agenti della Digos che oggi sono venuti a darmi la notizia. Con loro ho sempre avuto un buon rapporto e anche oggi sono stati molto umani».
Non ha cercato di capire da cosa derivasse questa sua voglia di unirsi allo Stato Islamico?
«In passato, ancora prima che cercasse di prendere quel volo, mi mostrò qualche video sulla Siria. Ma non mi parlò mai di andare a combattere. Per lui la Siria era un luogo dove si poteva vivere secondo un islam puro. Lo raccontava secondo una sua fantasia che gli avevano trasmesso da internet. Gli ho sempre detto che c’erano cose orribili che non gli mostravano. Purtroppo non riuscì a fargli cambiare idea».
Si sente in colpa?
«Quando i figli sbagliano, i genitori si danno sempre qualche colpa. Ma io ce l’ho messa tutta e penso che lui sia stato logorato all’interno. Abbiamo sempre controllato le amicizie e verificato che non si affidasse a persone sbagliate. Aveva però internet ed è da lì che arriva tutto. Né in Italia né in Marocco, dove studiava informatica all’Università di Fes, si era mai lasciato trascinare da qualcuno».
È successo a Londra.
«Quel quartiere non mi ha mai trasmesso serenità. Ci sono stata e non mi è piaciuto. Ha frequentato lì le persone sbagliate».
Ora molti imam non vogliono celebrare il suo funerale.
«Io li capisco e condivido la loro scelta perché è necessario dare un forte segnale politico. Anche per dare un messaggio ai familiari delle vittime e ai non musulmani».
E lei che messaggio vorrebbe dare loro?
«Solo una madre può provare il dolore di un’altra madre. So che nulla può essere sufficiente ma io sono pronta a tutto quello che può portare loro pace. Mi rendo conto che chiedere il perdono non vuol dire nulla, per questo io mi impegno e prometto che dedicherò la mia vita per fare in modo che non accada più».
In che modo?
«In ogni modo possibile, insegnando il vero islam alle persone, cercando di convincere le famiglie a riempire il vuoto che possono incontrare i loro figli. Dobbiamo combattere l’ideologia dello Stato Islamico con la conoscenza vera e io lo farò con tutte le mie forze».
Islam radicale e terrorismo, un decalogo per dire basta. Dieci regole per la "tolleranza zero": basta con il calpestare identità, leggi e tradizioni in nome della convivenza, scrive Gian Micalessin, Martedì 06/06/2017, su "Il Giornale". L’Italia fin qui s’è salvata. Ma se continueremo a calpestare identità, leggi e tradizioni in nome della convivenza con l’islamismo radicale faremo i conti con il terrore. Ecco il decalogo per chi vuole stare con la May e non con l’Europa della resa.
Abbandonare il relativismo culturale. L’Islam non può essere messo sullo stesso piano del Cristianesimo. Il Corano è un libro del 650 dopo Cristo identificato come la parola di Dio e, come tale, immutabile e non criticabile. Il Cristianesimo nasce dai testi dell’Antico e del Nuovo Testamento progressivamente interpretati, filtrati e modernizzati dal pensiero di filosofi come Sant’Agostino e San Tommaso fino alle Encicliche di due giganti come Papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il tutto mentre l’Islam sunnita continua a non avere una gerarchia in grado di condannare e abiurare il fanatismo.
Isolare i fanatici: serve la legge sull’albo degli imam. I l primo passo per mettere fuori legge i fanatici è la creazione di un albo degli imam supervisionato dallo Stato con la collaborazione delle comunità islamiche moderate. Se ne parla da oltre un decennio, ma a tutt’oggi non è mai stato messo a punto. L’ultimo a prometterlo fu l’estate scorsa il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Da allora è rimasto lettera morta. Come sono rimasti lettera morta i corsi per la formazione degli imam. Così i predicatori continuano a sfuggire ai controlli e le porte delle moschee restano aperte a wahabiti, salafiti e Fratelli Musulmani.
Mettere al bando chi segue la sharia come unica norma. L a pretesa di regolare le proprie comunità attraverso la sharia, ovvero la legge coranica, è la cartina di tornasole che permette di riconoscere chi non è integrabile nelle nostre società. Chiunque pretenda di sostituire il diritto e le leggi dello Stato con la legge religiosa, come le comunità legate alla Fratellanza Musulmana o ai wahabiti, persegue la creazione di società separate. Da lì ad arrivare alla nascita di quartieri islamici «vietati» agli «infedeli» il passo è breve. E in Belgio, Francia, Olanda ed Inghilterra sta già succedendo.
Riscoprire tradizione, valori e radici cristiane. I valori cristiani sono gli unici in cui s’identifica tutta l’Europa. Nei secoli hanno garantito progresso, libertà e salvaguardia dei più deboli, ma anche la difesa del Continente in momenti come la battaglia di Lepanto e l’assedio di Vienna. Sono un patrimonio unico perché dal Cristianesimo è germogliata la democrazia. Ma la nostra tradizione religiosa ci lega anche ai Cristiani del Medioriente, prime vittime della persecuzione islamista. Soltanto riscoprendo e rafforzando questa radici riscopriremo la nostra identità e sapremo contrapporci al fanatismo islamista.
Pieno controllo della rete internet da parte dello Stato. L a rete internet è oggi la terra senza legge in cui operano i predicatori dell’odio e su cui Isis e Al Qaida disseminano propaganda e fanno proselitismo. In tempi di lotta al terrorismo non può restare il dominio di Google e di multinazionali interessate soltanto al profitto, ma indifferenti alla minaccia causata ai cittadini. Lo Stato deve esercitare la propria sovranità sulla rete imponendo ai gestori non solo la distruzione e l’eliminazione di tutti i siti che ospitano propaganda jihadista, ma anche la vigilanza e la segnalazione preventiva sui contenuti sospetti.
L’accoglienza non è gratis e non è un diritto. L’ accoglienza non è gratis. E soprattutto non è un diritto. L’accoglienza non va concessa indiscriminatamente ed automaticamente a chiunque. Chi fugge da guerre e persecuzioni e si appella al diritto all’asilo deve in cambio accettare di conformarsi alle leggi, alle regole e alle tradizioni del nostro Paese. La premessa indispensabile per l’ottenimento dell’accoglienza in Italia è la sottoscrizione di un impegno formale ad accettare i nostri valori e a rispettare le nostre leggi. Pena l’espulsione e il rientro immediato al Paese d’origine.
Vietare il burqa e tutti gli altri simboli dell’odio. I l primo a condannare «burqa» e «niqab» dichiarandoli estranei alla tradizione musulmana è stato nel 2009 Mohammad Sayyed Tantawi, il Grande Imam della Moschea e dell’Università Al Azhar del Cairo. Ma il velo integrale oltre ad essere un simbolo della sottomissione femminile imposta dall’Islam radicale è anche una bandiera dell’odio e della segregazione all’interno della società. Chi ne impone l’uso alle donne e chi lo esibisce indossandolo con orgoglio rifiuta l’integrazione e punta a creare delle società separate.
Combattere contro il Califfato in prima linea. La missione in Afghanistan è stata, nel lungo periodo, un fallimento, ma l’immediato attacco al regno talebano, subito dopo l’11 settembre, permise di ridimensionare la minaccia di Al Qaida nel resto del mondo. Oggi, a tre anni dalla dichiarazione del Califfato, l’Occidente continua a combattere in ordine sparso in Irak e Siria. È invece fondamentale un impegno diretto di tutto l’Occidente per cancellare lo Stato Islamico proprio nelle terre dove si è radicato. Combattendo, dove si rivela necessario, anche al fianco della Russia di Putin.
Qatar e Arabia, vanno isolati quei falsi alleati. Qatar e Arabia Saudita professano la stessa fede in quel credo wahabita dell’Islam perseguita anche dai militanti dell’Isis e di Al Qaida. I loro finanziamenti a moschee e centri islamici minacciano di portare anche in Europa la versione più estremista della fede musulmana. In Siria e Irak il Qatar e l’Arabia Saudita finanziano e armano, assieme alla Turchia, i gruppi jihadisti, Al Qaida e l’Isis. Solo isolandoli, come stanno facendo proprio in queste ore gli altri Paesi arabi del Golfo, potremo prosciugare l’acqua in cui nuota il terrorismo.
Marocco, Tunisia, Egitto e Giordania: i nemici del terrore. I l Marocco combatte una guerra senza quartiere all’Isis ed è una delle poche nazioni, assieme a Tunisia e Giordania ad avere infiltrati dentro lo Stato Islamico. L’Egitto del presidente Abd al-Fattah al-Sisi ha sconfitto i Fratelli Musulmani in patria, fronteggia i gruppi jihadisti in un Paese cruciale per il Mediterraneo come la Libia e combatte l’Isis nel Sinai, al confine con Israele. Solo rafforzando le alleanze con questi Paesi manterremo un occhio vigile su tutta la rete del terrore ed eviteremo rischi maggiori per il futuro.
Il più grande errore dell’Europa? Decidere di uccidere Gheddafi, scrive Andrea Pasini il 6 giugno 2017 su “Il Giornale”. “Allah è grande, Gheddafi è il suo profeta”. Nel punk violento e sincopato dei CCCP, guidati dall’eclettico reggiano Giovanni Lindo Ferretti, il gruppo invoca, mentre si perdeva ad Istanbul, il nome del Mu’ammar. Per l’esattezza: Mu’ammar Muhammad Abu Minyar ‘Abd al-Salam al-Qadhdhafi. Era il 1985 allora Bettino Craxi e i carabinieri italiani misero in scacco Ronald Regan e i militari della Delta Force, maledetta sovranità che non tornerà. Un’epoca ormai lontana, eravamo crocevia del Mediterraneo, Mare Nostrum come ai tempi della spada dell’Islam conferita nel 1938 a Benito Mussolini, portaerei privilegiata per storia e prestigio nel dominio di quel valico che collega Europa ed Africa. Italia e Medio Oriente. Un valore ancestrale, innato ed immutabile, che solo il lassismo della politica nostrana ha permesso potesse crollare. Dobbiamo ringraziare la Francia di Bernard-Henri Lévy che nel 2011 ci impose la linea da seguire. In pratica prendere uno dei nostri partner commerciale prediletto ed infierire su di esso. Abbiamo avuto gioco facile, nella Libia divisa in tribù dove i soldi dell’Occidente sono merce di scambio gradita. Nel 2009 Gheddafi tenne all’Assemblea delle Nazioni Unite il 23 settembre 2009 un discorso, per certi versi profetico, che ha anticipato la realtà dei fatti. Leggiamone un estratto: “Se un Paese, la Libia per esempio, decidesse di aggredire la Francia, allora l’intera Organizzazione risponderebbe perché la Francia è uno Stato sovrano membro delle Nazioni Unite e noi tutti condividiamo la responsabilità collettiva di proteggere la sovranità di tutte le nazioni. Tuttavia 65 guerre di aggressione hanno avuto luogo senza che le Nazioni Unite facessero nulla per prevenirle. Altre otto enormi e feroci guerre, le cui vittime ammontano a circa 2 milioni, sono state intraprese dagli Stati membri che godono di poteri di veto”. Avevano bisogno di rendere la Libia una polveriera come i Balcani negli anni ’90. “Sfondo bianco e pulito”, per tornare alle parole di Ferretti, una coscienza, quella putrida dell’economia europea, da bagnare con il sangue di Paesi sovrani. Sovvertire ogni legge, ogni legge della natura e degli uomini, perché il sultano danaro chiama all’appello e pretende sacrifici umani su sacrifici umani. “C’era una volta la Libia di Gheddafi: certo non un modello di diritti civili, certo uno Stato con le sue complessità, ma comunque pacificato e in ordine con i suoi equilibri tribali. Poi ai libici abbiamo portato la democrazia: da allora, l’area è diventata non solo un crocevia per terroristi, predoni, briganti e trafficanti, ma ha subito anche una regressione tribale che mette spavento. Lo testimonia la recente, assurda ‘guerra della scimmia’. Accade nella zona di Sebha, una importante città del sud della Libia, a circa 700 chilometri da Tripoli nel deserto verso Niger e Ciad”. Questo scriveva Il Primato Nazionale lo scorso 22 novembre. Una nazione nell’oblio, il senso della storia che si perde, si ferma fino a svanire. Mentre noi dobbiamo raccogliere le briciole e ringraziare la voce del padrone. Massimo Fini, all’indomani dell’uccisione de Il Colonello, commentò così la vicenda: “Ma credo che ci siano due ragioni, una era la ferocia belluina di questi pseudorivoluzionari libici, l’altra è che comunque l’Occidente non poteva permettersi un processo a Gheddafi perché sarebbero venute fuori tutta una serie di corresponsabilità, soprattutto negli ultimi dieci anni”. Il Giornale, alcuni giorni fa, sulle sue colonne rifletteva dello squilibrio che ha colpito il mondo negli ultimi sei anni. “Ora che la strage di Manchester ha messo in luce un filo rosso che la collega a Tripoli e che mette in relazione il kamikaze Abedi con il network jihadista di Al Qaeda, il dubbio che qualche errore (almeno di miopia) sia stato commesso riaffiora. Anche il ministro dell’Interno, Marco Minniti, è stato esplicito: ‘Emerge per la prima volta un link diretto con la Libia’. Nel marzo 2015 l’allora ministro degli Esteri sentenziava: ‘La Libia è il focolaio del terrorismo’. Adesso, tutti a dire che bisogna intervenire lì, non solo contro la piaga del terrorismo, ma anche contro l’invasione di migranti”. Abbiamo sbagliato, per codardia, per pavidità, per incapacità politica ed ora paghiamo il prezzo più alto. Siamo pedine al centro del bersaglio, i colpi arrivano da ogni parte e siamo incapaci di rispondere come un pugile suonate adagiato sulle corde. I pugni si frantumano sul nostro costato, sul nostro volto e aprono ferite curate con ulteriori colpi. Un gioco al massacro che ci vede chiedere più accoglienza davanti alla carneficina. Ed allora ci vengono in aiuto le parole dell’arcivescovo emerito della diocesi di Ferrara-Comacchio, Luigi Negri: “Io spero che almeno qualcuno di questi guru – culturali, politici e religiosi – in questa situazione trattenga le parole e non ci investa con i soliti discorsi per dire che ‘non è una guerra di religione’, che ‘la religione per sua natura è aperta al dialogo e alla comprensione’. Ecco, io mi auguro che ci sia un momento silenzioso di rispetto. Innanzitutto per le vostre vite falciate dall’odio del demonio, ma anche per la verità. Perché gli adulti dovrebbero innanzitutto avere rispetto per la verità. Possono non servirla ma devono averne rispetto”. Bisogna guardare in faccia la realtà questa è una guerra religiosa. “Se non aiutate la Libia, voi avrete Al Qaeda a 50 km dai confini dell’Europa”. Le sillabe di Gheddafi riecheggiano a Manchester, Parigi, Nizza, Berlino, Londra e in tutte quelle cattedrali nel deserto della società multirazziale. Cancri di un modo divenuto materialismo stratificato sul nulla. Bisogna riconoscere, allora, la lungimiranza che ebbe Silvio Berlusconi capace di tessere rapporti ed amicizie, figlie del colonialismo di inizio novecento. Un’era di sbarchi nulli e di mare calmo, mentre oggi le onde sono burrascose e 200.000 immigrati, negli ultimi 12 mesi, varcano la porta di Lampedusa per depredare l’Europa. Cellule terroristiche, cellule cancerose che si annidano sottopelle, mentre i politicanti da strapazzo, pronipoti di Baumann e della società liquida, corrono verso il proprio carnefice in cerca di una benedizione che non arriverà. Oswald Spengler scrisse: “Essi oggi discutono – riferito ai popoli europei, ndr – mentre ieri comandavano, e domani dovranno pregare per poter discutere”. Tremenda fine, in preda alle convulsioni economiche delle cooperative e all’informazione distorta che ci chiede di accettare la nostra fine. Ed allora ridateci Gheddafi.
Qatar: uno tsunami geopolitico, scrive Giampaolo Rossi il 6 giugno 2017 su “Il Giornale". Con una decisione senza precedenti Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein e Egitto hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar, chiusa l’unica frontiera terrestre del Paese (quella con l’Arabia Saudita), bloccati il traffico aereo e quello marittimo ed intimato ai cittadini qatarioti (in visita o residenti nei Paesi del Golfo) di tornare in patria entro tre settimane. Una sorta di isolamento forzato. L’Arabia Saudita accusa il Qatar di essere sponsor del terrorismo islamista. E in effetti lo è. Ma è paradossale che l’accusa arrivi da un paese che ha creato Al Qaeda e che ha prodotto e finanziato per lungo tempo l’Isis e che (almeno fino a poco tempo fa) ha foraggiato i gruppi integralisti in Siria (come ammise l’ex vicepresidente americano Joe Biden). D’altro canto il rapporto tra Arabia Saudita e gruppi islamici più integralisti è cosa risaputa non solo in Medio Oriente; in Europa, sono i sauditi i principali finanziatori di moschee e scuole coraniche in cui imam salafiti istigano all’odio per l’Occidente e per i suoi valori; ed è l’oscurantismo religioso wahabita, base della monarchia Saud, a ispirare le follie ideologiche del Califfato e dei tagliagole dell’Isis. Certo è che il Qatar, i suoi rapporti con le organizzazioni integraliste islamiche li ha intensi e in alcuni casi storici. Ma, per semplificare, potremmo dire che appoggia “gli integralisti sbagliati”. Vediamo perché.
Fratelli Mussulmani: innanzitutto il Qatar appoggia i Fratelli Mussulmani, la potente organizzazione islamica ritenuta terroristica in molte regioni del Medio Oriente. Fu Al Jazeera la macchina di propaganda mediatica dell’Emirato a costruire l’immaginario delle Primavere Arabe e l’ascesa dei gruppi legati ai Fratelli Mussulmani in molti paesi, tra cui l’Egitto, destabilizzando l’intera regione. Non a caso, come riporta la Reuters, ieri il Presidente egiziano al-Sisi, nemico storico della Fratellanza Mussulmana, ha dichiarato che la politica del Qatar “minaccia la sicurezza nazionale araba e getta i semi della discordia e della divisione all’interno delle società arabe”.
Hamas: in quest’ottica, il Qatar finanzia Hamas (organizzazione terroristica della Fratellanza) e da sempre attua una politica filo-palestinese in netto contrasto con la linea israeliana della Casa saudita.
Al-Nusra: in Siria, il Qatar continua a finanziare Al-Nusra e i ribelli anti-Assad legati ad Al Qaeda che, almeno formalmente, i sauditi hanno smesso di finanziare da quando l’arrivo di Donald Trump ha interrotto l’appoggio che l’America di Obama aveva loro dato.
Libia: in Libia il Qatar supporta i gruppi jihadisti contrapposti al Gen. Haftari appoggiato invece da Emirati Arabi e Russia.
Afghanistan: E da sempre il Qatar è al fianco dei mujaheddin afghani (Doha è l’unica capitale al mondo ad ospitare una rappresentanza diplomatica dei talebani).
Iran: ma l’accusa più grave rivolta è quella di coltivare legami con l’Iran, nemico storico dei sauditi e degli arabi sunniti. Ed è proprio il recente rifiuto dell’Emiro del Qatar di partecipare all’alleanza anti-iraniana promossa da Trump durante il suo recente viaggio in Arabia Saudita, ad aver scatenato la reazione contro il piccolo Stato del Golfo.
In genere, accelerazioni come queste preannunciano destabilizzazioni profonde o addirittura un conflitto; è però improbabile che quest’ultimo si verifichi per tre fondamentali ragioni:
1) Non si fa la guerra ad un paese che ha un fondo sovrano (il Qatar Investment Authority) tra i più importanti del mondo, con un patrimonio di oltre 300 mld di dollari e partecipazioni azionarie nelle più importanti aziende del pianeta (dalla Volkswagen a Tiffany, da Credit Suisse a Barclays, dalla russa Rosneft a Citic China); che è azionista di maggioranza del London Stock Exchange (la Borsa di Londra che a sua volta controlla anche quella di Milano), che possiede pezzi interi di Manhattan, che ha il più grande patrimoni immobiliare di Singapore e i magazzini Harrods a Londra, solo per citare qualcosa; ed il cui Ceo è membro della famiglia reale.
2) Il Qatar ospita, nella base di Al Udeidi, il CentCom, il Centro di Comando americano che sovrintende le operazioni in Medio Oriente con circa 10.000 soldati Usa; base costata miliardi di dollari all’Emiro e che di fatto è garanzia di inviolabilità per il Paese.
3) il Qatar ha recentemente stipulato un accordo militare con la Turchia che consente ad Ankara di dislocare sul territorio 3.000 soldati (100 anni dopo la fine della presenza Ottomana nel Golfo Persico) in cambio della difesa in caso di aggressione.
È probabile che l’azione aggressiva contro il Qatar abbia un altro obiettivo: un regime change morbido, interno alla famiglia reale. Magari con un suo membro più moderato e più incline alla mediazione e disposto ad allineare il Qatar alle posizioni dei Paesi del Golfo; ad esempio Hamad bin Jaber al-Thani già primo Ministro fino al 2013 (e vice Presidente del QIA), potentissimo uomo d’affari particolarmente gradito agli Stati Uniti (è membro del Brooking Institute, l’influente think tank atlantista) e alla Francia con la quale ha chiuso, da Premier, le partecipazioni più importanti (Total, Gdf Suez, Vinci) oltre che i maggiori accordi di acquisto armi.
La decisione di rompere le relazioni con il Qatar è un vero e proprio “tsunami geopolitico”, inaspettato e devastante. La decisione è avvenuta pochi giorni dopo la visita ufficiale di Donald Trump in Arabia Saudita; è perciò chiaro che la Casa Bianca l’ha condivisa. In quell’occasione il Presidente americano, il Re saudita e il Presidente egiziano, in una cerimonia dall’inquieto sapore esoterico, hanno individuato i due nemici “sostenitori del terrorismo”: l’Iran e i Fratelli Mussulmani. Ma mentre l’Iran gode della protezione storica della Russia (ed è tuttora impegnata in Siria nella lotta contro l’Isis e Al Qaeda), i Fratelli Mussulmani non hanno alcuna copertura una volta neutralizzato il Qatar. Washington è alleato dei sauditi, Mosca degli iraniani; ma americani e russi sanno che non conviene infilarsi nel secolare conflitto tra sunniti e sciiti. Se siamo di fronte ad un’accelerazione finalizzata ad aprire uno scontro diretto con l’Iran (sullo sfondo di una guerra per procura che sauditi e iraniani combattono nello Yemen e che i sauditi non stanno vincendo) il rischio di un conflitto su larga scala rende improbabile che America e Russia lo accettino. Se al contrario, gli slogan anti-iraniani di Trump sono solo una false flag per combattere il terrorismo jihadista e sunnita (quello dei Fratelli Mussulmani) portandosi dietro coloro che quel terrorismo lo hanno alimentato e trovando convergenza con gli obiettivi di Mosca, allora ci troveremmo di fronte ad un cambiamento storico della politica estera Usa in Medio Oriente. Insomma, la partita che passa per il confine del Qatar servirà a capire se Trump ha la forza di essere Trump o la debolezza di rimanere un presidente succube della lobby saudita e neo-con e del partito della guerra che ha dominato Washington in questi anni.
Quando Mosè sconfisse i Faraoni, scrive Paolo Delgado il 5 giugno 2017 su "Il Dubbio". Cinquant’anni fa la Guerra dei sei giorni, l’esercito israeliano del generale Dayn sbaraglia una coalizione di paesi arabi guidata dall’egiziano Nassr. Un conflitto che cambiò la storia del Medio Oriente e del mondo. La guerra destinata ad avere le conseguenze più profonde e durature dal 1945 a oggi durò pochi giorni, dal 5 al 10 giugno 1967, e fu vinta in poche ore. Meno di tre ore dopo il decollo degli aerei israeliani diretti verso le basi aeree egiziane nel Sinai, Ezer Weizman, capo delle operazioni dell’esercito e futuro presidente della Repubblica, chiamò la moglie al telefono: «Abbiamo vinto la guerra». Un’ora più tardi il capo della Israel Air Force Motti Hod annunciava al capo di Stato maggiore Yithzak Rabin: «L’aereonautica militare egiziana non esiste più». La guerra vera e propria doveva ancora cominciare. Contrariamente agli auspici dello Stato maggiore israeliano non si sarebbe combattuta solo sul fronte del Sinai, contro l’Egitto, ma anche sulla riva occidentale del Giordano, contro la Giordania, e a nord contro la Siria, sulla postazione strategicamente fondamentale del Golan. Ma l’annientamento dell’aviazione egiziana, a cui fece seguito la sera del 5 giugno quello altrettanto completo dell’aviazione siriana, garantiva a Israele il dominio assoluto dei cieli: un vantaggio che assicurava la vittoria. Già dalla sera del 5 giugno quella dell’esercito israeliano fu soprattutto una gara contro il tempo per occupare quanto più territorio possibile prima che l’Onu decretasse il cessate il fuoco. Il ritardo dell’Egitto e della Siria nell’accettare la tregua permise a Israele di continuare a combattere per sei giorni, il doppio di quanto fosse atteso nella previsione più lunga. Il 7 giugno le Idf, Israeli Defence Forces, conquistarono dopo la battaglia forse più feroce e sanguinosa dell’in- tera guerra la Città vecchia di Gerusalemme, persa nella Guerra del 1948- 49. Nei giorni successivi completarono l’occupazione del Sinai, di Gaza e di quella che si chiamava allora la Cisgiordania, il territorio dove è ancora in attesa di nascere lo Stato palestinese. Il 9 giugno, sentendo avvicinarsi l’ora della tregua, Dayan, senza neppure avvertire il premier Levi Eshkol, ordinò l’attacco contro le alture del Golan, dalle quali la Siria bombardava da mesi i villaggi israeliani della Galilea. Furono conquistate poche ore prima della fine delle ostilità. L’ 11 giugno Israele aveva occupato oltre centomila km quadrati di territorio, un’area circa tre volte e mezzo superiore a quella dello Stato ebraico. La guerra destinata a cambiare la storia del Medio Oriente e del mondo intero, le cui conseguenze continuano a moltiplicarsi in una sorta di infinito effetto a catena, non era stata davvero voluta da nessuno. Era il frutto di una serie di errori, fraintendimenti, azzardi, equivoci, false informazioni da parte di tutti: dell’Egitto, di Israele, delle potenze mondiali, dell’Onu. Che i Paesi arabi mirassero davvero alla distruzione di Israele è certo e Nasser, raìs del più potente tra quei Paesi, l’Egitto, non era da meno. Ma una parte del suo esercito era impegnato nella guerra civile dello Yemen, disponeva di piani di battaglia sovietici essenzialmente difensivi e, pur pensando di poter già vincere, mirava ad aspettare almeno fino al 1970. Anche i generali israeliani ritenevano di poter vincere ma prevedevano perdite catastrofiche, temevano l’intervento russo e sapevano di non poter contare su un’America già troppo provata dal disastro vietnamita. In Russia l’ala brezneviana sperava in una vittoria militare che, con la sconfitta di Israele, avrebbe assestato un colpo micidiale agli Usa, ma il primo ministro Kossighin voleva invece che Nasser si fermasse un attimo prima del conflitto, per ottenere una vittoria politica “a tavolino”. Negli Usa il presidente Johnson non poteva coinvolgere il suo Paese in una nuova guerra e in più considerava Israele una pedina secondaria rispetto ai Paesi arabi non ancora caduti sotto l’influenza dell’Urss. Nessuno tra gli attori principali voleva la guerra. I fatti procedettero da soli. Dal 1964 l’organizzazione di guerriglieri palestinesi Fatah, fondata nel 1959 da Yasser Arafat, aveva avviato una serie di incursioni armate in territorio israeliano: nei tre anni precedenti la guerra dei sei giorni ce ne erano state 122. L’obiettivo di Fatah era spingere i Paesi arabi a smettere di promettere la distruzione di Israele per passare all’azione. Era una strategia, spiegava lo stesso Arafat, fondata sulla convinzione che, insistendo nelle provocazioni, prima o poi la reazione di Israele avrebbe costretto gli Stati arabi, a partire dall’Egitto, a combattere. Gli attacchi partivano essenzialmente dalla Giordania e dal Libano ma era la Siria che garantiva a Fatah armi e addestramento. La stessa Siria, dal Golan, teneva sotto tiro la Galilea, colpendo i kibbutz e gli insediamenti. Ma la Siria era alleata e protetta dall’Urss: il premier Eshkol, una colomba, esitava a rispondere con una rappresaglia diretta che evrebbe potuto provocare una reazione russa. Gli israeliani colpivano invece la Giordania, che tra i Paesi arabi era il più moderato, col risultato di indebolire la posizione già difficile del re Hussein, considerato dagli altri Paesi arabi un fantoccio dell’Occidente e minacciato da una popolazione costituita al 70% da palestinesi. Il 13 novembre 1966 una di queste azioni di rappresaglia, nel villaggio cisgiordano di Sumi, si risolse in una vera e propria battaglia con la Legione araba, la più efficiente unità militare del mondo arabo, fondata e guidata fino al 1956 dal generale inglese John Glubb, “Glupp Pascià”. L’eco in tutto il mondo arabo fu enorme. I palestinesi minacciarono di detronizzare Hussein, che si difese accusando Nasser di viltà per non essere intervenuto. Per tutti gli anni ‘ 50 Nasser era stato il vero leader emergente del Terzo Mondo, amato e rispettato non solo dalle masse arabe. Nel ‘ 67 la sua immagine era però in declino: mostrarsi poco determinato nella causa che tutto il mondo arabo riteneva sacra, l’eliminazione di Israele, ne avrebbe leso definitivamente il prestigio. La spedizione di Musi fu un errore riconosciuto da Rabin. Portò la tensione alle stelle e spinse Hussein verso i falchi senza avere alcun effetto utile sulla guerriglia palestinese. Le cose peggiorarono quando, il 7 aprile 1967, si arrivò a uno scontro militare diretto con la Siria, nel quale furono abbattuti 6 aerei Mig di Damasco. I russi reagirono avvertendo il numero due di Nasser, Anwer Sadat in visita a Mosca, che Israele preparava una massiccia offensiva contro la Siria per il 17 maggio. Non era vero ed è a tutt’oggi oscuro quali fossero gli obiettivi dell’Urss. La notizia spinse comunque Nasser ad agire. Il 14 maggio, mentre Israele celebrava il Giorno dell’Indipendenza con una sfilata militare dimessa, truppe egiziane iniziarono a spostarsi nel Sinai. Nelle settimane seguenti salirono sino a 100mila soldati e oltre 900 carri armati, pronti a intervenire se la Siria fosse stata attaccata. Era la fine di un equilibrio che durava dalla fine della guerra del ‘ 56, una vera aggressione imperialista di stampo quasi ottocentesco contro l’Egitto da parte di Francia, Uk e Israele. Due giorni dopo Nasser chiese il ritiro della forza d’interposizione Onu nel Sinai, che dal ‘ 56 aveva impedito attriti diretti tra Israele ed Egitto ed evitato che azioni armate palestinesi partissero dal Sinai. La richiesta del ritiro era nel diritto dell’Egitto, ma il segretario dell’Onu U Thant avrebbe potuto provare a resistere, tanto più che Nasser aveva chiesto solo un ‘ ridispiegamento’. E’ possibile che il raìs puntasse proprio sulle resistenze dell’Onu per dare una prova di forza senza troppi rischi. Invece U Thant decise il ritiro totale nell’arco di pochi giorni. A quel punto, in assenza di reazioni israeliane o internazionali, Nasser si spinse oltre e il 22 maggio ordinò la chiusura dello Stretto di Tiran, attraverso il quale passavano le navi israeliane dirette al porto di Eilat. La chiusura dello Stretto era un atto che rendeva inevitabile la guerra. Israele non avrebbe potuto accettarla senza pagare prezzi pesantissimi in termini sia economici che, soprattutto, di equilibri politico- militari. Nasser ne era consapevole e tuttavia neppure questo basta a certificare che volesse la guerra. Il feldmaresciallo Amer, capo dell’esercito e sicuro di vincere, premeva in quella direzione. Le immense masse arabe che ovunque scendevano per le strade acclamando il raìs e invocando la distruzione di Israele rappresentavano una forte ipoteca a favore della guerra. Ma Nasser rimase indeciso sino all’ultimo. Alle fine di maggio l’ordine di attacco, già impartito, fu annullato perché sembrava che Israele fosse al corrente della mossa. Ancora nelle ultime ore prima della guerra Nasser frenava, spiegando che le reazioni internazionali avrebbero bollato chi avesse attaccato per primo. Israele era nella stessa situazione. La Casa Bianca aveva chiesto imperiosamente di non sparare il primo colpo e aveva promesso di organizzare nel giro di qualche settimana un convoglio internazionale per forzare il blocco dello Stretto. Eshkol non voleva sfidare il veto americano. Il padre della patria Ben Gurion, secondo cui non era pensabile una guerra senza una grande potenza alleata, strapazzò Rabin a tal punto, accusandolo di aver messo a rischio l’esistenza dello Stato, che il capo di Stato maggiore subì un crollo nervoso e rimase fuori gioco per due giorni nel cuore della crisi. Il momento di massima tensione furono le settimane prima della guerra. Gli ebrei della diaspora e gli stessi cittadini israeliani pensarono davvero di essere sull’orlo di una nuova Shoah. In Israele furono scavate decine di migliaia di fosse per le future vittime. Eshkol si rivolse alla popolazione con un discorso tanto balbettante da seminare il panico. Quando Hussein e Nasser si incontrarono al Cairo per stringere un accordo il terrore arrivò ai massimi livelli. Il governo era diviso in due fazioni esattamente pari: quelli che volevano attaccare e quelli che, come Eshkol, insistevano perché la diplomazia esperisse ogni possibilità pacifica. Israele ed Egitto erano così in una situazione speculare: entrambi consapevoli che il vantaggio del primo colpo sarebbe stato fondamentale, entrambi troppo esitanti per dare l’ordine. Il clima in Israele cambiò quando a Eshkol fu di fatto imposto di abbandonare il ministero della Difesa, tradizionalmente nelle mani del premier, a favore del generale Moshe Dayan, eroe della guerra del ‘ 56. Arrogante, spavaldo, laico, gran sciupafemmine, con l’occhio perso nella guerra mondiale coperto da una benda nera, Dayan era un eroe nazionale. La sua sola presenza ebbe un enorme effetto rassicurante sugli israeliani. Dayan prese in mano il comando. Fu lui a insistere per l’attacco il 5 giugno, anche se la propaganda israeliana disse che invece erano stati gli egiziani a colpire per primi. L’assenza dell’elemento sorpresa fu compensata attaccando non all’alba, come d’uso, ma due ore dopo, quando gli egiziani non si aspettavano più l’incursione. Fu un azzardo: Israele aveva lasciato solo 12 aerei a protezione del proprio territorio, che rimase per ore di fatto indifeso. Dayan aveva ordinato di non attaccare né la Giordania né la Siria, ma su quanto ci credesse davvero è lecito dubitare. I suoi ufficiali dicevano ironicamente che «avrebbe chiuso un occhio». Non ce ne fu bisogno. La propaganda egiziana informò Amman e Damasco che le linee nemiche erano state sfondate e l’armata egiziana stava per conquistare Tel Aviv. Hussein mosse le sue truppe, inclusa la Legione Araba con la sua aura di invincibilità. La battaglia per Gerusalemme si concluse con l’occupazione della Città Vecchia, nonostante un appello in extremis del Vaticano e di Washington per farne una città aperta. Israele si impegnò però a garantire la libertà di culto, che agli ebrei era stata negata nei 19 anni di occupazione giordana. Dayan fece ammainare immediatamente la bandiera israeliana che il rabbino capo dell’esercito aveva fatto issare sulla cupola della Roccia. A guerra finita, andò a pregare con i mussulmani nella moschea di al- Aqsa. I siriani reagirono alla falsa notizia della vittoria egiziana con missioni aree e bombardamenti contro lo Stato ebraico, ma già in serata la Iaf aveva praticamente distrutto la sua aviazione. La presa del Golan fu decisa semplicemente perché si offriva l’occasione di eliminare la postazione che bersagliava da mesi la Galilea. Nel Sinai, dove i carri armati egiziani avrebbero comunque potuto resistere a lungo, la disfatta fu completata da un folle ordine di ritirata, che Nasser negò in seguito di aver mai avallato e che si risolse nella distruzione dell’intera armata. Quei sei giorni cambiarono tutto in Medio Oriente. Fino a quel momento l’obiettivo dei Paesi arabi era stata la distruzione di Israele. Poi fu solo, ed è ancora, la liberazione della West Bank. Il sogno nasseriano di unità panaraba laica morì in quei giorni, spalancando le porte al ritorno dell’integralismo religioso. I palestinesi, che erano stati i soli a volere davvero la guerra, smisero di contare sull’appoggio degli altri Paesi arabi e decisero di provare a fare da soli, inaugurando la stagione del terrorismo internazionale. Israele si trovò in un dilemma che non ha ancora sciolto. L’obiettivo del primo sionismo, uno Stato ebraico su tutta la Palestina, era a portata di mano ma allo stesso tempo impraticabile: da mezzo secolo Israele non riesce a uscire da quel vicolo cieco. I rapporti tra Israele e gli Usa cambiarono radicalmente: Washington aveva visto lo Stato ebraico come un alleato di secondaria importanza. Scoprì di avere a che fare con la principale potenza regionale e strinse vincoli che, pur tra alti e bassi, non si sono mai davvero allentati. Ma anche Israele cambiò. L’occupazione dei luoghi sacri modificò la natura di uno Stato che era stato sino a quel momento assolutamente laico, anzi sprezzante nei confronti dell’ebraismo religioso della diaspora, sino a rendere predominante il fattore religioso. La guerra dei sei giorni disegnò il mondo in cui ancora viviamo.
Egitto, attentati alle chiese copte nella domenica delle palme, scrive il 9 Aprile 2017 "Il Dubbio". Una bomba in una chiesa copta di Tanta e un kamikaze ad Alessandria. Almeno 30 morti. Erano in corso le celebrazioni per la domenica delle palme. Due attentati, uno a Tanta e uno ad Alessandria, hanno insanguinato l’Egitto. Obiettivo: le chiese copte. Almeno 30 persone sono morte nell’attentato di Tanta, in Egitto, a 120 chilometri a nord del Cairo. Ma il numero delle vittime, purtroppo, è provvisorio. Secondo le prime informazioni un ordigno sarebbe stato collocato all’interno della chiesa, sotto una sedia. Diversi media locali ripresi dall’emittente France24, riferiscono che il numero delle vittime è cresciuto, «molti i feriti». Per alcuni giornalisti egiziani che stanno scrivendo su twitter, citando fonti locali, il numero delle vittime sarebbe superiore e qualcuno parla di 30 cadaveri. La tv statale egiziana parla di una deflagrazione avvenuta all’interno della chiesa “Mar Guergues”, in arabo San Giorgio. Nella chiesa si stava celebrando la Domenica delle Palme. In tarda mattinata un kamikaze si è fatto esplodere fuori dalla chiesa di San Marco ad Alessandria d’Egitto. Ci sarebbero almeno due i morti e una ventina i feriti. Tra le vittime, il capo delle forze di sicurezza. I copti, circa il 10 per cento della popolazione egiziana, sono finiti più volte nel mirino dell’Isis. Nel dicembre scorso, un attentato suicida contro la Chiesa di San Marco al Cairo uccise 25 persone, tra cui sei bambini. E da piazza San Pietro, nel corso della celebrazione della domenica delle palme, è intervenuto anche Papa Francesco. «Preghiamo per le vittime dell’attentato compiuto purtroppo oggi, questa mattina, al Cairo in una chiesa copta», ha detto Bergoglio. «Al mio caro fratello, Papa Tawadros II, alla Chiesa copta e a tutta la cara nazione egiziana esprimo il mio profondo cordoglio, prego per i defunti e i feriti e sono vicino ai famigliari e all’intera comunità. Il Signore converta i cuori delle persone che seminano terrore, violenza e morte, e anche il cuore di quelli che fanno il traffico d’armi». Francesco sarà l’Egitto il 28 e 29 aprile, nel programma della visita ci sono incontri con lo stesso Tawadros II, patriarca della Chiesa Copta di Alessandria, con il presidente al-Sisi e con il leader religioso sunnita Ahmad al-Tayyib.
Cristiani d’Egitto dopo il lutto, la rabbia, scrive Andrea Milluzzi il 13 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Venticinque morti, una cinquantina di feriti e un Paese ripiombato negli incubi peggiori dell’odio interreligioso: ecco il risultato dell’attentato di domenica mattina alla cattedrale copta de Il Cairo. Venticinque morti, una cinquantina di feriti e un Paese ripiombato negli incubi peggiori dell’odio interreligioso: ecco il risultato dell’attentato di domenica mattina alla cattedrale copta de Il Cairo. Ieri, primo dei tre giorni di lutto nazionale, il presidente Abdelfatah al Sisi si è affrettato a individuare il colpevole: un ragazzo di 22 anni che si sarebbe fatto esplodere nella cappella adiacente alla cattedrale copto- ortodossa di San Marco, nel quartiere di al Abasiya, cuore delle istituzioni religiose de Il Cairo. Qui vive Pope Tawadros II, il “papa” dei copti ortodossi e qui il clero si riunisce per gli appuntamenti importanti. L’attentato ha interrotto la messa di domenica scorsa, giorno di festa anche per i musulmani, in quanto vigilia della nascita del Profeta Maometto. Secondo quanto riferito da al Sisi «il corpo di Mahmoud Shafiq Mohamed Mostafa (il presunto attentatore, Ndr) è stato ritrovato sul luogo dell’esplosione e tre uomini e una donna sono stati arrestati come complici». Ma le parole di al Sisi – che ha anche annunciato che i familiari delle vittime riceveranno 100mila sterline egiziane (circa 5mila euro), una pensione speciale e sanità e istruzione gratuite – non bastano a calmare la comunità copta. Subito dopo l’esplosione centinaia di cristiani si sono radunati in piazza per chiedere al presidente e al governo sicurezza e protezione. L’attentato di domenica, che non ha ancora rivendicazione e che è stato condannato dall’università religiosa di al Azhar, massima autorità del mondo sunnita, ha allontanato ancora di più i copti da al Sisi. La comunità copta, che conta su una decina di milioni di egiziani nonostante la diaspora degli ultimi anni, rappresenta all’incirca il 10% della popolazione ed è stata da subito uno dei principali alleati di al Sisi. Era il 2013 quando, dopo un anno di violenze a guida dei Fratelli Musulmani di Muhammed Mursi, la chiesa copta ha appoggiato il golpe dell’esercito che ha portato alla presidenza il generale al Sisi. Il ritorno di un presidente militare sembrava la soluzione migliore al problema delle violenze settarie dell’Alto Egitto, la regione meridionale, agricola, priva di infrastrutture e molto povera. I salafiti e i più fondamentalisti fra i musulmani di Minya, Asswan, Luxor bruciavano chiese, attaccavano villaggi e costringevano le donne cristiane a matrimoni forzati. Era il 2012 quando Joseph (il nome è di fantasia, Ndr) di Asswan raccontava che «mia moglie e mia figlia non possono più uscire da sole, perché molte delle nostre donne non sono più rientrate a casa». Una situazione che nella regione di Minya non è cambiata: a inizio dicembre violenti scontri si sono accesi fra il villaggio copto di Nazlet Ebeid e il vicino musulmano di el Hawarta, perché un cristiano voleva costruire una casa sul terreno di sua proprietà ma “troppo vicino” ai musulmani. Cinque persone sono morte per questo. Stessa storia nel villaggio di al Badraman, dove la relazione fra una donna musulmana e un uomo copto ha scatenato le ire delle rispettive comunità: una chiesa è stata bruciata e un musulmano è stato ucciso. Anche per questo sono sempre di più i copti in disaccordo con l’alleanza fra Pope Tawadros e al Sisi, nonostante il nuovo presidente abbia stanziato fondi per la ricostruzione di chiese e villaggi copti e la presenza di ben 36 cristiani fra i 596 parlamentari. Secondo la United States Commission on International Religious Freedom, il governo e la polizia egiziana «non prevengono i crimini contro i cristiani e non investigano quando questi succedono, garantendo l’impunità ai responsabili». Addirittura ci sono casi di copti iscritti nelle file del partito salafita al Nour, a dimostrazione di come lo scontento e la rabbia siano indirizzati non solo verso l’estremismo islamico ma anche contro la classe dirigente. La caduta di Mubarak iniziò con l’attentato alla chiesa dei Santi di Alessandria d’Egitto la notte di Capodanno del 2011, quando morirono 21 cristiani. Anche alla luce di questo precedente al Sisi dovrebbe tenere bene a mente l’importanza dell’alleanza con i copti: «La comunità cristiana è parte integrante dell’Egitto e di tutto il Medio Oriente. Se fossero costretti ad abbandonare le loro terre sarebbe una grave perdita per tutti» ammoniva solo una settimana fa al Med di Roma Naguib Sawiris, presidente del colosso delle telecomunicazioni Orascom, megamilionario e copto egiziano politicamente molto attivo per la sua comunità.
Ci voleva un musulmano per dire ciò che per papa e vescovi è tabù, scrive Sandro Magister il 7 giugno 2017 su "L'Espresso". Con stupefacente tempismo, la mattina della domenica di Pentecoste, poche ore dopo il massacro di Londra avvenuto in quella stessa notte, il quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire" è uscito con in prima pagina l'editoriale di un musulmano, l'egiziano Fael Farouq, che diceva finalmente lui, fin dalla prima riga, ciò che i più alti esponenti della gerarchia cattolica si ostinano pervicacemente a negare, e cioè che esiste un legame essenziale tra il terrorismo islamico e "una precisa dottrina" dello stesso islam. Farouq aveva scritto questo suo editoriale prima del massacro di Londra, di cui "Avvenire" per ragioni di tempo non dava ancora notizia. E con coincidenza anch'essa stupefacente, il suo articolo affiancava il vistoso lancio in prima pagina della prima grande intervista del nuovo presidente della conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti. Il quale, pochi giorni prima, fresco di nomina papale, aveva detto proprio l'esatto contrario di ciò che sosteneva Farouq: "Si parla di terroristi islamici, ma non sono islamici, anche se quando uccidono o mentre si fanno esplodere pronunciano il nome di Allah. Non sono islamici; sono delle povere creature pazze di furore, impazzite di odio". Com'è arcinoto, che l'islam sia "religione di pace" e non abbia nulla a vedere con gli atti terroristici compiuti in suo nome è anche la tesi di papa Francesco. Ma non certo quella del suo predecessore Benedetto XVI, esplicitamente rilanciata, invece, dallo stesso Farouq alla vigilia del viaggio di Francesco in Egitto, lo scorso aprile: "La classe intellettuale musulmana deve trovare la sua strada per uscire dalla crisi in cui si trova. Ed è una crisi dell’uso della ragione, come giustamente indicava papa Ratzinger a Ratisbona". Fael Farouq insegna scienze linguistiche all'Università Cattolica di Milano. È anche docente presso l’Istituto di lingua araba all’Università Americana del Cairo e ha tenuto e tiene corsi in numerose università internazionali, a New York, Washington, Madrid, Torino, Bologna, oltre che alla Notre Dame University, nell'Indiana. Ha conosciuto da vicino, in Egitto, la svolta islamica radicale avviata negli anni Settanta da Anwar al-Sadat con l'appoggio delle monarchie arabe del Golfo, che dalle moschee si è propagata per decenni in tutti gli strati della popolazione, nella crescente sofferenza dei cristiani copti, sempre più aggrediti in odio alla loro fede. La sua analisi, oggi, degli atti terroristici compiuti in tutto il mondo in nome dello Stato islamico e di altre formazioni jihadiste va appunto alla radice di questa ondata di violenza, di cui portano responsabilità – spiega – anche le guide dell'islam cosiddetto "moderato" e, per altre ragioni, i paesi occidentali con il loro decantato "multiculturalismo".
QUALCOSA SULLE ESTERNAZIONI DEL NEO-PRESIDENTE DELLA CEI, CARDINALE GUALTIERO BASSETTI: BRIVIDI…scrive Rosso Porpora. Altri brividi, invece, sono stati provocati giovedì e venerdì da alcune esternazioni del cardinale Gualtiero Bassetti, neo-presidente della Cei. Venerdì mattina eravamo, poco prima di mezzogiorno, alla Stampa estera di Roma, controllando le notizie sfornate dalla agenzie. C’è caduto l’occhio su una dell’Ansa, ore 11.49. La trascriviamo: “(Ansa) Perugia, 26 maggio – “Non sono le religioni che provocano violenza e terrorismo, sono loro schegge impazzite. Vediamo creature pazze di furore e impazzite di odio, ma anche per noi in passato è stato così, visto che i terroristi rossi venivano anche dalle nostre università cattoliche”: così il card. Gualtiero Bassetti, presidente Cei, stamani a Perugia”. Ovvero, senza giri di parole: per il nuovo presidente dei vescovi italiani i terroristi islamici stanno all’Islam (con Corano e Sunna) come i brigatisti rossi stavano al Cattolicesimo (con il Vangelo). Un infortunio (grave) dell’Ansa o un infortunio (ancora più grave) del cardinal Bassetti? L’Avvenire.it dello stesso venerdì 26 maggio riprende le medesime parole dell’Ansa, precisando che il cardinale si è recato presso l’Istituto Don Bosco del capoluogo umbro (formazione professionale, duecentocinquanta allievi di diverse nazionalità) e vi ha presieduto una preghiera interreligiosa. Passiamo a Umbria Oggi News, sempre di venerdì 26 maggio e vi leggiamo la stessa notizia, ma con qualche modifica: Non sono le religioni che provocano la violenza o il terrorismo; sono schegge impazzite di religioni, che abbiamo avuto anche nel mondo cattolico. Si parla di terroristi islamici… ma non sono islamici, anche se quando uccidono o mentre si fanno esplodere pronunciano il nome di Allah. Non sono islamici; sono delle povere creature pazze di furore, impazzite di odio”. Andiamo allora direttamente al sito ufficiale dell’arcidiocesi di Perugia-Città della Pieve, dove – sotto il titolo “Perugia: Il cardinale Gualtiero Bassetti all’incontro di preghiera interreligiosa per la pace dei giovani di 24 nazionalità dei Centri di formazione professionale CNOS.FAP Don Bosco” – leggiamo: Non sono le religioni che provocano la violenza o il terrorismo; sono schegge impazzite di religioni, che abbiamo avuto anche nel mondo cattolico. Si parla di terroristi islamici…, ma non sono islamici, anche se quando uccidono o mentre si fanno esplodere pronunciano il nome di Allah. Non sono islamici; sono delle povere creature pazze di furore, impazzite di odio. Domanda. Ma il neo-presidente della Cei ha fatto o no riferimento ai terroristi provenienti dalle università cattoliche? Per l’Ansa e perAvvenire.it sì, per Umbria Oggi News e per l’articolo pubblicato sul sito ufficiale dell’arcidiocesi di Perugia-Città della Pieve, no. La soluzione sta nel video di Umbriaradio.it che è allegato all’articolo sullo stesso sito dell’arcidiocesi. E’ un video di 9 minuti. Il cardinale Bassetti parla agli studenti delle “schegge impazzite di religione” e al minuto 2’22” dice: “Ne abbiamo avute anche nel mondo cattolico. Molti dei brigatisti rossi venivano, per esempio, dalle nostre università cattoliche…” Conclusione: il neo-presidente della Cei ha detto che:
in tutte le religioni ci sono schegge impazzite;
anche in quella cattolica abbiamo avuto i brigatisti rossi che venivano dalle nostre università cattoliche;
i terroristi definiti islamici non sono islamici.
Non è chi non veda che tali affermazioni appaiano perlomeno sconsiderate (per essere gentili). Giustamente Antonio Socci su ‘Libero’ di domenica 28 maggio ha osservato che “c’è la religione dei carnefici e c’è quella delle vittime (…) A Bassetti risulta che vi siano organizzazioni di terroristi cattolici che uccidono quei musulmani che non si fanno battezzare in chiesa?”. E, sul legame brigatisti rossi-Vangelo, sempre Socci ha rilevato: “Il prelato ha dimenticato di spiegare che stava alludendo a pochissimi ex-cattolici diventati comunisti rivoluzionari, che sparavano in quanto militanti marxisti, non certo in nome di Cristo”. Perché “i brigatisti rossi non uccidevano chi rifiutava di convertirsi al cattolicesimo, ma chi ritenevano ‘nemico del proletariato’ (spesso sparavano proprio contro dei cattolici)”. Quanto poi all’affermazione che i terroristi islamici in verità non sono tali, rimandiamo il card. Bassetti alla lettura, ad esempio, della nostra intervista recente all’islamologo riconosciuto padre Samir Khalil Samir in questo stesso sito (“Papa in Egitto: intervista al gesuita Samir Khalil Samir”, rubrica “Intervista a personalità”. Ha rilevato tra l’altro nell’occasione il gesuita egiziano: “Dite che l’Isis non è musulmano? Considerate allora un po’ la sua bandiera. E’ nera come quella di Maometto. Porta una scritta: ‘Non c’è altro Dio all’infuori di Allah; e Maometto è il messaggero di Allah’. Il credo musulmano è questo. Sotto vedete una spada, come quella che c’è anche nella bandiera saudita. Più musulmani di così … Del resto tutte le organizzazioni fondamentaliste hanno un loro imam, che stabilisce se giuridicamente un certo atto è lecito oppure no”.
Non è finita. Il cardinale Bassetti giovedì 25 maggio ha tenuto nell’atrio dell’Aula Nervi la sua prima conferenza-stampa da presidente della Cei. E non ha certo brillato per precisione nelle risposte, salvo che in quella riguardante l’Amoris laetitia. Lì è stato categorico: “L’Amoris laetitia è un capolavoro, è una sintesi della dottrina della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. (…) Chi va a fare osservazioni sbaglia. Non è un documento opinabile, è magistero come con Pio XII e Paolo VI”. Avanti… marsch…tutti in riga… Al cardinale Bassetti abbiamo posto due domande. Con la prima chiedevamo se possibile una sua valutazione dei Family day del giugno 2015 e del gennaio 2016, considerato come se ne stia preparando un altro (con modalità diverse) per l’autunno. Con la seconda chiedevamo che cosa pensasse del forte invito del suo predecessore Angelo Bagnasco alle famiglie perché reagissero pubblicamente con forza contro l’indottrinamento gender (definito tra l’altro un’aberrazione anche da papa Francesco), che ammorba in misura crescente – checché ne dica il Governo – la scuola italiana a tutti i livelli. Risposte del cardinal Bassetti? Dei due problemi ci occuperemo prossimamente, li approfondiremo. Del resto “la dottrina della Chiesa è molto chiara” in materia (purtroppo si è costretti oggi a chiedersi: quale dottrina della Chiesa?). Poi via con alcune frasi sulla necessità del dialogo. Insomma: alle due domande precise il cardinale Bassetti non ha sostanzialmente risposto, preferendo dedicarsi a considerazioni sui massimi sistemi. Ci chiediamo se il presidente Bassetti sia lo stesso cardinale-arcivescovo di Perugia che nei giorni precedenti il Family day del 20 giugno 2015 pubblicava sul sito dell’arcidiocesi un forte appello a partecipare alla manifestazione di piazza San Giovanni (dopo averlo letto pubblicamente al termine della messa). Sempre lo stesso cardinale-arcivescovo di Perugia, in veste di presidente della Conferenza episcopale umbra, emanava la seguente nota approvata dall’organismo: «Il Comitato “Difendiamo i nostri figli”, che ha organizzato l’appuntamento del 20 giugno 2015, indice ora una nuova manifestazione il 30 gennaio a Roma per dare voce alle famiglie. Sono invitate le realtà ecclesiali ed anche gli uomini e le donne di buona volontà che si sentono di condividere questo gesto: cristiani delle diverse confessioni, appartenenti ad altre religioni e anche non credenti. I Vescovi dell’Umbria accolgono con favore e sostengono il programma espresso dal Comitato: “Andremo a dire che cosa crediamo: la visione della famiglia secondo la Costituzione italiana ed i principi dell’antropologia e dell’etica cristiana”». E’ credibile che il neo-presidente della Cei sia stato colto da un’amnesia plurima? Oppure, folgorato sulla via di Santa Marta, preferisce far dimenticare certe prese di posizioni politicamente scorrette del passato? Una scelta anche questa, che però stupisce: guardi Francesco Totti, eminenza, e resti fedele a se stesso! Forse soffrirà, ma alla fine avrà dato un buon esempio in questo mondo che di buoni esempi ha bisogno.
WAEL FAROUQ: «IL PAPA AL CAIRO È UN'OCCASIONE PER LA RIFORMA DELL'ISLAM». Attentati e avvertimenti non fermano Francesco, che il 28 e il 29 aprile sarà in Egitto. Perché è un viaggio decisivo? Le persecuzioni dei cristiani, le divisioni tra le Chiese, le relazioni con l'Occidente. Parla Wael Farouq, intellettuale egiziano, scrive Luca Fiore il 24.04.2017 su "Comunione e Liberazione online". Che Egitto è quello che accoglie papa Francesco, in un viaggio da seguire passo per passo? È quello in cui per dargli il benvenuto il terrore islamista manda i kamikaze a farsi esplodere nelle chiese. Ma è anche quello dove le moschee accolgono i cristiani feriti e dove musulmani indignati corrono negli ospedali per donare il sangue. È un Paese dove i parenti delle vittime perdonano i carnefici. E dove le autorità musulmane, come Ahmad Al-Tayyib, il grande imam di al Azhar, l’università islamica più importante del mondo sunnita, condanna gli atti terroristici. Papa Francesco non ha lasciato passare un giorno dagli attentati della Domenica delle Palme per confermare che in Egitto ci andrà lo stesso. Non ha temuto la guerra in Centrafrica e non teme quella in Sud Sudan. Gli avvertimenti di Daesh non bastano a fargli cambiare idea sul Cairo. E il motto della visita si è trasformato in una specie di sfida: “Il Papa della pace nell’Egitto della pace”. «Ci sono diversi motivi per cui questo viaggio è importantissimo», spiega Wael Farouq, egiziano, musulmano, professore di Arabo all'Università Cattolica di Milano: «La prima è che in Egitto ci sono 500mila cattolici che sono una minoranza di una minoranza. I cristiani egiziani, copti, sono circa 15 milioni, ma sono per la maggior parte ortodossi. I cattolici vivono ai margini della società e per loro sarà la visita della vita, sarà un evento, potranno dire: “Il Papa è passato di qui”, “Il Papa è venuto a trovarmi”. Sarà un forte incoraggiamento, soprattutto in questo momento di gravi difficoltà». Ma visitare i cattolici in Egitto, spiega Farouq, significa anche incontrare la più grande comunità presente in Medioriente: «Mezzo milione di fedeli è una percentuale piccola rispetto agli cento milioni di abitanti dell’Egitto, ma si tratta di un numero molto grande se pensiamo alla presenza nella regione: Israele, Palestina, Libano. Si tratta di un gesto di attenzione e di servizio verso il suo popolo presente in questi Paesi a maggioranza musulmana». Che nei giorni scorsi il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, abbia annunciato che accompagnerà Francesco al Cairo, dice molto dell’importanza della visita dal punto di vista ecumenico. «Le minoranze religiose vivono in Medioriente un momento particolarmente difficile», continua: «Non mi riferisco solo, come è davanti agli occhi di tutti, alla persecuzione dei cristiani e al tentativo di cacciarli dalle loro terre. Esiste un problema di rapporti interno ai cristiani. I cristiani in Medioriente sono divisi: che Francesco vada in Egitto e dia un segno di amicizia alla Chiesa copta ortodossa è motivo di speranza per tutta la regione. È straordinario che Bartolomeo I abbia chiesto di partecipare alla visita di Francesco: insieme possono mostrare l’amicizia tra loro e con il papa copto Tawadros II. È un segnale importante in sé, per il benessere della società e poi perché l’unità tra le Chiese e tra i cristiani di diversa confessione può aiutare ad affrontare la persecuzione in atto. Chi perseguita i cristiani in Medioriente non fa differenza tra cattolici e ortodossi, ma spesso tra loro esiste una diffidenza che impedisce l’aiuto reciproco». Ma non c’è solo questo. La visita del Papa è una provocazione per la società egiziana in quanto tale, segnata da differenze e da fratture. Da ferite in attesa di essere sanate, ma che potrebbero non rimarginarsi. «La diversità è preziosa in un contesto a maggioranza musulmana. Francesco mostrerà al mondo che ricchezza è la diversità. La coesistenza di diverse componenti della società non è un valore solo per i cristiani, che sono la componente più debole perché minoritaria, ma anche per i musulmani. Le società in un cui è valorizzata la differenza hanno maggior possibilità di fiorire. Dove non è così, prevale la logica della violenza». Vivere la differenza dell’altro come un’opportunità invece che una minaccia può trasformare la convivenza in profondità. «La conoscenza e il rispetto dell’altro, del diverso, fa bene anche all’esperienza religiosa. L’incontro, l’amicizia, il rispetto tra cristiani e musulmani nutre l’esperienza religiosa di entrambi, perché permette a ciascuno di verificare la propria tradizione». C’è poi, secondo Farouq, un discorso culturale e politico che riguarda le difficili relazioni tra Egitto e Occidente: «Andare oggi al Cairo significa dare un segnale di fiducia in un momento in cui le relazioni politiche sono dominate da stereotipi reciproci. Questa visita può aiutare almeno ad attenuare questo clima di diffidenza». Non si tratta di far finta che non ci siano i problemi, spiega il professore, ma incontrarsi, parlarsi permette di vedere la situazione da un altro lato. «La presenza del Papa ricorderà a tutti che l’Egitto è un luogo importante per le tre grandi religioni, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. L’Egitto ha dato accoglienza a Giuseppe e ai figli di Giacobbe. In Egitto è riparata la Sacra famiglia in fuga da Erode. Questi fatti permettono di tornare a uno sguardo spirituale sulle vicende della storia. Concepire in modo diverso, più profondo, le relazioni umane è decisivo, soprattutto nel contesto di un Paese che vive una delicata transizione». E il rapporto tra Chiesa cattolica e islam? La visita all’Università di al Azhar pone fine, certo, alle difficoltà nate in occasione dei fraintendimenti del discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, ma rilancia le relazioni in un contesto in cui anche il presidente egiziano al Sisi ha chiesto all’autorità un contributo alla riforma interna dell’islam. «Dal punto di vista del pensiero e della dottrina al Azhar è il centro più autorevole del mondo musulmano sunnita. È il luogo a cui tutti i musulmani sunniti guardano. Ma la classe intellettuale musulmana deve trovare la sua strada per uscire dalla crisi in cui si trova. Ed è una crisi dell’uso della ragione, come giustamente indicava papa Ratzinger. La testimonianza di fede e i gesti di amicizia e di pace di papa Francesco non possono che essere d’aiuto. Indicano la strada da percorrere».
Terrorismo e doveri d'Occidente. Luci accese per i lupi, scrive Wael Farouq, domenica 4 giugno 2017, su "Avvenire". Chi uccide se stesso e gli altri crede in una precisa dottrina. E le stragi continuano a sommarsi alle stragi, dal cuore d’Europa ai tanti cuori feriti d’Asia e d’Africa. Perciò, se si vuole arrestare il fiume di sangue, questa dottrina deve purificarsi dalle interpretazioni che conducono persone di fede musulmana ad abbracciare il terrorismo. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che persino il mufti saudita wahhabita condanna il terrorismo. Vero, ma quel mufti rifiuta il pluralismo e i diritti umani, e questa è una contraddizione insanabile. Qualcuno potrebbe replicare che al-Azhar, però, difende il pluralismo, offrendo un fondamento islamico ai diritti umani. Vero anche questo, ma al-Azhar patisce la strumentalizzazione della politica. Qualcun altro potrebbe ribattere che il presidente egiziano, tuttavia, invoca una riforma rivoluzionaria del discorso religioso. Vero, ma quella che minaccia di realizzarsi è una riforma al servizio del potere, utile a cancellare la democrazia, altrimenti perché lo Stato egiziano consentirebbe – in aperta violazione della Costituzione – l’esistenza del partito religioso salafita al-Nour che invita a non fare gli auguri ai cristiani e a non rivolgere loro neanche il saluto? Ci potrebbe poi essere chi dice che i governi occidentali fanno di tutto per impedire la violenza, senza violare i diritti dei cittadini musulmani. Dopotutto, ciò che li distingue dai barbari terroristi è la loro fede nei diritti umani. Vero, però questi governi combattono solo i sintomi della malattia, lasciando che la malattia stessa si aggravi. Quanti di questi governi hanno accolto terroristi in fuga dai Paesi a maggioranza islamica? Quanti ospitano organizzazioni dell’islam politico, prima fra tutte la Fratellanza Musulmana, che sono la fonte di questa ideologia violenta? Quanti si astengono dal condannare i regimi wahhabiti, anzi stringono con loro rapporti d’amicizia e vendono loro armi che poi - come hanno riconosciuto gli stessi governi - finiscono nelle mani dei terroristi? Davvero non sarebbe possibile isolare i regimi che adottano questa interpretazione malata dell’islam, come si è fatto con il governo sudafricano dell’apartheid? C’è forse razzismo più grande del versare il sangue del "diverso" e non tenere in nessun conto la sua vita? Il pluralismo delle società occidentali, oggi, è un pluralismo che esclude, lavorando contro il fine per il quale è stato concepito. Non favorisce la persona, bensì gli stereotipi e le ideologie. In Gran Bretagna, per esempio, integrazione significa il riconoscimento dei tribunali sharaitici che violano i diritti della donna, significa l’affluire di milioni di sterline e di euro dagli estremisti del Golfo nelle casse delle organizzazioni islamiche d’impronta ideologica, senza controlli né restrizioni. L’Occidente si è consacrato al pluralismo e ai diritti umani, perché non si ripetessero le dolorose esperienze di nazismo e fascismo, ma c’è da chiedersi: nazismo e fascismo non rappresentavano forse la supremazia dello stereotipo sulla persona? Non credevano forse in qualcosa di superiore alla persona umana, per il quale era giustificato morire e uccidere? E oggi, non c’è forse il rischio che anche il multiculturalismo si trasformi in uno stereotipo più importante della persona e dei suoi autentici diritti fondamentali? I lupi solitari, prima di essere lupi, sono, appunto, solitari. Le società che accettano che al loro interno le persone vivano isolate, lasciate preda delle loro paure, del loro senso di inferiorità, impotenza e fallimento, permettono alla differenza etnica o religiosa di trasformarsi in una conchiglia chiusa, dentro la quale l’umanità imputridisce. Sono società che, in nome della libertà, fabbricano belve. Ma libertà non significa lasciar fare alla persona quello che vuole, bensì metterle davanti infinite possibilità e alla giusta misura che le contiene, la regola umana, affinché possa essere protagonista di vita e di civile convivenza. Non si infrange la libertà di qualcuno che, per sua libera scelta, brancola nel buio, se si accende per lui una candela. Accendete candele per queste persone, per questi fratelli perduti nell’odio, in modo da non doverle accendere, in futuro, per le loro vittime.
"Ho 16 anni e voglio morire in nome di Allah". Ahmed viveva a Mosul ed è stato un miliziano dell'Isis da quando aveva 13 anni. Ora è in custodia presso l'intelligence irachena e spiega perché vuole immolarsi per il Califfato e uccidere più nemici possibile. Come lui sono migliaia i giovani che hanno subito il lavaggio del cervello e pensano solo al martirio, scrive Francesca Mannocchi il 14 giugno 2017 su "L'Espresso". Ahmed ha sedici anni e il sorriso provocatorio degli adolescenti, quando parla sfida il suo interlocutore con lo sguardo. Non ha paura di dire ciò che pensa: vorrebbe morire in nome di Allah. Ahmed fino a quindici giorni fa viveva a Mosul Ovest: era un miliziano del Califfo e ha anche perso una gamba durante un bombardamento della coalizione sul suo campo di addestramento. Poi è finito nelle mani dell’intelligence irachena che ora lo tiene nascosto in una casa di Qayyara, a sud di Mosul. E lì L’Espresso è riuscito ad incontrarlo. Quando arriviamo Ahmed siede su un divano, sta guardando annoiato un film americano. Quando ha giurato fedeltà ad Al Baghdadi, ci racconta, aveva solo tredici anni. «Le nostre famiglie non sapevano nulla, io l’ho deciso con i miei amici più cari. Eravamo il centro del mondo, la capitale del Califfato». La voce di Ahmed è piena di rabbia, di risentimento, di desiderio di rivalsa. La sua invalidità, spiega l’ufficiale dei servizi segreti, gli ha impedito di diventare un martire e il martirio è l’onore dei giovani del Califfo. «Il martirio è l’obiettivo finale dei combattenti dello Stato islamico, è il desiderio di ogni combattente. E il grado più alto di tutti i martiri è la missione suicida». Ahmed ripete queste parole come una litania poi descrive l’organizzazione gerarchica della morte: le missioni suicide sono decisive nel determinare la vittoria sul campo di battaglia, quindi valgono di più, portano più velocemente in paradiso. Morire dopo essere stati feriti dal nemico o morire sotto un bombardamento non ha lo stesso peso. E lui, con una gamba in meno, non ha potuto portare a termine la sua missione suicida su un’autobomba. «Per partecipare a una missione di martirio bisogna aspettare il proprio turno, e spesso i soldati in fila sono centinaia. Il desiderio di ogni martire è ottenere un Hummer o un pick-up Silvador. Tutti vogliono i veicoli più grandi, perché uccidono più persone. E più il combattente uccide, più sarà ricompensato». Chi non riesce ad ottenere un’autobomba, ha il compito di farsi saltare in aria con la cintura esplosiva: «Premi l’interruttore appena vedi il nemico. Trovi te stesso e gli infedeli sono spazzati via». Le strade di Mosul oggi sono piene di cadaveri di miliziani dell’Isis morti così, lanciati contro il nemico per morire saltando in aria in nome di Allah. «Tutti vogliono morire. Tutti i ragazzi vogliono morire», ripete Ahmed, «Tre dei miei più cari amici sono dei martiri, uno di loro era il figlio del farmacista, famiglia ricchissima. Aveva quindici anni e l’ha chiesto così tanto che alla fine gli hanno consegnato una borsa, uno zaino con un detonatore, l’ha indossato ed è andato verso una base dell’esercito iracheno. Ha ucciso nove infedeli!». Ahmed racconta anche di aver visto arrivare centinaia di foreign fighter: dalla Francia, dal Belgio, dall’Asia centrale (Azerbaijan, Tajikistan), da soli o con le famiglie, «arrivavano da tutto il mondo per diventare martiri». Finché un giorno, ricorda il ragazzo, il comandante ha tenuto un discorso pubblico alla presenza di centinaia di foreign fighter invitandoli a tornare a casa, a convincere i propri amici e parenti a restare in Europa, perché l’Europa sarebbe stato il prossimo campo di battaglia «siamo già abbastanza qui, restate in Europa e uccidete. Se non riuscite a trovare delle armi prendete i coltelli e uccideteli nelle strade affollate, usate le automobili, date fuoco alle loro case. Uccidete i loro figli». Sono circa mezzo milione i ragazzi e bambini vissuti per tre anni sotto il controllo dello Stato Islamico, educati al martirio, a combattere e a uccidere. E c’è chi vorrebbe ucciderli tutti senza distinzione d’età: «Non c’è salvezza possibile per loro, tanto vale ammazzarli», ci ha detto un soldato a Badosh. L’ufficiale dei servizi segreti chiama Ahmed “un sopravvissuto” ma quando gli chiediamo cosa ne sarà di queste centinaia di migliaia di ragazzini pronti a morire, scuote la testa rassegnato: «L’Iraq non è pronto a reinserire questi ragazzi». L’Iraq non è pronto e Ahmed non ha paura di parlare, neppure di fronte all’ufficiale che lo tiene in custodia. La sua spinta al martirio è così forte da non avere neppure la furbizia di fingersi pentito. Anzi, usa parole di sfida: «Se pensate che gli ideali dell’Isis finiranno con la guerra, vi sbagliate di grosso. Le ultime settimane di guerra saranno le peggiori. E anche dopo gli ideali del Califfato sopravviveranno. Sbarazzarsi di noi è come sbarazzarsi del Corano: impossibile. Perdere Mosul o Raqqa non significa perdere la nostra gente, noi siamo la gente del futuro e anche se questa guerra è persa, il messaggio continuerà fino alla fine del mondo. Noi, come bambini e ragazzi, siamo la parte più importante di Isis, perché siamo il futuro delle idee del Califfo. Il Jihad non è mai finito. E non finirà. I nostri capi ci hanno detto che perdere territorio è una fase transitoria, che la nostra generazione ha l’obiettivo e il dovere di iniziare una nuova fase del Califfato e con la forza di Allah arriveremo a Roma e Gerusalemme».
«L'Islam condanna il suicidio: è questo il paradosso del terrorismo jihadista». «Le parole del profeta Maometto sono chiare: morire in battaglia può fare del fedele un martire, ma solo se il decesso è imprevisto, circostanziale e preordinato. La strage suicida è il nucleo di un’ideologia di morte». Intervista all'orientalista Olivier Roy di Davide Lerner il 16 giugno 2017 su "L'Espresso". «Chiunque si uccida con un’asta di ferro, è destinato a continuare a tenere l’asta in mano e a dilaniarsi per quel mezzo l’addome con il fuoco dell’inferno, dove rimarrà in eterno. Chiunque beva del veleno e si uccida, lo berrà nel fuoco dell’inferno, dove rimarrà in eterno. Chiunque si getti da una montagna e si uccida, sarà gettato nel fuoco dell’inferno, dove rimarrà in eterno». Questo detto del profeta Maometto, che sembra anticipare il contrappasso di Dante, chiarisce meglio di qualunque altra fonte giuridico-religiosa il fatto che l’Islam condanna, inequivocabilmente, il suicidio. Morire in battaglia può fare del fedele un martire, ma solo nella misura in cui la morte intervenga come un imprevisto: il decesso, riassume lo studioso israeliano Meir Hatina, deve essere “circostanziale” e non “preordinato”. Viene allora da chiedere ad Olivier Roy, autorevole esperto di islamismo e fondamentalismo religioso, come mai il terrorista di Manchester abbia scelto l’azione suicida, e come mai in maniera analoga i terroristi di Londra non abbiano nemmeno contemplato un tentativo di fuga nei loro piani di sangue due settimane più tardi.
«È un elemento che accomuna quasi tutti gli atti di terrorismo riconducibili ad Al Qaeda o allo Stato islamico», spiega Roy, precisando: «Salman Abedi avrebbe potuto benissimo mettere la bomba al concerto di Ariana Grande e dileguarsi, causando il medesimo numero di morti. Lo stesso vale per il London Bridge, un classico caso di suicidio attraverso la polizia».
Perché allora questo paradosso? Costoro non si proclamano portatori della lettera dell’Islam?
«Il suicidio è un aspetto decisivo se si vuole comprendere il terrorismo islamista degli ultimi vent’anni, come spiego nel mio ultimo libro il cui titolo originale è per l’appunto “Il jihad e la morte” (appena tradotto in Italia da Feltrinelli come “Generazione Isis”, ndr). Non è il prezzo da pagare per compiere l’atto di guerra, un mezzo per rendere l’attacco più efficace, ma parte integrante del progetto del terrorista che brama la propria morte come quella delle sue vittime. Lo riassume bene la citazione che è stata attribuita a Bin Laden: noi amiamo la morte come voi amate la vita. Per quanto riguarda la contraddizione, che lei giustamente solleva, fra quanto predicato sul suicidio dalla più parte del corpus giuridico islamico anche più oltranzista e l’operato dei terroristi, io ho trovato una sola soluzione intellettuale. Per conciliare il suicidio e la fede religiosa dei jihadisti - i quali, non c’è dubbio, sono convinti di andare in paradiso compiendo l’atto - serve citare l’attesa dell’apocalisse. Per loro siamo alla fine dei tempi, e alla fine dei tempi saltano tutte le regole. È un aspetto che unisce lo Stato islamico nella sua dimensione locale in Medio Oriente e il jihad globale dei terroristi. Il primo insegue il progetto teologicamente impossibile di ristabilire il Califfato di Maometto, laddove il profeta non può tornare e sarebbe eretico dal punto di vista dello stesso Islam pensare che ne arrivi un altro dopo di lui. I secondi fanno appello a Daesh sacrificando nelle proprie azioni suicide qualsiasi logica strategico-militare, il calcolo cinico e non metafisico che guidava invece i kamikaze giapponesi nella seconda guerra mondiale o quelli del Pkk curdo e altre organizzazioni, e ogni coerenza religiosa. La resa dei conti finale di Dabiq, la località siriana che dà il nome alla rivista di Daesh e in cui è previsto lo scontro dell’Apocalisse, svuota di significato ogni progetto o regola. È inutile razionalizzare, cercare di spiegare perché Daesh scelga certi obiettivi piuttosto che altri. Daesh è contro tutto e a favore di niente, non crede neppure nella sua distopia».
Nel suo libro parla di un’iper-secolarizzazione della società occidentale che mette all’angolo lo spirituale consegnandolo all’estremismo.
«Esatto. Partirei dall’esempio del processo con cui gli aeroporti di Parigi selezionano il personale che si occupa di caricare e scaricare i bagagli dalle stive degli aerei. La metà dei candidati sono musulmani, visto che si tratta di un mestiere non specializzato in zone ad alta densità di migranti. Nei profili dei candidati un’intera pagina è dedicata alle pratiche religiose. Il soggetto va in moschea? Digiuna per il Ramadan? Beve alcol? La logica di fondo è che più sei religioso meno è prudente assumerti, perché rischi di diventare un terrorista. In Europa i religiosi sono considerati nel migliore dei casi “strani”, nel peggiore addirittura “fanatici”. Ecco che allora si attivano i meccanismi che chiamo di de-socializzazione e de-culturazione della religione: essa viene praticata sempre più al di fuori del suo naturale contesto umano. Mentre la maggioranza riempie il vuoto di spiritualità affidandosi a surrogati come lo yoga, la meditazione e pratiche di cosiddetto “well-being”, chi rifiuta queste forme di “religione addomesticata” cade più facilmente preda della marginalizzazione e dell’estremismo. Serve risocializzare la religione, promuovere l’incontro nei luoghi di culto dove si pratica, ma la reazione al terrorismo islamista è piuttosto quella di isolarla ancora di più. Il fondamentalismo non si traduce necessariamente in violenza, ma fornisce una narrativa per i radicali».
Perché così tanti “radicali” cadono nella trappola dell’Islam fondamentalista piuttosto che in quella di, chessò, un veganesimo militante?
«Perché è quanto offre un impoverito mercato globale di ideologie estremiste. Nulla come la narrativa di Daesh permette di esprimere una tale volontà di distruzione e auto-eliminazione, neppure ormai l’estremismo politico gauchista. La figura del martire esiste, anche se più passivo, nell’ebraismo e nel cristianesimo (di nuovo, purché non sia suicida) ma oggi non esistono frange che eguaglino il nichilismo dell’Isis. Ecco allora che il venticinque per cento dei jihadisti dello Stato islamico sono convertiti: conviene “islamizzare” il proprio radicalismo per poterlo esprimere al meglio. Il sessanta per cento dei jihadisti europei sono invece seconde generazioni di immigrati musulmani in Europa: perdono il legame con le proprie origini ma faticano ad integrarsi in Occidente, cadendo nel vuoto della de-culturazione. È il caso di Salman Abedi, l’attentatore di Manchester che è cresciuto in Inghilterra da genitori libici fuggiti dal regime di Gheddafi in Libia. Solo dopo questi due gruppi ci sono le prime e le terze generazioni, rispettivamente meglio socializzate nel paese di provenienza e in quello di approdo. Il caso del suicidio è solo un esempio di come il terrorismo islamista violi i cardini della giurisdizione islamica più consolidata. Secondo i miei studi, oltre il settanta per cento delle reclute dello Stato islamico non conosce neppure le basi del proprio credo religioso. Al netto dei combattenti provenienti dal mondo arabo, che ricevono un minimo di educazione religiosa, questo significa che quasi tutti gli adepti occidentali non sanno nulla di cosa significhi essere musulmani. Che senso ha allora arrovellarsi sulla radicalizzazione dell’Islam? È più utile concentrarsi sull’islamizzazione del radicalismo».
Il prezzo della paura. Gli attentati. Il panico. E la psicosi. Così la nostra vita si restringe e la libertà si riduce, la democrazia si ammala È la vitalità sotterranea della società aperta che viene colpita in un concerto, su un ponte, davanti a un mercato, in una scuola, scrive Ezio Mauro su "L'Espresso" il 9 giugno 2017. Uno zainetto. Lì dentro sta tutto il concentrato di paura che pesa sull’epoca, un’idea fisica e concreta di terrore trasportabile, fabbricabile, maneggiabile, di uso comune e di pronto impiego, semplice nella confezione e nell’utilizzo, quindi perfettamente camuffabile della banalità del nostro costume collettivo, replicabile all’infinito e dunque inafferrabile perché nomade, individuale e uguale a tutti gli altri: uno zainetto, appunto. Magari innocente come a Torino, e tuttavia sufficiente a trasformare un’immagine casuale in una possibile icona del terrore che ci insegue, ci accompagna e come in questo caso addirittura ci precede, come una profezia di sgomento. La paura è riuscita a penetrare fin qui, nell’abitudine più neutra, nel costume più usuale e più diffuso, nella norma giovanile di un oggetto che nel suo spazio ridotto trasporta autonomia, autosufficienza, indipendenza, garanzia. Rovesciato, il tutto, nel suo contrario, se oggi ormai diffidiamo di noi stessi, di come ci vestiamo, di cosa potremmo nascondere sotto la felpa, di quel che ci portiamo sulle spalle. Se l’oggetto evoca la sostanza del male anche quando non c’è. Perché quando la paura si nasconde nella normalità e può esplodere dal profondo dell’ordinario, allora si ingigantisce, perché è come se fosse dovunque, e ci fosse sempre. Prendiamo l’immaginario di un ragazzo di sedici anni. La sua libertà è fatta di uscite, social network e chat, amici, serate in gruppo, musica e concerti, studio, sport, per qualcuno volontariato, preghiera, magari persino un poco di politica. Dopo il Bataclan, dopo Nizza e Londra, dopo l’Arena di Manchester e persino dopo Torino, dopo il blue whale, quell’universo da frequentare, vivere e sperimentare si restringe, la libertà si riduce, l’autonomia si contrae. Si perde l’ingenuità dei riti, la spontaneità dei comportamenti, l’affidamento libero a se stessi e agli altri. Bisogna invece calcolare, prevedere, stare in guardia, spesso rinunciare. La libertà diventa vigilata. Tuttavia lo specifico di questa paura non è nel riflesso individuale, e nella riduzione d’autonomia personale che comporta, ma è nell’attacco al costume collettivo, nella sua modificazione. Il tempo libero occidentale che viene fatto esplodere in Francia e in Gran Bretagna è infatti inconsapevole parte della nostra organizzazione civile, della divisione tra il lavoro e il resto della vita, dunque della costruzione di sé dentro una rete sociale di relazioni, di incontri, di riconoscimenti reciproci da cui nascono legami amicali, professionali, culturali, affettivi. Tutto questo accade perché sta dentro una regola, che è semplicemente il valore d’uso quotidiano della democrazia nella sua materialità di consumo, come un sistema sperimentato e liberamente accettato di garanzie che ci scambiamo giorno dopo giorno l’un l’altro. È questa vitalità sotterranea della democrazia che viene attaccata in un concerto, su un ponte davanti al mercato, in una sala da ballo, in una scuola. Un modo di vivere, dunque, un sistema di combinazioni tra destini, scelte, opportunità, bisogni, aspettative e realizzazioni. Regolato - anche se a noi sembra un flusso naturale, spontaneo - da un patto culturale, politico, di società, che disciplina le libertà individuali nella subordinazione alla legge comune e all’autorità dello Stato, che dovrebbe garantire il rispetto del diritto e dei diritti, per tutti. Se non comprendiamo che è questa la ricchezza che viene attaccata, allora non abbiamo niente da difendere, siamo puro sgomento, ci riduciamo a bersagli di un gioco sanguinoso ma irrazionale, perché fuori non soltanto dal nostro sistema di calcolo del rapporto tra costi e benefici, ma da qualsiasi motivazione, dunque da ogni fanatica strategia. Neghiamo ogni autonomia politico-culturale al terrorismo riducendolo a follia esplosiva e omicida, dunque annulliamo le sue responsabilità, disperdendo il significato delle sue azioni, il loro “senso” profondo. E invece nel momento legittimo della paura, bisogna saperla leggere, scomporla nei suoi multipli, arrivare alla radice di questa guerra primitiva: ci attaccano per ciò che siamo, anche se spesso non ci ricordiamo di esserlo. Ci colpiscono per la libertà che rappresentiamo, a cui dunque non possiamo rinunciare. Potremmo dire che ciò di cui stiamo morendo, è ciò che ci fa vivere, dandoci una ragione, un valore, persino un’identità. Poi c’è la metafisica della paura, l’immateriale, che riguarda noi e non loro. È il sentimento di perdita di controllo complessivo e progressivo del mondo, l’infragilimento delle strutture di governance costruite col meccano grandioso e velleitario del Novecento, in una parola la sfrontata gigantesca autonomia della crisi che ci sovrasta, il nostro affacciarci sulla regola infranta, sui codici saltati, su un futuro spaventato perché il presente è alla deriva. Questa paura è solo in parte indotta, perché è in larga misura autogenerata, dunque più pericolosa. Qui si annida infatti la svalutazione dell’esperienza, lo svilimento della conoscenza, il deprezzamento della competenza, il rifiuto della politica, che era stata inventata proprio per applicare questi saperi alla realtà, governandola. Ma oggi è come se di fronte alla crisi, e alla violenza che ci assale, nessun sapere avesse più efficacia, e il deposito cognitivo addirittura non avesse più valore: mentre la politica appare non soltanto disarmata, ma fuori gioco se non compromessa, comunque colpevole, parte del problema e non della soluzione. È un’abdicazione intellettuale, e porta dritto alla sterilità culturale, che è prima di tutto una deprivazione identitaria, perché sfocia nella neutralità dei valori. Tipica dei sentimenti da fine d’epoca, all’esaurimento di un ciclo storico, nella decadenza, quando Nietzsche spiega che perdendo le capacità spontanee di autogoverno individuale e collettivo si sceglie istintivamente ciò che è nocivo, e si preferisce l’artificiale al reale. Ecco che spunta proprio qui l’ultimo prodotto della paura, dal fondo primordiale jihadista degli omicidi rituali, fatti di sangue e di sacro: l’irrazionale. Ipnotizzati dal male e dalla nostra incapacità di difenderci (con ogni mezzo: perché si tratta di difendere i cittadini e la democrazia sotto lo stesso attacco) noi rischiamo di essere sedotti da un cortocircuito emotivo che cerca protezione nei simboli e nei simulacri, gettando via la costruzione faticosa di una governance democratica, realizzata nei decenni in un processo politico tormentato e imperfetto, ma insostituibile. Rischiamo, in poche parole, di dare alla democrazia le colpe della politica, concludendo spaventati che i suoi principi sono buoni nella carta delle Costituzioni ma non nella realtà di un mondo complesso, visto che non garantiscono sicurezza, tutela, governo, benessere. La paura agisce fin qui, deformando i fondamentali del nostro modo di vivere, rendendoli precari, improvvisamente quasi provvisori. Come se ci fosse qualcosa oltre le colonne d’Ercole della democrazia, supremo autoinganno esoterico. Non c’è un rifugio nell’altrove, la sfida è ora ed è qui, dove dobbiamo batterci. Prima, cominciamo a dare un’identità politica alle vittime del terrorismo, uscendo dall’indistinto dell’anonimato con la coscienza che sono state scelte in mezzo a noi e al nostro posto; e sono state uccise proprio perché fanno parte del mondo libero e democratico in cui viviamo e di cui siamo testimoni. Poi, di conseguenza, ricordiamoci che abbiamo molto da difendere, a patto di esserne consapevoli. Infine, restituiamo quello zainetto ai nostri figli, col suo carico semplice di quotidiana, banale libertà.
"Vi racconto come ho spiegato il terrorismo (e il male) a mio figlio". "La paura si trasforma in terrore e ci paralizza, ma dobbiamo imparare ad ascoltarla e non possiamo fingere che la morte non esista". La scrittrice spiega come ha affrontato il tema degli attacchi suicidi, scrive Simona Sparaco il 7 giugno 2017 su "L'Espresso. Quello che è successo a Manchester la sera del 22 maggio mi ha riportato alla notte del 14 luglio scorso, a Nizza, quando un camion si è lanciato sulla folla con l’intento di sterminare famiglie intere. Mio figlio era davanti alla televisione il giorno seguente. C’era confusione, era ora di pranzo. Lo pensavo a giocare in giardino con i cugini, invece mi era seduto accanto. Ha quattro anni e la passione per i camion. Attraverso il racconto del telegiornale, ha visto l’oggetto del suo desiderio trasformarsi in oggetto di morte. Non so cosa abbia compreso, era già attonito quando me ne sono accorta. Nei suoi occhi una paura adulta, molto più insidiosa di quella che possono suscitare l’uomo nero o il mostro delle fiabe. La mia stessa paura, del resto. Solo che io ho il dovere di camuffarla, di sorridergli rassicurante. La maggior parte degli psicologi concorda sul fatto che prima dei cinque anni un bambino non è pronto ad affrontare certi argomenti. Ma mio figlio la notte si sveglia di soprassalto e mi parla di un mostro bianco, bianco come il camion di Nizza. Mi rivolge ossessivamente le stesse domande, sulla morte, sui cattivi, e non vuole che mi allontani per nessun motivo. Qualche volta i suoi occhi si caricano di angoscia e i miei, nell’osservarlo, di pura impotenza. Allora decido di affrontare tutto questo in una lettera, che poi è diventata un libro, e di condividere con le altri madri la mia ansia. Cerco le parole giuste per raccontare a mio figlio l’orrore che ha visto nello schermo. Uso metafore, immagini, racconti. Cerco una chiave di accesso che mi permetta di entrare nel suo mondo, e di guardare il nostro attraverso i suoi occhi. Chi sono questi cattivi? Questi terroristi disposti a farsi saltare in aria per annientarci? Gli dico che ogni persona possiede una scatola, una scatola magica dove infila i propri desideri, come lui fa quando per Natale mi chiede i giocattoli. Quella scatola ci dice chi siamo, ci fornisce un’identità. Bisognerebbe riempirla di cose che riguardano il presente, per il nostro bene e per quello degli altri. Alcune scatole, però, sono piene di odio e di frustrazione, di cose che non riguardano questo spazio e questo tempo, tanto che per quelle persone la vita non ha alcuna importanza. E noi, che sembriamo così inermi, possiamo difenderci solo continuando a riempire la nostra scatola di sogni e di progetti. Per contrapporre alla loro ideologia di odio e di morte, una logica di amore per la vita. Mentre scrivo la mia lettera, tracciando un varco tra le paure, scopro il coraggio di affrontarle. Per non negarle, nemmeno ai suoi occhi. E per trovare risposte il più possibile sincere. Ricordo l’ansia che avevo da bambina quando origliavo i discorsi dei grandi, le loro spiegazioni chiaramente false e lontane da quel poco di vero che avevo intuito. Allora perdevo fiducia. Il loro inganno aumentava il mio spavento. Memore di quella lezione, ho deciso che con mio figlio voglio essere sincera. Riadatto la realtà attraverso immagini che possa comprendere, reinvento il mondo per lui, ma la verità è il mio punto di partenza. Immagino che tra i fan di Ariana Grande, la star dei teenager che si è esibita nell’Arena di Manchester, non si parli d’altro che di questa tragica esplosione. Tra le famiglie riunite intorno ai tavoli da pranzo, fioccano domande cui è difficile rispondere. Le immagini dell’attentato invadono i telegiornali. L’attualità è, ancora una volta, una continua narrazione dell’orrore. Ariana Grande è il camion di Nizza. Uno strumento di gioia che diventa appuntamento con la morte. Lei per prima annulla concerti, si chiude in se stessa, cerca di capire cosa è successo. E magari s’interroga sulla sua identità, su ciò che oggi agli occhi del mondo rappresenta. Sua madre quella sera era lì, nell’Arena, ad aiutare i fan della figlia a trovare in qualche modo una via di fuga. E come lei tante altre madri, colpevoli solo di aver messo al mondo figli, o meglio, figlie, nel mondo occidentale. Di averle accompagnate, così giovani, a un concerto. Perché, nel mirino di Salman Abedi, l’attentatore, non c’è solo l’innocenza di un luogo lontano da qualunque simbologia politica, ma anche un ritrovo di ragazzine, emancipate, fans di una giovane cantante che incarna un modello inaccettabile. Per la madre di Ariana Grande, come per tutte le altre madri e i figli coinvolti, uscire da quell’Arena e dimenticare non sarà certo facile. E non lo è neanche per noi, che li sentiamo gridare dai telegiornali. So di madri che cancellano concerti, appuntamenti negli stadi per partite che ritenevano importanti. Il livello di allerta è critico e in Inghilterra sono rimaste chiuse molte scuole. L’immagine della bambina di otto anni, che nell’attentato ha perso la vita e che ha invaso le prime pagine dei quotidiani, ci fa pensare ai nostri figli, ci fa desiderare di tenerli chiusi in casa per proteggerli. La paura si trasforma in terrore e ci paralizza, ma dobbiamo imparare ad ascoltarla. Dobbiamo imparare a gestirla. Perché le nostre paure sono anche una planimetria intorno alla quale i nostri figli stanno costruendo la loro personalità. E poi perché non ci appartengono. Facendoli nascere, li abbiamo consegnati al mondo, e ora, volenti o nolenti, abbiamo il compito di consegnare il mondo a loro. Qualunque esso sia. I supereroi non esistono, e i ragazzini lo sanno. Non cercano in un genitore qualcuno che abbia i superpoteri, che tiri fuori una bacchetta magica e faccia sparire i terroristi dalla faccia della Terra. Cercano risposte sincere a domande difficili. Cercano qualcuno che sia padrone delle sue paure, delle sue fragilità, e che sia in grado di affrontarle. Ma soprattutto di rispondere. Abbiamo tutti l’impressione di camminare sul ciglio di un burrone. Possiamo decidere se ostinarci a guardare giù e farci assalire dalle vertigini, oppure di procedere il più possibile a schiena dritta. La differenza la farà il bagaglio che ci portiamo dietro ogni volta che usciremo di casa, fosse anche per ascoltare un altro concerto di Ariana Grande. La vera differenza la farà il contenuto della nostra scatola magica. Chi e cosa amiamo, da chi ci sentiamo riamati e sostenuti. Non c’è prudenza che possa davvero salvarci, se non la fiducia in tutto quello che siamo, in tutto quello che avremo deciso di metterci dentro.
Lo Stato islamico invade il Pacifico, scrive il 16 giugno 2017 Fausto Biloslavo su "Gli Occhi della Guerra" del "Il Giornale". Cinque prigionieri cristiani con le classiche tute arancioni, come quelle dei terroristi rinchiusi a Guantanamo, sono inginocchiati e allineati con il capo chino. Alle loro spalle il plotone dei tagliagole della guerra santa ha già le canne dei fucili mitragliatori puntati alle teste dei poveretti. Tutti mascherati, in tenuta di combattimento e con il dito sul grilletto attendono solo l’ordine di far fuoco. La scena viene ripresa e propagandata in rete da Amaq, la costola mediatica del Califfato. L’esecuzione dei cristiani, militari o civili presi in ostaggio, potrebbe essere avvenuta in Siria oppure in Iraq, dove lo Stato islamico è nato nel sangue, ma sta perdendo terreno pur combattendo con le unghie e con i denti. La tragica novità è che l’ennesimo crimine di guerra sia avvenuto in questi giorni nelle lontane Filippine, dove da sempre cova una rivolta islamica nel sud dell’arcipelago. Per la prima volta, però, i novelli seguaci dello Stato islamico sono riusciti ad assediare e in gran parte conquistare una città impegnando in una dura battaglia i marines filippini appoggiati dagli americani. Le bandiere nere sventolano ancora in alcuni quartieri, ma oramai i tagliagole islamici sarebbero circondati, anche se continuano a farsi scudo con centinaia di abitanti, che non sono riusciti a fuggire. Duecentomila civili sono scappati di fronte ai combattimenti, ma circa mille sarebbero ancora in ostaggio dei terroristi. E nelle ultime ore è trapelata la notizia che i morti sarebbero fra 500 e 1000. Per tre settimane Marawi, 800 chilometri a sud di Manila, nell’isola di Mindanao, è diventata la «capitale» della provincia filippina del Califfato nel quasi totale silenzio dei grandi media, a cominciare da quelli italiani. Nonostante centinaia di mujaheddin guidati da Abu Abdullah al Filipini, nome di battaglia di Isnilon Hapilon, l’emiro dello Stato islamico dell’arcipelago, siano riusciti a conquistare un’intera città seminando morte e terrore. «I cristiani sono stati trascinati in strada e obbligati a convertirsi all’Islam sotto la minaccia delle armi – ha raccontato un testimone -. Chi si opponeva oppure i militari presi vivi venivano decapitati». Alcune foto scattate dai seguaci delle bandiere nere mostrano con orgoglio le conversioni forzate e i crimini di guerra commessi dai seguaci dello Stato islamico nell’arcipelago dell’estremo Oriente. Secondo il presidente filippino, «Abu Bakr al Baghdadi (l’autoproclamato Califfo nda) in persona ha ordinato l’offensiva terroristica nel nostro Paese». Nelle grinfie dei tagliagole è finito anche padre Teresito Soganub e altri 15 cristiani rapiti con lui. «Probabilmente la loro intenzione è quella di utilizzare i fedeli come merce di scambio, per convincere i militari a ritirarsi», ha spiegato il missionario italiano del Pime, padre Sebastiano D’Ambra, che da 40 anni vive a Zamboanga, un’altra città di Mindanao. I cristiani di Marawi erano solo il 2%, ma anche se esigua minoranza, che non poteva fare male a nessuno, sono finiti nel mirino dei terroristi islamici, che li cercavano casa per casa. Ai primi di giugno le bandiere nere si sono scagliate contro la cattedrale di Marawi incendiandola. Prima l’hanno saccheggiata e si sono accaniti sui simboli religiosi dei cristiani come è capitato tante volte in Siria e Iraq. Le immagini non lasciano dubbi: un poster di Papa Francesco viene strappato con furia, il grande crocifisso sull’altare divelto e preso a calci, le statue della Madonna e dei santi fatte a pezzi da miliziani mascherati. La fondazione pontificia, Aiuto alla chiesa che soffre, che in Italia ha denunciato i crimini di guerra contro i cristiani ha rilanciato la campagna «prayformarawi», prega per la città martire filippina. L’attacco è iniziato il 23 maggio e il 9 giugno è scoppiata la battaglia più feroce durata 14 ore con scontri strada per strada e bombardamenti aerei. I militanti islamici si sono nascosti in una vasta rete di rifugi sotterranei costruita anni fa e formata da tunnel e seminterrati, dove hanno immagazzinato grandi scorte di cibo, armi e munizioni. «Non riusciamo a penetrarli neppure con le bombe dei caccia da 250 chili», ha ammesso il generale Carlito Galvez, comandante militare della regione di Mindanao occidentale. Giorni prima dell’attacco, i seguaci del Califfo hanno attrezzato ad arsenale, posto comando o di primo soccorso scuole e moschee. Come in Afghanistan, Mosul o Raqqa sono state disseminate dappertutto. Al fianco degli estremisti filippini sono arrivati i veterani indonesiani, che hanno combattuto in Siria con le bandiere nere, jihadisti arabi e sarebbe stato trovato il corpo di almeno un terrorista ceceno. I miliziani della provincia filippina del Califfato sostengono di avere ucciso 289 militari da aprile. A Marawi le vittime ufficiali sono circa 300, compreso un gran numero di civili, ma il bilancio reale potrebbe arrivare a mille morti. L’emiro filippino, Hapilon, è un imprendibile cinquantenne smilzo e con i baffetti che ha una taglia di 5 milioni di dollari dell’Fbi sulla testa. Ex comandante di Abu Sayaf, il gruppo jihadista filippino più sanguinario, ha giurato fedeltà al Califfo lo scorso anno. A ruota lo hanno seguito i «Combattenti per la libertà islamici Bangsamoro», i gruppi estremisti Ansar Khilafah, Katibat Ansar al Sharia, Jund al Tawhid, Jamaat al Tawhid wal Jiha, prima legato ad Al Qaida, e una parte dello storico Fronte di liberazione Moro di Mindanao. Tutti sotto i vessilli del Califfato nella cosiddetta formazione Maute, un nome locale dello Stato islamico filippino, che annuncia di poter contare su 10 battaglioni di mujaheddin. In realtà a Marawi ci sarebbero circa 500 uomini, ma ben addestrati e motivati, che hanno messo in scacco l’esercito filippino. Dopo tre settimane di combattimenti sono dovuti intervenire gli americani con i droni e la sorveglianza aerea per individuare gli obiettivi. Oltre allo spionaggio elettronico per scoprire i piani dei militanti jihadisti ancora annidati in città e delle loro unità nei dintorni. Il Pentagono non schiera truppe stanziali nelle Filippine, ma per anni fra i 50 ed i 100 uomini dei corpi speciali sono stati dislocati a rotazione, per esercitazioni nel sud dell’arcipelago, dove cova la rivolta islamica. Le bandiere nere avevano pianificato di conquistare altre due o tre città nell’isola di Mindanao, ma la minaccia è regionale. Secondo il ministro degli Esteri, Allan Peter Cayetano, «oltre alle Filippine anche Indonesia e Malesia sono potenziali obiettivi dei terroristi».
Ius Soli. La Patria non è un cavillo burocratico, scrive il 15/06/2017 Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Disfatta l’italia ora bisogna disfare gli italiani. Progresso. Ma dopo, cosa c’è? Dopo la vita e dopo la fine di Beautiful? Parliamo di cosa c’è dopo per la paura di vivere cosa c’è ora? Ce lo chiediamo perché la nostra natura è l’umile curiosità. Al contrario, invece, è perversione del coatto, come quella che segna la presunzione di un’epoca. Un’epoca che ha tutto: la tecnologia, gli hamburger vegani, il maglione per cani, le file all’Apple Store e l’Unione Europea. Ma che soprattutto si è liberata dei più grandi fardelli: si è tolta dai piedi Dio e il senso di identità e confine; ha liquidato secoli di umanissime certezze (e quei valori non negoziabili che sono il piedistallo dell’essere semplicemente umani, citando Torriero, sono stati gioiosamente messi sul mercato), ha travolto le aggregazioni e gli atti essenziali, come la famiglia, la dignità, la partecipazione, la sovranità, la legalità, lo Stato padre, l’identità come amore, e la spontaneità – se entra un ladro in casa, tanto vale preparagli un bel panino quaglie e broccoletti -. E poi, maestra di nichilismo, ha passato la spugna sulle cose semplici che sostengono il mondo, poiché ci risulta eroticamente indispensabile credere che sia necessario coltivare gli uomini, per poter coltivare le idee e non crepare di futuro (repetita…). Ha murato il cantuccio, l’angulus oraziano, quello da cui cogliere la visuale senza essere ancora corrotti dal mainstream. Luogo noto e sicuro, per ritrovare sempre se stessi nell’epoca della grande siccità dello Spirito. Tutto questo, perché, dicono, dobbiamo andare oltre. Ma oltre de che? Oltre il sangue, persino. E tutto si riduce ad una questione di marketing (elettorale. Francia docet). Prendete lo Ius Soli. Approvato alla Camera nel 2015, rischia di diventare certezza il prossimo giugno al Senato.Il divieto di sosta per gli italiani. Ah la grande modernità! Ma lo sapevate che Kaled è nato in ospedale e quindi è un medico? Eh già, gli spetta di diritto. In tutti i sensi; anche se avrebbe voluto fare altro nella vita, il terrorista, ad esempio. Insomma non conoscevate la storia di Kaled. Curioso. In questo mondo iperconnesso. Storia, per altro, molto simile a quella di Omar, che è nato in Italia da padre libico e madre spagnola ed è italiano. Italianissimo, pugliese di Tripoli. Nel giro di due anni, il gioco è fatto. Un Paese giovane, ancora alla ricerca di se stesso, che ancora deve sanare il divario tra Nord e Sud, tra secessionisti di confine ed il riconoscimento di un inno e di una bandiera nazionale, in cui ancora dobbiamo integrarci tra noi, figuriamoci. Un popolo che si sente unito davanti all’Italia che gioca per la qualificazione agli europei. Un Paese che ancora deve fare i conti con i vecchi italiani e che ora, già ne fabbrica di nuovi. Le conquiste della civiltà: cento anni dopo, esatti, dalla Grande Guerra, la Camera dei Deputati approva lo Ius Soli. Ora tocca al SenatoamicodiRenzi. Cento anni prima il dovere degli italiani di sentirsi italiani, cento anni dopo il dovere di far sentire italiano chiunque passi di qui. A saperlo prima, avremmo detto a quei poveri ragazzi in trincea, soprattutto a quelli del ’99, così piccoli, di tornare a casa dalle mamme o dalle giovani mogli in Calabria, di lasciar perdere o al limite, di farla con i propri connazionali deliranti, la guerra, non con i dirimpettai o con qualche straniero. Connazionali…o sarebbe meglio definirci coinquilini d’ora in avanti? Disfatta l’italia ora bisogna disfare gli italiani, perché la nazionalità s’indossa come un vestito, si sceglie su un catalogo. Se la coesione sociale è un problema serio, la governabilità è sempre a rischio, i poveri ci sono sempre stati, l’Italia inizia a diventare un lontano ricordo ed in questo paese, indiscutibilmente, oltre alle belle giornate di sole, alla pasta col pomodoro, al mare azzurro e alla pizza con i frutti di mare, si sta decisamente male, conviene aprire all’internazionalizzazione. L’ultima italianità rimarrà chiusa in uno stereotipo e nell’eco lontano, rimbombante delle note di Domenico Modugno, delle parole di Dante: “Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade”. Dopo la palese interruzione democratica riparte il “treno dei diritti civili”: la cittadinanza italiana è un affare da appioppare. Torna lo Ius Soli, per il secondo round, tra ridicolezze, poco sense of humour ed il dramma del fatto che non si stia scherzando, anzi, si faccia decisamente sul serio. Dal diritto di sangue a quello di transito. “Acquista la cittadinanza per nascita chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Per ottenere la cittadinanza c’è bisogno di una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età. Se il genitore non ha reso tale dichiarazione, l’interessato può fare richiesta di acquisto della cittadinanza entro due anni dal raggiungimento della maggiore età”, come riporta Repubblica e così come andò alla Camera. Nessun cenno ad un giuramento, allo studio dell’identità di questo Paesaccio. Nessun sentimento. Nessun inno, nessun esame. Al limite lo ius culturae (tanto il latino sta bene con tutto, anche col beige), che consentirà ai minori stranieri arrivati nel nostro Paese prima dei dodici anni di diventare italiani esibendo una semplice licenza di scuola elementare, come risalta Gian Micalessin, sottolineando il pericolo futuro e palpabile di ritrovarci in casa il terrorismo con inaudita facilità.
Il gioco è fatto in barba a D’Annunzio e al Capitano Giovanni De Medici. Cittadinanza, quindi, non è un mero fatto giuridico. A farcelo presente è anche Giuliano Guzzo: “L’assegnazione della cittadinanza per il solo fatto di nascere in Italia pare dunque, ad essere buoni, un azzardo. A maggior ragione se si rammenta che la cittadinanza non è un mero dato giuridico e che prevede la «condivisione di valori comuni che sono alla base del sentimento di appartenenza e dell’integrazione del soggetto all’interno di un comunità», condivisione che fa sì che una data comunità possa, grazie ai propri componenti di diritto, continuare ad esistere preservando i propri tratti identitari. Facile, qui, l’obiezione: ma neppure tanti italiani onorano la loro cultura e la loro patria osservandone principi e regole. Certo, ma questo nulla toglie al valore della cittadinanza; in altre parole il problema, se molti cittadini non onorano i valori del loro Paese, non è dei valori, bensì di questa parte di cittadini, e sarebbe sbagliato utilizzare il pretesto della scarsa disciplina di taluni per svuotare di rilevanza un diritto – quello della cittadinanza – che riguarda tutti nonché, insistiamo, la sopravvivenza della comunità”
L’Occidente cadrà da dentro. Come ogni impero che si rispetti. Ma è progresso. E quindi Dobbiamo andare oltre. Ma oltre de che? Millantiamo un mondo libero, che ha capito i propri recenti errori, e poi se non metti il velo tuo padre ti gonfia come una zampogna, ci sono tir che travolgono e missili in cielo; si evocano fascisti ogni minuto, si lasciano crepare i giovani di futuro. I ricchi si arricchiscono, i medi muoiono, i poveri aumentano. Le domande etiche esplodono: io che ho un pène, ma vorrei una vagina, e mi rendo conto che, in realtà, il sesso è solo un ingombro, posso partorire pur non avendo l’utero?
Tutto questo perché, dicono, dobbiamo andare oltre. Abbracciare il Progresso. Se la maestra Eugenia ogni volta che inizia a spiegare una parte di storia non la termina e va avanti con nuovi argomenti, improvvisamente, proiettando gli scolaretti nella confusione e costringendoli a tempestare l’ingenua Eugenia di domande, non è andare avanti, è creare confusione. Non è trasmettere conoscenza e consapevolezza. Per metter ordine al caos, serve ordine: non altro caos. I giovani virgulti, a fine anno c’arrivano lo stesso; i promossi, saranno promossi, i bocciati verranno frustati a casa dai genitori e Padoan continuerà a non sapere quanto costa un litro di latte; eppure i ragazzi, di storia, non c’avranno capito un cavolo, saranno confusi, si saranno dovuti adeguare in fretta e si accontenteranno così. L’importante è andare avanti. Non sempre ciò che vien dopo è progresso. Ecco appunto. Ciò che vien dopo. Ma oltre de che? Oltre la funzione e l’essenza stessa degli uomini? Eppure a giudicare dalla lingua che parliamo, e quindi il luogo che viviamo, per essere fedeli ad Emil Cioran, la vita è un tutto un post. Faccio un post-it per ricordarmi di scrivere un post che esprima sdegno sulla post verità che avanza mentre percepisco, dalla fondamentale battaglia per la democrazia di Emanuele Fiano, contro la vendita di gadget del Ventennio nel nostro Paese, che la post ideologia avanza e ci rende nuovi. Post, ma in che tempo? Posto cosa? Quale premessa? Dopo di che? Dopo il pudore, dopo il rispetto, dopo la famiglia, dopo il sesso biologico, e dopo Dio? Diritti, ora, quando, proprio per tutti
A posteriori verso il postribolo. Tutto a post, tranquilli. Nel dubbio tiè pij’t la cittadinanza.
I MIGRANTI E LA SOLIDARIETA’ COLLUSA E SPECULATIVA.
Chiesa e migranti, quali sono le responsabilità del "Primo mondo" sul Terzo, scrive l'1 settembre 2017 "Il Fatto Quotidiano". Bisogna andare a scorrere le pagine di Avvenire per trovare un’analisi del grande fenomeno delle migrazioni dall’Africa, che non sia l’ennesima ripetizione delle frasi che inondano la stampa nazionale: “Fermiamoli, accogliamoli, blocchiamo il flusso. Aiutiamoli a casa loro”. Sul giornale dei vescovi leggiamo questa settimana che l' “emigrazione africana non è figlia di una sciagura transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo stati e siamo ancora parte attiva, addirittura suoi artefici”. Interessanti queste parole, perché strappano il velo della rimozione che sembra annebbiare la stragrande maggioranza degli editorialisti e dei dirigenti politici e quindi gran parte dell’opinione pubblica: in una sorta di incoscienza, tipica di chi guarda gli sconvolgimenti prodotti da un ciclone e si chiede come mai sia potuta accadere una “calamità” del genere. Secco e apparentemente provocatorio l’intervento pubblicato da Avvenire: “Aiutiamoli, a iniziare da casa nostra”. E se ci fosse una corresponsabilità del Primo mondo in quella che papa Francesco ha definito la più grande catastrofe umanitaria dopo la II Guerra mondiale? Diceva il grande storico inglese del Novecento Eric Hobsbawm che Giovanni Paolo II (nei suoi documenti sulla dignità del lavoro e la necessità di una globalizzazione dal volto umano ma anche nella sua opposizione alla guerra imperiale di Bush contro l’Irak) doveva essere considerato l’ultimo socialista del secolo scorso. In realtà è tutta la dottrina sociale della Chiesa cattolica da Giovanni XXIII in poi, da Paolo VI con l’enciclica Populorum progressio, e comunque nell’escalation di interventi dei due pontefici geopolitici Karol Wojtyla e Jorge Mario Bergoglio (ma anche papa Ratzinger nell’enciclica Caritas in Veritate) a porre nell’epoca contemporanea il grande tema del “bene comune” cioè del carattere etico-sociale dei rapporti economici e politici, delle implicazioni sociali della finanza, del degrado sociale causato dalle devastazioni dell’ambiente. In una parola, della “socialità” o al contrario del carattere di mera potenza e di rapina dell’organizzazione economica. In questo quadro, l’autore dell’articolo, Francesco Gesualdi ricorda sul giornale cattolico che l’emigrazione africana è strettamente connessa al problema dei rapporti commerciali e finanziari che i Paesi sviluppati hanno instaurato con le classi dirigenti dei Paesi africani in un contesto di “sostegno a sistemi di corruzione e di rapina”. Gesualdi mette in fila una serie di dati, che sono sotto gli occhi di tutti ma che vengono sistematicamente dimenticati perché scomodi. L’assenza di accordi commerciali che garantiscano prezzi equi e stabili ai produttori, la mancanza di freni alla finanza speculativa sulle materie prime, la pratica permanente di “accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e le loro terre”, l’impunità per le imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere globali. Sempre nel contesto di quei dati, che basta mettere insieme per avere un quadro reale della situazione (e che per questo motivo, per non disturbare un’economia di rapina, vengono lasciati a galleggiare sparsi nei documenti più diversi) si può leggere su Avvenire l’apparente paradosso della Nigeria. Dei 181mila profughi, che sono approdati in Italia nel 2016, il 21 per cento proveniva dalla Nigeria. Eppure la Nigeria possiede enormi ricchezze grazie alla produzione del petrolio. Non ci vuole Sherlock Holmes per scoprire il mistero. Basta la testimonianza di Lamido Sanusi, ex governatore della Banca centrale nigeriana: nel solo biennio 2012-2013 sono stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari (proventi del petrolio) e incanalati in conti cifrati privati nelle banche occidentali e in paradisi fiscali. Agli stati, ai governi che oggi si riuniscono allarmati per arrestare la valanga dei disperati, che si riversano sull’Europa, evidentemente sta bene così. Per non disturbare i manovratori economici e finanziari. Non c’è bisogno di essere “socialisti” per cogliere ed analizzare questi nessi e i loro effetti rovinosi. Basta avere la lucidità e la sensibilità di quanti nel secolo scorso inventarono l’economia sociale di mercato, capendo che il progresso economico non si può fondare stabilmente sul vulcano rappresentato da una massa di sfruttati. Oggi la prospettiva di una nuova “economia sociale di mercato” va costruita nella dimensione della globalizzazione. Come dice papa Francesco, l’ “inequità” finisce per produrre esplosioni che nessuna forza di polizia potrà reprimere.
Antonio Socci: il patto tra chiesa e Pd per riempire l'Italia di immigrati, scrive il 18 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". A giugno scorso la politica italiana ha svoltato ed ha cominciato la volata dell’ultimo chilometro. Da allora tutto quello che accade va letto in chiave pre-elettorale, cioè in vista delle elezioni politiche. Tutto è finalizzato a quell’esame. Perché è stato decisivo giugno? Perché alle elezioni amministrative parziali l’Italia (ancora una volta) ha mandato al Palazzo un segnale forte e chiaro che si potrebbe riassumere nello slogan di Beppe Grillo del 2007. In sostanza un “Vaffa”. Infatti il Paese si è rivelato molto diverso da come viene rappresentato sui media e da come lo pensano nel Palazzo della politica dove spesso credono alla loro stessa propaganda. In sintesi, nei Comuni con più di 15 mila abitanti in cui si è votato il centrosinistra governava in 81 Comuni e - dopo giugno - ne ha ripresi solo 50, il centrodestra da 42 è passato a 54 e i grillini sono passati da 3 a 8 amministrazioni municipali. Si è scoperto, di nuovo, che in Italia il centrodestra rappresenta la formazione con più consensi. E per il Pd non vale nemmeno invocare la menomazione dovuta alla scissione perché in quei Comuni di solito il centrosinistra si presentava unito. D’altra parte - se si ricorda l’esito delle ultime elezioni politiche - lo stesso esecutivo a trazione Pd non ha mai avuto una maggioranza nel Paese. Adesso poi - dopo anni di governo - il Pd paga la crisi economica nella quale - nonostante i dati sbandierati come “ripresa” - si è sempre più impantanati (con un debito pubblico che cresce) e soprattutto lo stato maggiore piddino ritiene di aver pagato la propria sconsiderata politica dell’emigrazione che ha creato molto malcontento e allarme sociale. Dall'esito elettorale di giugno perciò hanno pensato di correre ai ripari e per tutta l’estate hanno provato a mandare all’opinione pubblica segnali di una inversione di rotta. Prima Matteo Renzi ha rottamato lo slogan “Restiamo umani” che aveva usato per anni, per giustificare l’apertura dell’Italia all’immigrazione di massa. Lo ha rottamato - dicevo - sostituendolo con la parola d’ordine che era di Salvini, di cui Renzi si è disinvoltamente appropriato: «Aiutiamoli a casa loro». Era il segnale della marcia indietro. Così il ministro dell’Interno Minniti - nel volgere di qualche giorno - ha sostanzialmente fatto cessare gli sbarchi o almeno li ha fortemente ridotti. Di colpo. Cosa che - a ben vedere - ha fatto ancora più irritare gli italiani, dal momento che per anni, dalle parti del Pd e del governo, hanno ripetuto che la migrazione di massa è un fenomeno storico inevitabile, che non si può fermare, perché sarebbe come illudersi di fermare il vento con le mani. E quindi si poteva solo subire. Di colpo si è scoperto che invece si poteva fermare e anche molto velocemente, quindi tanti italiani hanno concluso che per anni sono stati presi in giro, mentre erano sottoposti all’assalto migratorio. Per non scoprirsi a sinistra, soprattutto dopo la scissione dalemiana, Gentiloni e Minniti hanno visto bene di chiedere aiuto alla Chiesa da dove - le frange più estremiste - già cominciavano a bombardare il governo per lo scontro con le Ong. Così, incontrando la Segreteria di Stato della Santa Sede e lo stesso papa Bergoglio hanno ottenuto una specie di legittimazione vaticana. Perché oltretevere hanno accordato questa copertura politica? Per almeno tre motivi. Primo: la Segreteria di Stato vaticana ha così potuto correggere l’ossessiva campagna migrazionista che Bergoglio ha fatto da quattro anni, dal viaggio a Lampedusa del 2013, che ha creato grande sconcerto pure tra i fedeli e ha fatto crollare il consenso attorno al papa argentino (peraltro l’arrivo di tanti migranti islamici nelle nostre città non può far piacere agli uomini di Chiesa più consapevoli). Secondo. Bergoglio si è fatto convincere perché ha come sua bussola il consenso (come i politici) e voleva recuperare un po’ del gradimento che ha perduto nell’opinione pubblica con i suoi reiterati comizi sull’emigrazione. Inoltre (terzo) il governo ha garantito al Vaticano bergogliano che varerà lo “Ius soli” e - dopo le elezioni - riaprirà agli sbarchi sottoforma di “canali umanitari”. A volerla tradurre in parole povere la richiesta del governo piddino dev’essere suonata così: voi ci coprite le spalle adesso che abbiamo bloccato gli sbarchi, così possiamo recuperare voti e - dopo le elezioni, una volta tornati al governo (perché vi assicuriamo che senza Pd non è possibile nessuna maggioranza) - facciamo lo “Ius soli” (se non siamo riusciti a farlo prima) e riapriamo le frontiere, chiamandole “canali umanitari”. Così “passata la festa gabbato lu santo” (e il santo gabbato è il popolo italiano). Il Pd ha anche altre frecce al suo arco, con cui cerca di recuperare consensi. A cominciare dalla solita vecchia politica delle mance pre-elettorali. È una trovata di questo tipo il cosiddetto “reddito di inclusione”, anche se - come si è scritto su queste colonne - a ben vedere stanzia per gli italiani poveri un terzo di quanto il governo ha stanziato per gli immigrati e dunque non sarà tanto facile convincere gli elettori. Ma ne vedremo altre dello stesso tipo. L’obiettivo del Pd, che di certo non può ambire a conquistare la maggioranza, è quello di essere - dopo le elezioni - indispensabile per qualunque governo e la legge elettorale deve essere funzionale a tale scopo fotografando la divisione dell’elettorato in tre blocchi. Però le elezioni regionali siciliane potrebbero essere l’incidente che destabilizza la leadership renziana e spariglia le carte. Anche perché gli oppositori di Renzi già scaldano i motori per lanciare la candidatura Minniti. Inoltre non è affatto detto che il Pd - dopo le elezioni - sia sicuramente indispensabile per mettere insieme una maggioranza di governo. In realtà ci sono delle alternative. Attenti alle sorprese. Al Pd rischiano di fare i conti senza l’oste che sarebbe l’elettorato italiano, nel quale - senza tanti ragionamenti politologici - sta crescendo una voglia matta di mandare a casa il Pd. Questa è l’aria che tira. Antonio Socci
Migranti, la Cei predica accoglienza (ma la fa a spese dello Stato). Oltre 23mila migranti ospitati dalla Chiesa. Ma solo 4mila sono pagati con fondi ecclesiastici. Il 79% lo paga il governo, scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 7/08/2017, su "Il Giornale". Il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, lo ha detto in tutte le salse: bisogna accogliere i migranti. Posizione legittima, per carità. Ma a spese di chi? Già, perché a conti fatti lo slancio caritatevole della Chiesa non lo sostengono le casse del Vaticano. Ma gli italiani. A documentarlo sono i dati dell’ultimo rapporto della Caritas sulla "Protezione internazionale in Italia": a giugno 2016, il 17% degli stranieri accolti nel Belpaese erano presi in carico dalla Cei. Mica male. Anche perché di questi 23.201 immigrati che risultano nelle strutture religiose, solo 4.929 mangiano grazie a fondi ecclesiastici o donazioni. I restanti 18.272 (il 79%) la Chiesa li accoglie sì, ma usando i soldi dello Stato. Difficile fornire una somma precisa. Galantino ad aprile li quantificava in 150 milioni di euro all’anno. Il Def (Documento di economia e finanza) parla invece di 1,8 miliardi dati alle confessioni religiose, principalmente la Chiesa, alla voce "Missione 27". Capitolo che l'Ufficio bilancio del Senato cita in cima alle spese per l'accoglienza. A far man bassa di appalti sono le diocesi e la Caritas. L’ente della Cei compare come aggiudicatario in almeno 26 diverse prefetture attraverso le sue diramazioni locali o le fondazioni direttamente controllate. Sondrio, Latina, Pavia, Terni e via dicendo per un importo ben oltre i 30 milioni di euro l’anno. I dati risalgono a tutto il 2016: tra le più ricche la Caritas di Udine, con i suoi 2,7 milioni di euro. Poi la Mondo Nuovo Caritas di La Spezia (1,7 milioni) e infine quella di Firenze (664mila euro). Un capitolo a parte lo merita Cremona, città che ha dato i natali a Monsignor Gian Carlo Perego, direttore Generale di Migrantes (l’ufficio per le migrazioni della Cei). Qui la Chiesa ha fatto bottino pieno: oltre 3 milioni di euro alla diocesi cittadina e 1,6 milioni assegnati alla gemella di Crema. L’attuale vescovo di Ferrara, soprannominato “il prelato dei profughi”, quando guidava la Caritas cremonese lasciò in eredità la cooperativa “Servizi per l’accoglienza” degli immigrati. Coop che ovviamente non si è fatta sfuggire 1,2 milioni di euro di finanziamento nel circuito Cas e altri 2,4 milioni per la rete Sprar 2014/2016 da spartire con altre due associazioni. “La Chiesa accolga gratis i migranti”, ha chiesto più volte Matteo Salvini invitando i vescovi a dichiararsi pure ospitali, ma senza pesare sui contribuenti. Parole al vento. E così per capire il variegato mondo cristiano nella gestione dell’immigrazione, bisogna pensare al sistema solare: al centro la Caritas (che di solito si occupa solo di coordinare) e tutto intorno un’immensa galassia di organizzazioni più o meno collegate. Vicine al sole ruotano decine di cooperative nate in seno alle diocesi e operative su suo mandato. Spiccano tra le altre la Diakonia onlus di Bergamo, che ha incassato 8,1 milioni. Oppure la Intrecci Coop di Milano, con i suoi 1,2 milioni di euro per l’accoglienza straordinaria a Varese. Dove non arriva la curia ci pensano i seminari, le parrocchie, gli ordini religiosi e le fondazioni. Come la “Madonna dei bambini del villaggio del ragazzo”, che l’anno scorso ha festeggiato l’assegnazione di 1,5 milioni di euro. A poca distanza dal cuore del sistema si posizionano invece centinaia di associazioni che si richiamano a vario titolo alla dottrina sociale della Chiesa. Qualche esempio? Tra un coro dello Zecchino d’Oro e l’altro, la Antoniano onlus di Bologna ha accolto pure un piccolo gruppo di migranti. E con il sottofondo del “Piccolo coro” si è vista liquidare 129mila euro in un anno. Alla faccia di Topo Gigio. E ancora la cooperativa Edu-Care di Torino (2,6 milioni assegnati), la San Benedetto al Porto di Genova (fondata dal prete “rosso” Don Gallo), le Acli e via dicendo. L’elenco è sconfinato. Papa Francesco l’ha detto chiaramente: “Chi non accoglie non è cristiano e non entrerà nel regno dei cieli”. Molti fedeli si sono adeguati, facendo il possibile per non perdere un posticino in Paradiso. E così si sono attivate pure una lunga serie di grandi cooperative bianche, gli ultimi tasselli che completato il puzzle. Al banchetto caritatevole partecipano tutte, dalle coop citate nelle carte di Mafia Capitale fino ad arrivare alla diffusa rete delle Misericordie d’Italia. La sezione più famosa è quella che gestisce il Cara di Isola di Capo Rizzuto, finito nella bufera con l’accusa di collegamenti con la mafia e trattamenti inumani verso i migranti. Ma le maglie della Venerabile Confraternita sono fitte e le sue affiliate non si fermano in Calabria. Alcune sezioni controllano diversi Cas tra Arezzo, Firenze, Ascoli, Pisa (e non solo). In Toscana l’introito complessivo per il 2016 è succulento: 6,2 milioni di euro. E pensare che nel vademecum dei vescovi c’è scritto che l’ospitalità può essere anche “un gesto gratuito”. Alcuni non devono essersene accorti.
Fondi per gli immigrati. La grande bufala sui soldi per la Chiesa, scrive Nicola Pini sabato 29 aprile 2017 su "Avvenire”. Con una nota il governo smentisce «Il Messaggero». La cifra di un miliardo si riferisce all'8xmille complessivo che viene usato per culto, sostentamento del clero e carità in Italia e all'estero. Tre miliardi e 700 milioni spesi nel 2016. 4,3 miliardi preventivati per il 2017, che potrebbero salire a 4,7 nel caso la crisi peggiori. Sono le voci di spesa dello Stato per affrontare l’emergenza umanitaria legata ai migranti secondo quanto indicato nel Documento di Economia e Finanza approvato poche settimane fa dal governo. Fondi che non comprendono e nulla hanno a che spartire con le risorse dell’8xmille destinate alle confessioni religiose, come invece erroneamente indicato ieri in un articolo del quotidiano Il Messaggero. La polemica sul soccorso ai migranti in mare è divenuta l’occasione per riaprire il capitolo dei costi che l’Italia, il Paese più esposto nel Mediterraneo, deve sopportare per il salvataggio e l’assistenza di chi fugge da fame, guerre e persecuzioni. Ma orientarsi nella giungla di numeri del bilancio dello Stato non è facile e si rischia, specialmente quando si rincorre il titolo ad effetto, di fare confusione. «Il titolo del quotidiano che recita “Ecco i fondi per i migranti, un miliardo va alla Chiesa” è falso», ha fatto sapere ieri il Mef, spiegando che i fondi per le spese di gestione e accoglienza documentate alla Ue «non includono le risorse destinate agli ordini religiosi, né tantomeno quelle destinate alle vittime di mafia». Nel novembre 2015 in un’audizione in Parlamento il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan spiegava come la pressione esercitata dall’emergenza «comporti un notevole sforzo di bilancio» tale da aver spinto il governo italiano a chiedere alla Ue (e in parte ottenere) il riconoscimento della crisi dei migranti come un fattore eccezionale di spesa, da scorporare dal deficit. La «ricostruzione puntuale delle spese è complessa, data la pluralità degli attori coinvolti», che vanno dal ministero dell’Interno al Welfare, ai corpi militari, agli uomini e i mezzi delle capitanerie di porto e della guardia di finanza», spiegava Padoan. L’assistenza comprende poi «la spesa diretta per il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, la gestione dei centri e delle strutture temporanee» e «i costi per il Servizio sanitario nazionale e dall’Istruzione». Si tratta quindi di una pluralità di voci che attingono a diverse tra le 34 «missioni di spesa» (in pratica, i vari capitoli) in cui è suddiviso il bilancio dello Stato. Capitoli che, a loro volta comprendono «programmi» anche non omogenei tra loro. L’articolo citato fa riferimento alla Missione 27 intitolata «Immigrazione, accoglienza e garanzia dei diritti» e che comprende principalmente i fondi per «flussi migratori», «cittadinanza, asilo protezione rifugiati», «coesione sociale», che fanno capo al ministero dell’Interno: si tratta di 2,04 miliardi nel 2017, solo una parte dei 3,7 totali che il Def destina all’immigrazione. C’è poi un altro distinto programma chiamato «rapporti con le confessioni religiose», che comprende i «trasferimenti per il riparto dell’8xmille Irpef e al Fondo edifici di culto»: si tratta di un miliardo e 88 milioni a capo in questo caso del ministero dell’Economia, che non si occupa di immigrazione ma ripartisce le risorse raccolte con le dichiarazioni dei redditi. Insomma, sono voci distinte tanto per la loro origine che per la loro destinazione. Per quanto riguarda invece l’8xmille, la Chiesa Cattolica nel 2016 ha ricevuto 1 miliardo e 18 milioni: di questi 398 milioni sono stati destinati alle «Esigenze di culto e pastorale» (diocesi ed edilizia), 350 al «Sostentamento del clero» e 270 per «Interventi caritativi» nelle diocesi italiani e all’estero. Fondi di carità, questi ultimi, che possono andare a soccorso anche degli stessi migranti. Ma non solo a loro. E comunque questo è tutto un altro discorso. La guardia costiera trasformata per legge in Ong salva migranti. La rinuncia al controllo delle nostre frontiere è in manovra. Arriva pure la nuova web tax, scrive Antonio Signorini, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Entra nel vivo la sessione di bilancio alla Camera dei deputati. È arrivata la modifica alla Web tax così come era stata varata dal Senato, una nuova versione che taglia l'aliquota unica dal 6 al 3%, ma non allarga la tassa al commercio elettronico. Spuntano anche altri emendamenti, approvati nella notte tra domenica e lunedì. Tra questi, uno impegna il governo a fare le veci delle Ong che andavano a cercare le barche di immigrati imbarcati nel Nord Africa e stabilisce che «le risorse stanziate per il controllo delle frontiere marittime» debbano «essere prioritariamente utilizzare per la ricerca e salvataggio di vite umane», ha spiegato il deputato di Possibile, Andrea Maestri, esponente di Liberi Uguali, autore della proposta di modifica. In altre parole - se l'emendamento dovesse arrivare integro fino all'approvazione della manovra - la legge di Bilancio stabilisce che le risorse per proteggere le coste siano utilizzati in primo luogo per portare in Italia aspiranti rifugiati o migranti economici. Lo scopo, continua Maestri, è «rendere prevalente la funzione di soccorso in mare dei migranti invece che il controllo securitario delle frontiere marittime. Per noi è fondamentale il ruolo delle navi delle Ong, che con il loro lavoro coprono le insufficienze delle operazioni post Mare nostrum, Triton e Sophia. Ma è anche fondamentale ripristinare un capillare servizio pubblico e istituzionale italiano ed europeo di ricerca e salvataggio». Sempre in tema immigrazione - anche se in un'accezione più simbolica - è stato confermato lo stanziamento per consentire il trasporto e l'installazione presso l'Università di Milano del relitto del peschereccio che è naufragato il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia. Sono 600 mila euro. L'ultimo regalo del Pd alle coop: sgravi a chi assume immigrati. Contributi fino a 500mila euro l'anno a tutte le cooperative che assumono gli immigrati a tempo indeterminato. Salvini: "È razzismo". Meloni: "Schiaffo ai disoccupati italiani", scrive Andrea Indini, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Arriva l'ultimo regalo del Pd alle cooperative che fanno affari con l'accoglienza. Un emendamento alla manovra, riformulato e approvato dalla commissione Bilancio della Camera, prevede un premio in denaro, attraverso sgravi fiscali, per le cooperative che assumeranno a tempo indeterminato gli immigrati che hanno lo status di rifugiati. "Questo è vero razzismo - sbotta Matteo Salvini - se ne fregano dei disoccupati italiani, preferiscono fare soldi con coop e immigrati". L'emendamento alla manovra della maggioranza è l'ennesima regalo di un governo prodigo nei confronti delle cooperative che da anni lucrano sull'accoglienza degli immigrati. Si tratta di un contributo di massimo 500mila euro all'anno e per un massimo di tre anni per ridurre gli sgravi dei contributi previdenziali e assistenziale per le cooperative sociali che assumono con contratto a tempo indeterminato, dal primo gennaio 2018 al 31 dicembre 2018, i rifugiati a cui è stata riconosciuta la protezione internazionale a partire dal primo gennaio 2016 "Quasi 5 milioni di nostri concittadini vivono in condizione di povertà, abbiamo una disoccupazione che supera l'11% con contratti farsa anche di un solo giorno, le migliori aziende nazionali sono costrette a chiudere a causa di una tassazione altissima e cosa fa questo governo?", commentano i deputati della Lega Massimiliano Fedriga e Nicola Molteni. L'opposizione è compatta nel condannare la misura che concede sgravi fiscali alle coop che assumeranno a tempo indeterminato rifugiati. Per il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, è "uno schiaffo in faccia ai milioni di disoccupati italiani". E promette: "È una delle prime porcate della sinistra che cancelleremo quando andremo al governo". Per Sandra Savino di Forza Italia la maggioranza a guida Pd è ormai "in stato confusionale". "Ci sarebbe da ridere - commenta - se non fossimo davanti a un Paese sempre più povero, a ragazzi che se ne vanno all'estero per trovare un lavoro e avere un futuro, a disoccupati in età adulta, a giovani famiglie che sempre meno hanno la stabilità per mettere al mondo dei figli". La parlamentare azzurra accusa la sinistra di avere dell'Italia un'idea in cui "i migranti hanno il posto fisso, mentre gli italiani disoccupati si rivolgono alle mense sociali". Arcore, presepe con il barcone. E Gesù nasce tra gli immigrati. Polemica ad Arcore per il presepe sul barcone con i migranti. La Lega Nord insorge: "Qualcuno cammina su sentieri non in linea con la storia della Chiesa", scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 22/12/2017, su "Il Giornale". Ancora una polemica sul presepe. Mancano appena tre giorni a Natale e ancora si combatte sui presepi realizzati da amministrazioni comunali e parrocchie. Questa volta succede ad Arcore, in Brianza. La parrocchia di Sant'Eustorgio, infatti, ha messo la natività in un barcone. E non solo un gommone, come successo a Castenaso in Emilia Romagna: stavolta oltre al bue e all'asinello ci sono anche i migranti. "Gesù è profugo tra i profughi, ultimo tra gli ultimi", hanno scritto gli autori vicino alla Natività. "Possiamo anche immaginare che al di là delle finestre in queste case ci siano dei presepi certamente belli, ma pur sempre finti. Il dramma in realtà accade fuori, il presepe vero è fuori". Dura la risposta della Lega Nord locale, che ha provocatoriamente realizzato un gazebo per esporre un piccolo presepe "tradizionale": capanna, Gesù, Giuseppe e Maria, pastorelli e via dicendo. Nessun migrante, insomma. "Non si può negare che il presepe predisposto nella parrocchia di Sant'Eustorgio ci abbia un po' intristito - scrivono su un post su Facebook i leghisti - Qualcuno sta camminando su sentieri che, a nostro parere, non sembrano essere in linea con la storia della Chiesa". E ancora: "Il presepe che abbiamo visto nella nostra chiesa non ha i nostri valori simbolici, quelli con cui siamo cresciuti e il messaggio che si vuole veicolare sembra non accorgersi che i poveri ci sono anche molto vicino a noi. Noi non crediamo che il messaggio della barca sia un messaggio di solidarietà, ci vediamo invece della strumentalizzazione politica da cui prendiamo le distanze".
Unicef, l'Ong più ricca d'Italia. Incassa 60 milioni all'anno. La costola italiana dell'agenzia Onu nel polverone per il tweet sullo ius soli. Ora rischia un calo di donazioni, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". L'Unicef Italia è una macchina da guerra nella raccolta fondi, oltre 60 milioni di euro nel 2016, ma con le stigmate dei grandi carrozzoni in salsa Onu grazie a 25,4 milioni di euro di spese. Ovviamente servono per attirare donazioni, ma quasi un terzo dei costi se ne va in stipendi e consulenze. Dopo la pesante discesa in campo di stampo politico a favore dello ius soli con un tweet ufficiale che bollava come idioti e fascisti i contrari si è scatenata la polemica sui soldi che ruotano attorno alla costola nostrana dell'organo sussidiario delle Nazioni Unite in difesa dell'infanzia. E i timori che possa influire negativamente sulle donazioni e la raccolta fondi. In rete si stanno moltiplicando le notizie vere e false sulle luci e ombre del Comitato italiano per l'Unicef. In realtà si tratta di una Organizzazione non governativa, che dal 1974 agisce per conto dell'agenzia Onu, soprattutto per raccogliere fondi, grazie ad un accordo di cooperazione. Il Giornale, per fare chiarezza è andato a scartabellare i bilanci scoprendo che lo scorso anno l'Unicef Italia è riuscita ad incassare ben 60.705.315 euro, soprattutto grazie a 313mila donatori. Non mancano diversi lasciti ed eredità per quasi 7 milioni di euro. Ed altri 6.131.277 sono arrivati dal 5 per mille. Le aziende come Ikea, Iveco, Scavolini, in passato Alitalia, banche varie, le assicurazioni Generali, Esselunga ed Euronics garantiscono in media sui 3-4 milioni di euro l'anno. Nel 2014 anche la Polizia di Stato si era mobilitata per Unicef Italia. Lo scorso anno a Unicef international sono stati trasferiti poco più di 35 milioni di euro per progetti in mezzo mondo a favore dei bambini. Non è chiaro dal bilancio quanti di questi soldi siano stati utilizzati in Italia, ma probabilmente una cifra poco importante rispetto ai progetti internazionali. Unicef solo da fine 2016 ha aperto un programma per i minorenni migranti e rifugiati che arrivano nel nostro paese. In Italia opera per l'infanzia anche «con programmi informativi ed educativi in migliaia di scuole di ogni ordine e grado» e altre iniziative. Ben più imponenti i programmi di vaccinazione in Bangladesh, gli interventi a favore dei minori migranti in Libia, i bambini assetati nello Yemen pubblicizzati sul sito e realizzati da Unicef international. Della campagna italiana ha cominciato a far parte la discesa in campo politica a favore dello ius soli. Il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini, ancora prima del contestato tweet è sempre stato molto schierato: «Doveva essere un gesto di civiltà come qualcuno ha detto tempo fa, invece si chiude nel modo più incivile possibile: lo ius soli non verrà approvato, basta ipocrisie elettorali». Dei 60 milioni raccolti grazie al buon cuore degli italiani vanno dedotte le spese, in costante aumento, che nel 2016 arrivavano alla bella cifra di 25.413.157 euro, cinque in più rispetto all'anno prima. Anche i dipendenti aumentano per un totale di 141 persone, che non risulta vadano a sporcarsi più di tanto le mani in giro per il mondo a favore dei bambini. Se sommiamo gli stipendi dei fissi, quelli dei due collaboratori e le consulenze si arriva ad un totale di 7.692.187 euro. I quattro dirigenti hanno uno stipendio lordo di oltre 6mila euro al mese, i 18 quadri poco più di 4mila e poi si varia da 2.814 ad un minimo di 1.842 euro. Solo per la voce «consulenze e servizi professionali», che sarebbe interessante analizzare nei dettagli, Unicef Italia ha speso quasi 900mila euro nel 2016, quasi il doppio rispetto all'anno precedente. I difensori dei bambini in Italia hanno acquistato a suo tempo una palazzina di 4 piani a Roma, oggi di proprietà di Unicef international. Il Comitato italiano per l'Unicef è di fatto l'ong più «ricca» del nostro paese.
Migranti, Frontex contro le Ong: "Sono colluse con gli scafisti". L'agenzia europea per le frontiere punta il dito contro chi salva le vite in mare: "Non contrastate il traffico clandestino di uomini." Gli accusati smentiscono tutto, scrive Ivan Francese, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". L'Agenzia Frontex per le guardie di frontiera e di guardia di frontiera accusa le ong impegnate nel soccorso in mare ai migranti di collusione con gli scafisti. La sconvolgente rivelazione, contenuta in alcuni documenti interni dell'Agenzia a cui ha avuto accesso il quotidiano britannico Financial Times, apre un gravissimo precedente nelle relazioni fra la polizia di frontiera dell'Ue e la pletora di associazioni umanitarie che da mesi lavorano instancabilmente al salvataggio delle vite in mare. Cinque, principalmente, le accuse rivolte alle ong: la collusione con i trafficanti di uomini, che prima di mettere in mare le imbarcazioni fornirebbero ai migranti l'esatta posizione delle navi delle ong; le istruzioni, impartite ai disperati ripescati dal mare, di non collaborare con le autorità di polizia; l'estensione del raggio delle operazioni fin sotto le coste libiche; il rifiuto di raccogliere prove necessarie per istruire azioni giudiziarie contro gli scafisti. Infine in almeno un caso una ong non meglio specificata è stata accusata di aver preso a bordo alcuni migranti direttamente da un barcone di trafficanti. Interpellate da Avvenire, le autorità di Frontex non hanno né commentato né smentito le indiscrezioni che sarebbero filtrate proprio dai loro documenti interni.
Le reazioni delle Ong. Molto più piccata la reazione delle ong chiamate in causa, che smentiscono con forza le accuse che le hanno raggiunte. Se tutti ammettono che gli scafisti stessi contano sull'intervento delle ong (come anche delle navi della Marina militare e della Ue) per rifornire i barconi con meno benzina e sempre più passeggeri, da Medici Senza Frontiere a Save the Children, tutti rivendicano il proprio impegno umanitario, senza alcun doppio fine politico.
Dalla Croce Rossa italiana, ad esempio, il direttore Francesco Rocca parla di "aggressione politica al lavoro degli operatori umanitari su politiche sbagliate dell'Unione Europea". "La mancanza di canali sicuri per i migranti è una vergogna - protesta Rocca - Quando arriva un barcone non li salviamo così la prossima volta gli scafisti sanno che noi europei non salviamo migranti?"
Migranti, sospetti sulle Ong: "Soccorsi su appuntamento". L'accusa di un think tank olandese che traccia via web la strana rotta di una nave della «flotta umanitaria», scrive Giuseppe Marino, Venerdì 24/02/2017, su "Il Giornale". Basta digitare il nome di una nave e il sistema ne traccia la posizione, la rotta e perfino la velocità. Usando uno strumento informatico sorprendente come «Marine Traffic», una specie di database interattivo di tutta la marineria mondiale, il think tank olandese «Gefira» ha tracciato per settimane gli spostamenti delle navi delle organizzazioni non governative che pattugliano il Mediterraneo centrale con una flotta di quattordici imbarcazioni, alcune dotate di droni. E secondo la fondazione olandese, nata dall'eredità di Franck Biancheri, padre del progetto Erasmus, alcune delle navi finiscono col dare una grossa mano agli scafisti. La loro missione sarebbe individuare gommoni carichi di disperati, prenderli a bordo e portarli in salvo. Nonostante il record di morti in mare del 2016, ben 4.500, si direbbe un obiettivo umanitario di indiscutibile valore. Ma il lavoro della fondazione Gefira solleva dubbi. Quesiti che si sovrappongono a quelli dell'agenzia europea Frontex, della polizia italiana e delle procure di Palermo e Catania che stanno indagando sul fenomeno, come rivelato ieri dal Giornale. C'è la questione di come si possa finanziare uno sforzo navale così imponente, ma non solo. Taco Dankers, attivista di Gefira, ha ricostruito i movimenti del 12 ottobre 2016 della «Golfo Azzurro», nave che batte bandiera panamense, ma gestita dalla Ong olandese Boat Refugee. Secondo Gefira l'imbarcazione parte fin dalla mattina in direzione della Libia diverse ore prima che venga lanciato alcun sos da gommoni di migranti. È solo intorno alle 19 che il centro di coordinamento marittimo di Roma segnala alla Golfo Azzurro, e ad altre tre «navi umanitarie», che c'è stato un sos da parte di una barca carica di migranti. Solo dopo le 21 avverrà l'operazione di salvataggio per 113 persone, con 17 dispersi. Altra stranezza segnalata da Gefira: un rimorchiatore italiano poco prima è partito da Mellitah in Libia e si è diretto verso il punto a 8,5 miglia nautiche dalla costa libica dove avverrà il salvataggio. Ma a 6 miglia dalla costa inverte la rotta torna indietro. «Impossibile che non abbiano avvistato il gommone in difficoltà», dicono da Gefira, avanzando un'ipotesi inquietante: che la barca italiana abbia lasciato al largo un qualche «carico» e che la Golfo Azzurro si sia mossa in anticipo sapendo cosa sarebbe accaduto. Un'ipotesi che necessiterebbe di ulteriori verifiche per essere confermata o smentita. Ma ci sono anche alcuni punti certi. L'imbarcazione viene soccorsa direttamente in acque territoriali libiche, una pratica che spinge i trafficanti a partenze sempre più improvvisate e pericolose, come sostiene anche Frontex. Secondo Gefira, però, il giorno dopo i giornali parlavano di soccorso «nello Stretto di Sicilia», il che farebbe pensare a un intervento ben più a nord di quel che mostra il sistema di tracciamento nautico. La Golfo Azzurro inoltre avrebbe potuto trasportare i migranti al porto più vicino, Zarzis in Tunisia, 65 miglia a ovest, anche se certamente non sarebbe stato approdo gradito a chi ha pagato migliaia di euro agli scafisti per arrivare in Italia. La Golfo Azzurro però li accontenta, portandoli in Italia, 275 miglia nautiche a nord. La notizia delle inchieste sull'attività delle Ong svelate dal Giornale intanto provocano reazioni politiche. La leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni ha annunciato un'interrogazione urgente al governo perché faccia luce sul fenomeno e verifichi «se c'è favoreggiamento dell'immigrazione clandestina».
Le immagini incastrano le ong. Così caricano i migranti vicino alla Libia. Il sistema di tracciamento delle navi mostra come le imbarcazioni delle Ong facciano la spola tra la Libia e l'Italia, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 15/03/2017, su "Il Giornale". A volte le immagini parlano più di mille parole. Pensate al caso delle navi delle Ong impegnate nel Mediterraneo nel soccorso dei migranti lasciati alla deriva sui barconi. Fino ad oggi molti avevano sollevato dubbi sulle attività di recupero in mare delle imbarcazioni umanitarie.
Ora quelle perplessità sono sostenute dalle immagini. E dimostrano come i soccorritori vadano a recuperare i migranti a poche miglia dalla costa libica.
L'accusa di Frontex. A settembre l'agenzia Frontex dell'Unione Europea accusò le Organizzazioni Non Governative di essere "colluse" con gli scafisti. L'addebito suonava più o meno così: i trafficanti prima di mettere in mare le imbarcazioni forniscono ai migranti l'esatta posizione delle navi delle missioni (Aquarius, Golfo Azzurro e altre), così da assicurare un rapido ripescaggio. Ovviamente le Ong, a partire da Medici Senza Frontiere fino ad arrivare a Save the Children, risposero piccate affermando che si trattava di una "aggressione politica".
Il business dei trafficanti. In realtà il tempo ha portato a galla una verità meno rosea di quella delineata dai vertici delle Ong. A febbraio Frontex è tornata alla carica, scrivendo nel rapporto 2017 che di fatto le navi umanitarie "aiutano i criminali a raggiungere i loro obiettivi a costi minimi, rafforzando il loro modello di business". Le operazioni umanitarie di salvataggio sono schizzate nel corso degli anni: appena 1.450 persone salvate nel 2014 a fronte delle 46.796 anime recuperate nel 2016. I trafficanti insomma preferiscono le missioni alle navi militari. Perché? La mancanza di coordinamento con le autorità Ue e il vizio delle Ong di spingersi anche oltre i limiti delle acque territoriali, secondo l'Europa sono un invito ai trafficanti a mettere in mare sempre più barconi, sempre più carichi e con meno benzina. Tanto - è il ragionamento - poco dopo la partenza i migranti vengono presi in carico dai soccorritori che li portano in Italia. Con l'unico effetto di aumentare i morti in mare.
Migranti, così i radar in mare incastrano le Ong. Lo scoop del Giornale. Il Giornale a fine febbraio ha rivelato i contatti tra scafisti e organizzazioni umanitarie. È stato proprio uno dei trafficanti, contattato al telefono, a confermare che se vai in Italia dalla Libia "ti vengono a prendere quelli delle missioni". Non è un caso dunque se ben due procure, sia quella di Cagliari che quella di Palermo, stanno indagando sulle Ong. Non solo. Alcuni hanno più volte sollevato la questione del porto in cui vengono sbarcati i migranti una volta tratti in salvo. Lo scalo "più vicino" non è di certo la Sicilia, né Lampedusa, visto che prima ci sarebbero i pontili della Tunisia o di Malta. Si tratta però di una questione di lana caprina: la convenzione di Amburgo del 1979 obbliga le navi a lasciare i naufraghi in un "luogo sicuro", che non necessariamente è il porto "più vicino". E così alla fine i disperati finiscono tutti in Italia. Contenta - si fa per dire - di accoglierli.
Il video di Luca Donadel. Ma torniamo alle immagini. Nei giorni scorsi lo youtuber Luca Donadel ha realizzato un video sulla sua pagina Facebook da due milioni di visualizzazioni e 62mila condivisioni. Un successo. Utilizzando il sistema informatico "Marine Traffic", Donadel ha tracciato gli spostamenti delle circa 14 navi umanitarie che pattugliano il Mediterraneo, "dimostrando" che vanno a recuperare i migranti a poche miglia dalla costa libica e fanno la spola con la Sicilia. Lo stesso esperimento venne fatto alcuni mesi fa il think tank olandese "Gefira". Le immagini parlano chiaro: le operazioni di salvataggio avvengono sempre nello stesso punto. Poco lontano da Tripoli. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.
“Io che l’ho visto, vi racconto il business dei profughi a Milano”. Parla Faustino Boioli, medico, assessore al Comune negli anni '90, ora alla guida di una onlus che offre assistenza medica gratuita ai clandestini: «Tra chi scappa dalle guerre si nasconde chiunque. Il terzo settore ci campa e le organizzazioni islamiche...», scrive Ugo Savoia su “L’Inkiesta” il 7 Dicembre 2015. Il 16 ottobre 2013 era un mercoledì e il termometro a Milano segnava 15 gradi (la minima aveva raggiunto i meno 8 nella notte), appena un paio di tacche sotto quella che viene considerata la media stagionale. Mentre alla Triennale veniva inaugurata la mostra sui primi cento numeri della Lettura, inserto domenicale del Corriere della Sera, nel piccolo Comune di Sedriano succedeva qualcosa a suo modo di storico: per la prima volta in Lombardia veniva sciolto un consiglio comunale a causa di accertate infiltrazioni mafiose. Ma non erano queste cose ad attirare l’attenzione dei milanesi. Chi si fosse trovato a passare dalla Stazione Centrale, non avrebbe potuto fare a meno di notare uomini, giovani donne e bambini appena sbarcati da un treno proveniente dalla Sicilia. Erano circa 150, forse 200 non di più, evidentemente stranieri (mediorientali? magrebini?) e se ne stavano lì nel mezzanino ad aspettare che qualcuno dicesse loro che cosa dovevano fare. Milano guardava in faccia per la prima volta le persone scappate dalle guerre e dalle cosiddette primavere arabe e quel manipolo di persone silenziose rappresentava il primo refolo di una tempesta che avrebbe portato qui almeno 85 mila rifugiati a vario titolo negli ultimi due anni. Fino ad allora il problema era stato gestito senza particolari problemi, anche per l’esiguità dei numeri. Ma quel giorno cambiò tutto, non solo perché il Comune fu costretto ad organizzare improvvisati punti di raccolta in cui offrire cibo e assistenza sanitaria – venne lanciato un appello alla cittadinanza perché contribuisse come poteva, in particolare con vestiti usati e coperte -, ma anche perché fu subito chiaro che stava cominciando una vera emergenza. E che il governo avrebbe pagato chiunque si fosse offerto per aiutare a gestirla. La diaria, garantita dalla prefettura, era (ed è) di 35 euro al giorno per ogni profugo. «Sì, quella fu una svolta. Perché prendeva corpo anche qui il business della gestione dei rifugiati. Lo stesso per intenderci che è emerso in dimensione ben più ampia dall’inchiesta Mafia capitale», dice Faustino Boioli, un signore milanese nato nel 1940 che nella vita è stato tante cose: medico, consigliere comunale prima per il Pci poi per il Pds, assessore tra il 1985 e il ’90, primario di Radiologia al Fatebenefratelli, associato dal 1999 alla sezione italiana di Medecins du Monde (organizzazione “cugina” di Medici Senza Frontiere), fondatore con un gruppo di colleghi dell’associazione Medici Volontari Italiani, onlus che offre assistenza medica gratuita a clandestini, esclusi o autoesclusi dalle cure mediche, e gestisce un poliambulatorio in via Padova. Quei rifugiati erano arrivati qui dalla Siria o dalla Tunisia grazie a qualcuno che aveva gestito i loro flussi dai Paesi d’origine facendosi pagare, come è noto, migliaia di dollari o di euro a persona. Erano vestiti abbastanza bene e molti di loro, specie i siriani, parlavano inglese. Erano arrivati a Catania e da lì, in treno, erano sbarcati a Milano per poi raggiungere altre destinazioni europee (Germania e Francia in particolare). Ma non fornivano documenti, non volevano essere registrati in alcun modo. «Fu subito chiaro – prosegue Boioli – che l’anonimato rappresentava una situazione pericolosa, perché in mezzo alle tante persone effettivamente fuggite dalla guerra, poteva nascondersi chiunque, terroristi compresi, o anche solo stuoli di furbi che pur non avendo lo status di profughi venivano trattati come tali. Con il passare dei mesi, l’aumento degli arrivi a Milano e in Lombardia ha raggiunto le dimensioni di business vero e proprio, soprattutto per piccoli alberghi e pensioncine che non navigavano in buone acque». «Fu subito chiaro – prosegue Boioli – che l’anonimato rappresentava una situazione pericolosa, perché in mezzo alle tante persone effettivamente fuggite dalla guerra, poteva nascondersi chiunque, terroristi compresi, o anche solo stuoli di furbi che pur non avendo lo status di profughi venivano trattati come tali». Basta far due calcoli. L’imponente numero delle persone da gestire fa sì che sia sufficiente offrire la propria disponibilità ad ospitarne una trentina a settimana per risanare il bilancio di un piccolo albergo o di una associazione assistenziale: 30 per 35 dà come risultato 1.050 euro al giorno. Facciamo che l’albergatore, o l’associazione, ne spendano 450 per garantire un letto e la prima colazione per tutto il gruppo (pranzo e cena vengono in genere forniti da altre organizzazioni): restano 600 euro al giorno, vale a dire 18 mila euro netti al mese. La permanenza media dei profughi è di circa 9 mesi, quindi basta moltiplicare per capire le dimensioni di un business che ha ampi margini di guadagno. «Ma non è soltanto questo il punto. La realtà è che più aumentavano i profughi mediorientali e più aumentava la presenza a Milano di Islamic Relief, ong inglese presente in tutta Europa per dare assistenza ai migranti di religione musulmane e per questo finanziata dalle istituzioni europee, nonostante si dica usi quei soldi per finanziare a sua volta Hamas e i Fratelli Musulmani». «Proprio alla luce di questa considerazioni, andrebbe chiarito che i profughi non sono da considerare tutti acriticamente dei santi - continua Boioli -. Gheddafi, per esempio, aveva svuotato le carceri libiche indirizzando i detenuti verso l’Italia. E io che sono un medico, non il confessore o l’amico di un rifugiato, sono disposto ad assisterlo a patto che rispetti le regole del nostro Paese, che non pretenda di essere trattato meglio dei cittadini italiani, magari giocando sui nostri sensi di colpa o sull’ingiustificato buonismo che ci caratterizza. Non dimentichiamo che molti di costoro sono in possesso di documenti rubati, cosa che rende impossibile la loro effettiva identificazione. Su questo bisogna essere inflessibili. La professionalità che noi mettiamo nell’assisterli o nel curarli non ha niente a che fare con il buonismo, che è tolleranza acritica di fenomeni e comportamenti che devono essere positivamente e qualche volta energicamente gestiti. La professionalità è la capacità di svolgere la propria attività con competenza ed efficacia: il cosiddetto buonismo è invece una fuga dalle proprie responsabilità in momenti critici, quando l’emotività prevale sulla razionalità».
Nel business dei profughi spunta un alfaniano che viaggia in Ferrari, scrive mercoledì 24 febbraio 2016 "Il Secolo d’Italia”. Si chiama Paolo Di Donato, è un ex consigliere comunale Ncd della provincia di Benevento e gestisce un business da 24mila euro al giorno su profughi e migranti. A scoprire il personaggio in questione è stato il Redattore sociale, in un’inchiesta ripresa da Mario Giordano per il suo libro in uscita dal titolo Profugopoli e riproposto da Il Giornale. La foto che immortala Di Donato accanto a una Ferrari è già diventata virale sul web. L’imprenditore e uomo politico sannita venne tirato in ballo dal Redattore sociale in un articolo del 4 novembre 2015. Documentava il business degli appalti sugli immigrati realizzati dal consorzio Maleventum di Benevento, evidenziando gravi carenze strutturali. Al Consorzio non la presero tanto bene. Questa la smentita del consorzio sannita: «Al momento ospitiamo 740 migranti in 12 strutture gestite da management qualificato e con 140 dipendenti tra cui addetti alla vigilanza, alla cucina, mediatori culturali, infermieri professionali, alle pulizie, regolarmente assunti a tempo indeterminato con Ccnl delle cooperative sociali. Oltre a 3 avvocati convenzionati per l’assistenza legale. Il Presidente del Consorzio non è Paolo Di Donato ma il sottoscritto, il Di Donato è il dirigente aziendale». A firmare la smentita è colui che risulta come amministratore unico: Elio Ouecthati. L’amministratore in questione ha 24 anni, un diploma alla scuola alberghiera, un laurea triennale in un’università telematica e la grande aspirazione di fare l’assistente amministrativo a scuola, come risulta dai concorsi pubblici ai quale ha partecipato recentemente e dei quali traccia su internet. Ambizione particolare per l’amministratore unico di una società che ha un giro d’affari di almeno 8 milioni l’anno. Ancora più curioso, inoltre, che lo stesso Di Donato, sul suo sito personale sostenga di essere «ideatore, creatore e gestore» dello stesso consorzio. Insomma, smentisce il suo “amministratore”. Tutto lecito, per carità, ma la vicenda di quest’uomo facoltoso che si occupa della gestione dei più sfortunati vale la pena di essere raccontata. Il consorzio Maleventum gestisce mille profughi. Ma chi è Paolo Di Donato? Ha 46 anni ed è stato anche consigliere comunale di Sant’Agata dei Goti (eletto nel Pdl poi passato in Ncd, quindi in una lista civica) fino al commissariamento del municipio avvenuto a settembre 2015. Ma è l’attività del consorzio Maleventum il suo fiore all’occhiello: «Operiamo con 15 Centri residenziali – si legge sul sito del consorzio Maleventum–nell’accoglienza di cittadini stranieri richiedenti asilo politico e profughi di guerra posti sotto protezione internazionale dal Governo Italiano. Disponiamo di 1000 posti letto in regime residenziale a disposizione del ministero degli Interni». Quel ministero diretto da Angelino Alfano, lo stesso partito del quale Di Donato è stato consigliere comunale.
Il business dell’accoglienza a spese nostre (e dei migranti), scrive Gian Antonio Stella il 9 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera”. Cos’hanno in comune le tarantelle di «Sicilia Bedda» e una coop toscana di derattizzazione? Niente, direte voi. Invece sono in qualche modo sorelle: hanno scoperto il business dei profughi. Capace in un caso di moltiplicare il fatturato fino a 126 volte (centoventisei!) in cinque anni. A spese degli italiani e dei profughi stessi. Che fosse un affarone si era già intuito leggendo la famosa intercettazione di Salvatore Buzzi, uno dei principali protagonisti di «Mafia Capitale»: «C’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». Il puzzle ricostruito pezzo su pezzo da Mario Giordano in Profugopoli (167 pagine, Mondadori) è però ancora più vasto e spesso ripugnante di quanto sapessimo. E accusa non solo gli «intrallazzatori professionisti, i truffatori patentati, i trafficanti di immigrati, i semplici furbetti di paese» che cercano di strappare più profughi possibili ai volontari veri, quelli che si dannano l’anima sul serio per aiutare il prossimo (come la mamma dello stesso Giordano, cui il libro è dedicato) ma il sistema. Compresi certi prefetti che, per liberarsi dell’ingombro, smaltiscono i nuovi arrivati consegnandoli a chi capita. Dice tutto la storia di Pasquale Cirella, ex-installatore di impianti idraulici del napoletano che dopo aver fondato con incerte fortune la «Family Srl» per la «gestione di alberghi, pensioni, ristoranti, pub, pizzerie…» cambia la «mission» scrivendolo anche a bilancio: «L’emergenza profughi è l’oggetto principale della nostra società». In alleanza con «New Family» di Daniela Carotenuto, già «Miss Paesi Vesuviani», ha fatto per anni man bassa di appalti. Passando tra il 2009 e il 2014 da 44 mila a 5 milioni e mezzo (abbondanti) di euro. Un exploit dovuto anche a come trattava i profughi: al «Di Francia Park», ristorantone per matrimoni poi sequestrato, ne aveva messi trecento su brandine accatastate nelle sale. «I soliti terroni!», dirà qualcuno. «Lady Finanza» Giannina Puddu da quarant’anni «vive e respira la Milano da bere: prima la Bocconi, poi PiazzaAffari» fino a «diventare presidente di Assofinance». Costruita una palazzina a Chieve (Cremona) «è riuscita a vendere solo due appartamenti» e che fa? Fonda la società «Garbata Accoglienza». Dodici giorni dopo, è «ritenuta dalla Prefettura adatta a gestire la drammatica emergenza dei profughi» e piazza i suoi nella palazzina vuota: «Dovevo pagare le rate del mutuo». Il Consorzio di cooperative McMulticons sta a Empoli e dintorni, tratta di «pulizie civili, industriali, sanificazione ambienti, derattizzazione» ed è legato a una Onlus che si occupa di carcerati. Che c’entrano i profughi? Ne prende in carico 141 e ne manda 36, denuncerà redattoresociale.it, in un «casolare diroccato in aperta campagna, a 5 chilometri da Castelfiorentino e lontano da qualsiasi centro abitato» con le «pareti ammuffite, i muri sgretolati, le cucine abbandonate, gli angoli pieni di sporcizia» e «due bagni per 36 persone». Due euro al giorno dello Stato vanno a ogni immigrato (sigarette) e gli altri (da 28 a 38, a seconda dei contratti) a chi gli dà da mangiare e dormire. «A Benevento la Prefettura si fida ciecamente di Maleventum. Non è un gioco di parole, è il nome del consorzio che raccoglie diverse cooperative cui sono stati affidati ben 770 profughi, un’enormità. “Sparsi in 13 centri diversi”». Incassi 2015? «Quasi 9 milioni di euro». La «mente è Paolo Di Donato, che non a caso si definisce “ideatore, creatore e gestore, con oltre 200 dipendenti, del consorzio”». Volete vedere il tipo? «Sul profilo Facebook si mostra a bordo di una Ferrari». In compenso, denuncia ancora redattoresociale.it, per una trentina di giorni, i circa 120 «ospiti» ammassati in una palazzina a Contrada Madonna della Salute «hanno bevuto e si sono lavati con acqua di pozzo». Elio Nave è titolare dell’Hotel Quercia di Rovereto: «Sono stato sempre leghista e sempre lo sarò». Il suo segretario Matteo Salvini spara più contro i profughi che contro gli affaristi? Lui applaude, ma ha spiegato al Corriere delle Alpi che il nuovo business va benissimo: «Non riuscivo a coprire le spese. Avevo già chiuso il ristorante. Poi avevo provato ad aprire una pizzeria…». Adesso è sempre completo: «Senza i profughi avrei dovuto chiudere». «Ospitare i profughi è il nostro nuovo modello economico» dice Giulio Salvi dell’Hotel Bellevue di Cosio Valtellino: «Ho già incassato 700-800.000 euro». Di turisti «non ne venivano più…». Vuoi mettere i profughi? «Ne hanno 70 a 37,5 euro al giorno», spiega Giordano, «Incassano 80.000 euro al mese. In cambio offrono camere modeste, un vecchio televisore e un menù basico, riso e pollo, piatto unico». Il Csfo di Monselice (Padova), fa corsi di formazione per buttafuori e per addetti alle pompe funebri ma non si fa scappare il business e prende in gestione «una cinquantina di immigrati, incassando per ognuno di loro un contributo pari a 34,89 euro al giorno». E dove li piazza? In una ex colonia a mille metri a Pian delle Fugazze. Un’interrogazione accusa: «degrado inaccettabile», «abisso di inciviltà», «bagni intasati», «allagamenti di corridoi»… Fra l’altro, racconta il libro, «vien fatto notare che a tutti gli ospiti sono stati consegnati all’inizio del soggiorno un piatto e due posate in plastica, genere usa e getta. Da mesi sono costretti a mangiare con quelli. Sporchi e rotti. Da far schifo». Ma che razza di società è? Sorpresa: «L’86 per cento del capitale è vincolato nel CalvetTrust, un fondo soggetto alla legge di Jersey». Un paradiso fiscale…
Il grande business dei profughi. Tra onlus senza scrupoli e professionisti a caccia di soldi, lo Stato butta via 61 milioni. E i tribunali sono intasati da migliaia di cause, scrive Luca Fazzo, Lunedì 02/03/2015, su "Il Giornale".
A. ha abbandonato il Gambia perché suo padre voleva a tutti i costi fargli fare incontri di boxe a mani nude. M. è scappato dal Mali perché tutte le notti gli appariva in sogno un diavolo che voleva fargli mangiare un piatto di riso: in Italia si sentirebbe più sicuro, perché - spiega - il diavolo non sa nuotare e non può raggiungerlo.
B. ha lasciato il Senegal perché era ricercato per avere disertato la leva per non stare lontano dalla nonna. Come migliaia di altri disperati, sono arrivati in Italia, hanno chiesto asilo, se lo sono visto respingere, perché era evidente che non c'era nessuno dei motivi umanitari, religiosi o politici che giustificano l'asilo. Ma non se ne sono andati. Hanno fatto ricorso. Il loro ricorso è andato a intasare le cancellerie dei tribunali. E soprattutto a ingrassare il business del «gratuito patrocinio», il capitolo di spesa che deve servire a dare assistenza legale ai cittadini indigenti, e che ormai viene assorbito in larga parte per finanziare i ricorsi dei profughi, veri o finti che siano, che accedono ai fondi pubblici senza sottostare a nessuno dei controlli che toccano agli italiani.
È un tema delicato, quello del grande affare dei ricorsi per ottenere asilo, e lo è per più di una ragione. In primis, perché lo sfondo è quello di drammi epocali e reali, di sventurati in fuga da guerre e persecuzioni reali tra cui si mimetizzano migliaia di furbacchioni. Più prosaicamente, perché intorno al business dei ricorsi si muove un mondo di onlus e di cooperative che pensano anche agli affari loro: costola di quell'universo venuto alla luce, prima ancora dell'inchiesta su Mafia Capitale, già in una serie di inchieste giornalistiche, come quella dell'Espresso nel 2012. E, ancora più tristemente, perché i fondi del gratuito patrocinio costituiscono la principale fonte di sostentamento di un numero consistente di avvocati che la crisi ha messo in difficoltà: «È diventata la loro cassa integrazione», sintetizza un magistrato di lunga esperienza. Sono questi avvocati, spesso emanazione delle onlus specializzate nell'accoglienza, a monopolizzare - o quasi - il business dei ricorsi. E a incassare per ogni ricorso, spesso stilato con la raffinata tecnica del copia-e-incolla, tra gli ottocento e i mille euro. Da moltiplicarsi per i tre gradi di giudizio. Anche se politicamente un po' scorretto, il tema del business dei ricorsi è noto da tempo agli addetti ai lavori. Tant'è vero che qualcuno ha iniziato a sollevarlo formalmente. L'Ordine degli avvocati di Roma ha iniziato a respingere una parte consistente delle richieste di gratuito patrocinio, perché prive dei requisiti fondamentali. Ma intanto la pratica va avanti, la cancelleria accetta il deposito del ricorso anche senza le marche da bollo, poi il giudice quasi sempre concede il patrocinio a spese dello Stato. Migliaia e migliaia di cause. Eppure spesso a spartirsi la torta è un nugolo ristretto di avvocati. A Roma gli iscritti all'albo sono venticinquemila: «Ma gli asilanti che ottengono il gratuito patrocinio - raccontano fonti interne al palazzo di giustizia - hanno sempre gli stessi avvocati: dieci, massimo venti. Sono quelli legati alle onlus presenti nei centri di prima accoglienza: l'Arci, la Caritas, il Centro Astalli dei gesuiti. La mattina quando si aprono le porte dei centri, gli avvocati sono già dentro, chissà come. Gli altri avvocati, quelli normali, entrano, e trovano i clienti già tutti accaparrati». L'intervento dell'avvocato è prezioso, perché consente all'immigrato di rimediare per tempo agli sbagli compiuti quando, al momento del primo impatto con le forze di polizia, ha fornito la prima versione della propria storia, riempiendo il cosiddetto «modello c3», primo impatto con la burocrazia italica. Nei ricorsi, la versione dei fatti spesso viene aggiustata e corretta. I numeri del contenzioso sono impressionanti. Nei dodici mesi dall'agosto 2013 al luglio 2014, le commissioni presso le prefetture hanno esaminato oltre 35mila richieste di asilo. Un po' più di 9mila sono state respinte, e gli interessati hanno fatto ricorso. Ma il problema è che a fare ricorso sono nella quasi totalità anche gli immigrati che si sono visti concedere protezioni meno generose dell'asilo, che dà diritto a cinque anni di permanenza nel territorio italiano, ed è stata concessa solo a 3.784 persone. Non si accontentano e fanno ricorso quelli che si sono visti concedere la «sussidiaria», che garantisce tre anni di soggiorno. E pure quelli della «umanitaria», che garantisce un solo anno. In tutto, oltre 30mila cause in Italia. Praticamente, tutte a spese dello Stato. La prima conseguenza è l'esplosione dei costi che la giustizia italiana deve sostenere per il «gratuito patrocinio». Le statistiche del ministero di via Arenula segnalano negli ultimi cinque anni un'escalation inarrestabile: dai 30 milioni spesi nel 2008 si è arrivati ai 61 milioni del 2013. I dati del 2014 ancora non ci sono, perché la massa è tale che molti tribunali ancora non sono riusciti a fornirli al ministero, ma la crescita continua. Sono dati complessivi, che non distinguono il patrocinio concesso a italiani e stranieri. Ma chi sta sul campo ha un polso chiaro della situazione: «I fondi per il gratuito patrocinio sono assorbiti quasi per intero dai richiedenti asilo», raccontano in tribunale a Milano. Il contenzioso è destinato ad aumentare, perché le commissioni territoriali hanno cominciato a stringere le maglie. Nel corso dello scorso mese di gennaio, tanto per dare un'idea, sono state presentate 5.407 domande di asilo in Italia. Ne sono state esaminate meno della metà, 2.503. E di queste ne sono state respinte ben 1.190, quasi la metà. Il 23% si è visto concedere la «umanitaria», il 20% la «sussidiaria». In pratica, solo il 6 per cento dei richiedenti ha ottenuto l'agognato asilo. Tutti gli altri faranno ricorso, perché non costa nulla e soprattutto perché rivolgersi alla magistratura consente di restare in Italia. Dal primo ricorso al tribunale, fino all'esito dell'ultimo in Cassazione, il cittadino straniero ha diritto al permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Non esistono dati statistici sulla durata di questi processi, ma è facile immaginare che non si arrivi molto lontano dai cinque anni. Nella sostanza, si ottiene quasi lo stesso risultato che si sarebbe ottenuto se le commissioni avessero concesso subito asilo. «Anche perché - spiegano in tribunale a Roma - dopo avere impugnato un provvedimento della commissione, si può chiedere alla commissione di esprimersi nuovamente. La commissione ribadisce il suo parere e si impugna anche quello, sempre a spese dello Stato. È come se si facesse causa quattro volte per riparare sempre la stessa portiera». Nel frattempo, il richiedente resta in Italia. Insomma, tanto varrebbe concedere l'asilo a tutti, il risultato sarebbe lo stesso ma si risparmierebbero una montagna di soldi e un sacco di lavoro. La normativa italiana, d'altronde, è indubbiamente garantista. In primo luogo perché a differenza di buona parte degli altri paesi europei assegna la competenza sui ricorsi alla giustizia ordinaria, e non a quella amministrativa. In secondo, perché - sulla base di precisi orientamenti della Cassazione - il ricorso viene valutato privilegiando il punto di vista dello straniero. «Potremmo dire - spiega un giudice milanese che da anni si occupa di questi ricorsi - che non è il richiedente a dover dimostrare la verità delle sue motivazioni, quanto lo Stato a doverne mettere eventualmente in dubbio l'autenticità». Un'inversione dell'onere della prova, dovuta indubbiamente a considerazioni umanitarie, che porta - anche se non esistono statistiche precise su questo dato - all'accoglimento di una larga parte dei ricorsi anche se non sono emersi fatti nuovi. La stessa documentazione che aveva portato le commissioni territoriali (di cui fa parte per legge anche un rappresentate del commissariato Onu per i rifugiati di cui era portavoce Laura Boldrini) a negare lo status, viene spesso considerata sufficiente dal giudice per la decisione opposta. In quelle carte, racconta chi per lavoro ci vive in mezzo, passa di tutto. Veri drammi individuali o collettivi, storie di fame e miseria, mode passeggere come quella dei senegalesi che proclamano in massa di essere sfuggiti all'arruolamento tra i ribelli del Kasamas. E persino chi candidamente chiede asilo in Italia visto che in patria lo ricercano per avere piazzato una bomba.
L’arrivo dei profughi diventa business. L’accoglienza dei migranti interessa anche cooperative di fuori provincia. Un consorzio di cooperative toscane aprirà due nuovi centri di ospitalità nei Comuni di Dego (foto) e Urbe, scrive il 10/06/2016 Silvia Campese su “La Stampa”. Le cooperative fuori regione iniziano a fiutare il business dei profughi anche a Savona. Lo dimostra il fatto che, oltre a due realtà, che già operano in provincia, una piemontese e una toscana, hanno partecipato al bando per il servizio di accoglienza dei cittadini stranieri 2016, indetto dalla Prefettura, diverse coop provenienti da altre regioni. Così, anche se la gara è stata vinta dall’autoctono Faggio, sul territorio la rosa dei nomi di chi gestisce l’accoglienza si sta ampliando. A partire dal consorzio Multicons di Montelupo Fiorentino che, il prossimo luglio, inaugurerà due centri, a Urbe e a Dego, destinati a ricevere 50 ospiti. Il settore cresce, sia in termini di arrivi che di offerta. Nel Savonese, con gli ultimi invii, il numero dei migranti raggiunge quasi le 600 unità, ma cresce, insieme, il numero di chi si propone come gestore. Per chi operi seriamente, il guadagno non può essere molto: nei 35 euro a profugo (per i minorenni la cifra è ben più ampia, dagli 80 ai 120) vanno conteggiati cibo e vestiario, assistenza sanitaria, corsi di lingua e attività mirate all’inserimento. I casi noti, per ora fuori Liguria, dimostrano come non tutti i gestori operino, però, in assoluta coscienza. Intanto, il Comune di Finale Ligure, con il progetto firmato da Arcimedia, si è classificato 42° a livello nazionale, primo in provincia, nell’ambito dei progetti Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati). Venticinque i profughi che, dal prossimo settembre, saranno ospitati nella casa madre delle suore «Figlie di Nostra Signora della Misericordia», in piazza Milano, a Finalmarina, ottenendo il finanziamento ministeriale per la progettazione, in partnership con il comune di Orco Feglino.
Gli ipocriti del business dei profughi. L'industria dell'immigrazione continua a sfornare morti annegati e buone intenzioni, che fioriscono a ogni naufragio senza che se ne venga a capo, scrive Piero Ostellino, Venerdì 18/09/2015, su "Il Giornale". L'industria dell'immigrazione continua a sfornare morti annegati e buone intenzioni, che fioriscono a ogni naufragio senza che se ne venga a capo. La prospettiva di risolvere il problema affondando i barconi, prima che diventino il mezzo di trasporto di migliaia di invasori dell'Europa, ha sollevato le reazioni indignate delle anime belle; reazioni che sono, poi, l'aspetto ipocrita di chi dall'immigrazione trae un qualche beneficio economico e sociale e a esso non vuole rinunciare. A nessuno è passato per la testa che fino a quando ci si indignerà alla prospettiva di debellare il traffico di immigrati con mezzi militari adeguati i mercanti di uomini continueranno a fare il loro sporco mestiere e l'industria dell'immigrazione continuerà a fiorire. L'ultimo a sollecitare l'Unione europea a provvedere è stato generosamente il presidente della Repubblica. Ma l'Ue non pare esserne interessata, né avere i mezzi per provvedervi. Sollecitazioni come quella del buon Mattarella rimangono intenzioni con le quali si fa qualche concessione alle coscienze emotivamente toccate da ogni naufragio e dai morti annegati che ne conseguono, senza che ne sortisca un qualche effetto. Invocare l'intervento dell'Ue è fiato sprecato e aspettarsi che qualcosa faccia almeno il nostro governo è tempo perso. La cruda verità è che sia l'Europa, sia il governo Renzi, per non parlare di quelli che lo hanno preceduto, non hanno formulato alcuna politica dell'immigrazione e sono stati colti di sorpresa dalla crescita esponenziale dei flussi migratori non sapendo palesemente come arrestarli. Troppi interessi ci sono dietro gli sbarchi perché gli inviti a fare qualcosa sortiscano un qualche effetto. Bisognerebbe prendere il problema per il collo, incominciando col formulare una politica di investimenti nei Paesi dai quali partono gli immigrati allo scopo di impedire di fatto che partano, offrendo loro opportunità di lavoro e di una vita decente in patria. Ma certe esperienze disastrose, e scandalose, del passato - quando la politica di cooperazione si era risolta in un finanziamento occulto dei partiti - lo sconsigliano. C'è già fin troppa dispersione di risorse finanziarie, che finiscono nel calderone della corruzione, per immaginare di ripetere certe esperienze. Così, rimane solo l'adozione di soluzioni radicali militari contro i trafficanti. Ma fino a quando solleveranno ondate di (finta) indignazione com'è accaduto negli ultimi giorni, anche questa soluzione resterà nel limbo delle cose da fare. Il probabile risultato sarà la colonizzazione dell'Europa a opera di un'immigrazione islamica o, peggio, l'aumento del terrorismo e della criminalità organizzata, la fine della nostra civilizzazione. I primi sintomi già si avvertono col cretino divieto di legge di aggiungere l'attributo islamico al sostantivo estremismo; poi verrà l'obbligo, anche alle donne di altre religioni, di indossare il chador che le donne musulmane già indossano sulle nostre strade; infine l'imposizione di una morale, quella islamica, diversa. Di fronte a tale catastrofica prospettiva la soluzione più logica sarebbe l'affondamento dei barconi prima che facciano il loro cattivo servizio e la condanna dell'industria dell'immigrazione. Ma l'Occidente democratico e cristiano ne avrà il coraggio e la forza, anche morale, necessari? C'è da dubitarne, almeno fino a quando ci saranno anime belle pronte a ipocritamente scandalizzarsene e a impedirlo, non per buonismo, come lo si definisce per comodità morale, bensì per interesse. In definitiva. L'industria dell'immigrazione è fatta di troppi interessi concomitanti perché la si possa debellare con le buone intenzioni e fino a quando non si andranno a colpire quegli interessi, non solo quelli degli scafisti, non se ne uscirà.
Soldi sulla pelle dei migranti, il business milionario dei palazzinari. Le Prefetture cercano case in cui accogliere i profughi, le coop cercano appartamenti. Qualche società immobiliare si è specializzata nel settore facendo da tramite tra cooperative e prefetture. E anche le agenzie sono entrate nel mercato, scrive Lidia Baratta l'11 Novembre 2016 su "L’Inkiesta”. Il malandato mercato immobiliare degli affitti ha trovato una nuova valvola di sfogo: fornire alle Prefetture case, ville, cascine e appartamenti per l’accoglienza straordinaria dei profughi. Con il ministero dell’Interno che da Roma preme per inviare migranti e richiedenti asilo nei comuni di tutta Italia, le Prefetture sembrano essere alla disperata ricerca di strutture in cui accoglierli, lanciando appelli ai proprietari privati. E gli immobiliaristi non si sono fatti attendere, irrompendo sulla scena: ci sono società che si stanno specializzando nel “settore”, facendo da punto di incontro tra affittuari e cooperative, e agenzie immobiliari che tra le varie possibilità illustrano ai proprietari anche la possibilità di accogliere i migranti. «Sempre meglio che tenere le case vuote», dicono. È il mercato, bellezza.
Le case per creare i cosiddetti Cas, Centri di accoglienza straordinaria, sono ricercatissime. Anche perché spesso si lavora sul filo dell’emergenza. E contando che si tratta di un incasso di 35 euro al giorno per migrante, di cui solo 2,50 euro vanno in tasca ai migranti, il bottino in palio per tutti è ghiotto. Il 16 novembre scade l’avviso pubblicato dalla Prefettura di Ferrara – nella provincia dove i cittadini hanno messo le barricate contro l’arrivo dei profughi – per raccogliere manifestazioni di interesse per l’utilizzo di immobili da destinare agli stranieri. «Si invitano gli eventuali interessati a manifestare a questa Prefettura la disponibilità di locare strutture e immobili», si legge nel documento. Lo scorso luglio dalla Prefettura di Lucca è arrivata una richiesta simile: «Chiunque detenga unità abitative situate nel territorio della provincia di Lucca ed intenda locarle per l’accoglienza dei cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale può segnalare la propria disponibilità» a un elenco di cooperative e associazioni cattoliche. Lo stesso hanno fatto Venezia, Fermo, Brescia, Lecco e Monza. La prefettura di Monza ha addirittura siglato un accordo con la federazione locale degli agenti immobiliari per la ricerca di soluzioni abitative adatte a ospitare i profughi. In Lombardia, la regione che oggi accoglie la maggiore percentuale di immigrati, la società immobiliare bergamasca Minerva Logistica srl, che si occupava della compravendita di immobili, negli ultimi anni si è specializzata nel mettere in contatto i proprietari immobiliari e le cooperative che si occupano dell’accoglienza. Una sorta di centrale di collocamento per migranti. Il nome della società si trova tra gli elenchi di aggiudicatari nei bandi per l’accoglienza di molte prefetture lombarde e anche emiliane, da Milano a Cremona, da Pavia a Piacenza. Minerva trova gli appartamenti e le coop che si occuperanno dei migranti, poi offre il “pacchetto completo” alle prefetture e vince i bandi. Un business da milioni di euro. Che a quanto pare non conosce appartenenze politiche. Visto che il factotum della società, quello che stringe mani e prende accordi, è un ex leghista, tale Bruno Bosatelli, sindaco del Carroccio del comune di Villa D’Ogna (Bergamo) per dieci anni, finito al centro di uno scandalo sollevato dalle Iene per una casa non pagata e costretto alle dimissioni dalla Lega Nord. Ora, nella sua nuova veste di imprenditore, si occupa delle relazioni con il pubblico per la Minerva. E pare essersi convertito, visto che trovare casa ai migranti è diventato il suo nuovo lavoro. È Bruno Bosatelli, secondo la ricostruzione fatta dal giornale locale L’Altomilanese, a presentarsi lo scorso 20 luglio al Comune di Magenta con un biglietto da visita della Minerva Logistica srl, parlando con il sindaco a nome della società dell’arrivo di un nuovo gruppo di profughi. L’immobile preso in gestione dalla società nel comune milanese, che già dal 2014 ospita un centinaio di migranti nell’ex ospizio della Curia, è un’ala di una cascina di campagna del Settecento. La Cascina Calderara, questo il nome della struttura, abitata da generazioni dalla famiglia Sangalli, è finita nelle offerte arrivate sulla scrivania della Prefettura di Milano. Una metà della struttura, dopo un fallimento societario di uno dei membri della famiglia, nel 2011 va all’asta e viene acquistata a metà del valore di mercato dalla Federico II srl di Legnano, posseduta per metà dal notaio milanese Claudio Letterio Scordo e per metà dalla società immobiliare Laviefuille srl. I tentativi di affittare l’ala della cascina non sono andati a buon fine, così l’immobile è finito nella mani della Minerva srl, che l’ha inserito nella rose di immobili offerti per il bando di gennaio 2016 della Prefettura di Milano. Costo del servizio di accoglienza migranti: 34,50 euro a testa al giorno (affidato prima alla coop La Cordata, poi a una coop del Consorzio Concordia di Chiari, Brescia). Il problema è che l’altra parte della cascina è abitata ancora dal signor Valter Sangalli e dalla sua famiglia, ignari fino all’ultimo momento del trasloco dei nuovi coinquilini. All’inizio si era parlato dell’arrivo di cento profughi, poi a settembre nella cascina sono arrivate 29 persone, 17 bambini e 12 donne, tutti provenienti dall’Eritrea. La proprietà della cascina è divisa in due. Ma l’ingresso, un portone di legno di fronte a una campagna sconfinata, è unico. Per la famiglia Sangalli e i profughi. Che condividono anche il cortile interno. Tanto che la Minerva srl, su richiesta dei Sangalli, ha ben pensato di dividerlo con una cinta di ferro sistemata su piloni di cemento. Come quelle che si usano per i lavori in corso. E sulle lunghe balconate della corte interna, un tempo comunicanti, hanno messo una struttura divisoria coperta di edera. Di qua ci sono i Sangalli, di là i profughi. E le differenze linguistiche non aiutano i rapporti di buon vicinato. Tranne tra i bambini, gli unici ad aver fatto amicizia. Ma la mattina i bambini eritrei, nonostante alcuni di loro siano in età scolare, a scuola non ci vanno. La struttura è tagliata fuori dal paese dalla strada statale, e nessuno dei profughi lascia mai quelle campagne per andare in centro. Di sera nella cascina si sentono i cani dei Sangalli abbaiare da un lato, e le urla dei bambini dall’altro. «Ho dovuto chiudere i cani perché loro hanno paura», dice la signora Sangalli. «La Minerva ci ha promesso che costruiranno un cancello definitivo, così potremo tornare a usare il nostro cortile come una volta». Se i centri di accoglienza, quelli grandi, sono al collasso, l’accoglienza di piccoli gruppi di profughi si può fare (ed è meglio) anche in appartamento. Le cooperative per poter partecipare ai bandi delle prefetture vanno alla ricerca di case sfitte da inserire nelle offerte. È una delle principale incombenze per loro al momento. Basta anche una cascina chiusa da anni in mezzo alle montagne piemontesi, come abbiamo raccontato. «Tanto questi prima abitavano nelle capanne», ha commentato un operatore durante una riunione. O un palazzone nascosto nel centro di Milano prima adibito a uffici, come è accaduto in via Balduccio da Pisa a Milano con il centro per migranti poi chiuso dagli ispettori ministeriali per le scarse condizioni igieniche. Si sottoscrivono i contratti tra privati e i profughi arrivano su ordine della prefettura. Dall’altra parte, i proprietari di case e palazzine sfitte, difficili da piazzare sul mercato, si stanno facendo avanti. Basta fare una telefonata a qualsiasi prefettura italiana e dire che si ha una struttura libera da mettere a disposizione per i migranti. I centralinisti ti mettono subito in contatto con il funzionario che se ne occupa. A questo punto, la prefettura fa da tramite e avverte le coop scelte per occuparsi dell’accoglienza. Le cooperative poi faranno un sopralluogo, il proprietario darà il suo prezzo per l’affitto e una volta raggiunto l’accordo si firma il contratto. Un normale contratto di affitto tra due privati, come accade nel libero mercato. Se poi l’immobile non è messo proprio bene, il prezzo può scendere. Ma l’alternativa per il proprietario sarebbe stata tenere la casa vuota. E in questo caso si può guadagnare anche di più: trattandosi di soldi pubblici, qualche proprietario ne approfitta. A Como, come hanno raccontato le cooperative davanti alla Commissione comunale sui servizi sociali, «se il valore di affitto è di 600 euro, te lo affittano a 800-900», e nel caso di urgenze si arriva anche a «1.500 euro al mese più le spese». Di quello che accade nell’immobile, delle lamentele degli eventuali vicini che non vogliono i profughi, della sistemazione degli edifici messi male e delle attività di formazione dei profughi dovranno occuparsene le cooperative titolari del servizio. Se mai se ne occuperanno. A Monza, invece, su richiesta della Prefettura, è stato sottoscritto un accordo con la provincia, la camera di commercio e l’associazione che riunisce 350 agenzie immobiliari locali (Fimaa). «Gli agenti immobiliari chiedono ai proprietari di mettere a disposizione gli alloggi sfitti per accogliere i migranti in attesa di protezione internazionale», spiega Beatrice Zanolini, dirigente della Fimaa Milano e Monza Brianza. «È una sistemazione temporanea, con un canone calmierato, non di mercato, e la Prefettura offre garanzie ai proprietari, assicurando un risarcimento nel caso di eventuali danni agli appartamenti». Certo, i proprietari sono sempre un po’ diffidenti davanti all’offerta, raccontano tutti. E convincerli è difficile. «Ma visto che il mercato delle locazioni è impantanato, anche per i tassi bassi offerti dalle banche per comprare una casa, occupare un appartamento sfitto anche per pochi mesi rappresenta comunque un guadagno, e si fa una buona azione», spiega Zanolini. Le cooperative che hanno sottoscritto l’accordo con la Prefettura e che gestiscono il servizio nella provincia sono il Raggruppamento di imprese Bonvena, e la Cooperativa sociale I Girasoli. Quest’ultima ha vinto bandi diversi centri in Lombardia, uno dei quali però lo scorso aprile è stato chiuso dalla Prefettura di Lecco perché non avrebbe rispettato gli standard minimi dichiarati al momento della gara. A Monza sono avvertiti.
L’industria delle frontiere: fondi europei ai colossi della difesa per bloccare i migranti. La sicurezza dei confini è un florido business che crescerà fino a 50 miliardi di euro nel 2022. Protagoniste le aziende del settore militare che forniscono tecnologia e attrezzature all’Unione europea per alzare muri e respingere i rifugiati. E nel bilancio 2017 sono pronti 300 milioni di euro per trasformare l’agenzia Frontex, scrive Michele Sasso il 22 novembre 2016 su "L'Espresso". L'emergenza migranti in Europa sta diventando strutturale. Così c'è chi moltiplica i propri affari e trova nuovi terreni di azione. Un apparato militare e industriale che utilizza e promuove tecnologie, prendendo di mira chi lascia il proprio Paese per raggiungere le nostre frontiere. Il ricercatore Mark Akkerman della ong olandese Stopwapenhandel, che ha curato il dossier “Borders Wars”, la chiama “industria delle frontiere”. Un’industria liquida ma pervasiva che tocca le reti che sfruttano i migranti, i governi, le imprese private che partecipano al controllo delle migrazioni. In cima ai bisogni dei Paesi europei c’è la volontà e la spinta politica al controllo: tutte le tecnologie sviluppate sono utili alla causa e il loro utilizzo genera guadagni milionari. Nel 2012 il mercato globale della gestione delle frontiere (considerando i soli confini terrestri e marittimi) fatturava circa 29 miliardi di dollari, e vedeva gli Usa in cima alla classifica. Nel 2009 il fatturato del business delle frontiere europee era stimato tra i 6 e i 8 miliardi di euro. E si stima che questo florido business crescerà globalmente fino a 50 miliardi di euro nel 2022. Coinvolte nel settore sono tutte le aziende del settore militare e della sicurezza che forniscono sistemi e attrezzature alle guardie di frontiera, tecnologie di sorveglianza per controllare i confini e infrastrutture informatiche per monitorare i movimenti delle popolazioni. Spesso si tratta delle stesse società che esportano e vendono armamenti ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa: armamenti che stanno alimentando i conflitti che obbligano profughi e rifugiati a fuggire dalle proprie case, come raccontato dall’Espresso lo scorso agosto per l’affaire Yemen. Tutti i big del settore come Airbus, Thales, Safran e Indra hanno approntato o ampliato il settore dei prodotti per la sicurezza e i rapporti con diverse piccole imprese specializzate nelle tecnologie informatiche. E anche il colosso italiano Leonardo-Finmeccanica ha identificato “il controllo delle frontiere e i sistemi di sicurezza” come uno dei principali settori per l’incremento degli ordini e dei ricavi. In particolare Leonardo-Finmeccanica insieme ad Airbus ha vinto contratti dell’Ue per rafforzare i controlli delle frontiere. Airbus è anche il vincitore dei maggiori contratti di finanziamento alla ricerca nel settore della sicurezza. Tra aziende non europee che hanno ricevuto questi fondi figurano anche alcune aziende israeliane: ciò è stato possibile a seguito di un accordo del 1996. Queste aziende hanno svolto un ruolo nel fortificare i confini di Bulgaria e Ungheria, grazie alle conoscenze tecnologiche sviluppate con l’esperienza del muro di separazione in Cisgiordania e del confine di Gaza con l’Egitto. L’azienda israeliana BTec Electronic Security Systems è stata selezionata da Frontex per partecipare al laboratorio svolto nell’aprile 2014 su “Sensori e piattaforme di sorveglianza delle frontiere”: l’azienda sottolineava che le sue “tecnologie, soluzioni e prodotti sono installati sul confine israelo-palestinese”. Alcune delle autorizzazioni all’esportazione verso i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa riguardano il controllo delle frontiere. Nel 2015, ad esempio, il governo olandese ha concesso una licenza di esportazione del valore di 34 milioni di euro alla Thales Nederland per la fornitura all’Egitto di radar e sistemi C3, nonostante le reiterate denunce di violazioni dei diritti umani nel paese. «Oggi è una pietra miliare nella storia della gestione delle frontiere», ha annunciato lo scorso 6 ottobre Dimitris Avramopoulos, commissario per le migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza, nel luogo simbolo che separa Bulgaria e Turchia: «In meno di un anno abbiamo creato una frontiera europea a tutti gli effetti e il sistema di guardia costiera. Questa è esattamente la risposta di cui abbiamo bisogno per la sicurezza e migrazione, sfide del 21° secolo». A un anno dall’annuncio del presidente Jean-Claude Juncker, che aveva dichiarato che lo spazio Schengen è sostenibile soltanto se i confini esterni sono effettivamente garantiti e protetti, è nata in tempo record la Guardia di frontiera e costa europea partendo dall’agenzia esistente Frontex. Il bilancio di Frontex tra il 2005 e il 2016 è aumentato del 3688 per cento, da 6,3 milioni a 254 milioni di euro. E con la crisi umanitaria del Mediterraneo dal 2014 è quasi triplicato, passando da 97 milioni ai 281 milioni di euro previsti per il 2017. Tra le voci di spesa maggiore nel bilancio 2016 ci sono 120 milioni per le “Joint operation”. Contemporaneamente ai nuovi Stati membri sono state richieste politiche di rafforzamento delle frontiere come condizione di appartenenza, creando così un mercato per ulteriori profitti. Il materiale acquistato o aggiornato con gli stanziamenti del Fondo per le Frontiere Esterne comprende22.347 sistemi di sorveglianza e 212.881 sistemi operativi. Per difendere la fortezza Europa ecco un pool di riserva rapida di almeno 1.500 guardie, un parco attrezzature tecniche come Eurosur, il sistema europeo che collega gli stati per il monitoraggio e la sorveglianza delle frontiere. La militarizzazione si manifesta anche negli scopi militari della “Forza navale dell’Unione europea - Mediterranea Operazione Sophia”, così come nell’impiego di militari su molti confini, tra cui quelli di Ungheria, Croazia, Macedonia e Slovenia. Nel frattempo, i paesi extra Ue sono stati spinti ad assumere il ruolo di avamposto di guardie di frontiera per cercare di impedire ai rifugiati di raggiungere i confini. Come gli accordi con la Turchia sui migranti, aspramente criticati dalle organizzazioni per i diritti umani, che negano l’accesso dei rifugiati in Europa e hanno accresciuto la violenza nei loro confronti. In cambio della decisione di accettare tutti i “migranti irregolari” giunti sulle isole della Grecia a partire dal 20 marzo scorso, Ankara si è assicurata sei miliardi di euro, tre subito altri tre entro la fine del 2018 per progetti di «salute, istruzione, infrastrutture, alimentazione e sostentamento per i rifugiati» . A manifestare contro la militarizzazione forzata in nome della sicurezza è il network europeo Frontexit , dal nome della campagna lanciata da un gruppo di ong italiane e straniere. «Rafforzando il mandato dell’agenzia Frontex Bruxelles mostra disinteresse nei confronti dei diritti umani e continua a non affrontare i problemi emersi dal contesto migratorio degli ultimi due anni», scrivono nel lancio della campagna. Le ong puntano il dito soprattutto sul respingimento dalle coste greche che prevede il mantenimento dei profughi nei campi e, man mano, la registrazione per i ricollocamenti in altri paesi. Sotto accusa anche i le norme che regolano il nuovo mandato, che dà troppa libertà agli operatori Frontex mentre non è prevista una forma di tutela per le eventuali vittime che si oppongono ai respingimenti forzati. «Mentre alle frontiere europee il numero dei morti e dei dispersi continua ad aumentare - denunciano in una nota - Frontex potrà ormai dispiegarsi più rapidamente alle frontiere esterne dell’Ue per bloccare il passaggio, rendendo il viaggio ancora più pericoloso. A dispetto delle decisioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo e del principio di non-respingimento, l’agenzia potrà trasferire le persone intercettate in porti designati come “sicuri” anche in Paesi non europei. Infine, l’agenzia potrà cooperare con un numero crescente di Paesi, alcuni dei quali noti per le loro violazioni dei diritti umani, senza alcun controllo da parte del parlamento di Strasburgo».
Così i giganti delle armi fanno affari con la militarizzazione delle frontiere. L'Europa blinda i confini con mezzi e soluzioni militari. Un affare miliardario, che ingrassa proprio le aziende di armamenti che alimentano i conflitti dai cui scappano i rifugiati. Ecco le accuse di un report appena pubblicato. Che chiama in causa anche Finmeccanica, scrive Stefania Maurizi il 4 luglio 2016 su "L'Espresso". Un business in piena crescita e che, con un cortocircuito perverso, alimenta e allo stesso tempo si nutre delle tragedie di decine di milioni di persone costrette ad abbandonare i propri paesi per sfuggire a guerre, dittature, violenza, povertà estrema. E' il mercato della messa in sicurezza delle frontiere dell’Europa, quelle che ogni giorno rifugiati e migranti cercano di superare, finendo respinti, detenuti in condizioni disumane o affogati in mare. Nel 2015 questo mercato valeva 15 miliardi di euro, entro il 2022 si stima che schizzerà sopra i 29 miliardi, mentre Frontex, la controversa agenzia europea per la gestione comune delle frontiere dell'Unione, è arrivata ad avere un budget di 238,7 milioni di euro contro i 6,3 del 2005, una cifra che segna un aumento del 3.688 percento negli ultimi undici anni. Chi si arricchisce grazie a questo business? I giganti degli armamenti e della sicurezza, come Finmeccanica, Airbus, Thales, Safran, Indra. E tre di questi Golia (Finmeccanica, Thales e Airbus) sono tra le prime quattro aziende esportatrici di armamenti in Medio Oriente e in nord Africa, alimentando così proprio quei drammatici conflitti da cui milioni di disperati fuggono. E' questa la realtà fotografata dal rapporto “Border Wars” delle organizzazioni “Transnational Institute” e “Stop Wapenhalden”, con sede in Olanda, e rilanciato in Italia dalla “Rete Italiana per il Disarmo”. Un rapporto che ricostruisce protagonisti, cifre e racconta la pesante azione di lobbying sulle istituzioni europee da parte di queste aziende della sicurezza e della difesa, smascherando l'ipocrisia che circonda il dibattito pubblico su migranti e rifugiati, in cui le responsabilità vengono troppo spesso scaricate su trafficanti e scafisti, anziché sui conflitti all'origine di questa tragedia e sui fabbricanti di armi che li alimentano. Nel 2015, secondo l'Alto commissariato Onu per i rifugiati, 65,3 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case o dai loro paesi a causa di conflitti e persecuzioni, una persona su 113 nel mondo, ventiquattro al minuto. La stragrande maggioranza di questi disperati si è riversata sui paesi confinanti, mentre si stima che solo un milione di loro abbia raggiunto l'Europa. «Nonostante ciò», scrivono i ricercatori olandesi nel loro report, «il dibattito sui media e nelle istituzioni europee è dominato da un panico senza precedenti. E il 2015 e il 2016 hanno visto una cupa corsa alla messa in sicurezza delle frontiere, con un crescente uso di mezzi e personale militare». Le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani avvertono da tempo che la militarizzazione dei confini non fermerà il flusso dei rifugiati e li costringerà invece ad affrontare rischi sempre maggiori, tipo quello di scegliere rotte sempre più rischiose, una scelta questa che ha trasformato il mar Mediterraneo in una trappola mortale: l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (International Organisation for Migration) ha stimato che nel 2015 sono morti o dispersi in mare 3770 migranti. Eppure, come nota il report, la risposta dell'Unione europea a questa tragica conta dei morti è semplicemente quella di aumentare la sicurezza delle frontiere. A parte i politici di estrema destra che incassano i dividendi elettorali della retorica xenofoba, uno dei maggiori beneficiari di questa risposta dell'Europa sono proprio le aziende europee di armamenti e sicurezza: Finmeccanica, Thales, Airbus, Safran, Indra. E' difficile conoscere con esattezza il valore del mercato della sicurezza delle frontiere, perché non è trasparente: tutto quello che abbiamo sono stime di aziende di consulenza come “Visiongain” e “Frost & Sullivan”. La prima valuta che nel 2015 il mercato ammontasse a 15 miliardi di euro e la seconda prevede che supererà i 29 miliardi entro il 2022. Airbus, che offre soluzioni che vanno dagli elicotteri ai sistemi di comunicazione e radar per il controllo delle frontiere, realizza ricavi di circa 200 milioni di euro all'anno con questo business. Finmeccanica l'ha individuato fin dal 2009 come uno dei settori prioritari e offre tecnologie che vanno dai sistemi biometrici per l'identificazione di migranti fino agli elicotteri AgustaWestland, usati in molti paesi europei e spesso acquistati proprio grazie ai fondi dell'Unione. Le tecnologie del gigante di piazza Monte Grappa sono anche utilizzate per il programma della Nato “Alliance Ground Surveillance” (Ags), una sofisticata rete di stazioni di rilevamento, sensori, sistemi di trasmissione ed elaborazione delle immagini raccolte dai droni, che entrerà in funzione nel 2017 presso la base dell'Aeronautica militare italiana di Sigonella, in Sicilia, e che, oltre a proteggere le truppe Nato, servirà a sorvegliare i confini. Thales si è buttata a capofitto in gare per la fornitura di sistemi satellitari e biometrici a paesi dittatoriali come il Turkmenistan e l'Uzbekistan. La multinazionale francese della difesa “Safran” si occupa di frontiere attraverso la controllata Morpho, particolarmente specializzata in sistemi biometrici. Nel 2015 il 9,2% dei ricavi della Safran è arrivato proprio dagli affari nel settore “identificazione e sicurezza”, per un totale di 1,6 miliardi di euro. Infine, l'azienda spagnola “Indra”, che opera nella difesa, sostiene di contribuire a proteggere oltre 5000 chilometri di confini in vari paesi ed è molto attiva nell'azione di lobbying a livello europeo e nell'incassare i fondi di ricerca. Oltre alle multinazionali europee della difesa, le aziende israeliane sono le uniche ammesse ai fondi europei per la ricerca nel settore, in virtù di un accordo del 1996 tra Unione europea e Israele. E capitalizzano la loro “reputazione” nel saper gestire le frontiere a rischio, come il muro di separazione della West Bank. Le tecnologie e le soluzioni israeliane nel settore vengono considerate affidabili in quanto hanno superato il test sul campo, al punto che nel 2015 Ungheria e Bulgaria hanno valutato di acquistare le recinzioni israeliane al prezzo di 1,9 milioni di dollari al chilometro. Oltre alle barriere fisiche, Israele offre soluzioni cyber come quelle dell'impresa “Elta”, controllata dell'azienda di stato Israel Aerospace Industries: Elta vanta un sistema di controllo delle frontiere basato sulla sorveglianza elettronica di social network e telefoni, due sistemi efficienti per localizzare i rifugiati e spiarli efficacemente e con poche risorse. A partire dal 2002, l'Europa ha finanziato 56 progetti di ricerca nel settore della protezione delle frontiere, per un totale di oltre 316 milioni di euro e tra i maggiori beneficiari di questi fondi ci sono proprio aziende come Finmeccanica, Airbus, Indra, Thales, Safran, presenti in gruppi di lobbying come la “European Organisation for Security” (Eos), guidata da Andrea Biraghi di Finmeccanica, che insieme con la “Aerospace and Defence Industries Association of Europe” (Asd) e il think tank “Friends of Europe” sono le organizzazioni più attive nel fare pressione sull'Unione per la messa in sicurezza delle frontiere. Non esiste un quadro completo dei costi di queste spese di lobbying, ma secondo i dati del registro europeo sulla Trasparenza (EU Transparency Register), negli ultimi 5 anni Airbus ha speso 7,5 milioni di euro, Safran 2 milioni e Finmeccanica e Thales un milione ciascuno. Ma mentre i lobbyisti della militarizzazione delle frontiere hanno gruppi di pressione dotati di enormi risorse e godono dell’accesso diretto ai policy-maker dell'Unione Europea, Ong e società civile sono praticamente tagliate fuori e impotenti. Come fa notare il professor Hein de Haas, già direttore dell'International Migration Institute dell'università di Oxford, «un sacco di soldi vengono destinati al controllo delle frontiere, ma questa scelta non va al cuore delle cause dell'immigrazione. Al contrario, va a favorire due gruppi: i trafficanti e l'industria del controllo delle migrazioni, mentre la sofferenza e i morti alle frontiere di migranti e rifugiati aumentano». Per cercare di fare luce sulle spese per gli armamenti alla base dei tanti conflitti che creano la tragedia dei rifugiati, la Rete Disarmo, che in Italia ha rilanciato il report “Border Wars”, punta a creare MIL€X, un osservatorio italiano indipendente che punta a raccogliere e ad analizzare dati oggettivi. «La produzione di armi e di tutti i sistemi correlati», dichiara a l'Espresso Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, «si regge sulle spese militari dei governi. Sono loro i principali acquirenti. Ed è per questo che è fondamentale capire precisamente estensione, tipologia e dinamiche della spesa militare, a partire da quella italiana». Con un gigante in casa come Finmeccanica, di un osservatorio indipendente come MIL€X l'Italia ha tremendamente bisogno.
L’ISLAM ED IL VELO DELLA DISCORDIA.
In Turchia anche per le soldatesse cade il "divieto di velo". L'esercito era rimasto l'ultima istituzione a obbligare le donne a non portare il velo, scrive Andrea Cortellari, Mercoledì 22/02/2017, su "Il Giornale". Si conclude con una decisione annunciata questa mattina dal ministero della Difesa un processo iniziato in Turchia molti anni fa, con il quale il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) del presidente Erdogan ha sdoganato nuovamente l'utilizzo del velo anche in pubblico. Da oggi anche le soldatesse, siano esse ufficiali, sottoufficiali o cadetti dell'accademia militare, potranno servire il proprio Paese senza dover per questo togliere quel velo che ne mostra chiaramente l'identità religiosa. A patto che sia portato sotto il berretto, sia dello stesso colore delle uniformi e non presenti disegni di alcun tipo. Una novità, quella che riguarda l'istituzione da sempre considerata bastione del secolarismo in Turchia, ma la cui composizione è molto cambiata negli ultimi anni, che arriva nell'ambito di un processo più ampio, durato a lungo. Il divieto era già caduto per le donne della polizia, e ancor prima per i campus universitari e per una serie di altre istituzioni pubbliche, ma pure - provocando non poche polemiche - per le alunne sopra i 10 anni, tra grandi dibattiti con chi riteneva che si stesse violando quel carattere di secolarismo sancito dalla Costituzione come inalterabile.
Il velo "sbarca" in politica. Se nel 1999 aveva fatto scalpore il caso di Merve Kavakçı, deputata a cui lo stesso primo ministro dell'epoca aveva impedito di giurare con il velo in testa, oggi a portarlo sono molte delle donne dell'Akp, ma anche Hüda Kaya, parlamentare dell'opposizione filo-curda. Retaggio dei primi anni della Repubblica, il "divieto di velo" fu implementato chiaramente per la prima volta dopo il colpo di Stato degli anni Ottanta. Le riforme volute da Mustafa Kemal Atatürk avevano sì proibito l'uso di alcuni capi d'abbigliamento, come il tradizionale fez per gli uomini, ma avevano di fatto lasciato alle donne la libertà di scegliere se abbandonare o no il velo, spingendo tuttavia per la seconda opzione, come segno di distacco dal passato ottomano. Nei decenni successivi la questione è rimasta attuale, cambiando però significato e diventando terreno di scontro politico con l'emergere in politica di un'ala destra islamica conservatrice. L'opposizione laica ha spesso denunciato l'atteggiamento più rilassato nei confronti del velo come un tradimento dei principi della Repubblica turca e un tentativo di "islamizzare il Paese", ma dall'altra parte l'Akp e l'elettorato più religioso hanno sempre sostenuto di essere stati trattati a lungo come cittadini di secondo grado.
Velo e sport. Segno di come i tempi siano cambiati, ma il tema sia tuttora controverso, è l'attenzione dedicata solo pochi mesi fa dai media a Kübra Dağlı, campionessa turca del team di Taekwondo, di ritorno dai mondiali di Lima con cinque ori, quattro argenti e sette bronzi. "Non parlano del mio successo, ma del mio velo - aveva accusato sui social media la campionessa -. Si dovrebbe parlare del nostro successo. Ci siamo impegnati tanto e abbiamo reso il nostro Paese e il nostro team campioni del mondo". In quell'occasione le critiche, raccontava su Al Monitor Riada Asimovic Akyol, arrivarono più da alcuni tra i circoli più conservatori, che non la trovavano abbastanza "modesta", piuttosto che dalla parte laica del Paese.
Femministe sì, ma con il velo. È polemica sul caso delle rappresentanti del governo svedese in visita in Iran, che hanno accettato di coprirsi il capo pur di non entrare in conflitto con le autorità locali, scrive Francesca Sforza il 14/02/2017 su "La Stampa”. “Siamo un governo femminista e questa foto lo dimostra”, aveva dichiarato non più di dieci giorni fa la vicepremier svedese Isabella Lovin, mentre firmava un importante provvedimento per ridurre le emissioni di gas nocivi entro il 2045, circondata da sette sue colleghe ministre di cui una chiaramente incinta. La foto aveva superato i confini della Svezia perché alcuni grandi giornali internazionali, tra cui il Guardian, vi avevano visto una chiara reazione di sfida all’amministrazione di Donald Trump, che pochi giorni prima aveva firmato invece un provvedimento contro l’aborto, circondato da soli uomini. Ieri il governo femminista svedese è tornato a far parlare di sé, stavolta però finendo sotto una pioggia di critiche. La prima goccia è arrivata dal tweet di Hillel Neuer, direttore dell’ong Un Watch con sede a Ginevra: “La marcia della vergogna: le svedesi del primo governo femminista sfilano velate davanti al presidente iraniano Rohani”. A seguire un articolo di denuncia, in cui si esprimeva disappunto e sconcerto per “il primo governo femminista” che in palese tradimento dei suoi stessi principi si presentava incappottato e a capo coperto “in ossequio a leggi oppressive che rendono obbligatorio l’uso del Hijab”. La ministra del commercio Ann Linde, che guidava la delegazione svedese a Teheran, ha risposto che l’unica alternativa alla violazione della legge iraniana sarebbe stata mandare una delegazione di soli uomini, quindi piuttosto che creare una tale incresciosa situazione, si è preferito piegare il capo, e velarlo. Qualche tempo fa l’attivista iraniana Masih Alinejad, in un video, aveva chiesto alle donne occidentali rappresentanti delle istituzioni di non sottostare all’obbligo del velo: “Non si può essere così ipocriti da voler mettere al bando il burkini in Francia - spiegava Alinejad nel suo appello - e poi accettare l’obbligo di velo se si va in visita in Iran a parlare di affari”. Oltretutto si tratta di un obbligo religioso in Iran e Arabia Saudita, di una consuetudine severamente conservata, non di un principio inviolabile del diritto internazionale. E non le parlate di rispetto per la cultura altrui, perché vi risponderà che quella del velo non è la sua legge, né tantomeno la sua cultura. A differenza delle femministe alfa, però, Masih e molte altre donne come lei, con l’obbligo di velo sono costrette a conviverci. Anche grazie a chi non si ribella (alla fine, cosa sarebbe successo mai?)
La sottomissione della Svezia: le ministre in Iran con il velo. Il governo di Stoccolma si proclama «femminista» Ma nessuna delle 11 donne politiche ha osato ribellarsi, scrive Roberto Fabbri, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". C'è modo e modo di sottomettersi alla subdola e pervasiva penetrazione islamica in Occidente. La lusinga del denaro in arrivo dai regni arabi inzuppati di petrolio corrompe gli intellettuali (versione Houellebecq); la prepotenza esercitata a tappe da aspiranti sultani sottrae libertà e impone costumi a popoli che si ritenevano a torto irreversibilmente occidentalizzati (versione Erdogan); l'odio di antica data verso il nostro mondo (la «oicofobia» ben definita da Finkielkraut) spinge i sessantottini ingrigiti e i loro più giovani eredi del «pol.corr.» a giustificare le peggiori violenze perpetrate contro le donne e la libertà religiosa. Sono solo alcuni dei tanti esempi possibili, ma il più imbarazzante è certamente quello offerto dai politici che predicano bene (secondo loro) ma razzolano malissimo (sotto gli occhi di tutti). È successo in questi giorni in Iran, ad opera di una delegazione svedese di primissimo livello, guidata personalmente dal primo ministro, il socialdemocratico Stefan Löfven. Il premier, che a Stoccolma guida un governo di coalizione con i verdi, va fiero della propria aderenza ai valori della sinistra e pertanto si proclama orgogliosamente femminista. Per buon misura, a suo tempo mise in chiaro che anche la politica estera del suo Paese avrebbe dovuto ispirarsi ai princìpi del femminismo. Coerente con le sue «buone prediche», alcuni giorni fa Löfven è partito per Teheran con una delegazione governativa composta da 15 persone, 11 delle quali erano donne. Tutto molto femminista, non fosse per il fatto che nella capitale iraniana queste orgogliose politiche scudo dei diritti delle donne in tutto il mondo (famosa la recente foto del ministro Isabella Lovin con uno staff tutto al femminile per protesta contro il maschilista Donald Trump) si sono fatte serenamente fotografare velate «per quasi tutto il tempo», come ha scritto indignato il quotidiano svedese Expressen. Il «pessimo razzolamento» delle donne politiche venute dal politicamente correttissimo profondo Nord ha subito alimentato polemiche feroci in Svezia. Dove ha fatto un pessimo effetto vedere la nutrita quota femminile della delegazione, ricevuta anche dalla «guida spirituale» iraniana ayatollah Khamenei, indossare senza eccezione alcuna l'hijab d'ordinanza. Che per le donne locali è un obbligo che viene fatto osservare anche con le cattive maniere dall'occhiuta e violenta polizia religiosa, mentre per le politiche in visita è un'indicazione di legge che può rappresentare un'ottima occasione (specie per chi si proclama femminista) per mostrare - rifiutandola - una schiena diritta. Ora, sarà perché a Teheran c'erano in ballo commesse miliardarie per i grandi gruppi industriali svedesi, o forse perché è più facile fare sceneggiate con Trump che con Khamenei, sta di fatto che quelle schiene sono rimaste ben piegate. Lo ha fatto notare, giustamente irata, la giornalista e attivista Masih Alinejad, una donna coraggiosa che in Iran ha creato una pagina Facebook dove si invitano le donne a condividere foto a capo scoperto. «Rispettando le direttive della Repubblica islamica le donne occidentali legittimano l'obbligatorietà dell'hijab. Questa è una legge discriminatoria e non si tratta di una questione interna quando la Repubblica islamica costringe tutte le donne a indossarlo». La ministra del Commercio Ann Linde se l'è cavata rispondendo che «la legge in Iran dice che le donne devono indossarlo, difficilmente si può andare lì e violare la legge». Difficilmente, appunto. Ma da italiani ricordiamo che Oriana Fallaci si strappò il velo davanti al leader della rivoluzione islamica, chiamandolo «stupido cencio da Medioevo». E l'ayatollah Khomeini abbozzò. Certo, ci voleva coraggio.
Niente velo, Le Pen si ribella all'islam. La leader del Front National rifiuta il copricapo: salta l'incontro con il Gran Mufti libanese, scrive Francesco De Remigis, Mercoledì 22/02/2017, su "Il Giornale". «Un magnifico messaggio di libertà ed emancipazione inviato alle donne francesi e di tutto il mondo». Florian Philippot, braccio destro di Marine Le Pen, commenta via Twitter il gran rifiuto della leader del Front National, definito dalle autorità religiose sunnite libanesi un gesto «inappropriato». Nel Paese dei Cedri per una visita di tre giorni, BleuMarine avrebbe dovuto incontrare ieri il gran muftì della Repubblica, Abdellatif Deriane. Tutto organizzato da giorni. Ciliegina sulla torta di una tappa internazionale con cui forzare il ruolo di candidata all'Eliseo ricevuta con attenzioni da capo di Stato: dal premier Saad Hariri al presidente cristiano maronita Michel Aoun. A loro aveva ribadito l'impegno della Francia come potenza amica e protettrice del Libano nonostante il passato colonialista. Mancava solo la stretta di mano con la più alta autorità sunnita del Paese. Al momento di entrare nella sede religiosa, un collaboratore dello shaykh le pone però un foulard, invitandola ad indossarlo. «Potete trasmettere i miei ossequi al Gran Mufti ribatte Le Pen ma io non mi coprirò mai». Tra imbarazzo e sconcerto, il messo insiste, spiegando che quella è la prassi e non è mai stata fatta eccezione. «La più alta autorità sunnita del mondo non ha avuto tale esigenza, quindi non c'è ragione. Ma non importa, dite al gran muftì che non metterò il velo». È ancora sull'uscio della moschea Aïcha Bakkar di Beirut, quando gira le spalle e va via con lo staff. Le Pen cita la visita in Egitto del 2015 e l'incontro con Al-tayeb, imam di Al-Azhar. L'ufficio libanese insiste: «È risaputo, ogni volta che si visita il muftì bisogna indossare il velo». Parlano di «comportamento inadeguato al contesto» e «di aver avvertito in tempo lo staff di Le Pen». «La richiesta è arrivata ieri (lunedì, ndr) e abbiamo fatto sapere che non lo avrebbe indossato», ribatte il suo entourage. Caso chiuso? Neanche per sogno. In conferenza stampa la presidente del Front National spiega: «Non hanno annullato l'incontro, ho creduto che avessero accettato la mia decisione. Invece hanno cercato di impormelo mettendomi di fronte al fatto compiuto. No, grazie». Messaggio di libertà o mossa elettorale, il gesto la accomuna ad altre donne che hanno deciso di non sottomettersi in occasioni simili, da Michelle Obama a Theresa May, fino alla duchessa di Cornovaglia Camilla Parker Bowles, oltre alla ministra della Difesa tedesca Ursula von der Leyen che in Arabia Saudita rifiutò di indossare velo e abaya. Marine ha dunque girato i tacchi visitando il patriarcato maronita a Bkerké, a nord di Beirut, guidato da Bechara Raï. Un omaggio alla cultura libanese della «moderazione creata da cristiani e musulmani». Poi l'incontro con Samir Geagea, della destra cristiana, ostile al presidente siriano Assad, indicato invece da Le Pen come «la soluzione più rassicurante» per la Francia contro lo Stato islamico. Neppure il leader del partito cristiano Kataëb, Sami Gemayel, apprezza la difesa di Assad. «Non si combatte l'estremismo sostenendo una dittatura». Ma la posizione lepenista è chiara: «Ascoltate i siriani e vedrete che ciò che si aspettano è che Assad vinca contro i fondamentalisti», ha detto a Le Figaro. In Libano sono oltre un milione i profughi dalla Siria. La sicurezza del nord è messa a dura prova. Insistendo sul dialogo con Assad, Le Pen si sgancia dalla posizione di François Hollande, che la attacca indirettamente parlando di «populisti che vanno contro l'interesse della nazione che pretendono di rappresentare».
«Legittimo vietare il velo islamico sul lavoro», la sentenza Ue che fa discutere l’Europa. Due casi di licenziamento in Belgio e Francia. La Corte di giustizia di Lussemburgo dà ragione alle aziende, scrive Ivo Caizzi, inviato a Bruxelles, il 14 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. La Corte europea di giustizia di Lussemburgo ha sentenziato che un’azienda privata può istituire una norma per vietare a una dipendente di portare il velo islamico durante i contatti con i clienti. Per gli eurogiudici, però, la legittima esigenza di neutralità dell’impresa non deve essere attuata in modo discriminatorio. Le restrizioni devono quindi valere per tutte le convinzioni politiche, filosofiche e religiose. Inoltre, in mancanza della specifica norma, il datore di lavoro non può accogliere la richiesta di un cliente di non affidare la fornitura dei servizi a una dipendente con velo islamico.
Il caso principale nasce in Belgio nel 2003, quando l’impresa G4S assunse Samira Achbita di fede musulmana come receptionist destinata al ricevimento e all’accoglienza dei clienti del settore pubblico e privato. Una regola non scritta interna alla G4S vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Nell’aprile 2006 la signora Achbita informò il datore di lavoro di voler indossare il velo in servizio. La direzione aziendale le comunicò che non sarebbe stato tollerato in quanto in contrasto con il principio di neutralità. Il mese successivo, dopo un periodo di assenza per malattia, la dipendente rese noto ai superiori che sarebbe rientrata indossando il velo. Il 29 maggio 2006, il comitato aziendale della G4S approvò una modifica del regolamento interno, che introduceva il «divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi». A causa del perdurare della volontà di Achbita di indossare il velo sul lavoro, arrivò il licenziamento, poi contestato davanti ai giudici belgi. Il lungo iter giudiziario è arrivato fino alla Cassazione, che ha rinviato al massimo livello degli eurogiudici di Lussemburgo. Al procedimento di Achbita è stata aggiunta la denuncia simile in Francia della signora Asma Bougnaoui contro l’impresa privata Micropole. In questa vicenda è sorto il dubbio che possa essere prevalsa l’attitudine negativa del cliente nei confronti della dipendente con velo islamico.
La Corte europea ha così concluso che il divieto di coprire il capo con un velo islamico, se scaturisce da una norma interna applicabile a chiunque indossi in modo visibile simboli politici, filosofici o religiosi sul luogo di lavoro, «non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi della direttiva». Una «discriminazione indiretta» si realizzerebbe qualora venisse dimostrato che l’esigenza di neutralità dell’impresa sia stata attuata solo per i dipendenti aderenti a una determinata religione o ideologia. L’eurosentenza appare ora destinata a diventare il precedente di riferimento per i casi simili nei 28 Paesi membri dell’Ue.
L'Europa toglie il velo all'islam «Sì al divieto sul posto di lavoro». La Corte di giustizia Ue: non è discriminatorio impedire che si indossino segni religiosi nelle aziende private, scrive "Il Giornale" Mercoledì 15/03/2017 su "Il Giornale". In Italia il principale ostacolo a qualsiasi legge su «velo», «burqa» e «niqab» è sempre stato un Partito Democratico schierato a parole per la difesa a oltranza dei diritti della donna, ma nei fatti sempre pronto a tutelare le discriminazioni imposte a mogli e figlie dai fedeli dell'Islam radicale. Tutti coloro che nel Pd, e più in generale a sinistra, si considerano paladini dell'universo femminile faranno bene a leggersi la sentenza sull'uso del velo nei posti di lavoro emanata ieri dalla Corte Europea di Giustizia. La sentenza riconosce il diritto di licenziare chiunque s'ostini ad indossare il velo ignorando eventuali ed esplicite proibizioni previste dai regolamenti interni. La possibilità di licenziamento riguarda solo le dipendenti in contatto con il pubblico, ma rappresenta un passo in avanti verso l'abolizione di burqa, niqab, veli e hijab in uffici e luoghi pubblici. Secondo la Corte di Giustizia Europea imporre delle regole interne che vietano «qualsiasi manifestazione politica, filosofica o religiosa» non rappresenta, infatti, una «diretta discriminazione». La sentenza arriva dall'esame dei casi di due donne licenziate in Belgio e Francia per essersi rifiutate di seguire le regole imposte dalle aziende per cui lavoravano. La Corte si sofferma in particolare sul caso della musulmana Samira Achbita assunta nel 2003 come impiegata ricezionista dalla compagnia di sicurezza belga G4s. La ditta già allora vieta ai dipendenti, seppur senza una regola scritta, d'indossare capi d'abbigliamento in grado d'evidenziare un manifesto orientamento politico o religioso. Nel 2006 - quando Achbita afferma la volontà d'ignorare le richieste aziendali e indossare il velo - il divieto viene formalmente inserito nei regolamenti aziendali. E il mancato rispetto di quei regolamenti viene utilizzato per metterla alla porta. Una cacciata ritenuta assolutamente giustificata dalla Corte di Giustizia dal momento che il regolamento riguardava tutti i lavoratori e non prevedeva discriminazioni esplicite nei confronti della sola Achbita o di altri singoli lavoratori. «Tale disposizione interna - recita la sentenza- non introduce differenze di trattamento basate direttamente sulla religione o sulle convinzioni». Secondo la Corte, insomma, la discriminazione sussiste solo se le norme dell'azienda introducono «particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia». E anche un'eventuale «discriminazione indiretta» può «essere oggettivamente giustificata da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, purché i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari». Il secondo caso riguardava l'allontanamento di Asma Bougnaoui, un ingegnere progettista messa alla porta dalla ditta francese Micropole per essersi rifiutata di abbandonare il velo nonostante le lamentele di un cliente e le precise regole aziendali. Su questo caso la Corte non decide, ma rimanda la sentenza alla Cassazione francese raccomandando di seguire le stesse direttive del caso di Achbita. In Italia regolamenti analoghi a quelli esaminati dalla Corte di Giustizia Europea, ma limitati a forme di copertura integrale come «burqa» e «niqab» che impediscono l'identificazione personale, sono state introdotte dalla Regione Lombardia, e più recentemente dalla Liguria, per regolamentare l'accesso agli ospedali e agli uffici pubblici. Regolamenti in fondo assai blandi in quanto - pur riguardando non solo i dipendenti, ma anche il pubblico - vietano esclusivamente i capi d'abbigliamento che rappresentano un problema per l'identificazione e, quindi, la sicurezza. Eppure anche in questi casi il Partito Democratico non ha perso l'occasione per far sentire la sua voce. Il ministro della Giustizia e attuale aspirante segretario del Pd Andrea Orlando è stato tra i primi, anzi, a definirli provvedimenti «di sapore simbolico propagandistico». Peccato che provvedimenti d'ispirazione analoga vengano ora ritenuti non «propagandistici», ma appropriati persino dalla Corte Europea.
Velo sul posto di lavoro, vietarlo è discriminatorio, scrive Shady Hamadi il 15 marzo 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Vietare il velo, hijab, sul posto di lavoro non “costituisce un atto discriminatorio”. A stabilirlo è la Corte di giustizia dell’Unione europea chiamata a dare un giudizio su due casi, in Belgio e in Francia, riguardanti il diritto di indossare il velo islamico in ufficio e che ha portato al licenziamento delle dipendenti perché non volevano rinunciare a indossarlo. Nella sentenza però si precisa che “può invece costituire una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia”. Anche se, prosegue la Corte europea, questa discriminazione può essere oggettivamente giustificata da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una neutralità (politica, filosofica e religiosa), purché perseguita con mezzi che siano appropriati e necessari. Come un regolamento scritto nero su bianco. Ma vietare il velo sul posto di lavoro – non stiamo parlando del niqab, quello che copre anche il viso e che invece andrebbe vietato – costituisce un atto discriminatorio. Questo perché crea una discriminazione su base religiosa e etnica che non dovrebbe esserci. Le credenze personali di ognuno dovrebbero aver diritto di espressione fin dove non intaccano il diritto degli altri e il decoro dell’azienda. Non dovrebbe quindi essere il velo, la kippah o il crocifisso al collo a costituire un requisito nell’assunzione, ma bensì le capacità dei lavoratori dovrebbero bastare al datore per poter scegliere i propri impiegati. Se da una parte il pronunciamento del tribunale Ue parla di neutralità sul posto di lavoro è anche vero che essa va in favore del datore che, spinto da idee o convinzioni politiche, potrebbe mettere in atto legittimamente misure di intolleranza verso un gruppo religioso o etnico ben preciso. Un tempo si scriveva, nero su bianco, “non si affittava ai terroni”. Fra qualche anno potremmo trovare un cartello con su scritto “non ti assumiamo se hai la barba”. E’ meglio quindi se, prima di entrare a fare un colloquio di lavoro, cominciamo a abituarci a metterci in tasca la collana con il crocifisso che ci ha regalato nostra nonna Natalina. E a non proporre mai più in azienda di fare l’albero di Natale. Un tavolino vuoto è più “neutrale”.
"Noi musulmani in ostaggio. Quello è il simbolo dei fanatici". La donna testimone della lotta per un islam liberale: "Sentenza giusta, la battaglia è contro gli ortodossi", scrive Alberto Giannoni, Mercoledì 15/03/2017, su "Il Giornale". Maryan Ismail, lei esibisce foulard coloratissimi e tiene capelli e collo liberi, vuole essere la prima donna-imam d'Italia, ha lasciato il Pd accusandolo di essere prono agli oscurantisti e lotta per un islam liberale.
Come vede la sentenza della Corte di giustizia europea sul velo?
«Capovolgiamo il paradigma. Poniamo che una donna occidentale viva e lavori in un Paese musulmano, in un'azienda che chiede di non utilizzare abiti che non siano tradizionali locali. A un certo lei punto dice: non mi importa, da domani arrivo con la gonna corta. I clienti potrebbero essere a disagio o scandalizzati e l'azienda la licenzia. L'azienda ha ragione rispetto alla scelta che fa la dipendente: è successo esattamente così».
Che simbolo è questo velo?
«Un certo islam minoritario rivendica l'utilizzo di quel tipo di velo, che ho sempre chiamato politico. Chi non lo indossa non sarebbe musulmano».
E invece non esiste questa regola nell'islam?
«No, non esiste, lo ha introdotto una piccola parte ultra ortodossa. Come tutte le ortodossie anche la musulmana non scappa a una lettura restrittiva del credo ma l'islam oggi è ostaggio di questa piccola parte che ci vuole uniformati sul velo. Io non sarei musulmana perché ho fazzoletto o collo scoperto? La battaglia è contro chi ci tiene in ostaggio».
Oltretutto l'imposizione è anche etnica?
«Certo, noi stiamo soffrendo l'islamizzazione dell'islam. Ci impongono codici che sono una lettura esasperata del Corano. Questa minoranza, che conosciamo bene, si porta avanti come un virus nelle nostre culture e tradizioni, che vengono soppresse. Abbiamo il Daesh, l'Isis, Al Qaida, punte estreme e militarizzate, ma anche spazzandole vie resta il fatto che nelle nostre scuole coraniche, nella nostra vita, si è inquinata la ricchezza dell'islam che è vario e grandissimo. Da quello indiano al marocchino, da quello pakistano a quello sub sahariano».
Dal Pakistan al Marocco, un velo uguale per tutte.
«Petroldollari e monarchie si sono divise il campo con gli stessi risultati. Non si può parlare di Fratelli musulmani in Arabia. Ma wahabiti, salafiti e Fratelli musulmani usano questo codice per colonizzare».
C'è anche un'imposizione maschilista. La terza, oltre a quella religiosa ed etnica.
«C'è un patriarcato che utilizza l'islam ma io non credo che tutti gli uomini siano patriarchi. Spesso ragionano per tutelare la donna: Preferisco che si metta il fazzoletto piuttosto che vederla insultata».
A Milano nessuno insulterebbe una donna per il fatto che è senza velo.
«Appunto, ma in moschea, dove si trova ascolto e aiuto, per prima cosa si chiede alle donne di coprirsi. Le seconde generazioni poi, sono cresciute con un immaginario nuovissimo. Alle ragazze pare normale dopo le mestruazioni mettersi il velo. Ci sono riti di messa del velo anche molto carini».
La formula: libere di portarlo e libere di toglierlo la convince? Lei sembra non contestare una scelta individuale libera ma il fenomeno la preoccupa molto?
«Il fenomeno preoccupa quando diventa di massa. Parliamo di integrazione ma c'è una polarizzazione che fa paura. E, sotto, un racconto che non sta né in cielo né in terra».
Quindi prende sul serio anche il divieto di burkini?
«Certo, e dico alle burkinizzate e alle velate: se questo è un diritto, dovete scendere in piazza per il diritto di indossare il bikini. La minigonna è libera? Vai a indossarla in Iran oggi. Il problema è non ammettere questi diritti per le altre. Invece di fare proclami, se fossero coerenti farebbero una battaglia per le minigonne in certi Stati e per il bikini in certe spiagge. Se è a senso unico non mi sta bene».
Lei, estenderebbe al pubblico un divieto del genere?
«Se pubblico lo stato ritiene di fare un'azione del genere bisogna vedere e comprendere bene i casi concreti. Non lo farei nel senso che non è una necessità, a meno che non ci siano particolari esigenze di servizio».
La sentenza è su tutti i simboli religiosi. Uno Stato laico cosa fa? Vieta tutto?
«Se è laico li ammette tutti, a meno che non ci siano problemi di ordine pubblico. In questo caso c'è un servizio rivolto a tutti e l'azienda ritiene che debba essere svolto così».
Sentenza sul velo, ecco veri effetti e troppe polemiche, scrive Marco Orioles il 15 marzo 2017 su "Formiche.net". La sentenza di ieri della Corte di giustizia europea sul velo trancia di netto una vecchia polemica, optando per la legittimità del divieto a indossarlo qualora l’azienda lo ritenga controproducente nei rapporti con i clienti. È una decisione che fa già discutere molto, come dimostrano i giornali di oggi, pieni di donne islamiche che si dichiarano sconcertate per la deliberazione. È un fatto che il velo sia il simbolo per antonomasia dell’identità dei musulmani in Occidente. Buona parte delle musulmane del Vecchio continente lo indossa per scelta, ossia per libera adesione ad un modello tradizionale di rapporti tra i sessi e con i non musulmani. Il principio è che la bellezza femminile deve essere riservata ai mariti e occultata agli occhi delle persone non imparentate, ancor più nei luoghi pubblici. Le donne che sostengono di velarsi per scelta non sanno, o fanno finta di non sapere, che il velo è stato ed è il cavallo di battaglia dei movimenti fondamentalisti, ossessionati dalla contaminazione occidentale e dalle libertà attribuite alle donne nei paesi non musulmani. Ora gli integralisti di tutte le risme avranno buon gioco nel denunciare il comportamento discriminatorio dell’Europa. Ma la Corte di giustizia ha stabilito esattamente il contrario, vale a dire che il bando al velo non costituisce discriminazione diretta se deriva da un regolamento interno che proibisce l’ostentazione di qualsiasi simbolo che manifesti l’adesione a ideologie politiche, visioni filosofiche e, appunto, religioni. Sarebbe discriminazione, dice la Corte, se il provvedimento riguardasse le sole musulmane. Ma così non è. Sta di fatto che d’ora in poi le musulmane vengono avvertite: devono scegliere se aggrapparsi ai simboli o se essere cittadine alla pari delle altre e, dunque, in grado di aspirare a lavorare in luoghi dove le persone con cui si entra in contatto possono essere mal disposte a relazionarsi con soggetti che ostentano la propria differenza culturale. La posta in gioco, in definitiva, altro non è che la coesione sociale. Le differenze sono sì un elemento intrinseco di una umanità plurale, che si trova racchiusa nelle società multietniche. Ma le differenze, se si irrigidiscono, possono creare fratture e tensioni, minando la fluidità e la spontaneità delle relazioni sociali. Tutti i paesi europei, e l’Italia è tra questi, devono misurarsi con la sfida dell’integrazione, ossia del metodo giusto per includere le tante comunità dalle radici peculiari che si ritrovano a coabitare sotto lo stesso cielo. E se il diritto alla differenza è sacrosanto oltre che tutelato dalle leggi, non lo è l’aspirazione a vivere in ghetti sociali e morali. Una società attraversata dalle differenze non è la stessa cosa di una società compartimentata e senza sufficiente comunicazione tra le sue componenti. I musulmani, in altre parole, devono venire a patti e trovare una mediazione tra la legittima aspirazione a riconoscersi in una tradizione e l’auspicabile inclusione, in condizioni di uguaglianza formale, nella società. Come ha sancito ieri la Corte di giustizia, il velo può essere di ostacolo all’integrazione. In ogni caso, non può essere invocato come diritto illimitato. Portare il velo si può ma a una condizione: relegandolo nella sfera privata e limitandone l’uso nello spazio pubblico, che è lo spazio in cui tutti devono ritrovarsi e riconoscersi. Questa lettura sarà in ogni caso sfidata di petto dalle organizzazioni islamiste, specie le più irriducibili, quelle che preferiscono ritagliare uno spazio separato e islamizzato nelle nostre città. Prepariamoci ad assistere ad una battaglia epocale.
Islam, le leggi sul velo nei Paesi europei. Dall’Italia alla Spagna, passando per Belgio e Germania: cosa dicono le norme. In Francia e in Belgio il velo integrale è vietato nei luoghi pubblici. Una legge in discussione in Olanda, scrive Marta Serafini il 29 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera".
1. Italia. In Italia è lecito indossare burqa e niqab (qui un grafico spiega i diversi tipi di veli), tranne negli ospedali e nelle strutture regionali della Lombardia dopo una legge approvata dal Consiglio nel gennaio 2016. La legge «Reale» del 1975 previde divieti alla copertura del volto. Ma l’abbigliamento religioso è, di fatto, sempre stata un’eccezione.
2. Germania. La legge tedesca non impone divieti in materia di abbigliamento sulla copertura del volto. Nel 2012, interpellato sulla questione, il servizio scientifico del Bundestag, il parlamento tedesco, aveva definito «incostituzionale» l’idea di introdurre una simile misura «anti-burqa».
3. Francia. Primo Paese europeo a varare la legge (entrata in vigore nell’aprile del 2011) che mette al bando l’uso del burqa, vietando la «dissimulazione del volto nei luoghi pubblici», senza menzione esplicita del velo integrale islamico. Tuttavia le donne che indossano il burqa o il niqab devono pagare una multa, e possono essere obbligate a seguire uno stage di «educazione civica». La legge crea inoltre un nuovo delitto, la «dissimulazione forzata del viso»: chi obbliga una donna a coprirsi completamente rischia il carcere ed una multa di oltre duecento euro. La Francia, pur avendo 5 milioni di musulmani, vede solo duemila donne all’incirca indossare il velo. Nel 2012 erano 425 le donne che erano state multate dopo un anno dall’introduzione del provvedimento.
4. Gran Bretagna. Non c’è nessuna legge che vieti di indossare indumenti che coprano totalmente il volto. Le scuole del Paese sono però lasciate libere di decidere se le proprie studentesse possano o meno indossare burqa o niqab, a partire dal 2007. Il partito Ukip chiede da tempo una norma che lo proibisca.
5. Belgio. C‘è il divieto di indossare il velo integrale che copre anche il volto, burqa o niqab dal 2011. Le donne che contravvengono il divieto rischiano una multa. Nel dicembre 2012 è stato rigettato il ricorso alla Corte Costituzionale che chiedeva di sospendere il provvedimento.
6. Olanda. Dopo un tentativo da parte del governo conservatore di proibire il burqa o il velo islamico nei luoghi pubblici, il provvedimento non è andato in porto nel 2012. Ma ora il provvedimento di legge ritorna in parlamento. In Olanda il 5 per cento della popolazione è musulmana, ma solo trecento donne indossano il velo integrale, più frequente e diffuso l’uso dell’hijab, che copre solo il capo.
7. Austria. Il velo islamico è permesso. A scuola esiste una certa discrezionalità.
8. Spagna. Non c’è una legge specifica a riguardo, ma in base ad una legge non si può andare in un luogo pubblico con il volto coperto. A livello municipale però sia a Barcellona che in altre due città della Catalogna è stato messo il bando al velo integrale. Un provvedimento simile nella città di Leida è stato però dichiarato contrario alla libertà religiosa nel 2013.
9. Danimarca. Nel 2008 il governo su pressione del Danish People Party (DPP) noto per la sua retorica anti musulmana annunciò che avrebbe introdotto un divieto per il velo integrale e per i simboli religiosi nei tribunali.
10. Svizzera. Nel settembre 2013 in Canton Ticino è passato un referendum che proibisce il velo integrale nelle aree pubbliche.
IL VENTRE MOLLE DELL’OCCIDENTE.
Rimini, al bando Tu scendi dalle stelle. La scuola sceglie canti africani. I bambini di ben due istituti di Rimini e provincia non canteranno nei loro spettacoli natalizi il Tu scendi dalle stelle. Le scuole lo hanno eliminato per dei canti africani. Tutto per favorire l'integrazione, scrive Gabriele Bertocchi, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". "Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo...". Non ci saranno altre note o versi di questo tanto amato canto di Natale che fa parte della nostra cultura cristiana. Anzi, ad essere precisi non ci sarà proprio nulla. È questa la decisione presa da una scuola primaria di Rimini e in una della Provincia. La decisione che cancella le nostre radici. E allora cosa canteranno i bambini nella tradizionali recite natalizie? Sinceramente non saprei dirvelo, e probabilmente nemmeno cantarvelo. Infatti, al posto dei classici canti di Natale ci saranno dei cori africani. Non siamo di fronte a un opzione avanzata da qualche fan dell'integrazione. No, si tratta di una decisione fatta e già messa in atto. Uno degli spettacoli di Natale interpretato dagli alunni di una primaria di Rimini è andato già in scena. Un altro è atteso il 23 dicembre. La scelta di eliminare il canto cristiano per uno africano è arrivata all'interno di un progetto sulla fratellanza dei popoli, mirato all'integrazione di tutte le culture. Perplessità e proteste (ovviamente) sono state avanzate dai genitori degli istituti. Sabrina Saccomanni dell'Associazione Evita Peron spiega, dalle pagine di AltaRimini.it, come questa scelta rappresenti n attacco alle radici cristiane del Natale, ricordando come il 25 dicembre sia la festa per la nascita di Gesù. La melodia bandita perché troppo cristiana. Sorge una domanda: non si poteva far cantare entrambe le melodie? No. È proprio qui che sorge l'indignazione di tutti. "Il canto - come spiega la responsabile dell'associazione Evita Peron - è stato messo al bando perché può urtare la sensibilità di bambini e genitori che appartengono a un'altra religione". "Ragionando in questo modo - prosegue la Saccomanni - fanno perdere ai nostri figli i nostri valori e le nostre tradizioni, come ad esempio il presepe".
"Ma oltre alle tradizioni, il Natale perde anche un po' di magia - aggiunge la Saccomanni - quella delle emozioni dei genitori, che con gli occhi lucidi ammirano i propri figli intonare canzoni che hanno pervaso il periodo natalizio della loro infanzia". Il progetto che ha condotto a questa decisone di sicuro è fondato su buoni principi e la volontà di stare vicini a tutti gli studenti, cristiani e non. Ma la lezione che dà è errata. Infatti eliminando il canto si cancella la nostra radice cristiana. E disintegrando non può esistere integrazione.
Il nome di Gesù bandito dalle canzoni di Natale. Questa volta è accaduto a Pontevico, piccolo comune in provincia di Brescia, scrive Michel Dessì, Giovedì 15/12/2016, su "Il Giornale. Il nome di Gesù fa paura, tanto da essere bandito persino dalle canzoni di Natale. Questa volta è accaduto a Pontevico, piccolo comune in provincia di Brescia, dove la dirigente scolastica Paola Bellini ha pensato bene di sostituire le parole della famosa canzone “Merry Christmas, Buon Natale”. Anziché “canta perché è nato Gesù”, nelle fotocopie distribuite ai bambini della scuola elementare, per le prove di canto, si legge: “canta perché è festa per te”. Subito è scattata la polemica. La città è in subbuglio. I genitori, indignati, non ci stanno e protestano. A difesa dell’identità cristiana, culturale e occidentale. Italiana, soprattutto! Ma la dirigente scolastica si giustifica. Contattata da noi al telefono dichiara: “Non è una festa di Natale, ma una festa per la pace.” Anche se nel repertorio sono previste canzoni natalizie e lo spettacolo viene messo in scena il 19 dicembre, nella settimana di Natale, la dirigente è categorica: “I bambini canteranno brani che richiamano temi universali come la pace e la solidarietà. Il 30% dei nostri alunni non è cattolico ed è un concerto aperto a tutti. Non è uno spettacolo fatto solo per i cristiani. E’ una questione di rispetto.” Ma quando le domandiamo: non crede di avere esagerato? Risponde con un secco no. “Nelle nostre classi abbiamo tanti Crocifissi e quadri che raffigurano la Madonna ma, accanto a questi simboli, devono coesistere pacificamente anche degli altri, o delle altre attenzioni nei confronti dei valori dell’Intercultura.” Poi, aggiunge, adirata: “Gli adulti stanno strumentalizzando uno spettacolo di bambini. Hanno sporcato il lavoro dei miei insegnanti. Stanno diffamando quello che doveva essere un canto di gioia.” Il nome di Gesù non dovrebbe portare divisione. Ma unione. Cristo predica l’amore, la fratellanza e la gioia. Dunque, questi valori, come potrebbero urtare la “sensibilità” dei musulmani? Se, effettivamente, l’Islam è una religione moderata e pacifica come molti affermano, non dovrebbe fare altro che rispettare l’identità e le tradizioni del Paese che li ospita. Sul piede di guerra anche il parroco di Pontevico. “Chiedere all'oratorio la concessione del teatro con questo spirito non va bene. Gli stranieri sono contenti di conoscere la nostra cultura, che noi non dobbiamo assolutamente rinnegare perché non offende nessuno.” Secondo Paola Bellini, l’istituzione scolastica nasce multiculturale. “Sono altre le istituzioni che devono propagandare i valori della religione cattolica. Papa Francesco predica l’apertura. Questi cattolici integralisti mi stupiscono. Se non ci daranno più l’oratorio per lo spettacolo lo faremo nella nostra scuola.” Conclude la dirigente. Ebbene sì, Gesù Nazzareno, a ventuno secoli dalla nascita nella piccola e fredda grotta di Betlemme, fa ancora paura. Fortunatamente, non a tutti.
Stefano Zecchi e il ventre molle del paradiso occidentale. Nel nuovo libro «Paradiso Occidente» il filosofo Stefano Zecchi affronta il problema di come il progresso e il globalismo abbiano danneggiato la tradizione e l’identità, scrive Pierluigi Panza il 14 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Al vincente progetto dell’Illuminismo si affiancò, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, una costruzione del sapere diversa da quella fondata su Linneo, Newton e confluita nell’Encyclopedie. Era basata sull’idea romantica che l’arte fosse espressione sensibile della stessa verità che la scienza va costruendo per congetture e confutazioni e sull’idea che si potesse fornire una descrizione simbolica del mondo e una spiegazione morfogenetica dei fenomeni. Questa visione di Schelling, Schiller e Goethe, centrata sul rapporto tra individuo, sacralità e natura, fu accantonata alla fine del XIX secolo con il successo della borghesia e della rivoluzione industriale che portarono a un ridimensionamento degli studi umanistici e al successo delle tecnoscienze. A uscirne con le ossa rotte furono due parole chiave: tradizione e bellezza. Stefano Zecchi, «Paradiso occidente. La nostra decadenza e la seduzione della notte» (Mondadori, pp. 240, euro 19) Il progresso e il globalismo hanno danneggiato la tradizione intesa come radicamento in una storia che costituisce la tua identità. La tradizione è, infatti, un’idea circolare che non accetta sviluppo e non sopporta cancellazione, mentre il progresso ha condotto all’età dell’incessante «nuovismo» e della cancellazione continua. Quanto alla bellezza, essa diventa il grande rimosso della modernità a partire dalle Avanguardie, con i successivi sperimentalismi e, infine, con l’affermarsi della riproducibilità tecnica dell’arte. E con tradizione e bellezza scompaiano o, meglio, non entrano nel canone dell’accettabilità politically correct del Dopoguerra quei filosofi disallineati al vincente paradigma scientista e progressista. Quindi Spengler, primo a individuare il carattere di Tramonto dell’Occidente per l’abbandono di una tradizione unitaria, poi Guénon, Evola, Guardini, Heidegger... tutti generalmente di cultura antiliberista e ostili al modello di sviluppo consumistico americano. È questa la tesi che il filosofo Stefano Zecchi sviluppa nel suo nuovo libro, Paradiso Occidente. La nostra decadenza e la seduzione della notte(Mondadori). La perdita del valore della contemplazione e della tradizione in favore del pragmatismo americano e dell’ossessione occidentale verso l’azione faustiana ha portato l’Occidente ad essere sì un Paradiso, ma dal ventre molle, a essere una grande luminaria per il resto del mondo ma, in realtà, una piccola bottega in totale abbandono verso la propria tradizione, succube di modelli di sviluppo che non erano i suoi propri. La pratica delle tecnoscienze schiaccia l’individuo, il multiculturalismo è una prospettiva imposta rispetto all’idea goethiana di un cosmopolitismo che non rinuncia alla propria storia e afferma le diversità. La visione sperimentalista delle arti e della comunicazione ha generato una entropia incomprensibile controllata dalla finanza, la continua negazione del senso presente in Joyce è diventata un nichilismo di maniera. In questo Paradiso alla frutta sembra credere solo l’Islam, ma in maniera sbagliata, non innestando la propria tradizione (come auspicava Goethe), ma scatenando la guerra jihadista al Paradiso Occidente o sviluppando, specie nei giovani, una tendenza all’occidentalismo visto come territorio del lusso, di benessere e, forse, libertà. Ovvero un luogo dove si consumano gli esiti dell’Illuminismo, i cui aspetti «controprassistici» erano già stati avvertiti da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo. Essendo il suo un libro di filosofia, Zecchi depotenzia completamente il peso delle discipline economiche e demografiche nella decifrazione del globalismo e richiama, come principio di speranza, a un’etica della responsabilità sia per prendersi cura della bellezza del mondo sia per farsi carico di un compito pedagogico al fine di avere e dare un senso alle vite umane.
Quel senso del sacro perduto che danneggia noi e l'islam. Quando gli estremisti saranno sconfitti tornerà il dialogo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 27/11/2016, su "Il Giornale". Fino a pochi decenni fa la classe intellettuale europea era convinta che la religione fosse in rapido declino, forse in via di estinzione. Molti partecipavano alle cerimonie funebri, qualche volta ai battesimi, ma nella vita personale avevano abbandonato la frequentazione della chiesa, l'abitudine di pregare e non insegnavano i principi religiosi ai loro figli. Mai e poi mai avrebbero pensato di dover fronteggiare una rinascita religiosa impressionante come quella del mondo islamico a causa del proprio ateismo. L'intellettuale occidentale non riusciva nemmeno a capire la distanza che c'era fra la sua mentalità e la loro. Perché nell'islam la religione permea ogni istante della vita di qualsiasi credente. Basta pensare che per il musulmano ortodosso anche il muoversi di una foglia, lo stormire del vento, il battito del suo cuore, e perfino il suo più fugace pensiero sono voluti e creati da Dio. In realtà le èlite culturali europee nel secolo scorso si erano avvicinate all'islam nella forma del sufismo che dava poca importanza alla legge (sharia) e parlava alla mistica e al cuore. È dal mondo sufi infatti che ci sono arrivati sublimi capolavori come il Masnavi. Ma in questi ultimi decenni gli europei non hanno incontrato i sufi, ma gli islamisti, un movimento integralista che negli ultimi trent'anni ha dilagato in Asia ed in Africa e che pratica una forma di islam scritturalista con una sharia primitiva e sanguinaria. Esso ha scatenato una guerra di religione contro l'occidente che continua in Irak, in Siria e in Africa. Ma forse sta incominciando una nuova fase storica. Grazie alla pace fra gli Usa e la Russia l'occidente, finalmente unito, può sconfiggere l'islamismo armato, frenare la marea migratoria nordafricana e indebolire i centri wahabiti annidati nelle moschee. Se la minaccia islamista verrà respinta, diventerà di nuovo possibile il dialogo con le correnti islamiche moderate. Ed io mi auguro che un giorno in Europa si possa rinnovare l'incontro culturale con le grandi correnti della poesia islamica e riscoprire il senso della trascendenza e del mistero divino che entrambi abbiamo perduto.
Gli scudi umani e il nostro senso di colpa. Una grande arma psicologica per mettere in crisi morale l'occidente, scrive Francesco Alberoni, Domenica 4/12/2016 su "Il Giornale". Abbiamo incominciato a sentir parlare di «scudi umani» in occasione della prima guerra del Golfo quando le truppe di Saddam Hussein hanno occupato il Kuwait e gli americani bombardavano il territorio irakeno. Subito i mezzi di comunicazione hanno messo in evidenza che Saddam Hussein concentrava le sue truppe scelte, gli armamenti, le rampe di missili nei quartieri più popolosi della città, accanto a scuole e ospedali in modo che gli occidentali fossero imbarazzi nel colpirli o potessero essere accusati di violenza contro la popolazione civile. Un comportamento osceno e abominevole per il nostro senso di colpa Noi infatti abbiamo sempre cercato di tener separato dagli obbiettivi militari da quelli civili Il sacrificio spietato della popolazione civile si poi addirittura aggravato fra kamikaze sunniti e sciiti, poi e cresciuto con il califfato. Ma la vediamo all'opera in questi giorni ad Aleppo e Mosul. Aleppo e stata conquistata dalle milizie dell'Isis con l'appoggio di bande filoamericane che hanno trasformato la città in un immenso scudo umano. Negli ultimi tempi i siriani hanno riconquistato quasi tutta la città e gli ultimi 5-10.000 jihadisti si sono asserragliati in un quartiere dell'est dove tengono in ostaggio duecentomila scudi umani. I Russi e i siriani bombardano la città e invitano i civili a fuggire verso ovest dove la vita è tornata normale, ma i cecchini dell'Isis glielo impediscono. Nel frattempo l'Onu e altre organizzazioni contrarie alla presenza russa (come Stati Uniti, Arabia Saudita francesi e inglesi) chiedono ai russi e ai siriani di smettere i bombardamenti per salvare i poveri scudi umani facendo entrare nella roccaforte assediata viveri e medicinali per gli ospedali. Ovviamente questo consentirebbe anche di rifornire i guerriglieri dell'Isis permettendo loro di continuare la guerra. La stessa situazione si sta la ripetendo a Mosul assediata e poi verrà la volta di Racca. È grazie a questa invenzione politico morale orientale che nei prossimi mesi vedremo nuovi bombardamenti e nuovi flussi di disgraziati, vecchi, donne e bambini affamati trascinarsi miseramente fra le rovine. Grande invenzione morale orientale quella degli scudi umani. Grande arma psicologica per mettere in crisi morale l'occidente.
Chi non difende i suoi confini, poi non si lamenti dei muri. I padri fondatori dell'Europa si sono preoccupati di creare tante istituzioni: Parlamento, Consiglio, Corte di giustizia, Banca centrale, la moneta unica. Bravi! Però nessuno ha mai stabilito quali sono i confini della Comunità, scrive Francesco Alberoni, Domenica 25/09/2016, su "Il Giornale". La leggenda ci racconta che quando Romolo ha fondato Roma, con un aratro trainato da buoi ha tracciato il confine della città. E ha precisato che quel solco era sacro e non poteva essere varcato da nessuno. Quando il fratello Remo lo scavalcò, Romolo lo uccise. Questa storia ci dice che l'atto fondativo di uno Stato è dato dalla delimitazione del confine inviolabile per tutti coloro che non fanno parte della comunità. Quanto vale per gli Stati vale anche per le associazioni, le chiese, i partiti. Nessuna comunità esiste se i suoi membri non si riconoscono fra di loro e non si distinguono da coloro che non ne fanno parte. E costoro devono ottenere un permesso dai primi anche solo per entrare fisicamente nei luoghi della comunità. I padri fondatori dell'Europa si sono preoccupati di creare tante istituzioni: Parlamento, Consiglio, Corte di giustizia, Banca centrale, la moneta unica. Bravi! Però nessuno ha mai stabilito quali sono i confini della Comunità e non ha mai pensato di costituire un esercito per la loro difesa. In questo modo non hanno fatto sentire ai cittadini europei di far parte di una patria comune con uguali doveri e uguali diritti e non si è avviato il processo di progressiva riduzione del peso degli Stati nazionali e dei loro egoismi. Non è stata creata una comunità di cittadini, ma una comunità di Stati e i suoi confini sono i confini degli Stati. Ogni Stato è totalmente libero di spalancarli come ha fatto la Merkel lo scorso anno o chiuderli come ha fatto l'Inghilterra o l'Ungheria. I muri contro cui tuonano il Papa e il presidente Mattarella sono un patetico rimedio alla mancanza di veri confini europei che consentirebbero una corretta politica di ammissione o respingimento dei profughi. Dei Paesi europei l'Italia è la più esposta perché ammettiamo tutti quelli che arrivano: cinesi, asiatici, sudamericani, africani senza alcun criterio selettivo. E soprattutto tutti i migranti e i loro scafisti raccolti nel Mediterraneo dalle navi di tutte le nazionalità che li sbarcano sempre sulle nostre coste. Poi se la Francia, l'Austria, la Slovenia chiudono i loro confini, tutti quelli che arrivano ce li teniamo noi.
La menzogna sovietico-palestinese, scrive Judith Bergman (Gatestone Institute) su "L’Opinione" il 10 dicembre 2016. La recente scoperta che Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità palestinese (Ap) era una spia del Kgb a Damasco nel 1983, è stata definita dai media mainstream come una “curiosità storica”, se non fosse che la notizia è venuta fuori in modo inopportuno nel momento in cui il presidente Vladimir Putin stava cercando di organizzare un incontro tra Abbas e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per far ripartire i colloqui di pace. Com’era prevedibile, l’Autorità palestinese ha respinto la notizia. Nabil Shaath, dirigente di Fatah, ha negato che Abbas sia mai stato un agente operativo del Kgb e ha parlato di “campagna diffamatoria”. La scoperta, ben lungi dall’essere una “curiosità storica”, è un aspetto di uno dei tanti tasselli del puzzle delle origini del terrorismo islamico del XX-XXI secolo. Quelle origini sono quasi sempre offuscate e occultate nei tentativi malcelati di presentare una particolare narrativa sulle cause del terrorismo contemporaneo, biasimando qualsiasi prova del contrario come “teoria del complotto”. Non c’è nulla di cospiratorio riguardo alla recente rivelazione che arriva da un documento degli archivi Mitrokhin custoditi dal “Churchill Archives Center” dell’Università di Cambridge, nel Regno Unito. Vasily Mitrokhin era un alto funzionario del servizio di intelligence sovietico, poi degradato ad archivista del Kgb. Mettendo la sua vita in grave pericolo, ha trascorso 12 anni a copiare diligentemente i dossier segreti del Kgb che erano secretati (gli archivi dell’intelligence estera del Kgb non sono stati aperti al pubblico, nonostante il crollo dell’Unione Sovietica). Quando Mitrokhin disertò nel 1992 rifugiandosi nel Regno Unito, portò con sé i documenti copiati. Le parti declassificate dell’archivio Mitrokhin sono state portate a conoscenza dell’opinione pubblica negli scritti del professor Christopher Andrew, docente dell’Università di Cambridge, che è coautore del libro del disertore sovietico “L’archivio Mitrokhin” (pubblicato in due volumi). Gli archivi di Mitrokhin portarono, tra le altre cose, alla scoperta di molte spie del Kgb in Occidente e altrove. Purtroppo, la storia dell’entità dell’influenza del Kgb e delle informazioni fasulle non è così nota come dovrebbe essere, considerando l’enorme influenza che l’organo di polizia segreta dell’Unione Sovietica ha esercitato sulle questioni internazionali. Il Kgb ha condotto operazioni ostili contro la Nato, contro il dissenso democratico in seno al blocco sovietico e ha messo in moto eventi sovversivi in America Latina e in Medio Oriente, con ripercussioni fino ad oggi. Inoltre il Kgb è stato un attore molto attivo nella creazione dei cosiddetti movimenti di liberazione in America Latina e in Medio Oriente, movimenti coinvolti nel terrorismo letale, come documentato tra l’altro nell’Archivio Mitrokhin e anche nei libri e negli scritti di Ion Mihai Pacepa, l’ufficiale comunista più alto in grado che abbia disertato dall’ex blocco sovietico. Pacepa era ex capo del Servizio di informazioni estere dell’intelligence romena e consigliere personale del leader comunista romeno Nicolae Ceausescu prima che disertasse negli Stati Uniti nel 1978. Pacepa ha lavorato con la Cia per più di dieci anni per sconfiggere il comunismo; l’agenzia ha descritto la sua cooperazione come “un importante e straordinario contributo agli Stati Uniti”. In un’intervista del 2004 a FrontPage Magazine, Pacepa disse: “L’Olp è stata concepita dal Kgb, che aveva un debole per le organizzazioni di ‘liberazione’. C’era l’Esercito di liberazione nazionale della Bolivia, creato nel 1964 dal Kgb con l’aiuto di Ernesto “Che” Guevara (...) il Kgb ha anche creato il Fronte per la liberazione della Palestina, che ha compiuto numerosi attacchi dinamitardi. (...) Nel 1964, il primo Consiglio dell’Olp, composto da 422 rappresentanti palestinesi selezionati con cura dal Kgb, approvò la Carta nazionale palestinese – un documento che era stato redatto a Mosca. Anche il Patto nazionale palestinese e la Costituzione palestinese sono nati a Mosca, con l’aiuto di Ahmed Shuqairy, un influente agente del Kgb che è diventato il primo presidente dell’Olp...”. Sulle pagine del Wall Street Journal, Pacepa ha spiegato come il Kgb costruì Arafat, o nel gergo corrente, come costruirono una narrativa per lui: Egli era un borghese egiziano trasformato in un devoto marxista dall’intelligence estera del Kgb. Il Kgb lo aveva formato nella sua scuola per operazioni speciale a Balashikha, cittadina a est di Mosca e a metà degli anni Sessanta decise di prepararlo come futuro leader dell’Olp. Innanzitutto, il Kgb distrusse i documenti ufficiali che certificavano la nascita di Arafat al Cairo, rimpiazzandoli con documenti falsi che lo facevano figurare nato a Gerusalemme e, pertanto, palestinese di nascita. Come ha scritto lo scomparso storico Robert S. Wistrich in “A lethal obsession”, la guerra dei sei giorni scatenò una lunga e intensa campagna da parte dell’Unione Sovietica volta a delegittimare Israele e il movimento per l’autodeterminazione ebraica, conosciuto come sionismo. Ciò è stato fatto al fine di porre rimedio ai danni creati al prestigio dell’Urss dopo che Israele sconfisse i suoi alleati arabi: dopo il 1967, l’Urss cominciò a inondare il mondo di un costante flusso di propaganda antisionista. (...) I nazisti, nei loro dodici anni di potere, furono gli unici che siano mai riusciti a produrre un flusso sostenuto di false calunnie a mezzo stampa come strumento della loro politica interna ed estera. Per questo l’Urss utilizzò una serie di parole-chiave naziste per descrivere la sconfitta inflitta da Israele all’aggressione araba del 1967, e molte di queste parole-chiave sono ancora usate oggi dalla sinistra occidentale nei confronti di Israele, come ad esempio “esperti di genocidio”, “razzisti”, “campi di concentramento” e “Herrenvolk”. Inoltre, l’Urss intraprese una campagna internazionale di diffamazione nel mondo arabo. Nel 1972, l’Unione Sovietica lanciò l’operazione “Sig” (Sionistskiye Gosudarstva o “Governi sionisti”), onde ritrarre gli Stati Uniti come “un arrogante e altezzoso feudo ebraico finanziato dal denaro ebraico e governato da politici ebrei, il cui obiettivo era quello di subordinare tutto il mondo islamico”. Circa 4mila agenti furono inviati dal blocco sovietico nel mondo islamico, armati di migliaia di copie dei Protocolli dei Savi anziani di Sion, falso documentale utilizzato dalla Russia zarista. Secondo Yuri Andropov, capo del Kgb: Il mondo islamico era una piastra di Petri in cui potevamo coltivare un ceppo virulento di odio antiamericano e antisraeliano, cresciuto dal batterio del pensiero marxista-leninista. L’antisemitismo islamico ha radici profonde... Dovevamo solo continuare a ripetere i nostri argomenti – che gli Stati Uniti e Israele erano ‘Paesi fascisti, imperial-sionisti” finanziati da ricchi ebrei. L’Islam era ossessionato dall’idea di evitare l’occupazione del suo territorio da parte degli infedeli ed era assolutamente ricettivo al ritratto da noi fatto del Congresso americano come un rapace organismo sionista volto a trasformare il mondo in un feudo ebraico. Già nel 1965, l’Urss aveva proposto ufficialmente una risoluzione all’Onu che condannava il sionismo come colonialista e razzista. Sebbene il tentativo fallì, le Nazioni Unite si rivelarono grate all’Unione Sovietica per l’intolleranza e la propaganda e nel novembre del 1975 fu alla fine approvata la Risoluzione 3379 che condannava il sionismo come “una forma di razzismo e discriminazione razziale”. Ciò fece seguito a quasi un decennio di diligente propaganda sovietica rivolta al Terzo Mondo, che descriveva Israele come un cavallo di Troia per l’imperialismo occidentale e il razzismo. Questa campagna fu concepita allo scopo di raccogliere consensi a favore della politica estera sovietica in Africa e Medio Oriente. Un’altra strategia consisteva nel fare comparazioni visive e verbali nei media sovietici tra Israele e il Sud Africa (questa è l’origine della frottola “apartheid israeliana”). Il Terzo Mondo e la sinistra occidentale si sono bevuti tutta questa propaganda sovietica. E la sinistra occidentale continua a disseminarla in gran parte. In realtà, diffamare qualcuno, chiunque esso sia, definendolo razzista, è diventata una delle armi primarie della sinistra da utilizzare contro chi non condivide le sue posizioni. Parte delle tattiche sovietiche volte a isolare Israele facevano apparire l’Olp come un’organizzazione “rispettabile”. Secondo Pacepa, questo era il compito assegnato al leader romeno Nicolae Ceausescu, che riuscì nell’impresa improbabile di far credere all’Occidente che lo spietato Stato di polizia romeno fosse un Paese comunista “moderato”. Niente di più lontano dalla verità, come alla fine si scoprì nel processo del 1989 contro Nicolae Ceausescu e la moglie Elena, che si concluse con l’esecuzione della coppia (fucilata da un plotone di esecuzione, N.d.T.). Pacepa ha scritto sul Wall Street Journal: Nel marzo del 1978 condussi in gran segreto Arafat a Bucarest per le istruzioni finali su come comportarsi a Washington. “Devi solo far finta di rompere con il terrorismo e riconoscere Israele, ancora, e ancora e ancora”, disse Ceausescu ad Arafat. (...) Ceausescu era euforico all’idea che Arafat e lui potessero riuscire ad accaparrarsi un premio Nobel per la pace con la loro farsa del ramoscello d’ulivo. ...Ceausescu non riuscì a ottenere il suo premio Nobel per la pace. Ma nel 1994 Arafat lo ricevette, proprio perché continuò a interpretare alla perfezione il ruolo che gli avevano affidato. Aveva trasformato la sua Olp terrorista in un governo in esilio (l’Autorità palestinese), fingendo sempre di porre fine al terrorismo palestinese, pur continuando ad alimentarlo. Due anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il numero degli israeliani uccisi dai terroristi palestinesi era aumentato del 73 per cento. Nel suo libro “Orizzonti rossi”, Pacepa ha riportato quello che disse Arafat nel corso di un incontro che ebbe con lui nel quartier generale dell’Olp a Beirut, nel periodo in cui Ceausescu cercava di rendere l’Olp “rispettabile”: Sono un rivoluzionario. Ho dedicato la mia intera vita alla causa palestinese e alla distruzione di Israele. Non cambierò, né scenderò a compromessi. Non sarò d’accordo su qualcosa che riconosce Israele come Stato. Mai... Ma sono sempre disposto a far credere all’Occidente che voglio fare quello che il Fratello Ceausescu vuole che io faccia. La propaganda ha aperto la strada al terrorismo, ha spiegato Pacepa in National Review: Il generale Aleksandr Sakharovsky, che creò la struttura di intelligence della Romania comunista e poi diresse l’intelligence estera della Russia sovietica, spesso mi diceva: “Nel mondo di oggi, in cui le armi nucleari hanno reso obsoleta la forza militare, il terrorismo dovrebbe diventare la nostra arma principale”. Il generale sovietico non stava scherzando. Solo nel 1969 ci furono 82 dirottamenti aerei in tutto il mondo. Secondo Pacepa, la maggior parte di questi dirottamenti fu compiuta dall’Olp o da gruppi affiliati, tutti appoggiati dal Kgb. Nel 1971, quando Pacepa incontrò Sakharovsky nell’ufficio di quest’ultimo nel palazzo della Lubjanka (sede del Kgb), il generale si vantava: “I dirottamenti aerei sono una mia invenzione”. Al Qaeda usò la tattica del dirottamento dei voli di linea per gli attentati dell’11 settembre, facendo schiantare gli aerei contro gli edifici e provocandone il crollo. E Mahmoud Abbas che ruolo ha in tutto questo? Nel 1982, Abbas studiava a Mosca presso l’Istituto di Studi orientali dell’Accademia delle Scienze dell’Urss (nel 1983 divenne una spia del Kgb). A Mosca egli scrisse la sua tesi di dottorato, pubblicata in arabo, dal titolo “L’altra faccia: le relazioni segrete tra il nazismo e i capi del movimento sionista”. Nella sua dissertazione, Abbas ha negato l’esistenza delle camere a gas nei campi di concentramento e ha messo in discussione il numero delle vittime dell’Olocausto definendo i sei milioni di ebrei che erano stati uccisi “una fantastica menzogna”, accusando al contempo gli ebrei stessi dell’Olocausto. Il relatore della sua tesi era Yevgeny Primakov, che in seguito divenne ministro degli Esteri della Russia. Anche dopo aver finito la tesi, Abbas ha mantenuto stretti legami con la dirigenza sovietica, l’esercito e i membri dei servizi di sicurezza. Nel gennaio del 1989, Abbas fu nominato copresidente del Comitato di lavoro palestinese-sovietico (e poi russo-palestinese) sul Medio Oriente. La notizia che l’attuale leader degli arabi palestinesi era un accolita del Kgb – le cui macchinazioni hanno provocato la morte di migliaia di persone solo in Medio Oriente – non può essere liquidata come una “curiosità storica”, anche se gli opinionisti contemporanei preferirebbero vederla come tale. Anche se Pacepa e Mitrokhin hanno lanciato l’allarme molti anni fa, solo in pochi si sono preoccupati di ascoltarli. Occorre farlo. Traduzione a cura di Angelita La Spada.
GUERRE ED INTOLLERANZA. PROCESSO AL MONOTEISMO.
Monoteismi e politeismi. I romani non erano in guerra con Cartagine per imporre i propri dèi. Il popolo del Grande Spirito e i seguaci del woodoo sono rimasti nei loro confini. Solo cristiani e musulmani hanno scatenato conquiste in nome del loro dio, scrive Umberto Eco il 3 ottobre 2014 su “L’Espresso”. Soffiano venti di guerra, e non si tratta di una piccola guerra locale ma di un conflitto che può coinvolgere vari continenti. Ora la minaccia viene da un progetto fondamentalista che si propone di islamizzare tutto il mondo conosciuto, arrivando sino a Roma (è stato detto) anche se nessuno ha minacciato di abbeverare i cammelli alle acquasantiere di San Pietro. Tutto questo induce a pensare che le grandi minacce transcontinentali vengano sempre da religioni monoteiste. Greci e Romani non volevano conquistare la Persia o Cartagine per imporre i propri dèi. Avevano preoccupazioni territoriali ed economiche ma, dal punto di vista religioso, non appena incontravano nuovi dèi di popoli esotici, li accoglievano nel loro pantheon. Sei Hermes? Bene, io ti chiamo Mercurio e diventi dei nostri. I fenici veneravano Astarte? Bene, gli Egizi la traducevano come Iside e per i greci diventava Afrodite o Venere. Nessuno ha invaso un territorio per sradicare il culto di Astarte. I primi cristiani sono stati martirizzati non perché riconoscevano il dio di Israele (fatti loro), ma perché negavano legittimità agli altri dèi. Nessun politeismo ha mai fomentato una guerra di grandi dimensioni per imporre i propri dèi. Non è che i popoli politeisti non abbiano fatto guerre, ma erano conflitti tribali in cui la religione non ci entrava. I barbari del nord hanno invaso l’Europa, e i mongoli le terre islamiche, ma non per imporre i loro dèi, tanto è vero che si sono rapidamente convertiti alle religioni locali. Caso mai è curioso che i barbari del nord, divenuti cristiani e avendo costituito un impero cristiano, si siano poi dati da fare con le crociate per imporre il loro dio su quello degli islamici, anche se in fin dei conti, monoteismo per monoteismo, si trattava dello stesso dio. I due monoteismi che hanno scatenato invasioni per imporre un unico dio sono stati quello islamico e quello cristiano (e annovererei tra le guerre di conquista il colonialismo, che - interessi economici a parte - ha sempre giustificato le sue conquiste con il progetto virtuoso di cristianizzare le popolazioni conquistate, a cominciare dagli Aztechi e dagli Incas, sino alla nostra “civilizzazione” dell’Etiopia (dimenticando che anche loro erano cristiani). Caso mai un caso curioso è stato quello del monoteismo ebraico, che per sua natura non ha mai praticato alcun proselitismo, e le guerre di cui parla la Bibbia erano intese ad assicurare un territorio al popolo eletto, non a convertire altre popolazioni al giudaismo. Ma anche il popolo ebraico non ha mai incorporato altri culti e credenze. Con tutto questo non intendo dire che sia più civile credere nel Grande Spirito della Prateria o nelle divinità Yoruba che nella Santissima Trinità o nell’unico dio di cui Maometto sarebbe il profeta. Dico solo che nessuno ha mai tentato di conquistare il mondo nel nome del Grande Spirito o di una delle entità che si sono poi trasferite nel Candomblè brasiliano - né il baron Samedi del Woodoo ha mai cercato di spingere i suoi fedeli oltre i loro ristretti confini caraibici. Si potrebbe dire che solo un credo monoteistico consente la formazione di grandi entità territoriali che poi tendono a espandersi. Ma il subcontinente indiano non ha mai cercato di esportare le proprie divinità, e l’impero cinese è stata una grande entità territoriale, senza la credenza in una sola entità creatrice del mondo, e (sino a oggi) non ha mai tentato di estendersi anche in Europa o in America. Caso mai la Cina lo fa ora, ma con mezzi economici e senza impegno religioso, disposta a comprare industrie e azioni in Occidente, ma che la gente continui a credere in Gesù, in Allah o in Iahve non gli fa né caldo né freddo. Forse un equivalente dei monoteismi classici sono state le grandi ideologie laiche, come il nazismo (però di ispirazione pagana) e il marxismo ateo sovietico. Ma senza un Dio degli Eserciti pronto a magnetizzare i loro seguaci, la loro guerra di conquista si è fermata.
Iside e Osiride? Meglio del Dio dei monoteismi. Il più grande egittologo vivente, Jan Assman, rilancia apertamente le ragioni degli antichi. Ma anche un nuovo e più tollerante politeismo, scrive Stefano Vastano il 16 novembre 2016 su "L'Espresso". È senza dubbio il più grande egittologo vivente. Dei miti e riti dell’antico Egitto, Jan Assmann - per decenni docente di egittologia ad Heidelberg e oggi a Costanza - ha indagato ogni stele e misterioso geroglifico, e spiegato ogni inno o leggenda. Proprio a partire dal sapere e dalle religioni antiche, Assmann ha individuato quel momento cruciale nella storia dell’umanità in cui, con Mosè e il monoteismo ebraico, la religione si trasforma in verità assoluta, e quindi in quel problema che ci affligge e ci riguarda oggi molto da vicino: la furia della violenza religiosa, quell’intolleranza contro tutti gli altri percepiti come “infedeli”. «È questo l’immenso prezzo politico che bisogna pagare con il monoteismo, quell’impulso sterminatorio contro chi non condivide la fede nel tuo unico Dio», inizia a dirci Jan Assmann in questa intervista. In cui l’estroverso egittologo tedesco - autore di saggi importanti come “La distinzione mosaica”, per Adelphi, o “Non avrai altro Dio”, per Il Mulino, ma anche di affascinanti studi su Mozart o su Thomas Mann - rilancia apertamente non solo le ragioni degli Antichi, ma anche di un nuovo e più tollerante politeismo. «Il mondo e la cultura del politeismo antico», continua Assmann che siamo andati a trovare nel suo appartamento sul lago di Costanza, «hanno ancora oggi una loro meravigliosa attualità e tanto da insegnare a noi presunti moderni, sia in campo etico che politico».
Partiamo dalla sua tesi di fondo sul monoteismo: è davvero convinto che questa fede generi violenza?
«Sì, la grammatica del monoteismo ha in sé i germi della violenza contro gli altri perché è una forma di fede che pretende di possedere la verità in modo esclusivo. È questa esclusività dell’accesso alla verità il motore che genera di continuo nella storia, come vediamo ancora oggi, focolai di violenza ed eccessi d‘intolleranza».
Si riferisce alle ultime stragi dei terroristi islamici o alle guerre fomentate da presunti Califfi?
«Non solo l’Islam: ogni forma di monoteismo ha in sé la carica per esplodere in radicalismi sterminatori. Le cosiddette “guerre sante” non sono affatto una prerogativa dei musulmani, visto che nella storia ci sono state crociate, pogrom ed auto da fé d’ogni tipo. Le religioni monoteistiche hanno lasciato una lunga striscia di sangue nella storia, un’unica traccia di stragi e sterminio degli infedeli».
L’impulso alla strage deriva dal credersi figli prediletti dell’unico Dio o è invece insito, come pensava Walter Benjamin, in tutte le religioni, anche in quelle politeiste?
«Sul tema religioso Benjamin si rivela filosofo poco attento alle differenze storiche e culturali, e troppo anarchico. La differenza principale nello sviluppo delle forme di fede resta quella fra religioni “primarie” e “secondarie”, cioè tra religioni politeistiche ed il gruppo delle monoteistiche che sviluppano l’idea di un unico e trascendente Dio».
Sta dicendo che il kamikaze per le strade di Kabul o Parigi, il “martire” o il terrorista votato alla morte sono possibili perché credono in un unico Dio e nell’aldilà?
«Esatto, il segno cruciale delle religioni monoteistiche è che solo in esse si è disposti al massimo, al sacrificio appunto della vita propria ed altrui in nome del valore supremo, dell’unico Dio che sta in cielo. Questa disposizione al martirio è assolutamente impossibile nel politeismo antico che, non a caso, preferisco chiamare “cosmoteismo”».
Non ci sono martiri né fondamentalismi nei politeismi antichi o, se preferisce, nel cosmoteismo?
«No, nella cultura egizia, in quella greca o romana la religione è racchiusa nella sfera del culto. Vi si accede, dopo tecniche d’iniziazione, in qualità di sacerdote che celebra dei riti in certi luoghi, i templi, e in date occasioni come le feste cicliche. Ma mai il sacerdote o il fedele si credono in possesso di verità assolute, né in contatto personale col Dio. È questa la grande differenza tra il mondo, che ritengo più poetico, del Mito e quello della fede rivelata».
Nel mondo del Mito, i fedeli di Osiride, Giunone o Atena non si scannavano tra di loro per le rispettive divinità?
«Al contrario, la prassi interreligiosa nell’universo cosmoteistico favorisce le “liste degli dei”: le tue divinità, anche se romane, greche o egizie, hanno nomi, proprietà e tradizioni compatibili alle mie. Questa politica della tolleranza religiosa è possibile solo all’interno del mito, così come l’ideale sterminatore del martire solo nel monoteismo».
Se il politeismo promuove tolleranza e il monoteismo violenza, perché è toccato ai monoteismi riscuotere nella storia più fortuna delle religioni arcaiche?
«La “fortuna” di cui parla si basa sull’invenzione da parte della distinzione mosaica di un Dio che non è più immanente, ma separato dal mondo: la trascendenza divina, cioè un Dio “ab-solutus” dal cosmo è la massima provocazione per il mondo antico, e proprio ciò che affascinò nel monoteismo. Come egittologo, abituato alla cultura dell’“immanenza” nell’antico Oriente, confesso che mi sorprende ancora oggi questa cesura così radicale, e in fondo impossibile, fra Dio e il mondo».
Cosa trova di così assurdo in questo Dio unico e assoluto?
«La storia delle religioni monoteistiche dimostra, sia nelle ricadute politiche del clero sia nelle derive così pagane di tanti culti popolari (specie in un paese così umano come l’Italia), che l’incanto del Cosmo o dei riti magici non è mai stato davvero superato nell’orizzonte della trascendenza. Persino Platone, culla della filosofia greca e poi cristiana, risente il fascino di un Oriente in cui il mondo è un palpitante corpo-divino e le divinità forze terrestri».
Se rompe con i miti e il fascino dell’Oriente, allora Mosè è un agente ben più rivoluzionario e “meta-fisico” di Platone, o no?
«Non sappiamo chi sia il Mosè storico. Ma del Mosè “simbolico” sappiamo che è colui che ha pensato Dio non come ciò che accade nel mondo o come l’Essere, perché a ciò erano giunti anche i filosofi. No, il Dio che per la prima volta si rivela a Mosè è colui che promette una vita migliore, instillando così un orizzonte di fiducia nell’animo del fedele».
È questo Dio che si fa personale e morale che, come ha visto Thomas Mann nel romanzo “Giuseppe e i suoi fratelli”, ha scioccato tanto il mondo antico?
«Sì, Thomas Mann si rifaceva ad Ernst Cassirer e soprattutto a Martin Buber e sapeva benissimo che nel cosmoteismo le divinità appaiono in modo così evidente da non dar adito a un vero “credere”. Si crede a una promessa, ma non all’apparire quotidiano dei fenomeni. Il monoteismo ha trasformato di colpo, come accade a Gregor Samsa nella “Metamorfosi” di Kafka, il senso della realtà, della giustizia e della politica nel mondo antico».
Sbaglio o rimpiange la scomparsa del “Kosmos” e la conversione dei miti in comandamenti morali?
«Non avrei potuto scrivere i miei libri sull’antico Egitto o quello su “Mosè l’egizio” senza una certa empatia per il paradigma del cosmoteismo. Certo, prendo sul serio la sapienza egizia e il suo modo di percepire il mondo e il sacro. Non erano solo dei bambini superstiziosi: la traccia che l’Egitto ha lasciato nel mondo antico, ad esempio nei greci, mi fa pensare che anche il cosmoteismo offra valori che noi moderni abbiamo dimenticato».
È un caso se nelle fasi cruciali, o più critiche, della modernità - nel Rinascimento, nell’illuminismo e all’inizio del ’900 con Nietzsche e Freud - si torna a riscoprire il politeismo antico?
«Non è un caso visto che il motore della storia occidentale e cristiana è quella radice cosmoteistica “rimossa”, per dirla con Freud, all’origine della nostra cultura. Ciò che è stato rimosso ci perseguita come un tic storico: per questo la radice del politeismo rispunta nel Rinascimento, nei dotti illuministi come Lessing o nello “spirito della musica” di un Nietzsche e Thomas Mann. Perché nascondermi: anch’io, come i tanti citati, nutro simpatie per il cosmoteismo».
Anche lei, come “l’eretico” Baruch Spinoza, avverte il fascino di un Dio immanente alla natura?
«Lo chiama “eretico”, ma per me Spinoza è l’apice del pensiero occidentale. È tremendamente complesso, ma nelle sue righe così astruse è all’opera un’idea altrettanto liberante dell’opzione mosaica, e cioè che Dio e mondo, natura e divinità non sono divisi. È questo “respiro divino nel mondo”, come Jacob Taubes disse di Spinoza, che mi fa risentire tutta l’attualità dell’antico politeismo».
Un momento: un profeta del conservatorismo come Carl Schmitt affermava - nella sua “Teologia politica” del 1922 - che il moderno liberalismo altro non è che teologia camuffata. Lei ora dice che il monoteismo altro non è che paganesimo rimosso..
«Si può interpretare la Storia, dall’epoca moderna al monoteismo e da qui al politeismo, come una serie di inversioni complementari. Se il liberalismo riportò al secolo la trascendenza, il monoteismo nasce unendo in cielo ciò che il mondo pagano teneva diviso: la teologia da un lato, la verità e la politica dall’altro. Ma da questa forzata sintesi monoteistica nasce anche la furia religiosa che porta al martire e allo sterminio».
Ma oggi, in un mondo in cui riesplodono ovunque deliri etnici e guerre religiose, a che possono servire queste tesi sul monoteismo?
«A sfatare ogni “teologia politica”: Schmitt, con le sue tesi sulle origini religiose del liberalismo, voleva legittimare la Dittatura. Oggi fondamentalisti d’ogni colore legittimano ogni crudeltà con lo stesso trucco del ricorso a presunti dogmi religiosi. Il punto è che, come nell’antichità pagana, bisognerebbe separare la religione, la sfera del rito e del mito, da quella della verità e soprattutto dalla politica. Non è questa separazione il succo dell’illuminismo?»
Quindi ha ragione Amartya Sen quando scopre nel politeismo la modernità dell’India, la più grande democrazia del mondo?
«La profonda lezione di spiriti illuminati come Gandhi o Tagore è che vi sia un grumo non solo di verità, ma di identità in ogni religione. Alla luce dell’abuso politico che oggi si fa dei dogmi, i miti del politeismo sono più compatibili con le parabole di Lessing, dei Lumi e quindi con le fondamenta della tolleranza».
Il politeismo si regge in effetti su miti e belle immagini: è per questo che tutti i “talebani” di questo mondo ce l’hanno a morte con musica ed immagini d’ogni tipo?
«Platone ce l’aveva con i poeti, non con i prodotti degli artigiani; ma un grandioso poeta come Mosè ce l’ha con le immagini materiali - incise, dipinte o scolpite - perché per lui è la parola l’unico tratto d’unione fra Dio, l’uomo e mondo. Le belle immagini sono le prime vittime abbattute nella Bibbia dalla furiosa identificazione del verbo divino con la verità e la parola scritta».
Si era mai vista, nel mondo antico, una tale identificazione di religione e verità?
«La cosa che più mi sorprende dai primi padri della chiesa ai pontefici di oggi è che fanno finta non solo che i miti non siano mai esistiti, ma che non sia mai esistito neanche il “Dio dei filosofi”. Il Dio trascendente è per loro l’unica fonte di verità che prosciuga tutte le altre forme. Oltre che al cosmoteismo e all’immanenza la mia simpatia va al dio dei filosofi, in nome del quale non si conducono “guerre di religione”».
Ma non vede il rischio di trasformare gli imperi antichi, basati su guerre e soprattutto sullo schiavismo, in paradisi di filosofia, pacifismo e tolleranza?
«Era un mondo crudele, basato sulle più cruente punizioni, con i più sanguinosi costumi sociali e marziali, sino al sacrificio umano. Ma, nella sfera religiosa, la violenza si teneva entro riti codificati senza mai giungere all’eccesso di guerre di religione. Per passare dal rito sacrificale alla guerra occorre il salto dal mito al Dio trascendente, in nome del quale si sviluppa un “odium” che tradisce ogni pathos religioso».
Insomma, solo il politeismo ci potrà salvare dalla violenza religiosa?
«I persiani, conquistata Atene, sequestrarono le divinità dei greci per esporle nei loro templi a Persepoli. Persino in guerra si rispettavano come opere d’arte le divinità altrui, non si distruggevano le opere d’arte considerate blasfeme. Ecco la lezione di tolleranza che ci viene dal mondo antico. Un mondo che aveva capito come la magia della religione non sia tutto nella vita».
L’influenza egizia nel culto giudaico: le origini egiziane del Cristianesimo, scrive Giulio Perrotta il 7 novembre 2016 su “L’Altra Pagina”. Giulio Perrotta il saggista e studioso di religioni antiche Paolo Battistel, autore di opere come “Il Dio Cornuto” e “I figli di Lucifero” ci porta oggi nel mondo dell’Antico Egitto, per riscoprire le origini del Cristianesimo. Un viaggio emozionante per capire meglio come il culto oggi conosciuto sia in realtà legato a tradizioni inimmaginabili. Sappiamo con certezza che il Cristianesimo attinge a piene mani dal culto ebraico; oggi, scopriremo le origini ancora più antiche del culto-madre.
Buongiorno Paolo! Cosa intendiamo con il termine Antico Egitto e che origine aveva il popolo che ha fondato un simile regno?
«Quando parliamo della civiltà dell’Antico Egitto intendiamo la cultura che nel tardo Neolitico si è sedimentata e sviluppata intorno alle rive del Nilo. Una terra fertile e paludosa a causa delle esondazioni periodiche del fiume che permise a queste popolazioni, un tempo nomadi, di diventare sedentarie e sopravvivere attraverso una florida agricoltura. Si ha tracce storiche di un’autentica comunità politica già intorno al 3100 a.C. e la storia di questo regno prosegue per millenni fino alla conquista romana del 30 a.C.. I cosiddetti antichi egizi appartenevano all’antico ceppo etnico delle popolazioni afro-asiatiche. I popoli afro-asiatici sono solitamente divisi in tre grandi gruppi: i popoli semitici tra cui spiccano Assiri, Babilonesi, Fenici e l’antico popolo ebraico; i popoli berberi diffusi ancora oggi nel nord dell’Africa; il terzo grande gruppo è proprio quello dei popoli egizi con una cultura complessa e variegata che plasmò i pilastri della cultura occidentale come la conosciamo oggi. La lingua e la cultura di queste tre stirpi etniche (semitiche, berbere, egizie) si trovano così a essere strettamente imparentate sia per la grammatica che per il pensiero».
Che tipo di religione avevano gli antichi Egizi?
«Si tratta di un complesso politeismo che ha continuato a modificarsi nel corso dei secoli attraverso influenze esterne, sincretismo e operazioni dall’alto di tipo politico. Gli dèi egizi non erano figure trascendentali ma forze presenti nel quotidiano nella vita di tutti. Si tratta dell’incarnazione di forze cosmiche o elementi della natura come Shu il vuoto e l’aria, Nun l’acqua, Ra il sole, Nut il cielo, Geb la terra, Iah la luna e molti altri. Questi primi dèi dell’Antico Egitto (che crebbero esponenzialmente di numero con lo scorrere dei secoli) rappresentano più che altro degli esseri extraumani con poteri superiori all’uomo. In seguito all’unificazione del paese e all’esigenza di creare una Religione di Stato unitaria, vengono progressivamente organizzati in un sistema. Questo sforzo teologico del corpo politico e religioso dell’Egitto sfocia nella compilazione di due Enneadi, una maggiore e una minore. Al di fuori di questo complesso sistema che col passare dei secoli divenne parte integrante del sistema statale (non va dimenticato che il faraone era anch’egli una divinità) va inserito la figura di Aton, una divinità somma con una natura fortemente trascendentale».
Che cos’è il culto di Akhenaton? Era un vero monoteismo?
«Nel Nuovo Regno il rapporto tra faraone e casta sacerdotale assume momenti di dura tensione che raggiunge l’apice con l’insediamento sul trono di Amenhotep IV. Questi in aperta opposizione con il clero tebano legato al culto di Amon-Ra volle assegnare il ruolo di dio supremo al dio Aton. Il faraone cambiò il proprio nome in Akhenaton (trad. lett. “gradito ad Aton”) dando inizio a una nuova teologia centrata su Aton il dio del disco solare. A differenza delle altre divinità che incarnavano forze celesti o forze naturali, Aton era sprovvisto di una sua mitologia che ne celebrasse le origini divine trovandosi a essere un dio più trascendente e molto meno “concreto” del resto del Pantheon egizio. Molti studiosi hanno interpretato la riforma di Akhenaton come uno dei primi monoteismi della storia dove Aton rappresenterebbe il dio celeste sommo che soppiantava l’antico pantheon egizio. La verità sta nel mezzo perché Akhenaton non rifiuta gli altri dèi come Ra e tutto il resto delle divinità minori ma si limita a potenziare così tanto il ruolo di Aton che le altre divinità sembrano impallidire al suo cospetto. Tecnicamente non siamo davanti a un monoteismo ma a un enoteismo».
In che modo questo culto ha influenzato la nascente cultura ebraica?
«In molti hanno legato lo sviluppo religioso del popolo ebraico in senso monoteista a un qualche influsso derivato dall’Egitto in particolare dal culto di Akhenaton. A partire dall’età del ferro buona parte dei popoli semitici presenti in quella che successivamente prese il nome di terra di Israele avevano un tipo di religione enoteista dove un dio primeggiava su tutti gli altri. Nel popolo ebraico questo enoteismo divenne così rigoroso fino ad assumere valenze etiche che condussero alla proibizione di pregare altre divinità minori. In questo senso va inteso in termine “monoteismo etico” con cui si è soliti identificare questo culto in ambito accademico, un monoteismo imposto dall’alto attraverso la proibizione. Da questo punto di vista Akhenaton e la sua riforma rappresentano in parte un modello e un precursore per questa direzione religiosa ma non va certo dimenticato che da un lato non ci sono elementi storici certi che legano questi due culti (per ora si tratta solo di ipotesi interpretative) e dall’altro alla morte di Akhenaton in Egitto si è cercato in tutti i modi di cancellare il dio Aton dalla storia».
L’Isis dei cristiani in Cina. Tra il 1850 e il 1865, in Cina, si scatenò una sanguinosa guerra civile nel regno di mezzo. A provocarla fu un tale Hong Xiuquan, che si definiva "Fratello in Cristo" e voleva instaurare una teocrazia con molti punti di somiglianza con l'attuale Califfato islamico, scrive Hans Magnus Enzensberger il 16 novembre 2016 su "L'Espresso". Ma a chi sarà mai venuto in mente di erigere una teocrazia assoluta e in una regione che oggi è in completo subbuglio, ma che un tempo è stata la culla dell’umana civiltà? Sarebbe dovuta diventare una teocrazia senza più limiti né confini, e avrebbe dovuto abbracciare il mondo intero. Chi ha voluto raffigurare la sciabola al centro delle proprie bandiere, e chi ha mozzato pubblicamente, in piazza, le teste a tutti coloro che si ostinavano a non volersi piegare ai comandamenti della fede? Chi è stato poi accusato di aver attirato soprattutto gli ignoranti nelle proprie file reclutando le masse di indigenti nelle proprie armate? E non furono in pochi, ma a centinaia di migliaia a volerlo seguire. Alcuni sostengono inoltre che il capo della suddetta ribellione aspiri a tornare indietro nella storia, ai tempi di un immaginario Medioevo. Ma se è così, allora come mai per raggiungere le sue tanto ambiziose mete lui si serve delle armi più moderne e delle tecnologie di comunicazione più evolute? Si dice pure che, sotto il suo ferreo predominio, le donne siano del tutto prive di diritti; sebbene poi lui stesso le utilizzi non solo nelle schiere dei suoi guerrieri, ma anche per l’esecuzione di attentati o nelle truppe dei suoi ausiliari. Tutti gli stranieri poi risultano per lo più sospetti ai suoi occhi. Ma come mercenari sono i primi ad esser benvenuti nelle sue armate; e del tutto indispensabili anzi se commercianti, visto che per i suoi affari lui deve ricorrere per forza di cose a trafficanti e contrabbandieri stranieri se vuol riempire le casse per la guerra. Altri ancora gli rinfacciano di non voler creare nient’altro che il puro caos con la sua jihad. Anche se, a dire il vero, almeno questa accusa non è poi del tutto pertinente. Sin dall’inizio in effetti il capo alla guida di questa rivolta non ha puntato ad altro che a costruire un vero e proprio organismo statale. Tant’è vero che già dispone di un apparato amministrativo perfettamente funzionante, con tanto di ministri e di governatori locali. Anche ad una solerte burocrazia ha già provveduto, come a fornire servizi sociali ai suoi seguaci e persino a un sistema di servizi segreti ben collaudato. Certo, corrisponde a verità che tutte le norme e regole della società debbano, a suo modo di vedere, orientarsi e seguire solo la divina parola, così almeno come essa sta scritta una volta per tutte nel libro sacro. Queste e null’altro sono le Leggi a cui d’ora in poi si dovrà prestare l’assoluta ubbidienza. Chi si azzardi a nutrire pensieri eretici o infranga solo una delle sacre leggi verrà inesorabilmente punito...Tutto ciò a cui abbiamo appena accennato è realmente accaduto tra il 1850 e il 1865, dunque più di un secolo e mezzo orsono, in Cina. Toccò ad un personaggio sino ad allora completamente sconosciuto, tal Hong Xiuquan, fomentare e scatenare una sanguinosa guerra civile nel Regno di Mezzo. Fu un conflitto talmente accanito da durare 15 anni, così sanguinoso da costare la vita ad almeno 20 mila persone e che riuscì a far vacillare la dinastia imperiale. Oggi qui da noi in Occidente si parla molto raramente della “insurrezione dei Taiping”. Anche se è legittimo domandarsi come mai se ne parli tanto di rado. In effetti, salta agli occhi il paragone con un’altra insurrezione che oggi attira tanto l’attenzione della politica internazionale, e nei cui confronti ci sentiamo altrettanto disarmati. Sono più che evidenti insomma le varie analogie con quel cosiddetto “Stato Islamico” che ora si ritrova in via di espansione dalle coste del Mediterraneo sino alle sperdute valli del Pakistan. Con la non lieve differenza però che allora, in Cina, a fondare il loro orrendo predominio sulla base di promesse tanto ambiziose, non furono affatto dei musulmani, ma dei cristiani. E non fu quindi il Corano, ma la Bibbia il dogmatico fondamento su cui Hong Xiuquan, una volta autoproclamatosi re, eresse il suo cosiddetto “Regno celeste della Grande Pace”. A Nanchino, che diventò la sua capitale, comminò la pena di morte per l’omosessualità, il gioco d’azzardo, l’oppio, l’alcool e la prostituzione. Anche chi non si decideva a battezzarsi veniva inesorabilmente condannato a morte. «La terra», annunciava la novella del sovrano Hong Xiuquan, che si definiva “Fratello in Cristo”, «deve esser lavorata da tutti, il riso dovrà nutrire tutti e la proprietà privata abolita». Non ci riuscì né l’esercito dell’imperatore né le potenze europee, che inviarono le proprie truppe in quella guerra civile cinese, a sedare la lunga, ostinata rivolta dei Taiping. Solo quando scoppiarono le prime rivalità interne, soprattutto quando la corruzione e il nepotismo si diffusero anche in quella loro teocrazia e dopo che Hong Xiuquan - un soggetto psicologicamente assai instabile - cadde vittima delle sue stesse manie di grandezza, solo allora il loro movimento cominciò lentamente a indebolirsi e poi disfarsi. I dissidi interni e le sconfitte presero allora ad accumularsi uno dopo l’altro, sino a che nel 1865 i Taiping andarono finalmente incontro alla loro desolata sorte. Fu così che l’impero di Cixi, la vedova dell’imperatore, riuscì finalmente a ritrovare una stabilità interna. Ma non dovevano passare neanche 50 anni, e anche la Dinastia Qing giunse alla sua fine. Da allora la quiete e la pace non sono più tornate nel Regno di Mezzo. E c’è da temere che un destino molto simile spetti ora anche alle regioni in rivolta del Medio Oriente. Traduzione di Stefano Vastano.
Il monoteismo sotto accusa, scrive Fabio Della Pergola martedì 5 aprile 2016 su “Agora Vox”. Una diatriba di notevole interesse si è accesa sulle pagine dell’inserto domenicale “colto” del Corriere, La Lettura in edicola questa settimana. La questione del contendere è esplicita già dal titolo: “Processo al monoteismo”. Come in ogni processo giuridicamente sensato anche qui c’è un accusatore, nei panni dello storico dell’antichità Luciano Canfora e un difensore impersonato dalla filosofa romana Donatella Di Cesare. L’articolo scorre in realtà su due livelli: uno palese - valutare se il monoteismo in sé è portatore di violenza e intolleranza oppure se è un processo evolutivo della storia umana - e uno, latente, che si incardina sull’accusa (o la difesa) dell’ebraismo considerato, come da opinione diffusa urbi et orbi, il vero “inventore” del monoteismo. L’accusa di Canfora si svolge, come da prassi, insistendo sull’intolleranza monoteistica anche se - con accademica eleganza - riconosce che né la violenza né l’intolleranza sono state nella storia un’esclusiva del monoteismo; ad esempio, cita la condanna che gli ateniesi imposero a Socrate accusato di «non credere agli dèi della città». Basterebbe pensare alla violenta e cruenta espansione dell’Impero Romano, aggiungerei, o all’intolleranza induista all’interno (le caste) o all’esterno (i rapporti con i musulmani) della propria cultura. O, ancora, ricordare un passo in cui Tucidide racconta la motivazione con cui gli Ateniesi - di nuovo loro! - si rivolsero ai Melii che non volevano essere sottomessi: «Quello che facciamo, quello che pretendiamo, non si pone affatto fuori dalla concezione che gli uomini hanno del mondo divino né della reciproca loro disposizione. Non solo tra gli uomini, come è noto, ma, per quanto se ne sa anche tra gli dèi, un necessario e naturale impulso spinge a dominare su colui che puoi sopraffare». Alla faccia della “tolleranza” politeistica. Ma Canfora ci ricorda giustamente che dove c’è «il libro “unico” e “unico detentore della verità”» non può esistere quel proliferare di reinterpretazioni dei miti tipici della tradizione greca, ma si determina casomai il proliferare delle accuse di eresia; con tutto quello che ne consegue. Alla fine però - e qui ci si avvicina decisamente a un interesse più moderno, che può riguardare da vicino anche un ateo razionalista - il punto è che il monoteismo si veste anche della «evoluzione in senso deistico, cioè di venerazione di una astratta entità divina (to theion) che connota il politeismo pagano (...) per influsso del pensiero filosofico». Un’astratta entità divina che, quindi, può riguardare da vicino anche la cultura nominalmente politeista greco-romana o il razionalismo non religioso: dobbiamo ricordare la Dea Ragione su cui si fonda la modernità dell’Occidente illuminista? Tanto più - ci ricorda Canfora - che «questo fenomeno sincretistico, di depurazione delle rigidità teologiche, è inarrestabile» in un’epoca in cui l’ecumenismo non è che «deismo inconfessato». Attorno alla “astratta entità divina” si troverebbero alla fine tutti d’accordo. La negatività, violenta e intollerante, monoteistica sarebbe quindi un retaggio del passato, più che l’essenza del presente; un retaggio che risuona ancora in un islam che «rispecchia, nel suo sviluppo storico, una fase che corrisponde a quella del cristianesimo nei secoli XVI e XVII il cui simbolo è la notte di San Bartolomeo». La strage degli Ugonotti. Dal banco della difesa si erge a contraltare la filosofa Di Cesare che ricorda la drastica accusa di Michael Onfray (noto per il suo Trattato di ateologia, edito in Italia da Fazi) non solo al monoteismo, ma anche a chi l’ha inventato: “gli ebrei”. Necessariamente più articolata la chiamata sul banco degli imputati di un altro studioso delle religioni, l’egittologo tedesco Jan Assman che ha introdotto nelle riflessioni sul monoteismo il concetto di “distinzione mosaica”. Vale a dire quella particolarità della religione di Mosè per la quale il Dio vero sarebbe quello di Israele mentre gli altri dèi sarebbero “falsi”. Non inesistenti, sarebbe davvero problematico dirlo, ma falsi. E questa “distinzione”, che nega verità agli dèi degli altri, sarebbe il fondamento reale del monoteismo biblico e la sua originalità. Peccato che proprio Assman abbia recentemente dato alle stampe il suo ultimo libro (Il disagio dei monoteismi, recensito da Maurizio Bettini su La Repubblica), in cui si dice che la “distinzione” tra dio vero e dèi falsi nei testi mosaici della Bibbia ebraica, ebbene non c’è. Casomai c’è verso gli israeliti un pressante invito di fedeltà, quantomai ovvio, al Dio di Israele (da qui la “gelosia” dello stesso). Smontata l’origine biblica del monoteismo (che Assman ora rimanda a un’influenza dello zoroastrismo persiano), la domanda a questo punto diventa: perché il monoteismo è considerato, dai suoi difensori d’ufficio un passaggio evolutivo nella storia umana? Di Cesare ha la sua risposta: «per uscire dal mondo» in cui i pagani politeisti erano confinati, rimbalzando “da una stella che è una dea a un fiume che è un dio”. L’immanenza degli dèi del politeismo - spiriti che vivono in mezzo agli uomini, intervenendo nei loro affari per favorire, consigliare, suggerire, imporre, ostacolare o semplicemente per rompere le scatole sic et simpliciter - chiude gli uomini in un mondo “senza vie d’uscita”. Il Dio unico di «Israele de-sacralizza il mondo - scrive la filosofa - toglie la magia, rompe con l’idolatria (...) Perciò l’ebraismo potrebbe persino assomigliare all’ateismo. E corre questo rischio. Perché il monoteismo ebraico richiede di rapportarsi all’infinitamente Altro a partire dalla separazione». L'uomo sta qui, Dio sta là, in un trascendente "fuori dal mondo". Qui il senso “evolutivo” del monoteismo ebraico. Ma poi cala il punto pesante: «Secondo un’etimologia antica Israel vuol dire “che Dio regni” e può essere tradotto in greco con teocrazia, potere di Dio. In questa forma politica “nessuno è asservito a un suo uguale”». La teocrazia sarebbe condizione essenziale della democrazia, proprio perché «nell’esperienza della liberazione dalla schiavitù, nella uguaglianza di tutti, che esclude ogni dominio se non quello dell’assolutamente Altro, emerge per la prima volta la democrazia». Peccato che l’Altro sia, per Di Cesare, l’Assenza, quel niente che, pare, fosse la realtà interna del Tempio di Gerusalemme quando i Romani vi entrarono per saccheggiarlo, senza trovarvi alcunché. Conseguentemente, la democrazia non sarebbe altro che l’assoggettamento - di tutti... democraticamente - all’Altro che è Assente, al supremo Nulla. Tema caro alla Di Cesare, capace di denunciare per palese nazismo e antisemitismo il nume moderno del Nulla, Martin Heidegger, ma anche di descriverne la filosofia come «il pensiero più elevatoprestato all’orrore più abissale». Sic. E peccato anche che l’etimologia di Israel sia tuttora ben più controversa di quanto da lei affermato; secondo l’Online Etymology Dictionary significa “colui che si è confrontato con Dio”, ma secondo Giovanni Semerano, che di etimologia se ne intendeva, vale invece un più plausibile “giusto è El”. Affermazione che non indica affatto un supino assoggettamento all’assoluto, ma l’affermazione scontata che l’Elohim di Israele era considerato “giusto” da Israele stesso. Sarebbe stato strano il contrario, direi. E qui entra in ballo un’altra considerazione che ci deriva da un biblista di calibro eccezionale (e per questo relegato dal potere ecclesiastico nel mondo dei reietti, dove peraltro si può stare lontani dai deliri di quello stesso potere). Parlo di quel Carlo Enzo che, sempre sulle pagine di Repubblica, ebbe a dire «Che cos'è l’Elohim della Torah se non il popolo stesso che si è dato la sua costituzione, le sue leggi, i suoi imperativi morali?». Parla dunque di “spirito del popolo” non di Dio; «“Ma questo, chiede l’intervistatore, non significa limitarne l'assoluto? L' obiezione - risponde il biblista - avrebbe senso se traducessimo "Elohim" con "Theos", giacché Theos è l'assoluto. Ma l’Elohim non è l’assoluto». Il bello è che anche Assman, in un saggio del 2006, Gewalt, Gesetz und Monotheismus (Violenza, Legge e Monoteismo), qui in traduzione italiana “ufficiosa”, si chiedeva «Dove sta scritto che sul monte Sinai assistiamo alla fondazione di una ‘religione’? (...) il concetto di «rivelazione» in rapporto all’evento sinaitico appare inadeguato e in ogni caso non biblico. La Torah non viene ‘rivelata’, bensì “data”. A essere ‘rivelata’ è una verità nascosta, non una legge. Una legge viene decretata, promulgata, dichiarata vigente, insomma viene ‘data’ come dice la lettera dell’espressione ebraica». Con la Torah si forma una legge, una Costituzione, uno stato di diritto se vogliamo, non una religione, né tantomeno una religione monoteistica assoggettata a un Nulla. Il “dio” della Bibbia ebraica non è un Dio (Theos) assoluto; discutibile quindi l’uso di termini come teo-crazia, teo-logia o mono-teismo, come - contraddicendo se stesso - continua a fare Assman. E come hanno fatto Onfray, Di Cesare e tanti altri prima di loro parlando di “monoteismo biblico”. Con buona pace di tutte le teo-logie (ebraiche, cristiane o musulmane che siano). La democrazia biblica si fonda sulla sua etica: rifiuta i sacrifici umani e chiede di amare il prossimo come se stessi (Levitico, 19, 18); cioè di riconoscere agli altri la stessa dignità umana che si afferma per sé. E invita a considerare come "prossimo da amare" anche lo straniero che vive in pace in mezzo al proprio popolo (Levitico, 19, 34). Ragion per cui c’è una sola legge, per l’ebreo e il non ebreo (Esodo 12, 49). Né suprematismo etnico né discriminazione giuridica né privilegi di casta: il portato di un popolo che, scrive Enzo, cerca di "farsi moralmente alto". Passi della Torah che ogni tanto andrebbero ricordati, anche ad alcuni ebrei.
Poi, chiarito tutto ciò, si potrà andare alla ricerca delle vere origini del monoteismo che è la religione dell’Assoluto, là dove l’umanità si è davvero assoggettata al Nulla e in cui l’umano Elohim “spirito del popolo” è stato infine sostituito dal Dio della teologia e dal deismo della filosofia fino al moderno Volksgeist su cui si è poi articolato il suprematismo nazista con il suo portato di agghiaccianti devastazioni.
Jean Soler: nuova critica del monoteismo, scrive Fabio Della Pergola mercoledì 27 aprile 2016 su "Agora Vox". Un altro libro, dopo l’ultimo di Jan Assman cui ho già accennato, si riferisce in modo critico al monoteismo e "alle sue malefatte". Con una ancor più esplicita nostalgia per i politesimi, lo studioso francese Jean Soler nel suo Chi è Dio? (Mucchi Editore) ribadisce la condanna della fede esclusiva in un unico Dio camminando, si direbbe, sulle tracce di Assman. Ma con una prospettiva storica finale dal sapore vagamente antisemita, se è corretta la prima recensione che ne abbiamo letto, a firma di Pierfranco Pellizzetti, su Micromega. In che modo Soler traccia, in sintesi, la nascita del monoteismo? Accortamente evita di addossare al mitico Mosè l’onere di aver inventato il culto in un Dio uno, unico e universale, come si è soliti fare, da una buon numero di secoli, sulla base di una diffusa cultura dominante (tanto cristiana quanto ebraica ed islamica). Al contrario, correttamente si dice che «l’analfabeta Mosè (dunque incapace di leggere le Dodici Tavole di cui era latore) non era neppure monoteista. Semmai “monolatra”, ossia devoto di un dio particolare del pantheon politeista, con cui stipulare l’alleanza sulla base di un reciproco scambio: devozione esclusiva a fronte di protezione miracolosa», ma differenziando comunque la monolatria ebraica «dalle altre per una sorta di esclusivismo sempre crescente, attribuibile alle alte funzioni identitarie svolte dalla religione mosaica per un popolo stretto tra vicini potenti e sempre a rischio di estinzione». Una specie di ancora di salvezza, in sostanza, per evitare di sparire semplicemente dalla storia. La tesi non è affatto nuova e chiunque abbia fatto un semplice pensiero sulla nota “gelosia” del dio biblico ci sarebbe arrivato. Si è gelosi se qualcuno insidia il nostro “territorio” (personale o pubblico che sia), ma se si è “unici” non c’è alcun motivo di essere gelosi. Il testo quindi non fu redatto da scriba dalla mentalità monoteistica, ma al più, come è stato detto, monolatrica. Un estensore che accettava, per sé, un unico ente cui riferirsi (tradotto con “dio” ancora oggi dai teologi, benché la traduzione di Elohim con Dio sia discutibile e fortemente discussa) ma che contemporaneamente riconosceva l’esistenza di altri Elohim/dèi: gli israeliti erano il popolo del loro Jahvè così come «gli assiri erano il popolo del dio Assur, come i babilonesi veneravano Marduk e i persiani Ahura-Mazda; senza che nessuno di loro si sognasse minimamente di affermarne l’esclusività, l’unicità». Allora da dove arriva il monoteismo? È per rispondere a questa domanda, scrive l’articolista, che Soler affronta «il passaggio (ricostruito in maniera un po’ farraginosa) del pensiero religioso ebraico dalla monolatria al monoteismo». In maniera farraginosa perché questo fondamentale passaggio deriverebbe da tre catastrofi: la fine del regno unico di Salomone (che la storiografia ritiene ormai un avvenimento mitico, non storico), l’invasione assira e, infine, l’esilio babilonese. Riflettendo su queste catastrofi gli estensori biblici avrebbero elaborato il concetto che «assiri e babilonesi erano strumenti di Jahvé» deciso a punire il popolo ebraico per i suoi tradimenti, fondando così l’idea che il loro dio era l’unico ad agire nell’universo, manovrando altri popoli secondo la sua volontà (e quindi negando implicitamente l’esistenza dei loro dèi). Non quindi una "rivelazione" mistica come nel caso del cristianesimo o dell'Islàm, in cui Dio improvvisamente si manifesta a qualcuno di prescelto, quanto una "deduzione" intellettuale, derivante da una particolare analisi di fatti storici. Ma, se ci possiamo permettere una critica, anche questa interpretazione, già avanzata da Assman e da altri ancor prima di lui, appare però assai debole: solo in alcuni versetti dei capitoli attribuiti al Secondo Isaia (dal 44 al 56 del Libro di Isaia) si accenna a questa potenza superiore di Jahvè che avrebbe infine “manovrato” a uso e consumo i persiani del re Ciro il Grande per sconfiggere i babilonesi e liberare così Israele dal suo esilio, alla fine, si direbbe, di uno specifico ed articolato percorso punitivo che prevedeva la sua catastrofe. Ma l’impostazione di Isaia Secondo (o Deutero Isaia) non pare aver lasciato traccia nel pensiero successivo, se già i profeti a lui posteriori parlano nuovamente di Jahvè nei termini classici del giudaismo: come re di Israele, Dio di Abramo, Giacobbe eccetera. Cioè come dell’Elohim proprio del popolo israelita in una logica senza alcun dubbio etnocentrica e, al più, monolatrica. Quella del nostro Deutero Isaia non era dunque una compiuta elaborazione teologica monoteistica, ma la conclusione un po’ euforica di chi, vissuto probabilmente nell’esilio, si è trovato poi improvvisamente e assai fortunosamente “liberato”. E come tale "vincente" su quei babilonesi che avevano sconfitto e umiliato il suo popolo e lui stesso. Tutt'altro, si direbbe, da una concettualizzazione solida in grado di affermare l'esistenza in modo convincente di un Dio uno, unico e universale. Come infatti conferma uno dei maggiori biblisti italiani, Gian Luigi Prato, docente di esegesi dell’Antico Testamento alla Pontificia Università Gregoriana, «sarebbe sin troppo facile constatare che, se per ipotesi potessimo leggere qualunque testo dell’Antico Testamento senza doverlo inquadrare appunto nella tradizione religiosa che ce lo ha trasmesso come Sacra Scrittura (...) con tutta probabilità dovremmo onestamente ammettere che nessuna sua pagina suppone una concezione monoteistica della divinità». Nemmeno quindi nei capitoli attribuiti al nostro profeta, su cui si basa l'idea che il monoteismo sia un'invenzione del vecchio testamento. Non c’è invece alcun monoteismo nella Bibbia, non solo nei testi "mosaici", come ormai affermano apertamente anche Assman e Soler, ma in "nessuna sua pagina". La domanda quindi è ancora valida, con buona pace dei teologi di ogni religione: se non è la Bibbia ebraica ad aver proposto l’unico Dio dell’universo, da dove viene l’idea monoteistica, l'esistenza di uno Spirito Assoluto Unico e Universale, a cui siamo stati tutti assoggettati? Guerre e intolleranza? Tutta colpa del monoteismo. Conflitti. Terrorismo. Ma anche razzismo e aggressività quotidiana. Tutte conseguenze del credo in unico Dio. Che ha in sé la certezza di possedere tutta la verità, scrive Pier Aldo Rovatti il 16 novembre 2016 su "L'Espresso". Dio non è morto. Nietzsche aveva annunciato, quasi un secolo e mezzo fa, in una pagina della sua “Gaia scienza” rimasta famosa, la «morte di dio», provocando uno scandalo filosofico e molte attese. Destinata a uscire di scena sarebbe stata la Verità, quella che si scrive con la lettera maiuscola, quella che si impone nella sua unicità e nella sua prepotente violenza apodittica. Certo aveva in mente la nostra scena religiosa, ma per lui non stava lì la questione principale: consisteva piuttosto in ciò che potremmo definire il “monoteismo” della ragione e delle fondamentali categorie del pensiero come “essere” o “soggetto”. Non senza imbarazzo, sapendo bene quali difficoltà si aprivano per tutti, Nietzsche aveva predetto un cambiamento radicale della scena culturale a venire. Si rendeva perfettamente conto che bisognava attraversare le acque limacciose del nichilismo e che la mancanza di punti di appoggio e di difese richiedeva una lunga convalescenza, molto lunga, per abituarsi al vuoto di verità che si apriva sotto i piedi di ciascuno. Era però sicuro che alla fine sarebbe prevalsa quella “scienza gaia” che aveva in mente come antidoto alla tragedia dell’esistenza umana. Sbagliava. Il monoteismo della Verità non è affatto morto né morente, anzi si è riprodotto in forme più temibili e velenose. La deformazione islamistica di questo monoteismo ne è solo l’esempio più minaccioso e sbaglieremmo a nostra volta se credessimo di poterlo isolare e tagliare via come la parte malata di un corpo. Ci illuderemmo drammaticamente se pensassimo che con un intervento chirurgico, asportando il male, il corpo, cioè il nostro stesso corpo sociale e culturale, tornerebbe a essere sano. Al contrario, ci accorgiamo ogni giorno di più che il monoteismo della Verità unica sta sotto la pelle di ciascuno di noi, nonostante e forse proprio in ragione della diffusione del nichilismo (quello che Nietzsche riteneva cattivo in quanto passivo), ed è pronta a riaffiorare a ogni istante con effetti devastanti nella vita pubblica, con piena evidenza, ma anche nella vita privata e nelle relazioni individuali. Le violenze scoppiano con sempre maggiore frequenza. Parlo di quelle violenze che scaturiscono dall’intransigenza e da una incapacità di accogliere senza intolleranza chi ci sta vicino o si avvicina a noi. Stiamo diventando ogni giorno più infastiditi e di conseguenza più autoritari nel nome di un’idea di verità chiusa e all’apparenza rassicurante che ciascuno si costruisce per conto proprio, anche in mancanza di un credo o di un dogma: una sorta di monoteismo filosofico prêt-à-porter, spesso fatto in casa e quindi alquanto penoso e solo abbozzato, però molto efficace e con tratti violenti sempre meno mascherati. Pensiamo, per esempio, alla diffusione capillare dei comportamenti a carattere razzistico nei confronti di qualunque fenomeno che comporti estraneità o semplicemente stranezza. Questo “dio” velenoso e obnubilante non è affatto morto, anzi sta contaminandoci tutti con un velo di pensiero assolutistico, unico e unificante, che non ha bisogno di numi tutelari e di compatte sistemazioni filosofiche, forse neppure di stampelle religiose. Sta infatti assumendo il volto peggiore, quello del senso comune o del buon senso, del “così fan tutti”, insomma dell’omogeneizzazione delle menti. Viviamo in una società nella quale si dà ormai per scontato da parte degli osservatori (psicologi, sociologi ecc.) che l’emozione prevale sulla riflessione, il che significa che il comportamento emotivo viene considerato come giusto e opportuno mentre il comportamento riflessivo viene spesso bollato come inopportuno e scarsamente efficace, dunque sbagliato. Il monoteismo culturale che sta avvolgendoci è un prodotto del cattivo nichilismo, il suo effetto collaterale, una reazione epidermica alla paura che venga a mancare l’appiglio, la maniglia della verità cui attaccarci. Nietzsche si augurava una caduta del dio-verità e che gli uomini moderni, dopo avere per un po’ zoppicato, imparassero infine a camminare senza grucce, da soli. Forse si augurava anche la nascita di un pensiero critico e autocritico che corrispondesse a questa arte di camminare. Qualcosa di simile e anche di rilevante si è pure prodotto nella nostra contemporaneità, ma con quanta fatica! Ed è realistico osservare che l’attuale velame di intransigenza, che si sta spalmando ovunque attorno a noi e dentro noi stessi, toglie aria al pensiero critico, anzi sembra proprio soffocarlo. Spendersi criticamente contro il monoteismo del pensiero veritativo, a chi giova? Non certo a coloro che hanno scelto la strada dell’insegnare: faticheranno molto ad andare avanti, saranno indotti a gettare la spugna, e se troveranno un luogo che permetta loro di vivere e parlare con libertà dovranno presto aspettarsi di essere marchiati come cattivi maestri, sia questo luogo una scuola elementare o un dipartimento universitario. Nessun rispetto per gli altri. Che cosa rinforza e cosa rende più fragile l’attuale tendenza al monoteismo del pensiero? Quando la verità e il potere stringono la loro alleanza, come sta accadendo oggi a tutti i livelli nella nostra società, il risultato prevedibile è di solito un’intensificazione delle dinamiche di massa e possiamo verificarlo osservando la presenza delle tecnologie digitali, il ruolo predominante che esse hanno assunto grazie a una sorprendente diffusione microfisica, al punto che già alle soglie della pre-adolescenza se ne riscontra ampiamente l’uso. Ma il “grande fratello” digitale è soltanto uno degli effetti collaterali di questa nuova alleanza culturale. È utile guardare più da vicino come essa funziona nelle nostre vite quotidiane. Innanzi tutto, non si tratta di un semplice fenomeno di esteriorizzazione: in realtà, ciò che tendiamo a rinforzare è proprio il nostro interno, il nostro “io” per capirsi. Sta infatti producendosi un inquietante aumento dell’egoismo individuale. L’augurio di Nietzsche, secondo il quale sarebbero stati smantellati il feticcio e la “metafisica” della soggettività chiusa in se stessa ed elevata a valore assoluto, viene fragorosamente smentito dall’idolatria dell’individuo che domina ovunque. Questa idolatria agisce e prevale anche là dove sembra evidente (come appunto nel caso dell’islamismo dell’Isis) che l’individuo rinuncia a se stesso per identificarsi completamente in una verità esterna a lui. Proviamo, invece, a immaginare il contrario, e cioè che anche in questo caso, che atterrisce il nostro comune modo di sentire, avvenga una potente interiorizzazione della verità il cui effetto è un’impressionante fortificazione dell’io individuale. Si capisce bene il fatto che ci sentiamo protetti come abitanti della sfera liberalizzata in cui stiamo vivendo, ma si capisce anche bene come possiamo sentirci minacciati da questo monoteismo “impazzito”: non tanto e non solo per i rischi materiali costituiti da un “nemico” invisibile e del tutto alieno da noi, ma forse anche perché il suo processo mentale non è poi così estraneo al nostro modo di pensare. Siamo lontanissimi da tale esempio-limite, tuttavia c’è qualcosa per cui ne avvertiamo una pericolosa prossimità: ipotizzo che questo qualcosa appartenga all’inarrestabile superfetazione dell’io individuale di cui siamo, insieme, vittime e responsabili. E dunque che cosa diventa più fragile con l’affermarsi del monoteismo del pensiero? Più l’io diventa potente, più si impoverisce e quasi si fa evanescente l’immagine dell’altro. Il risvolto negativo di ciò che possiamo chiamare l’attuale assolutismo del nostro modo di pensare è un sempre più palpabile deficit etico. Norme, regole, codici e comitati etici si moltiplicano ma non bastano certo a coprire il buco che si è scavato e che seguitiamo ad allargare: l’affossamento graduale (e all’apparenza inarrestabile) del “rispetto per l’altro”, per il migrante che arriva e che temiamo ci depredi, ma anche per coloro che abbiamo intorno e con i quali magari conviviamo ogni giorno. Il monoteismo in cui stiamo abbozzolandoci tende a bruciare ogni etica, anche minima, in quanto ci disabitua all’ascolto reale di chi ci sta vicino o ci viene incontro, come se fosse ormai un gesto inutile, una semplice perdita di tempo. L’altro viene così ridotto a un’utilità. Se è utilizzabile per confermare il nostro potere individuale, piccolo che sia, allora lo tolleriamo o appunto lo adoperiamo come uno strumento, altrimenti lo ignoriamo e perfino lo calpestiamo quando intralcia i nostri passi. Naturalmente, ogni volta, alziamo il vessillo della presunta verità che sostiene il nostro comportamento, e non vogliamo sentire altre ragioni. Ci lamentiamo di continuo della fragilità di ciò che chiamiamo “democrazia”, fino al punto di temere che si tratti ormai di una parola vuota. Ci chiediamo come possiamo difenderla mentre essa si sgretola sotto i nostri piedi, e non abbiamo granché da rispondere. È difficile dare una risposta finché seguitiamo a ignorare cosa significhi ascoltare e rispettare gli altri. Il dilagante monoteismo del pensiero sembra facilitare e accogliere proprio questo nostro analfabetismo etico. Non ci invita ad ascoltare l’altro e neppure alimenta la curiosità per tale ascolto. Peggio: non sollecita neanche la domanda sul senso da dare a questa pratica che è essenziale - come è ovvio - a una compagine sociale destinata a diventare sempre più plurale e composita.
Tutta colpa del monoteismo? No, del laicismo, scrive Pier Giorgio Liverani domenica 13 novembre 2016 su "Avvenire". Sette pagine intere del numero odierno dell'Espresso, più un filosofo italiano, un poeta e un egitto-antropologo tedeschi per affermare che «Terrorismo. Guerre. Intolleranza. Ma anche razzismo e aggressività quotidiana. Sono figli del monoteismo. Che ha in sé la certezza di possedere tutta la verità» (punti e maiuscole nell'originale) significa, come al solito, accusare anche la Chiesa di tutti quei mali. Inoltre usare, scrivendo, la prima persona plurale manifesta un certo inconfessato godimento: «Il monoteismo della Verità… si è riprodotto in forme più terribili e velenose» e «sta sotto la pelle di ciascuno di noi». Il poeta tedesco scrive addirittura di un «Isis dei cristiani in Cina» classificato come «una feroce teocrazia», ignorando l'antropocrazia comunista che dal 1949 schiaccia specialmente i cristiani. In Italia monoteismo vuol dire automaticamente cristianesimo ed ebraismo e nessuno di quei guai è addebitabile a queste due religioni. Qualche doloroso e antico episodio fu, comunque, sempre dovuto a una miscela di poca fede e molte politica e finanza, condita con l'ignoranza. Ora le cose si sono invertite, specialmente nei protagonisti: ieri il nazismo (Shoah), il comunismo e il nazionalismo; oggi una deformazione dell'Islam (kamikazismo, Isis, califfato…). Quel po' di verità che le odierne accuse dell'Espresso contengono è da addebitarsi a ben altri nostrani mutamenti culturali, di cui dobbiamo ringraziare il laicismo. Perciò là dove è scritto «monoteismo» bisogna leggere "principio di autodeterminazione" e dove «prigionia di un dogmatismo filosofico prêt-à-porter», laicismo. Entrambi ormai dilaganti. A questo punto l'unica affermazione filosofico-laicistica condivisibile è la seguente: «Più l'io diventa potente più si impoverisce l'immagine dell'altro. Il risultato è un deficit etico». Vedi aborto, divorzio, pma, affitto dell'utero, eutanasia, similnozze gay, corruzione. In tutti vige l'egotismo. Ma l'egittologo è romantico: «Erano meglio Iside e Osiride»…Secondo Filippo Facci, che è la punta polemica di Libero, il terremoto ha rovesciato il concetto di "casa e chiesa" in «chiesa e casa», perché «stiamo esagerando (forse) con i pianti e i preventivi per i danni del terremoto alle chiese, le crepe ai campanili, i crolli delle basiliche… Vorrei chiedere se avrebbe più urgenza la Basilica di Norcia dove non abita nessuno o il tetto di casa così da smettere di vivere in una tenda con moglie e figli». È solo una provocazione grossolana da anticlericale: certo che è così e non occorre che Filippo la Facci. La vita non è soltanto dormire e mangiare, ma è anche credere, pregare, fare popolo di Dio insieme. La precedenza al tetto è ovvia, ma se qualcuno volesse tirar su la Basilica (in realtà una cattedrale o una chiesetta di montagna) perché impedirglielo? La chiesa è una casa come la casa.
Il Vaticano sottomesso all’Islam (2006-2016), scrive Giulio Meotti su "L’Opinione” il 3 novembre 2016. Se l’11 settembre ha rappresentato l’avvio del jihad contro l’Occidente, il 12 settembre sarà ricordato come una delle più strabilianti genuflessioni culturali dell’Occidente all’Islam. Il 12 settembre 2006, Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) fece ritorno in Baviera, in Germania, dove è nato e ha iniziato a insegnare teologia. Era atteso all’Università di Ratisbona, per tenere una lezione di fronte al mondo scientifico. Quella lectio magistralis è passata alla storia come il discorso papale più controverso degli ultimi cinquant’anni. In questo decimo anniversario del discorso di Ratisbona, il mondo occidentale e quello islamico avrebbero dovuto presentare le loro scuse a Benedetto XVI, purtroppo però è accaduto il contrario: il Vaticano ha chiesto scusa ai musulmani. Nella sua lectio, Papa Benedetto ha chiarito le contraddizioni interne dell’Islam contemporaneo, ma ha anche offerto un terreno di dialogo con il Cristianesimo e la cultura occidentale. Il Pontefice ha parlato della radici ebraiche, greche e cristiane della fede dell’Europa, spiegando perché sono diverse dal monoteismo islamico. Il suo discorso conteneva una citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane”. Dinamite addolcita dalla citazione di una sura coranica del tempo giovanile, annotava Ratzinger, “in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato”, e che recita: “Nessuna costrizione nella religione”. Il discorso di Benedetto XVI non fu una sorpresa. “Non è un segreto che il Papa sia preoccupato per l’Islam - ha osservato Christopher Caldwell sul Financial Times - Si è domandato pubblicamente se sia possibile inserire l’Islam in una società pluralistica. Ha retrocesso uno dei principali consulenti sull’Islam di Giovanni Paolo II e ha preso le distanze da un programma di dialogo interreligioso gestito dai monaci francescani di Assisi. Ha abbracciato la visione dei moderati e dei conservatori italiani che sottolineano come il principio guida del dialogo interreligioso debba essere la reciprocità, perciò trova ingenuo consentire che la più grande moschea d’Europa venga costruita a Roma con denaro saudita, mentre l’Arabia Saudita perseguita i cristiani e altri Paesi musulmani vietano la costruzione di chiese e missioni”. A Ratisbona, Ratzinger mise in scena il dramma del nostro tempo e per la prima volta nella storia della Chiesa cattolica un Papa discusse di Islam senza ripetere le solite banalità. In quella lectio, Benedetto XVI fece ciò che nel mondo islamico è vietato fare: discutere liberamente di fede. Disse che Dio è diverso da Allah. Non l’abbiamo più sentito dire. La citazione di Manuele II Paleologo rimbalzò in tutto il mondo, scuotendo la umma [comunità] musulmana, che reagì ferocemente. Anche la stampa internazionale fu un coro pressoché unanime di condanna per “l’aggressione del Papa all’Islam”. La reazione al discorso del Pontefice dimostrò che egli aveva ragione. Dai leader musulmani al New York Times, tutti chiesero le scuse e la sottomissione del Papa. I media mainstream lo trasformarono in un incendiario fautore dello “Scontro delle civiltà” di Samuel Huntington. Nell’area sottoposta a controllo dell’Autorità palestinese, le chiese cristiane furono bruciate e i cristiani presi di mira. Gli islamisti britannici invocarono “l’uccisione” del Papa, ma Benedetto XVI li sfidò. Nello stesso periodo, in Somalia, una suora italiana venne uccisa. In Iraq, un prete siro-ortodosso fu decapitato da al-Qaeda e mutilato dopo che i terroristi avevano chiesto alla Chiesa cattolica di scusarsi per il discorso. I Fratelli musulmani in Egitto annunciarono rappresaglie contro il Papa. Un leader pakistano, Shahid Shamsi, accusò il Vaticano di appoggiare i piani dell’“entità sionista”. Salih Kapusuz, numero due del partito dell’allora premier turco (ora presidente) Recep Tayyip Erdogan, paragonò Benedetto XVI a Hitler e Mussolini. Il leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, sostenne che le parole del Pontefice sono “un anello della catena del complotto israelo-statunitense per alimentare lo scontro tra religioni” e accusò Benedetto XVI di fare parte “della cospirazione dei crociati”. Le misure di sicurezza attorno a Ratzinger furono presto ulteriormente rafforzate. Due anni dopo, gli fu impedito di parlare all’Università “La Sapienza”, il più importante ateneo di Roma. Dopo la vicenda di Ratisbona, Benedetto XVI non sarà più lo stesso. Islamisti e pacificatori occidentali sono riusciti a chiudergli la bocca. Pochi giorni dopo la lectio magistralis, esausto e spaventato, Papa Benedetto si scusò. “Sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate in qualche Paese da alcuni passi del mio discorso (...) che abbiano potuto suonare come offensivi della sensibilità dei credenti musulmani”, il Pontefice disse all’incontro con i pellegrini, nella sua residenza estiva di Castel Gandolfo. La citazione non intendeva “esprimere in alcun modo il mio pensiero. Spero che questo valga a placare gli animi”. Ratzinger può averlo detto per fermare ulteriori violenze. Ma da allora, le scuse al mondo islamico sono diventate la politica ufficiale del Vaticano. “Le posizioni predefinite nei confronti dell’Islam militante ora purtroppo ricordano le posizioni standard assunte dalla diplomazia vaticana verso il comunismo nel corso degli ultimi venticinque anni della Guerra fredda”, ha scritto George Weigel, un eminente studioso americano. La nuova agenda del Vaticano cerca di “giungere ad accordi politici con i Paesi islamici e rinuncia alla ferma condanna pubblica dell’ideologia islamista e jihadista”. A dieci anni dalla lectio magistralis di Ratisbona, più che mai attuale dopo gli attacchi sferrati dall’Isis sul suolo europeo, un altro successore di Pietro, Francesco I, ha cercato in molti modi di separare musulmani e violenza e ha sempre evitato di pronunciare la parola proibita: Islam. Come ha scritto uno dei maggiori vaticanisti italiani, Sandro Magister: “Di fronte all’offensiva dell’islamismo radicale, la tesi di Francesco è che ‘dobbiamo accarezzare i conflitti’. E dimenticare Ratisbona”. Oggi, l’intero corpo diplomatico del Vaticano evita accuratamente di pronunciare le parole “Islam” e “musulmani” e preferisce piuttosto negare che esiste uno scontro di civiltà. Di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù che si è tenuta a fine luglio in Polonia, Papa Francesco ha negato che l’Islam stesso è violento, affermando che tutte le religioni, compreso il Cattolicesimo, hanno un potenziale di violenza. In precedenza, il Pontefice aveva detto che oggi c’è una “guerra mondiale”, negando però che l’Islam abbia alcun ruolo in essa. A maggio, Francesco ha spiegato che “l’idea della conquista” appartiene all’Islam come religione, ma ha subito aggiunto che si potrebbe interpretare con la stessa idea di conquista anche il Cristianesimo, la religione del “porgi l’altra guancia”. “Il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza”, affermò il Papa nel 2013. Un anno dopo, Bergoglio dichiarò che “l’Islam è una religione di pace compatibile con il rispetto dei diritti umani e la convivenza pacifica” e asserì che sono i mali dell’economia mondiale, e non l’Islam, a ispirare il terrorismo. E pochi giorni fa ha detto che “è un atteggiamento ipocrita dirsi cristiano e cacciare un rifugiato”. Il pontificato di Bergoglio è contraddistinto da questa equivalenza morale tra il Cristianesimo e l’Islam, che nasconde anche i crimini commessi dai musulmani contro i cristiani orientali e l’Occidente.
Ci sono però coraggiosi cardinali che dicono la verità. Uno di questi è il leader cattolico americano Raymond Burke, che in una recente intervista a un quotidiano italiano ha dichiarato: “È chiaro che i musulmani hanno come obiettivo finale conquistare il potere sul mondo. L’Islam attraverso la sharia, la loro legge, deve governare il mondo e permette atti di violenza contro gli infedeli, come i cristiani. Ma noi stentiamo a riconoscere questa realtà e a reagire difendendo la fede cristiana. (...) Ho sentito diverse volte degli islamici che spiegavano: Quello che non siamo riusciti a fare con le armi in passato lo stiamo facendo oggi con la natalità e l’immigrazione. La popolazione sta cambiando. Se va avanti così, in Paesi come l’Italia, la maggioranza sarà musulmana. (...) L’Islam si realizza nella conquista. E qual è la conquista più importante nei confronti dei cristiani? Roma”. Purtroppo, il vescovo di Roma, Papa Francesco, sembra sordo e cieco a queste importanti verità. Ci sono voluti cinque giorni a Benedetto XVI per scusarsi per la sua coraggiosa lectio. Ma Ratzinger ha aperto una decennale stagione di scuse vaticane per il terrorismo islamico. Papa Francesco non si è ancora recato in visita alla chiesa di St-Étienne-du-Rouvray, dove don Jacques Hamel è stato ucciso dagli islamisti l’estate scorsa. Quella morte, dieci anni dopo la lectio magistralis di Ratisbona, è la prova più tragica del fatto che Benedetto XVI aveva ragione e Francesco ha torto.
UN BUSINESS CHIAMATO GESU'.
Un business chiamato Gesù. Quella dei pentecostali è la religione che cresce di più al mondo dopo l’Islam. In Italia ha già 600 mila adepti. A cui promette la guarigione da ogni male e la ricchezza materiale. In cambio di un decimo del loro stipendio, scrive Francesca Sironi il 21 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il braccio di un ragazzo di vent’anni, di Milano, che frequenta Sabaoth". Succederà, stasera, succederà, signore, c’è grande attesa, stasera, il miracolo per te, signore, lode a te, spirito di Dio, Gesù, signore". La sala è una cantilena sovrastata a stento dalla musica. C’è chi cammina, chi aspetta, chi piange. Uomini in polo e bermuda militari, piangono. Donne con le mèches, piangono. Famiglie rom, piangono. Bianchi, neri, indiani. Alzano le mani, pregano e ripetono: il miracolo accadrà. Come ogni volta. Ci saranno almeno 600 persone sedute e in prima fila, solenne, pure il senatore Domenico Scilipoti. Dopo ore di lodi il pastore chiama i malati sul palco, impone le mani, loro cadono a terra. Il primo dice: «Sono appena guarito dal cancro», una donna da un’artrite. Applausi fragorosi. Altre preghiere, quindi la benedizione delle buste: chi vi metterà 120 euro ne riceverà da Gesù 10 volte tanti. Si alzano per donare in più di cento. È lunedì 19 settembre, il giorno di San Gennaro. Ma qui al Teatro Palapartenope di Napoli il miracolo non è per il sangue del santo, bensì per lo spirito servito dal pastore americano Benny Hinn, invitato in Campania da una chiesa locale. Chiesa cristiana pentecostale. I pentecostali sono oggi nel mondo 644 milioni. Si tratta della religione in maggiore, tumultuosa, crescita dopo l’Islam, con masse ormai consolidate in Brasile, America Latina, Africa e Asia. Il “Pew Reseach Center” stima che in una generazione supereranno il miliardo. Sono il cristianesimo del futuro, dicono gli esperti. Anche in Italia, sottotraccia, raramente raccontati dai media, crescono. E adesso contano, secondo gli studi, oltre 600 mila fedeli, di cui 300 mila italiani, gli altri immigrati. Divisi al loro interno da posizioni spesso inconciliabili, i cristiani pentecostali e carismatici sono accomunati da alcuni elementi. Primo: rifiutano la struttura cattolica; il rapporto con il trascendente è personale; le comunità gemmano di continuo nuove chiese, nuovi pastori. Secondo: la Bibbia «non erra mai», è l’unico testo, il solo fondamento, e va considerata per intero, dal Levitico agli Atti. Terzo: i doni dello Spirito Santo funzionano ancora. Per cui lo Spirito può scendere, far parlare le persone “in lingue”, curarle e liberarle dal demonio (che esiste, è concreto, gli esorcismi frequenti). Dalle convention miliardarie alle messe in periferia di alcuni pastori-eroi, il pentecostalesimo si presenta così come una fede che sa tenere strette le persone, che forma leader, fa cantare, divertire e commuoversi, una fede che promette di guarire, liberare dai debiti e dal malocchio, oltre che di benedire, secondo alcuni, anche la prosperità economica. È la religione del momento, insomma, un’oasi dalla crisi di prospettive. «Una risposta al bisogno di senso e di identità che unisce benestanti e emarginati perché offre soluzioni olistiche», spiega Paolo Naso, professore a La Sapienza: «Una fede che soddisfa bisogni, dà certezze, afferma valori perentori». È individualista e collettiva al tempo stesso: uno vale uno, ma in molti è meglio. «È nata all’inizio del Novecento negli Stati Uniti per il desiderio di molti cristiani di mettere le mani, personalmente, dentro il sacro», aggiunge Enzo Pace, sociologo dell’Università di Padova. Alla base del successo pentecostale, poi, c’è l’intrinseca solidità economica delle chiese. Tutti i fedeli versano infatti una decima, ovvero il 10 per cento dello stipendio. «È scritto nella Bibbia», ripetono. Bastano così 200 fedeli che guadagnano 1.500 euro al mese per avere una rendita da 30 mila euro da destinare ad altari, missioni, orologi al pastore o nuove sedi. L’espansione continua. Dio non solo non è morto, ma trascina nuove greggi. Milano. Priscilla ha trent’anni, gli occhi verdi, siciliana, fa la commessa in centro. «Da “fuori sede” facevo la vita delle mie coetanee: la sera andavo alle Colonne, bevevo, fumavo, finivo a letto con gente di cui non mi importava molto». Poi, l’incontro con Gesù. Ora è fidanzata con un rapper che ha tatuato sul braccio un verso del Vangelo. Entrambi trascorrono il sabato sera al “ministero Sabaoth”, un maxi-auditorium da 900 posti, attrezzature da grande cinema, aperto dalla pastore Roselen Faccio. «Ho iniziato a predicare da piccola, in Brasile. Ero considerata un bambino prodigio», racconta lei il giorno dopo dal camerino, dopo aver cantato lodi e spiegato testi per tre ore accompagnata da una rock band: «Ho fondato in Italia il movimento 25 anni fa. Oggi abbiamo 57 chiese». «Lei è la Martin Lutero del 21esimo secolo», dice Diana, una fedele, entusiasta. «Noi non dobbiamo dare la nostra opinione. Noi abbiamo bisogno di una generazione convinta», urla dal palco pastore Punto, un grafico di 33 anni che predica ai giovani e ha creato con la moglie “Purex”, una corrente che insiste per la verginità fino al matrimonio. «Cosa leggo, oltre alla Bibbia? Libri di leadership», dice. Sabaoth è la chiesa pentecostale che ha trascinato Ornella Vanoni, «abbiamo calciatori, imprenditori, manager, ma anche senza tetto, e ho convertito un capo ’ndrangheta, che ora sta con noi», dice la predicatrice: «Altri vip? Sono passati di qui Albano e Mara Venier». Roselen Faccio si è impegnata anche in politica: in passato ha sostenuto la candidatura di Letizia Moratti sindaco, invitando al voto dal pulpito. «È una donna di preghiera. Oggi seguo Magdi Cristiano Allam», aggiunge. Il giovane pastore Punto ha idee diverse: «Mi ritrovo in molte battaglie dei 5 Stelle, ma fonderei un partito nuovo». Con i giovani organizza missioni di evangelizzazione ogni estate: si paga 800 euro per andare un mese in tour a portare la parola di Cristo.«Il nostro obiettivo è cambiare la storia religiosa d’Italia», dice. Fare proseliti è uno dei cardini dei movimenti pentecostali. Portare il verbo, intercettare adepti, è ritenuto un mandato fondamentale. Remo Blasio ha un’agenzia immobiliare a Porta Romana. «Ero una persona aggressiva, ora sono un agnello», racconta. Dopo la conversione ha fondato “Rem - rete evangelica in missione”: tre pullman comprati per offrire messaggi dalla Bibbia, con la scusa di un caffè. A novembre faranno partire da Civitavecchia anche la crociera evangelica (190 euro per partecipare): «L’ultima volta abbiamo raccolto 200 iscritti. Saremo un bel gruppo sulla nave, predicheremo ai festaioli». Napoli. Martedì, ore 19. La chiesa di cui è pastore Davide Di Iorioporta la messa fuori, in piazza. Per due ore i passanti ascoltano il coro, le donne con la gonna al ginocchio, gli uomini in cravatta, mentre il predicatore prega con le mani sul volto dei fedeli. Di Iorio è la guida dell’Assemblea di Dio di via Fra Gregorio Carafa, un tempio maestoso, ristrutturato da poco. Le “Assemblee di Dio” (Adi) sono una delle realtà pentecostali più antiche del paese. Hanno 1.180 sedi, un accordo con lo Stato per l’otto per mille, una storia che risale ai primi emigrati italiani che dagli Stati Uniti portavano al rientro il rito dello Spirito. Per l’intervista, Di Iorio si presenta con Alessandro Iovino, pentecostale da generazioni, segretario particolare del senatore anti-unioni civili Lucio Malan, una tesi di laurea introdotta da Giulio Andreotti, vari titoli pubblicati fra cui un libro-intervista a Licio Gelli in cui gli chiede: «Quale pensa sia stato il merito più grande della P2?», e lui risponde: «Grazie a noi i comunisti non sono arrivati al potere». Le Adi sono una realtà consolidata, e conservatrice. Le donne a messa indossano il velo. «Hanno libertà di parola e di testimonianza», spiega Di Iorio, ma il pastore può essere solo uomo, qui. Silvio Romano è un bel ragazzo. Si è convertito con l’Adi pochi anni fa, e da allora, insiste, «la mia vita è cambiata. Ho trovato lavoro. Sono stato lontano dai giri sbagliati». Racconta del padre, arrestato per traffico di stupefacenti, ora pentecostale anche lui, in carcere. Tutti ci tengono a testimoniare il miracolo, sempre. Un miracolo individuale, personale: il modo proprio con cui Gesù li ha salvati. «Non avevo soldi, pregavo. Chiamano dall’Inps: un Tfr non ritirato da 3mila euro»; «Sono ancora pieno di debiti, ma non ho più ansia: so che grazie a Cristo riuscirò». Fino alle guarigioni, le cui memorie sono onnipresenti: «Mi avevano diagnosticato il cancro. Ho pregato. Quando sono tornata non c’era più niente», «La notte ho sentito la mano di Cristo. Il giorno dopo il tumore era scomparso. I medici non ci credevano». È grazie a una guarigione di questo tipo e al proselitismo fra colleghi di Jacqueline, cassiera a un supermercato di Monza, che Angela è qui: quartiere Isola, Milano, “Prima chiesa unita pentecostale internazionale” della città. Il pastore è siciliano, i fedeli italiani e peruviani. Dal pulpito, chiede a chi vuole di esprimere un bisogno per la preghiera. Una donna sudamericana allora racconta del figlio, che ha rubato una macchina la sera prima, un’altra parla di malattia. C’è chi ricorda i carcerati, chi un’amica depressa. Castel Volturno, Caserta: sulla via Domitiana si susseguono decine di sedi pentecostali. Nigeriani, ghanesi. La domenica si riuniscono in chiesa. Nel pomeriggio festeggiano il compleanno di un bambino. Milano, periferia Nord: in una sola palazzina di tre piani, ci sono cinque chiese pentecostali, una per porta. La domenica mattina alzano lodi. Una pastora ecuadoregna porta l’anziana signora di cui è badante. Rimane seduta in prima fila. «Per gli immigrati, la chiesa diventa un pezzo di patria fuori dalla patria», spiega il sociologo Paolo Naso. Un’àncora di senso e identità, anche qui, contro la mancata integrazione. Ma anche il rischio, al contrario, di continuare a stare separati tra fratelli. Pastore Vladimir è un uomo serio. È scappato dal Salvador, 15 anni fa, per le minacce ricevute da una gang. In Italia combatte le piaghe che affliggono i suoi connazionali: alcolismo, degrado, criminalità. Ha salvato diversi giovani dalle bande dei latinos. E aperto la chiesa, la “Parola viva”, in una ex discoteca dove era stato accoltellato un peruviano, in una via dello spaccio di Milano. «Nel mio paese ero un funzionario di sicurezza d’alto livello, qui lavoro in un’impresa di pulizie, come molti di noi», racconta: «Lavoro, sì. Sono contrario ai pastori per professione. A quelli che lucrano sulle decime. Che si approfittano dei fedeli. Noi usiamo i fondi per le iniziative comuni». È l’unico che dà dettagli sui conti. Il mercoledì sera sono in una sessantina. Dopo la cerimonia, mangiano tutti insieme. «Spesso facciamo la veglia, fino al mattino». Anche la domenica uniti. «Dovete dedicare il vostro tempo al signore», invita, poi aggiunge: «Cantando: noi siamo un popolo allegro». Non lontano, alla “Comunità cristiana dello Spirito Santo”, il clima è diverso. In mezz’ora il pastore, brasiliano, chiede le offerte due volte. In cambio, i presenti prendono una rosa da portare a casa come voto. «Non parliamo ai giornali», frena alla fine della predica. Il suo aiutante si avvicina, «Louis, vieni qui». «La prima volta che mi hanno chiesto soldi, mi sono allontanato. Certo, non mi obbligavano, ma era una induzione quasi forzata. Come con lo svenire: anch’io mi ero fatto suggestionare, e cadevo». Gianluigi ha 29 anni, è laureato in architettura, vive in provincia di Salerno. Con la moglie gestisce un B&B: «Sono io il capo della famiglia. Quando l’uomo non ha più un suo ruolo, comincia a diventare donna», sentenzia. Anche lui è «rinato pentecostale», anche lui «è stato cambiato». Si è allontanato però dalla prima congregazione: «Il “parlare in lingue”? lì lo facevano a comando», racconta. Ora studia la Bibbia, frequenta un’altra chiesa, «e ogni volta a tavola ringraziamo per il cibo tenendoci per mano». Razionalità, fede, morale, confusione. Carmine Napolitano è presidente della “Facoltà Pentecostale”, in Campania, oltre che pastore di una piccola comunità. Ha uno sguardo triste. «Bisogna evitare di sfruttare la debolezza psicologica di chi è malato», dice, parlando delle guarigioni imposte con le mani: «Non dobbiamo vendere illusioni». A spiegarlo, agli altri. Sull’interpretazione rigida della Bibbia, poi, ricorda: «Dare troppa enfasi a “quello che è scritto” a volte è facile, diventa una delega della responsabilità». Certo, funziona: «Il pentecostalesimo è l’ala marciante della cristianità», riconosce. È sera, a Scampia. La chiesa dipinta di fresco. Come altrove, nessuna immagine: è iconoclastia. Non ci sono madonne, o affreschi, non ci sono aureole o santi. Il pastore ha i capelli bianchi. L’aiutante una cicatrice sul volto. Una ragazza coi capelli rossi, le sopracciglia disegnate, inizia a piangere durante la funzione. Piangono quasi tutti. Cantano, e piangono. Alla fine si avvicina una donna: «Sai, picchiavo i miei genitori», dice: «A una mia amica hanno ammazzato il figlio, ma ha perdonato l’assassino. Perché anche lui si è convertito».
I pentecostali? "Sono i talebani della Bibbia". Per il teologo Alberto Maggi, la lettura dei testi sacri di alcuni gruppi di evangelici carismatici e non solo è «fondamentalista». Ma a questo nuovo cristianesimo va riconosciuta la capacità di rendere la messa un momento di gioia e non un rito stantio, scrive Francesca Sironi il 21 ottobre 2016 su "L'Espresso". Teologo, biblista, Alberto Maggi è una delle voci più contemporanee del cattolicesimo italiano. Il suo “Vangelo della Domenica” viene trasmesso su YouTube e a Montefano, vicino a Macerata, dirige il Centro Studi Biblici “G. Vannucci”. «Cerco di proporre una liturgia diversa per dare vita alla parola di Dio, non tenerla imbalsamata in quel rito funebre in cui sembrano ridotte alcune messe», afferma.
Cosa pensa dei pentecostali?
«La lettura della Bibbia promossa dai alcuni gruppi pentecostali è una lettura fondamentalista».
Fondamentalista?
«Sì. Non tengono conto dei diversi generi letterari in cui sono espresse le Scritture. Non pongono gerarchie fra una norma del Levitico e un versetto del Vangelo. Di ogni cosa affermano: “È scritto, quindi è così”».
E questo cosa significa?
«Significa accettare come parola di Dio anche certe pagine tremende: punizioni, guerre, omicidi. E prendere per fatti storici episodi che invece non lo sono».
Ad esempio?
«Il miracolo del profeta Eliseo narrato nel Secondo Libro dei Re, dove Eliseo maledice nel nome del Signore alcuni bambini che lo avevano preso in giro per la calvizie, e “due orse sbranarono quarantadue di quei ragazzini”».
Anche alcuni pastori pentecostali affermano che quelle pagine buie vanno interpretate alla luce del “Vangelo dell’amore” di Gesù.
«È Gesù con il suo messaggio d’amore universale il criterio per interpretare tutta la Scrittura, sia per l’antico sia per il nuovo testamento».
Lei si è mai confrontato con delle chiese pentecostali sull’analisi testi?
«Spesso mi hanno chiamato a parlare, e molti usano i miei commenti sul Vangelo».
Cosa pensa del loro successo?
«Penso che abbiano una liturgia più viva di quella cattolica, che abbiano restituito alla preghiera il suo carattere gioioso, non di piagnisteo, e questo è molto positivo. Anche la loro vita di comunità è più intensa. Però c’è anche altro».
Prego.
«L’atmosfera di fanatismo di alcuni gruppi pentecostali, la forza di attrazione che esercitano sulle persone deboli. Riescono spesso a manipolare le folle, parlando alla pancia della gente: garantendo attraverso la preghiera il loro benessere».
C’è poi il tema delle guarigioni.
«Altro problema: promettere la liberazione dalle malattie con la preghiera piacerebbe a tutti. Chiuderebbero gli ospedali. Ma purtroppo non è così».
QUELLI…PRO SATANA.
Sette sataniche: in aumento tra gli adolescenti quelle "fai da te". Il satanismo, organizzato e no, è diffuso soprattutto al Nord: i riti, i luoghi, le musiche e le droghe di un fenomeno in crescita, scrive Nadia Francalacci il 17 febbraio 2017 su Panorama. Scritte che evocano il demonio, resti di altari all’interno di case abbandonate, circondati da candele nere e croci capovolte. In Italia il satanismo è un fenomeno in aumento al pari delle psico-sette, che ogni anno contano migliaia di nuovi appartenenti. Secondo il dottor Luigi Corvaglia, esperto di satanismo e membro del Comitato scientifico della Federazione Europea dei Centri di ricerca e informazione sul settarismo (Fecris), l’adorazione di Satana non conosce età anche se, attraverso l'utilizzo dei social network come Facebook, sono sempre più gli adolescenti che si avvicinano per la prima volta al culto di Satana. In Italia, secondo lo studioso, sono circa 10 le sette sataniche organizzate e censite, ciascuna con una media di circa un centinaio di adepti. Ma l’aspetto più inquietante è l’aumento di gruppi disorganizzati, in pratica "fai da te", di cui è impossibile un censimento corretto e che spesso sono responsabili di fatti di sangue, mutilazioni di animali e atti di vandalismo. L'area geografica di maggior diffusione del satanismo giovanile è soprattutto quella del Nord, in particolare il Piemonte, con le principali sette organizzate che si trovano invece a Torino, Bologna e Napoli.
Dottor Corvaglia, ma cos'è esattamente il satanismo?
"Per satanismo si intende tanto il culto del diavolo descritto dalle scritture quanto un atteggiamento di ribellione contro i valori morali incarnati dal cristianesimo, per il quale Satana è solo il simbolo delle forze del progresso, metafora dell'autodeterminazione dell'uomo. La prima accezione descrive il satanismo 'spiritualista' e 'tradizionale', rappresentato da Il tempio di Set e Ordine dei Nove Angoli, la seconda quello 'razionalista', rappresentato dalla Chiesa di Satana. Queste due correnti, più quella 'luciferiana' (che è di fatto una variante del primo tipo) costituiscono il satanismo organizzato".
Si sa che l'iniziazione è il passaggio fondamentale per l'ingresso in una setta, ma come avviene?
"L'iniziazione ha una forte valenza psicologica e simbolica. Nel caso del satanismo, comporta uno scritto con cui l'adepto si affida a Satana e che verrà siglato col suo sangue per poi essere bruciato. Questa sorta di auto-iniziazione non è tuttavia necessariamente legata all'ingresso in un'organizzazione, che in genere prevede invece ulteriori riti collettivi, magari durante una Messa Nera. I novizi assumono spesso nuovi nomi a simbolo della rinascita spirituale. Al di là dell'aspetto scenografico, però, l'adesione a un gruppo satanico organizzato ha anche connotati molto più prosaici. Ad esempio, per associarsi alla Chiesa di Satana la procedura è il riempimento di un form di richiesta di adesione addirittura rinvenibile sul Web".
Quali sono le principali differenze tra satanismo organizzato e disorganizzato?
"Definiamo 'organizzato' il satanismo dotato di una sua struttura e coerenza dottrinale, i cui rituali sono definiti da una qualche tradizione, i cui capi e le cui sedi siano identificabili. Esiste poi un supposto satanismo costituito da gruppuscoli di giovani, spesso minorenni, che è definito 'satanismo acido' per via della sua frequente associazione con il mondo delle droghe. Questo satanismo giovanile è legato a una subcultura gotica e necrofila, spesso affascinata dal paganesimo nordico, che è tipica di certa musica Heavy Metal. Questi sedicenti satanisti sono privi di una continuità organizzativa, mancano di una cornice filosofica e rituale di riferimento e quelle che mettono in scena sono spesso cerimonie da horror anni Settanta, fra il grandguignol e il pecoreccio".
Quale tra i due risulta essere più pericoloso e perché?
"Non vedo grandi fonti di pericolo nel fenomeno 'organizzato', che conta poche centinaia di adepti in Italia e che per di più si limitano a pratiche rituali nei loro luoghi di culto. Paradossalmente, se proprio si vuol vedere qualche rischio che vada oltre le ripercussioni psichiche su alcuni soggetti predisposti, è più preoccupante il satanismo 'fai da te' dei ragazzi. Vandalismo, incendi, profanazione di tombe, mutilazione di animali e così via sono azioni frequenti in chi coniughi personalità antisociale, desiderio di onnipotenza e ribellione adolescenziale. Inoltre, non è corretto fare un'associazione diretta tra satanismo 'organizzato' e atti di violenza estremi: il caso della suora uccisa a Chiavenna nel 2000 da tre ragazzine così come quello degli omicidi avvenuti nel Varesotto per mano delle 'Bestie di Satana' (un gruppo di sbandati metallari) sono stati il cattivo frutto di una patologia sociale e individuale 'nobilitata' dal culto di Satana, ma non da esso innescata. Quasi tutti i crimini gravi attribuibili al satanismo possono invece essere ricollegati ai gruppi giovanili, meno controllabili per conformazione e struttura cellulare, e meno aderenti a prevedibili stili filosofici condivisi appunto dal satanismo organizzato".
Qual è la fascia d'età nella quale è più facile "cadere" in queste sette?
"Il satanista difficilmente 'cade' nel satanismo, che invece viene generalmente ricercato. Secondo Anton LaVey 'satanisti si nasce, non si diventa'. Ad ogni modo, se la risposta sull'età di accesso è facile per il satanismo giovanile, essendo chiaramente l'adolescenza, è più difficile rispondere riguardo al satanismo 'adulto', perché le differenti forme di satanismo rispondono a bisogni che si inquadrano in differenti stadi della vita. Ad ogni modo, la prima età adulta è quella più tipica del neo-adepto".
In età adolescenziale ci sono atteggiamenti che possono essere captati da genitori o amici come sintomatici dell’appartenenza a sette sataniche?
"Non esiste un unico profilo dell'adolescente satanista e ciò che più gli si avvicina, non si discosta troppo da quello classico dell'adolescente in crisi fisiologica. Esasperando il concetto, arriverei a dire che quello del satanismo giovanile è una delle tante possibili via di fuga della crisi adolescenziale. Al bisogno di appartenenza, di riconoscersi in simboli di gruppo, alla solitudine adolescenziale e al bisogno di trasgressione comuni a quell'età può affiancarsi un desiderio di onnipotenza e di rivalsa dalla frustrazione. Tratti definibili come schizoidi e 'antisociali' possono giocare un ruolo estremamente importante. Un figlio che aumenta il suo isolamento fisico e psichico dalla società normativa e manifesti comportamenti antisociali (vandalismo, furti, violenza eccetera) e abusi di alcol e droga, merita senz'altro attenzione anche rispetto alla possibile adesione a una seta; ma la meriterebbe comunque, indipendentemente dalla eventuale soluzione satanica. Certo, anche la propensione per l'occulto, il gotico e la necrofilia sono segni che vanno tenuti d'occhio, ma bisogna stare molto attenti a non dare a ciò il senso che spesso gli osservatori religiosi gli danno, ossia di essere strumenti del demonio e segno che il maligno sta già operando".
Nei casi sospetti, come si deve comportare un genitore?
"Come già detto, è necessario essere attenti all'evoluzione della crisi del figlio adolescente. Chi entra in un gruppo satanista, ha già dato segni. Pertanto un genitore dovrebbe fare quello che è valido per prevenire qualunque altra manifestazione del marasma giovanile: instaurare un tipo di relazione che aumenti la fiducia in sé del figlio in un contesto emotivo sano e sereno. Insomma, assolvere al compito più difficile del mondo, satanismo o meno...".
Si può "uscire" dalle sette sataniche o sono una strada senza ritorno?
"Nel caso di un giovane satanista 'acido', possiamo immaginare che le possibilità vadano dalla fisiologica risoluzione del turbamento giovanile all'evoluzione nel delirio psicotico. I segni ci diranno se e come intervenire. Nel caso del satanista spiritualista o razionalista, devo invece rispondere in termini laici: quelli dei satanisti sono gruppi come altri, dai quali in teoria si entra e si esce a piacimento. Sono però sempre gruppi 'settari', in cui può vigere una qualche forma di persuasione indebita e dipendenza psicologica che porta alla difficoltà di sganciarsi. Anche questo, tuttavia, non è esclusivo dei gruppi satanisti, ma è tipico di qualunque culto fra quelli considerati 'ad alta richiesta'. Qualora si sappia che l'adesione al culto sia stata frutto di manipolazione e/o comporti abusi, violenze e vessazioni - eventualità non rara in congreghe dedite a riti sessuali - amici e familiari dovrebbero chiedere l'aiuto di associazioni come il CeSAP o la Favis che forniscono supporto psicologico e legale".
PEDOFILIA ECCLESIASTICA.
Sesso, incesti, lussuria e prostitute. Quando i papi erano Re del peccato. Da Benedetto IX a Giovanni XII: quando i Papi si sono distinti per i peccati, i vizi, i rapporti col demonio e il sesso, scrive Rachele Nenzi, Martedì 17/01/2017, su "Il Giornale". Non sempre i Papi si comportarono come Santi in Vaticano. Negli ultimi mesi a far discutere è stata la serie Tv di Paolo Sorrentino, "The Young Pope" in cui l'attore Jude Law viene più volte immortalato nudo. Ma anche nel passato la Santa Sede ha conosciuto personaggi che oggi non definiremmo certo degni di entrare in Paradiso. O almeno così narrano alcuni libri e resoconti più o meno storiografici. A raccogliere un elenco delle avventure papali più particolari è stato Steven Blum per Vice.com. Papa Benedetto IX, per esempio, era minorenne quando è stato incoronato con la tiara e visse a sufficienza per essere definito da San Pier Damiani come "un diavolo venuto dall'Inferno travestito da prete". Non male. Uno che, secondo altre biografie, aveva "una vita così peccaminosa, così esecrabile, che rabbrividiamo al pensiero". Si vocifera pure sia lui il primo pontefice gay della storia e che alle orge col Papa partecipassero pure animali. Non solo. Secondo il libro Absolute Monarchs, infatti, l'elezione di Benedetto IX sarebbe stata truccata dal padre. Un regno durato 12 anni, fino a quando i romani, forse stufi delle sue avventure, lo cacciarono dalla città rimpiazzandolo con Giovanni Graziano, Silvestro III. Dopo due mesi tornò però di nuovo Benedetto IX che, secondo le leggende del tempo, avrebbe pure fatto avvelenare i suoi successori. Finì i suoi giorni da eremita a Grattaferrata pentendosi per i suoi molti peccati. Sulla stessa lunghezza d'onda ci sarebbe stato pure Papa Giovanni XII, che secondo il libro "La grande apostasia" - scrive Vice - "trasformò il Laterano in una "scuola di prostituzione"". Pare apprezzasse le vergini e le vedove e che alle pellegrine venisse consigliato di non visitare San Pietro per evitare di "essere violate dal suo successore". Forse anche lui, come Benedetto IX, fu colpito dal fatto di essere stato eletto alla giovane età di 18 anni. Di certo c'è che durante una inchiesta pubblica fatta dopo la morte di Giovanni XII venne rivelato che fece più volte sesso con sua nipote. Incesto papale. Non solo. Tra le sue imprese vantava quelle di aver accecato il suo padre spirituale (poi morto), di aver castrato e ucciso il suo segretario e di essere un fan dei demoni. Furono gli stessi cardinali a chiedere al re Otto di Sassonia di allontanarlo "dalla Santa Romana Chiesa". Quando però Giovanni, aiutato dai romani, riuscì a riconquistare il trono, pare abbia punito severamente i congiurati, strappando lingue e nasi. La morte lo prese tra le sue mani mentre faceva sesso con una prostituta. L'ultimo, ma non per stranezze realizzate, è Stefano VI. Il quale per annullare tutti gli editti del suo predecessore, Formoso, lo riesumò e mise in piedi un processo per accusarlo di spergiuro e tradimento. L'inquisito, ovviamente, non si difese e così i suoi editti risultarono nulli. Ad avere la peggio, alla fine, fu però lo stesso Stefano VI, morto in prigione dopo che sul Vaticano si abbattè un terremoto considerato da molti una punizione divina per i suoi peccati. Stefano venne deposto e chiuso in carcere.
"Ecco i 200 preti pedofili d'Italia", lo scandalo che imbarazza la Curia. Dagli abusi in parrocchia alle coperture dei vescovi e dei porporati: nel nuovo libro di Emiliano Fittipaldi la mappa della piaga che ancora affligge la Chiesa, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 gennaio 2017 su "La Repubblica". Mettendo sotto la lente d'ingrandimento cronache di provincia degli ultimi mesi, carte giudiziarie fresche di cancelleria e documenti parrocchiali si scoprono tanti tasselli. Guardando il mosaico da una certa distanza, il disegno diventa più chiaro. Partiamo prendendo un treno verso la punta del tacco d'Italia. In Calabria, vicino a Reggio, c'è don Antonello Tropea, già padre spirituale del seminario di Oppido Mamertina, che nel marzo 2015 viene trovato dalla polizia in un'auto con un diciassettenne conosciuto grazie alla app Grindr usata per incontri gay. Venti euro il costo della prestazione. Indagato per prostituzione minorile, il don continua a fare il prete, confidandosi di tanto in tanto con il suo vescovo, monsignor Francesco Milito. "Evita di parlare con i carabinieri di queste cose" gli suggerisce il superiore senza sapere di essere ascoltato. Sempre in Calabria, nella diocesi di Locri, c'è il vescovo Francesco Oliva, nominato da Francesco nel 2014: è lui che nel 2015 manda in una parrocchia a Civitavecchia un suo sacerdote, don Francesco Rutigliano, che la Congregazione per la dottrina della fede ha in passato sospeso per quattro anni, nel 2011, per "abuso di minore con l'aggravante di abuso di dignità o ufficio, commesso nel periodo tra il 2006 e il 2008" obbligandolo alla "celebrazione di 12 Sante Messe con cadenza mensile a favore della vittima e della sua famiglia ". A Ostuni, c'è Franco Legrottaglie, condannato nel 2000 per atti di libidine violenta su due ragazzine, mai sfiorato da processi canonici, e in seguito designato nel 2010 dal vescovo emerito Rocco Talucci cappellano dell'ospedale e prete in una chiesa del paese: nel maggio 2016 è stato pizzicato con 2.500 immagini pedopornografiche conservate sul computer in cartelle con i nomi dei santi. Ha lanciato una moda: anche don Andrea Contin, indagato a Padova per induzione alla prostituzione, etichettava i filmini hard a cui partecipavano le sue amanti con i nomi dei papi. A Catania c'è un sacerdote che ad agosto 2016, già sospeso dalla curia dalle attività pastorali, avrebbe minacciato con un coltello alla schiena un quindicenne costringendolo a rapporti sessuali. Poi c'è don Siro Invernizzi, che nel 2013 è stato mandato dal vescovo di Como a fare il viceparroco a Cugliate, vicino Varese, nonostante i due anni con la condizionale patteggiati per aver approcciato in strada un ragazzino rom di tredici anni che si prostituiva. E ancora: a Grosseto c'è un sacerdote rinviato a giudizio nel luglio 2016 per molestie a tre ragazzine, a cui avrebbe rivolto "attenzioni troppo intime". A Pietrasanta, in Versilia, dalla scorsa estate c'è un'altra indagine (ancora in corso) su un prete straniero appartenente all'ordine dei Carmelitani: la curia generalizia di Roma è stata citata in sede civile come responsabile dei danni per non aver esercitato il controllo sul religioso [...]. Negli ultimi due lustri, contando solo i condannati e gli indagati, sono oltre 200 i sacerdoti italiani denunciati per atti di lussuria con adolescenti. Molti di più di quelli che hanno scoperto i cronisti del Boston Globe che diedero il via all'inchiesta Spotlight del 2002... Eppure in Italia lo scandalo non è mai esploso, a differenza che negli Stati Uniti, in Australia, in Irlanda o in Belgio in tutta la sua gravità. "Ciò che mi preoccupa qui è una certa cultura del silenzio", disse monsignor Charles Scicluna quando faceva il promotore di giustizia della Congregazione della dottrina della Fede. Una tendenza all'acquiescenza che sembra coinvolgere le vittime, le famiglie dei credenti, le gerarchie e anche parte dei media: secondo alcuni osservatori non è un caso che siano proprio i paesi tradizionalmente più cattolici - come l'Italia, la Spagna e quelli del Sud America - quelli in cui il fenomeno della lussuria sui più piccoli sembra avere, nei pochissimi dati ufficiali disponibili, dimensione contenuta. In realtà, il "sistema" che copre e protegge gli orchi e le casse della Chiesa funziona anche qui. Ancora oggi. E meglio che altrove. Un esempio su tutti: se l'arcidiocesi di Los Angeles qualche anno fa ha pagato, in un accordo extragiudiziario, 660 milioni di dollari a 508 vittime di molestie da parte di preti (il periodo delle violenze ipotizzate va dal 1950 al 1980) come indennizzo per gli atti di libidine, a Verona i 67 ex allievi dell'Istituto Provolo, sordomuti che hanno denunciato alla curia i mostruosi soprusi di cui sarebbero stati oggetto da parte di venticinque religiosi dal 1950 al 1984, non hanno ricevuto nemmeno un euro. Per la legge italiana i reati sono prescritti e una causa legale è tecnicamente impossibile. La commissione d'inchiesta "indipendente" non ha creduto ai loro racconti. Sarà un caso, ma qualche giorno fa uno dei sacerdoti indicati dai testimoni come presunti aguzzini, don Nicola Corradi, è stato arrestato in Argentina nella sede sudamericana dell'istituto dove si era trasferito qualche tempo fa, con l'accusa di "abuso aggravato " e "corruzione di minori ". Ancora oggi il Vaticano non prevede che sacerdoti e vescovi abbiano l'obbligo di denunciare i colleghi maniaci alla giustizia ordinaria. E i casi gestiti dalla Congregazione preposta restano segretissimi. A Cremona don Mauro Inzoli, potente monsignore di Comunione e Liberazione, nel 2016 è stato condannato in primo grado a 4 anni e nove mesi di carcere. Spretato da papa Ratzinger, nonostante il processo penale contro di lui ha fatto appello alla Congregazione e l'ha vinto: Francesco l'ha riammesso nel clero. Non è tutto: il magistrato ha chiesto al Vaticano le carte del processo canonico, e dopo mesi d'attesa s'è visto rifiutata la domanda: "Gli atti processuali e istruttori sono "sub segreto pontificio"", è stata l'unica, laconica spiegazione. Stessa dinamica accaduta a Palermo pochi mesi prima. Gli insabbiamenti o le difese d'ufficio coinvolgono pezzi da novanta della gerarchia come il vescovo di Brescia, quello di Como, quello di Castellaneta, il vescovo emerito di Palermo, cardinale Paolo Romeo, quello di Savona, cardinali di peso come Antonelli, Bertone e Domenico Calcagno. Quest'ultimo ha fatto carriera con Benedetto XVI, e anche Francesco l'ha confermato sulla poltrona di presidente dell'Apsa, l'ente che gestisce l'immenso patrimonio della Santa Sede. Nonostante una macchia grave, quella di aver spostato nel 2003 da una parrocchia all'altra un prete su cui erano già arrivate pesanti segnalazioni. Uno spostamento a cui non seguirono provvedimenti: peccato che due anni dopo, il sacerdote, don Nello Giraudo, poté molestare in un campo scout un altro ragazzino.
Così il Vaticano protegge i preti pedofili. Alti prelati del Vaticano, italiani e stranieri. Molto vicini a papa Francesco. Che per anni hanno insabbiato le violenze sessuali sui minori da parte degli orchi con la tonaca. Lo rivela "Lussuria", il nuovo libro del giornalista processato dalla Santa Sede per Vatileaks. Che fa luce su responsabilità, silenzi e omertà, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 gennaio 2017 su "L'Espresso". Tre cardinali che hanno protetto sacerdoti pedofili sono stati promossi nel C9, il gruppo di nove alti prelati che assistono papa Francesco nel governo della Chiesa Universale. Altre quattro porpore italiane e straniere che non hanno denunciato predatori seriali e che hanno cercato di proteggere le casse della Chiesa dalle richieste di risarcimenti alle vittime, sono ascesi sulla cima della scala gerarchica della Santa Sede. In Italia, Spagna, Francia, Belgio e Sud America altri vescovi insabbiatori sono stati premiati con incarichi importanti, o graziati di recente con sentenze canoniche discutibili. Insomma, se il Vaticano ha dichiarato da tempo guerra aperta ai crimini sessuali dei suoi preti nei confronti di bambini e ragazzine («una battaglia cruciale, che va vinta ad ogni costo», ha detto e ripetuto papa Francesco fin dall’inizio della sua elezione al soglio petrino) a quasi quattro anni dall’inizio del pontificato di Bergoglio la lotta mostra più di una crepa. Non solo per alcune nomine che appaiono sorprendenti, ma anche perché il fenomeno degli orchi in tonaca continua ad avere numeri impressionanti: tra il 2013 e il 2015 fonti interne alla Congregazione per la dottrina per la fede spiegano che sono arrivate dalle diocesi sparse per il mondo ben 1200 denunce di casi “verosimili” di predatori e molestatori di minorenni. Un numero praticamente raddoppiato rispetto a quelli rilevati nel periodo che va dal 2005 al 2009: il trend dimostra come il cancro non è stato affatto estirpato. Se delle denunce, delle vittime e dei carnefici non si sa praticamente nulla (ancora oggi i processi canonici sono sotto segreto pontificio, e chi tradisce la regola del silenzio rischia pene severissime, scomunica compresa), e se la commissione antipedofilia voluta da Francesco si è riunita in sede plenaria solo tre volte dalla sua nascita nel 2014 senza essere riuscita nemmeno a inserire nelle norme vaticane l’obbligo di denuncia alla magistratura ordinaria, in “Lussuria”, il libro che uscirà per Feltrinelli giovedì 19 gennaio, si raccontano storie inedite di insabbiamenti di altissimi prelati in tutto il mondo, di scandali sessuali coperti dal Vaticano per timore di ripercussioni mediatiche, del sistema di protezione messo in piedi in Italia e di lobby ecclesiastiche unite dagli interessi economici e dalle medesime inclinazioni sessuali. La storia di George Pell è emblematica. Il cardinale australiano è stato chiamato da Francesco a Roma con l’intento di “moralizzare” la corrotta curia romana. Pell, oggi, è il capo della potente Segreteria dell’Economia. Di fatto, il numero tre del Vaticano. Leggendo le carte della Royal Commission che sta indagando sui preti pedofili, i documenti riservati della vecchia diocesi della porpora, i bilanci della chiesa australiana e alcune lettere firmate dal prelato e dai suoi avvocati, non sembra che Bergoglio abbia puntato sull’uomo giusto. Non solo perché da qualche mese è accusato da cinque persone di aver commesso lui stesso abusi sessuali tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta (il cardinale smentisce ogni responsabilità, con sdegno), ma perché troppe volte, di fronte a crimini sessuali di sacerdoti, negò alle vittime giustizia e compassione pur riconoscendo la veridicità delle loro denunce. Come scrive la commissione d’inchiesta, «mancò di agire equamente da un punto di vista cristiano». È certo che Pell cercò di minimizzare le violenze e di proteggere in ogni modo la cassaforte della sua diocesi dalle richieste di risarcimento dei sopravvissuti. I documenti dei giudici dell’organismo voluto dal governo australiano sono un pugno nello stomaco. Partiamo dal caso della famiglia Foster. Davanti alla tragedia dei genitori Anthony e Christine, le cui figlie Emma e Katie sono state violentate da bambine dal preside della loro scuola cattolica don Kevin O’ Donnell, Pell ha prima tentato di evitare ogni incontro faccia a faccia («se incontro la famiglia Foster poi dovrò incontrare anche le altre. Il mio tempo è molto limitato. Perché sono diversi dagli altri casi?», si chiede nel 1996 in una lettera spedita ai suoi avvocati), poi ha provato a chiudere la faccenda con un risarcimento di appena 50 mila dollari australiani, pari a 30 mila euro. La signora Foster ha raccontato ai giudici che durante il primo incontro a casa loro, Pell - di fronte alle rimostranze del marito che accusava l’allora arcivescovo di voler proteggere il portafoglio della Chiesa - rispose secco: «Se non ti va bene quello che siamo facendo, portaci in tribunale». «In un secondo incontro con altri genitori di piccoli abusati da padre O’ Donnell» si legge negli atti della commissione «la signora Foster ricorda che davanti a una domanda su perché alcuni noti pedofili servivano ancora nelle parrocchie di Melbourne, l’arcivescovo Pell rispose: «È tutto un pettegolezzo, finché non ci sono prove in tribunale; e io non do ascolto ai gossip». Il 26 agosto del 1998 Pell spedisce finalmente una lettera di scuse ai Foster, accompagnandola con l’offerta formale di risarcimento a favore della piccola Emma, formulata dall’avvocato di fiducia dell’arcidiocesi Richard Leder. Trentamila euro. «L’indennizzo è offerto dall’arcivescovo a Emma nella speranza che possano aiutare il suo recupero e fornire un’alternativa realistica a un contenzioso legale. Nel quale, altrimenti, ci difenderemo strenuamente». Ai genitori delle piccole, leggendo la missiva, sale la rabbia: sia per la cifra umiliante, sia per la minaccia - in caso di mancata accettazione della proposta - di «difendersi strenuamente». «Ammetto che sia stata un’espressione poco felice, ma credo che certe espressioni vadano lette in maniera non offensiva», ha detto Pell in un interrogatorio del 2014. I Foster, alla fine, si rassegnano. I soldi sono davvero pochi, ma li prendono. Serviranno a poco: nel 2008 Emma si è infatti suicidata con una dose letale di eroina, che le farà dimenticare per sempre le mani e gli occhi del suo vecchio preside. Trentamila euro, o meglio 50 mila dollari australiani, sono in realtà l’offerta massima consentita dal sistema di risarcimento creato dal braccio destro di Francesco, il cosiddetto “Melbourne Response”. Un tetto innalzato a 75 mila euro nel 2008. Analizzando i dati contabili dell’arcidiocesi della città si scopre che tra il 1996 e il marzo del 2014 le circa trecento vittime che hanno chiesto i danni per le violenze dei sacerdoti hanno ottenuto in media 32 mila dollari a testa, circa 20 mila euro. Il prezzo di una Fiat 500 accessoriata. Una miseria, anche perché l’arcidiocesi guidata fino al 2001 da Pell (nel marzo di quell’anno fu promosso vescovo di Sydney) è ricchissima. Controlla infatti due società, la Roman Catholic Trust Corporation e la Catholic Development Fund, che hanno in pancia contanti, proprietà immobiliari come appartamenti e palazzi, e fanno investimenti azionari e obbligazionari a sette zeri. Sommando il valore delle entrate, solo nel 2013 sono stati incassati, tra profitti finanziari e beneficenza dei fedeli, oltre 108 milioni di dollari australiani, mentre gli asset attualmente controllati dall’arcidiocesi valgono quasi 1,3 miliardi. Esatto: 1,3 miliardi di dollari. In pratica, per chiudere i fastidiosi contenziosi sulla vicenda pedofilia dei preti della città, Pell e i suoi successori hanno rinunciato a una cifra complessiva di appena 10 milioni di dollari australiani, pari allo 0,7 per cento del patrimonio della diocesi. Qualche anno dopo aver accettato i soldi per le cure di Emma, i Foster decidono però di capire se la giustizia terrena sia meno avara di quella divina, e aprono un procedimento civile di fronte allo Stato di Victoria. Che capovolge la filosofia del Melbourne Response, riconoscendo come le cifre dei risarcimenti debbano essere molto più alte: alla fine della causa la Chiesa è costretta ad accettare una mediazione pagando i Foster ben 750 mila dollari. Quello di Emma non è l’unico caso che imbarazza Pell. Tra le decine di migliaia di carte della Royal Commission ci sono anche i documenti e i verbali che provano come la sua diocesi, mentre lesinava aiuto alle vittime, non faceva mancare sostegno ai prelati pedofili usciti di prigione. Il successore di Pell, l’arcivescovo Denis James Hart famoso in Australia per aver scacciato una donna che voleva denunciare un’aggressione sessuale di un prete con l’epiteto «Vai all’inferno, cagna!», in un interrogatorio ha ammesso che la diocesi di Melbourne ha speso centinaia di migliaia di dollari per aiutare ex preti pedofili pagando loro sia lo stipendio sia l’affitto, la pensione, l’assicurazione sanitaria e persino quella dell’automobile. Un documento interno del 2 ottobre 1996 segnala come Pell abbia presieduto una riunione dove lui e alti prelati discussero come poter aiutare tre preti (tra cui don Michael Glennon) dopo il loro rilascio dalla prigione. «Punto 15. Ipotesi su come aiutare i preti che stanno uscendo di galera» si legge nel verbale dell’incontro «Possibilità di un posto (appartamento indipendente) nel palazzo di Box Hill. Padre McMahon ha parlato di cure mediche necessarie, ed è stato invitato dall’arcivescovo Pell a far presente cosa serve alla loro assistenza». Se padre Wilfred Baker, che ha molestato 21 bambini, ha ricevuto dalla curia tra pensione e spese per l’affitto 21 mila dollari l’anno fino al 2014, (il massimo della pensione possibile, ha notato il giornale “The Age”), Desmond Gannon e David Daniel, anche loro condannati per crimini sessuali, hanno subito una semplice decurtazione della busta paga. I giudici hanno poi scoperto che una serie di giroconti finanziari per aiutare il pedofilo Gannon fu orchestrata in modo tale che «difficilmente la notizia dell’aiuto sarebbe diventata di dominio pubblico». Per la cronaca, i denari per aiutare i preti australiani caduti in disgrazia sono stati prelevati dal Fondo pensione del clero, che è per gran parte finanziato dai contributi dei parrocchiani. Tra loro, paradossalmente, c’erano anche alcune famiglie degli abusati. Ma il cardinale promosso da Francesco ha altri scheletri nell’armadio: ha protetto l’orco seriale Gerald Risdale (suo ex coinquilino, negli atti della Royal Commission spunta una foto che ritrae Pell a braccetto con il maniaco: nonostante le pesanti accuse aveva deciso di accompagnarlo alla prima udienza del processo; è un fatto che né Pell né altri vescovi cattolici abbiano mai accompagnato in tribunale le vittime dei loro colleghi predatori), né ha voluto ascoltare un ragazzo che lo avvertì come un sacerdote, Edward Dowlan, avesse abusato di alcuni ragazzini di un collegio cattolico di Ballarat, la città natale del cardinale («Mi disse: “Non essere ridicolo”, uscendo dalla stanza senza degnarmi di altre attenzioni» mette a verbale il testimone Timothy Green, «la sua reazione mi ha dato l’impressione che lui conoscesse fratello Dowlan, ma che non potesse o volesse fare nulla a riguardo»). Non è tutto. Il ministro economico del Vaticano avrebbe anche tentato di corrompere una vittima («mi chiese cosa volessi per tenermi tranquillo», racconta il nipote abusato di padre Risdale. «Chiamai sconvolto mia sorella dicendogli: Il bastardo ha cercato di corrompermi»), e ha mentito per iscritto almeno su un altro caso di pedofilia, in modo da evitare di pagare risarcimenti alla vittima. Nonostante accuse circostanziate, decine di testimonianze durissime e documenti che dimostrano insabbiamenti e leggerezze, Pell è stato sempre protetto dal Vaticano, e fa tuttora parte del C9, il gruppo dei nove cardinali nominati dal pontefice in persona per aiutarlo nel governo della Chiesa Universale. Il suo non è l’unico caso di promozioni discutibili. Strettissimo collaboratore del papa è infatti Francisco Errazuriz, anche lui chiamato a far parte dell’inner circle del pontefice. Ex arcivescovo di Santiago del Cile e oggi pezzo da novanta della Santa Sede, è stato protagonista, insieme al suo successore Ricardo Ezzati e al nuovo vescovo di Osorno Juan Barros Madrid, dello scandalo di padre Fernando Karadima. Un prete, per stessa ammissione del cardinale, che ha formato tre generazioni di prelati cileni. Una sorta di “santo vivente” per quasi tutta l’alta borghesia e il clero di Santiago che però, secondo le accuse di quattro uomini, dei giudici ordinari e perfino della Congregazione per la dottrina della Fede, nascondeva dietro l’aureola un’altra faccia. Quella di un criminale seriale che ha distrutto vite di giovani adolescenti. L’inchiesta del giudice istruttore Jessica Gonzales è sintetizzata in un documento di 84 pagine dove vengono ricostruite le fasi dell’inchiesta interna della curia cilena, e mostrano il tentativo - da parte di Errazuriz - di evitare lo scandalo allungando a dismisura i tempi dell’istruttoria: nonostante il cardinale fosse stato avvertito delle violenze di Karadima già nel 2003, Errazuriz manderà il fascicolo a Roma solo nel 2010, quando ormai le vittime - che non erano riuscite ad ottenere giustizia dal loro vescovo - avevano deciso di raccontare le violenze pubblicamente. Errazuriz spiega a verbale di non aver mai creduto alle accuse, ma schernisce chi lo indica, in patria, come un insabbiatore. Di certo nel 2006, dopo aver “sospeso” l’inchiesta interna che altri pezzi della sua curia volevano portare avanti, chiese a don Karadima di farsi da parte. Ma solo per raggiunti limiti di età. «Caro Fernando» si legge in una missiva privata pubblicata da un giornale cileno «la celebrazione per i suoi cinquant’anni di sacerdozio sarà un grande anniversario, nessuno potrà dire che non sia stato celebrato come si conviene...». Il giudice penale alla fine dell’istruttoria ha confermato le violenze, ma ha dovuto prescrivere i reati. La Congregazione ha condannato Karadima «a una vita di preghiera». Nel 2013 si è aperta una causa civile contro l’arcidiocesi di Santiago su cui pendono richieste di risarcimento da parte di quattro vittime pari a 450 milioni di pesos. Insieme a Pell e ad Errazuriz, nel C9 c’è anche Oscar Rodriguez Maradiaga, coordinatore del gruppo e uno dei cardinali più ascoltati dal papa. In pochi sanno che tra il 2003 e il 2004 la porpora ospitò in una delle diocesi sotto il suo arcivescovado di Tegucigalpa, in Honduras, un prete incriminato dalla polizia del Costarica per abusi sessuali. Un latitante, don Enrique Vasquez, braccato dall’Interpol fin dal 1998: dopo una fuga tra Nicaragua, New York, Connecticut e una casa di cura per preti in Messico, don Enrique si rifugerà per qualche mese anche a Guinope, dove diventa parroco di una parrocchia sotto il controllo dell’arcivescovado di Maradiaga. Il reporter Brooks Egerton, racconta che riuscì al tempo ad intervistare il segretario di Maradiaga per il Dallas Morning News, che non negò affatto la presenza del pedofilo, ma minimizzò solo il ruolo pastorale. L’attuale cardinale, invece, non volle mai rispondere alle sue domande. «Secondo un agente dell’Interpol che intervistai, i funzionari della diocesi si resero conto di avere un problema con don Enrique, e così si liberarono di lui», azzarda Egerton. Maradiaga però è uno che non si nasconde, e non hai mai avuto sul tema alcun pelo sulla lingua: un anno prima dell’arrivo di Vasquez nella sua diocesi, in una conferenza pubblica a Roma spiegò che lui, anche di fronte a un sacerdote accusato di pedofilia, sarebbe stato «pronto ad andare in prigione piuttosto che danneggiare uno dei miei preti... Per me sarebbe una tragedia ridurre il ruolo di pastore a quello di poliziotto. Non dobbiamo dimenticare che siamo pastori, e non agenti dell’Fbi o della Cia». Tra le porpore che hanno fatto strada “Lussuria” racconta anche le contraddizioni di Timothy Dolan, arcivescovo di New York che come capo della Conferenza episcopale statunitense che ha dato l’ok ha pagare dal 2007 al 2015 parcelle da ben 2,1 milioni di dollari a favore di importanti società di lobbying con l’obiettivo - ovviamente non dichiarato - di bloccare, o quanto meno modificare, l’approvazione di una proposta di legge dello Stato che prevede l’abolizione della prescrizione per le vittime della pedofilia. Ma omertà e i silenzi hanno caratterizzato anche il comportamento del cardinale francese Philippe Barbarin e dell’italiano Domenico Calcagno, e fedelissimi di Francesco come monsignor Godfried Danneels, arcivescovo emerito di Bruxelles messo da Bergoglio in cima alla lista dei padri sinodali: possibile che il papa non conoscesse le imbarazzanti intercettazioni (mai pubblicate in Italia) con cui il porporato tentava di proteggere un vescovo lussurioso? È un fatto che documenti originali e testimonianze dimostrano come nell’anno di grazia 2017 il sistema attraverso cui la gerarchia ecclesiastica protegge le mele marce, nonostante qualche blando tentativo di scardinarlo, funziona ancora a pieno regime.
11 FEBBRAIO 2013. LA RINUNCIA DI UN PAPA.
LA GIORNALISTA CHE DIEDE LA NOTIZIA: «NON RESPIRAVO, ERO TERRORIZZATA». Il racconto di Giovanna Chirri, la vaticanista dell'Ansa che per prima capì l'annuncio in latino delle dimissioni di papa Benedetto: «Avevo compreso subito quel che stava accadendo ma ero nel panico. Gestire da sola una notizia così è una responsabilità enorme, drammatica», scrive Antonio Sanfrancescoantonio su "Famiglia Cristiana" il 10 febbraio 2014.
La giornalista che diede la notizia: «Non respiravo, ero terrorizzata». «Non respiravo, mi sentivo un pallone dentro la testa, credo che mi sia salita anche la pressione. Avevo capito subito quel che stava succedendo ma ero terrorizzata. Gestire da sola una notizia così è una responsabilità enorme, quasi drammatica». Giovanna Chirri, vaticanista dell’agenzia Ansa, racconta così gli attimi concitati e tremendi di quel mattino dell’11 febbraio di un anno fa quando fu lei a dare al mondo la notizia delle rinuncia al papato di Joseph Ratzinger. Quel giorno era in programma il Concistoro con i cardinali per l’annuncio della data di canonizzazione dei Martiri di Otranto, «un evento di scarso appeal mediatico», spiega Chirri, «tanto che in Sala Stampa vaticana, a seguire i lavori, c’eravamo soltanto io, che ero di turno per l’Ansa, due colleghi francesi, uno messicano e un giapponese. Ogni giornalista ha la sua postazione con un monitor. Ricordo che quel giorno, come da prassi, prima parlò in latino il cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, e poi toccò a papa Benedetto».
Cosa successe in dettaglio?
«Già prima che il Pontefice pronunciasse la formula di rinuncia, spiegasse i motivi e desse indicazioni sull’inizio della sede vacante, avevo capito tutto. In quell’attimo mi sono terrorizzata. E quando hai paura, c’è poco da fare! L’accento di Ratzinger, nonostante l’inflessione tedesca, quando parla in latino è molto nitido e chiaro per cui compresi benissimo le sue parole, anche se proferite con tono basso, quasi sommesso. Avevo capito che il Papa si era dimesso ma ora si trattava di dare la notizia».
E cosa hai fatto?
«Verso la fine della declaratio, quando il Papa parlò esplicitamente di Conclave e io mi ero un attimo ripresa dalla paura, ho fatto una serie di telefonate. Mi ricordo che tentai una rapida verifica. Cercai il direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lo0mbardi, che mi richiamò nel giro di pochi secondi confermandomi tutto. Alla fine telefonai in redazione. C’era una collega molto in gamba che mi diede retta, nel senso che non è facile per un collega sentirsi dire che il Papa si è appena dimesso e lo ha annunciato in latino».
I tuoi sentimenti nel sentire parlare il Papa?
«Panico, grandissimo stupore, dolore personale per una scelta che a livello umano mi addolorava moltissimo e paura di sbagliare».
Perché Ratzinger scelse il latino per dare l’annuncio?
«Bisognerebbe chiederlo direttamente a lui! Nel Concistoro, dove era presente il grosso del collegio cardinalizio, i lavori sono sempre in latino e quindi Ratzinger ha deciso così, credo. Il latino è comunque la lingua ufficiale della Chiesa. Non dimentichiamo inoltre che Benedetto XVI parlava spesso in latino, anche quando doveva fare annunci meno “importanti”, diciamo così. Appena eletto, usò il latino per annunciare la deroga ai 5 anni per l’avvio della canonizzazione di Giovanni Paolo II. E poi, con il latino magari si correvano meno rischi di una fuga di notizie».
Più che uno scoop il tuo è stato un racconto, quindi.
«Esattamente. Ero lì, ho ascoltato, ho fatto le verifiche. Ancora oggi quando racconto tutto questo molti non mi credono e magari pensano che quel mattino mi abbia telefonato qualche buona fonte del Vaticano per dirmi che di lì a poco il Papa si sarebbe dimesso. Mi sarebbe piaciuto, senza dubbio, ma non è andata così. Il giornalista è anzitutto un testimone che osserva, assiste in diretta e poi racconta. E io, un anno fa, sono stata semplicemente testimone di un fatto storico, epocale. In un certo senso, mi sono presa una piccola personale rivincita, la conferma della bontà del lavoro che ho fatto in questi anni. Ma questo forse lo può capire chi fa questo mestiere».
In che senso?
«Oggi l’informazione religiosa, ma forse l’informazione tout court, è troppo urlata, sensazionalistica, spesso caratterizzata da letture ideologiche preconfezionate. Il rischio che deve correre ogni giorno il giornalista è quello di vedere la realtà concreta, poi cercare di raccontarla e soprattutto capirla. Il vero contributo che può dare un buon cronista è proprio quello di descrivere quello che vede più senza fare a gara a chi strilla di più, a chi insegue gli scoop, a chi offre analisi spesso errate o superficiali. Forse oggi il giornalismo delle “5 W” non va più tanto di moda. Il rischio grosso di questo mondo dove arriva tutto da Internet e dai social network alla velocità della luce e in quantità industriale è che se succede qualcosa di reale, concreto sotto il naso nessuno la vede più».
L’intervista a mons. Negri diventa un caso e rimbalza sulla stampa nazionale, scrive Riminiduepuntozero l'8 marzo 2017. Il vaticanista della Stampa dice che "è la prima volta che un vescovo accredita l'idea di un complotto". Le parole del vescovo di Ferrara rimbalzano su Dagospia, Libero, Il Giornale e vari siti cattolici. Il vaticanista Andrea Tornielli, sulla Stampa, ha ripreso con un lungo articolo l’intervista che “il prelato ha rilasciato al giornale online Riminiduepuntozero” (e che ha avuto migliaia di condivisioni e letture). Molto critico il giudizio di Tornielli sulle parole di mons. Negri: “È la prima volta che un vescovo accredita l’idea di un complotto, di pressioni e di un ricatto dietro la rinuncia di Benedetto XVI, lasciando intendere senza tanti giri di parole che Papa Ratzinger non se n’è andato di sua spontanea volontà. Una tesi finora circolata in certe ricostruzioni mediatiche, corroborata e sostenuta da chi non si rassegna al fatto che l’ex Pontefice tedesco non sia più sul trono e che il ministero petrino sia passato sulle spalle del suo legittimo successore. Luigi Negri, 75 anni, arcivescovo uscente di Ferrara, è anche autore di saggi sulla storia della Chiesa e per questo le sue incandescenti dichiarazioni sono destinate a far rumore”. Secondo Tornielli, uno dei vaticanisti più allineati con papa Francesco, la tesi del complotto sarebbe stata smentita dallo stesso Ratzinger, che invece Tornielli rimprovera apertamente: “Resta aperta la domanda su quanto alcune scelte personali, e mai codificate per iscritto, fatte da Benedetto XVI – come quella di mantenere l’abito bianco e il nome papale, come pure la scelta della figura dell’emeritato – abbiano involontariamente alimentato i seguaci della teoria dei due Papi poi degenerata nella teoria del Papa rinunciatario perché sotto ricatto. Come pure resta aperta la domanda su quei visitatori che recandosi di frequente a trovare Benedetto fanno poi uso di queste entrature per affermare l’esatto opposto di quel che lo stesso Ratzinger ha detto pubblicamente”. L’articolo della Stampa è finito anche su Dagospia. Da segnalare la ripresa di Libero e Il Giornale e di una serie di siti cattolici.
“Gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano per le dimissioni di Benedetto XVI”. Parla mons. Negri. "Si avvicina la mia personale “fine del mondo” e la prima domanda che rivolgerò a San Pietro sarà proprio su questa vicenda", scrive Franco Fregni su Riminiduepuntozero il 6 marzo 2017. "Benedetto XVI ha subito pressioni enormi", spiega il vescovo che ha iniziato il suo ministero episcopale nella diocesi di San Marino Montefeltro e lo sta concludendo a Ferrara. Con lui "mi sono sentito a casa mia". Il presente della chiesa è segnato da "molta confusione in tanta ecclesiasticità" e gli antipapisti di un tempo sono diventati iperpapisti per proprio uso e consumo. Ma Negri parla anche di famiglia, del rischio che corre la democrazia in Italia per la criminalizzazione delle opinioni non “mainstream”, di Comunione e liberazione e tanto altro. L’incontro con monsignor Luigi Negri avviene nella sede dell’Arcidiocesi di Ferrara e Comacchio il giorno in cui festeggia i 4 anni dalla sua nomina a vescovo. “Quattro anni bellissimi e faticosissimi” spiega Negri che, raggiunti i 75 anni di età, il prossimo 3 giugno lascerà la guida della diocesi ferrarese a monsignor Gian Carlo Perego. Una cerimonia che definire sobria sarebbe un’esagerazione: un bicchiere d’acqua, una candelina su un pasticcino salato, due battute con i collaboratori.
Monsignor Negri, una curiosità da profano assoluto: ma un prete può andare in pensione? Se è una missione e non un lavoro, come si fa a dire ad una persona “adesso basta”?
“Non si può dire, e infatti io continuerò a lavorare. Al massimo mi possono dire che non ho più la guida operativa della diocesi di Ferrara e Comacchio che ho accettato con umiltà e spirito di servizio su richiesta di Benedetto XVI. Ma rimango arcivescovo emerito, non decado dalla responsabilità di guidare i cattolici, cosa che farò senz’altro, anche se con altre modalità. Mi dedicherò soprattutto al versante culturale. Cercherò di portare avanti un discorso di sensibilizzazione, in linea con la tradizione cattolica. Tenterò di attuare pienamente questo impegno con grande libertà, confortato da tanti autorevoli amici”.
E’ noto il suo grande rapporto con il papa emerito Benedetto XVI…
“In questi ultimi 4 anni ho incontrato diverse volte Benedetto XVI. E’ stato lui a chiedermi di guidare la diocesi di Ferrara, perché molto preoccupato della situazione in cui versava la diocesi. Con Benedetto è nato un rapporto di forte amicizia. Mi sono sempre rivolto a lui nei momenti più importanti per discutere delle scelte da fare e non mi ha mai negato il suo parere, sempre in spirito di amicizia”.
Visto questo rapporto, si è fatto un’opinione sul perché Benedetto abbia rinunciato al papato, un gesto clamoroso nella millenaria storia della Chiesa?
“Si è trattato di un gesto inaudito. Negli ultimi incontri l’ho visto infragilito fisicamente, ma lucidissimo nel pensiero. Ho poca conoscenza – per fortuna – dei fatti della Curia romana, ma sono certo che un giorno emergeranno gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano. Benedetto XVI ha subito pressioni enormi. Non è un caso che in America, anche sulla base di ciò che è stato pubblicato da Wikileaks, alcuni gruppi di cattolici abbiano chiesto al presidente Trump di aprire una commissione d’inchiesta per indagare se l’amministrazione di Barack Obama abbia esercitato pressioni su Benedetto. Resta per ora un mistero gravissimo, ma sono certo che le responsabilità verranno fuori. Si avvicina la mia personale “fine del mondo” e la prima domanda che rivolgerò a San Pietro sarà proprio su questa vicenda”.
Dopo la “rinuncia” di Benedetto si è assistito ad una svolta nella Chiesa. E’ un dato di fatto che il pontificato di Francesco sia al centro di discussioni. Da una parte, magari storicamente lontana dalla Chiesa, si assiste ad una celebrazione del nuovo papa, da ambienti definiti più tradizionalisti vengono critiche e dubbi…
“La Chiesa deve a Benedetto la straordinaria coniugazione di Fede e Ragione. La Ragione per indagare e la Fede come verifica. Con l’applicazione di questo metodo mi sono sentito a casa mia, in una sorta di ideale continuazione degli anni d’intesa con don Luigi Giussani. L’attualità vede un grande dibattito e molta confusione in tanta ecclesiasticità, viene il sospetto che non siano chiare le linee di comprensione autentica, perché avvalorate dalla tradizione, dell’intero dogma cristiano. L’ipotesi è quella di far coincidere il cammino della Chiesa con il presente, ma non si considera che, senza tener conto della tradizione, questo tentativo è destinato all’infecondità. Inoltre è scattata una damnatio memoriae dell’opera immensa dei pontificati di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. Tra le altre cose è incomprensibile che abbiano trovato accreditamento in Santa Sede personalità equivoche e discutibili. Equivoci perché privi di competenza scientifica. Dalla “Gaudium e Spes” emerge che la Chiesa deve rispettare la libertà e l’autonomia della ricerca tecnica e scientifica (“la legittima autonomia delle realtà terrene”), perché la ricerca, con metodi veramente scientifici e secondo le norme morali, non è in contrasto con la fede. E’ giusta la reazione a queste scelte incomprensibili da parte di tanti ambienti scientifici, che si vedono preferire scienziati meno competenti ed ideologizzati in senso anti cattolico”.
Le cronache forniscono sempre nuovo materiale per la fondamentale questione bioetica. Su questo punto, anche solo dal punto di vista di un osservatore dei media, appare evidente un affievolirsi della voce della Chiesa Cattolica.
“Questo è un aspetto sconcertante. Il ministero non deve essere mai taciuto. Anche in questo caso sembriamo aver dimenticato lo splendore dei pontificati del XX secolo. In quei casi assistevamo ad una pertinenza assoluta nel giudicare, per poi far scaturire, da questo giudizio, la carità. Adesso assistiamo ad una “vulgata” che mette in dubbio le stesse parole di Dio, c’è una contrapposizione tra dottrina e pastorale, tra verità e carità. Su questo punto basterebbe la folgorante definizione del Cardinal Cafarra: “La pastorale senza verità è puro arbitrio”. La Chiesa adesso purtroppo pullula di associazioni e gruppi che danno indicazioni e norme di comportamento su tutte le questioni, senza considerare la verità. La Chiesa si è sempre battuta per difendere l’umano. Se il mondo distrugge l’umano e io aiuto il Mondo, allora anch’io distruggo l’umano. Purtroppo l’impressione è che persone vicine alla Chiesa aiutino questa distruzione dell’umano”.
Una vicenda che sta dividendo il mondo cattolico è rappresentata dai “dubia” sollevati da quattro cardinali sull’esortazione apostolica Amoris Laetitia di papa Bergoglio. La risposta a questi “dubia” non arriva, a suo giudizio papa Francesco dovrebbe affrontare i problemi posti?
“L’Amoris Laetitia ha bisogno di una specificazione, purtroppo la guida ultima della Chiesa ancora tace. Io penso che il Santo Padre debba rispondere, anche se sembrerebbe aver deciso per il contrario. Purtroppo si è scatenata un’autentica isteria contro questi quattro cardinali che sono stati accusati di tutto. C’è chi è arrivato a suggerire di togliere loro la berretta cardinalizia. Si tratta di episodi stomachevoli. Gli antipapisti di un tempo diventano iperpapisti per proprio uso e consumo”.
Anche Lei nella sua vita non si è mai risparmiato nel dibattito pubblico e spesso ha dovuto subire offese ed insulti.
“Mi sono sempre gloriato, come suggerisce San Paolo, delle offese che ho ricevuto per la difesa della fede e della carità. Sono in gioco questioni più profonde della mia singolare vicenda personale. Un esempio di questo modo di procedere l’ho vissuto proprio a Ferrara quando ho sollevato la questione della “movida” notturna davanti alla cattedrale. Ho posto il tema fondamentale dell’educazione, di cosa si facesse per quei giovani sbandati che rendevano un luogo come il sagrato della cattedrale un postribolo. Per questa mia presa di posizione, che era su un tema fondamentale e ineludibile – la questione educativa -, sono stato attaccato da pseudomoralisti presenti anche nelle istituzioni, ma nessuno ha risposto nel merito del tema che ho sollevato. Sono stato lasciato solo in questa battaglia da tutte le istituzioni, tranne il Prefetto di allora che, guarda caso, fu prontamente sostituito. Sono stato accusato di essere un reazionario, di moralismo, di non conoscere i giovani. Io non conosco i giovani? Come si può dire una cosa del genere? In tutta la mia esperienza nel movimento di Comunione e Liberazione sono sempre stato e sono tuttora a contatto con migliaia di giovani. Il problema è che diventa più facile criminalizzare che misurarsi sui problemi reali, e più facile offendere che discutere con chi pone delle questioni razionali e di buon senso. Il problema è che dopo 4 anni la situazione non è cambiata, adesso non c’è più la movida notturna davanti alla cattedrale solo perché ci sono i lavori. Il dramma è che nessuno ancora si interroga sul futuro di questi giovani”.
Dalla lettura dei suoi testi, soprattutto quelli relativi alla storia della Chiesa e di quelli di Benedetto XVI emergono molte critiche agli stati moderni, a tratti ho avuto quasi l’impressione di trovarmi di fronte ad un “anarchismo cattolico”.
“Non mi piace l’espressione anarchismo. Nel solco di una solida tradizione ho individuato alcuni problemi. La Chiesa ha sempre ribadito che qualsiasi istituzione non ha diritti sulle questioni religiose. Origene, nel II secolo, affermava a proposito dell’imperatore: “Tu sei una grande cosa sotto il cielo, ma i diritti di Dio sono più grandi dei tuoi”. Quindi c’è sempre stata una chiara posizione della Chiesa su questi temi. Lo stato moderno e contemporaneo ha messo in atto un tentativo terribile di assolutizzazione della politica e quindi dell’ideologia politica. La Chiesa ha combattuto questa deriva e ha impedito che il totalitarismo trionfasse. Lo stato deve restare nei suoi ambiti. C’è anche un altro aspetto importante. Come diceva Hannah Arendt la democrazia non è una procedura, ma un costume. Se manca il costume, cioè il dialogo tra le parti, la democrazia può essere violata. Quando vedo che alcune opinioni non vengono neppure prese in considerazione temo per la democrazia. Per paradosso nell’Italia nel 2017, dove le opinioni diverse, non “mainstream”, vengono spesso criminalizzate, la democrazia corre un forte rischio, più grosso che in passato”.
Il tema del “fine vita” è tra i più dibattuti. Si ha talvolta la sensazione che emerga una volontà di negare la sofferenza, come se non dovesse più esistere per l’uomo contemporaneo. Platone, al contrario, nella sua concezione filosofica, affermava che uno dei metodi per arrivare alla conoscenza è proprio la sofferenza. Inutile aggiungere che questo concetto trova il suo apice nel Cristianesimo, nella Passione e nella Croce. Insomma, questo voler cancellare la sofferenza sembra voler negare una possibile via di conoscenza.
“La concezione post illuministica, maggioritaria nel mondo contemporaneo, vede la conoscenza come una “sistemazione di oggetti”, dove tutto è catalogato e spiegabile. La conoscenza autentica è invece l’aprirsi al mistero della vita, è la ricerca del senso di questa vita terrena. La sofferenza è un aspetto fondamentale della comprensione di questa realtà. Ora invece si banalizza la sofferenza, predomina un’antropologia dove la sofferenza non ha posto. Ma la realtà è testarda e rimane, prende il sopravvento tutte le volte che il mistero di Dio lo consente”.
Altre vicende sociali stanno infiammando il dibattito, come quelle relative alla famiglia. E spesso vicende molto complesse vengono risolte da sentenze giuridiche.
“Nel nostro paese è in corso, legittimamente, un dibattito dove sta emergendo un’antropologia che vede la vita come oggetto di una procedura manipolabile, alterabile, dove si avanzano pretese e diritti. Chi si batte contro questa visione propone invece un’antropologia dove la vita è considerata un dono. C’è solo un luogo dove queste vicende possono essere discusse ed è il parlamento che rappresenta l’espressione della sovranità popolare. Altri tentativi di risolvere questi problemi, come succede sempre più spesso attraverso la sentenze dei giudici non sono legittimi. La sentenza dei giudici di Trento, che riconosce due padri a figli nati con la procreazione assistita, è vergognosa. I giudici, la magistratura devono applicare ciò che è stabilito dal parlamento. Purtroppo negli ultimi 30 anni abbiamo assistito troppo spesso a delle prese di posizione di parte della magistratura che rappresentano delle lesioni alla democraticità del nostro paese”.
Leggendo e studiando i lavori di molti esponenti della Chiesa definiti come “tradizionalisti”, a volte mi sorprendo a trovare affermazioni che a mio modo di vedere sono rivoluzionarie. Però siete sempre definiti “retrogradi”, perché si applicano etichette spesso fuorvianti?
“C’è una splendida pagina del Manzoni in cui si afferma: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. E’ la perfetta rappresentazione della nostra epoca. Il senso comune è imposto da efficaci mass media che sono guidati dai grandi potentati economici e politici. Assistiamo a negazioni del buon senso assolute. Viene negata la bellezza dell’amore tra uomo e donna, la capacità di sacrificio, viene negata quella che Benedetto definisce la vita buona e bella. La tradizione deve essere condannata perché nega questo progressismo che non ha fondamento razionale e non è positivo sociologicamente. I paladini di queste prese di posizione non sentono neppure la necessità di giustificare queste affermazioni. Se uno si permette di contestare il senso comune viene accusato di lesa maestà. E il delitto di lesa maestà non è espressione di democrazia. Infatti la nostra democrazia è fragile, sembra spegnersi”.
E cosa si può fare per impedire che questo avvenga?
“La gente che non si sente definita da questo conformismo deve esprimere le proprie convinzioni, sia a livello individuale che collettivo. Poi, ed è questo l’aspetto più importante, deve verificare l’esito delle sue azioni. Questo è un grande insegnamento di Giussani: la verifica”.
Giussani e Cl, una parte fondamentale della sua vita. Lei è stato uno dei protagonisti di questo movimento, adesso non sembra in sintonia con i vertici.
“Cl è un’esperienza straordinaria di fede viva, di incontro reale con Gesù Cristo, che abbiamo amato più di nostro padre e di nostra madre. Giussani ci ha fomentato, ci ha portato ad essere figli della Chiesa e suoi umili servitori. Giussani ci ha insegnato a fare riferimento rigoroso alla tradizione teologica. Adesso è innegabile che si propongano altre visioni, su cui non c’è stata talvolta coincidenza di vedute, ma mi auguro che la mia maggior libertà e la possibilità di stare sistematicamente a Milano rendano possibile non tanto la ripresa, ma la nascita di un dialogo che spero collaborativo”.
Negri: “Motivi gravissimi dietro la rinuncia di Benedetto XVI”. L'arcivescovo uscente di Ferrara accredita l'ipotesi del presunto complotto internazionale e interno al Vaticano per far dimettere Ratzinger, scrive Andrea Tornielli il 07/03/2017 su “La Stampa”. È la prima volta che un vescovo accredita l'idea di un complotto, di pressioni e di un ricatto dietro la rinuncia di Benedetto XVI, lasciando intendere senza tanti giri di parole che Papa Ratzinger non se n'è andato di sua spontanea volontà. Una tesi finora circolata in certe ricostruzioni mediatiche, corroborata e sostenuta da chi non si rassegna al fatto che l'ex Pontefice tedesco non sia più sul trono e che il ministero petrino sia passato sulle spalle del suo legittimo successore. Luigi Negri, 75 anni, arcivescovo uscente di Ferrara, è anche autore di saggi sulla storia della Chiesa e per questo le sue incandescenti dichiarazioni sono destinate a far rumore. Il prelato ha rilasciato un'intervista al giornale online Riminiduepuntozero. Ha tenuto a ricordare e ribadire, come già aveva fatto nei mesi scorsi durante un incontro pubblico a Milano, il suo rapporto di «forte amicizia» con Benedetto XVI, raccontando di averlo visitato diverse volte, anche di recente. «In questi ultimi quattro anni ho incontrato diverse volte Benedetto XVI. È stato lui a chiedermi di guidare la diocesi di Ferrara, perché molto preoccupato della situazione in cui versava la diocesi. Con Benedetto è nato un rapporto di forte amicizia. Mi sono sempre rivolto a lui nei momenti più importanti per discutere delle scelte da fare e non mi ha mai negato il suo parere, sempre in spirito di amicizia». Alla domanda successiva, l'intervistatore chiede quale idea si sia fatto Negri sulla rinuncia al papato. Ecco che cosa risponde l'arcivescovo emerito di Ferrara: «Si è trattato di un gesto inaudito. Negli ultimi incontri l’ho visto infragilito fisicamente, ma lucidissimo nel pensiero. Ho poca conoscenza – per fortuna – dei fatti della Curia romana, ma sono certo che un giorno emergeranno gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano. Benedetto XVI ha subito pressioni enormi. Non è un caso che in America, anche sulla base di ciò che è stato pubblicato da Wikileaks, alcuni gruppi di cattolici abbiano chiesto al presidente Trump di aprire una commissione d’inchiesta per indagare se l’amministrazione di Barack Obama abbia esercitato pressioni su Benedetto. Resta per ora un mistero gravissimo, ma sono certo che le responsabilità verranno fuori. Si avvicina la mia personale “fine del mondo” e la prima domanda che rivolgerò a San Pietro sarà proprio su questa vicenda». Negri è dunque «certo» che Benedetto abbia lasciato perché sottoposto a fortissime pressioni e che vi siano persone responsabili di quella sua scelta, evidentemente considerata dall'arcivescovo non libera. Esattamente come ripetono i complottisti, i quali vedono proprio in queste pressioni un condizionamento che renderebbe invalida la rinuncia stessa. È ciò che permette a una galassia di gruppi e gruppuscoli pseudo-tradizionalisti di considerare ancora Ratzinger come il «vero Papa», anche se a queste conseguenze l'arcivescovo di Ferrara, nell'intervista citata, non arriva. Questa lettura dei fatti finisce dunque col presentare il Papa emerito come succubo di pressioni e incapace di resistere a queste stesse pressioni. Nel libro-intervista «Ultime conversazioni» con Peter Seewald, il giornalista tedesco aveva posto a Ratzinger una domanda esplicita sui giornali che parlano di «ricatto e cospirazione». «Sono tutte assurdità», aveva risposto perentoriamente il Papa emerito «lucidissimo nel pensiero», derubricando a fanta-thriller queste elucubrazioni. «Devo dire - aveva aggiunto - che il fatto che un uomo, per qualsivoglia ragione, si sia immaginato di dover provocare uno scandalo per purificare la Chiesa è una vicenda insignificante. Ma nessuno ha cercato di ricattarmi. Non l’avrei nemmeno permesso. Se avessero provato a farlo non me ne sarei andato perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione. E non è nemmeno vero che ero deluso o cose simili. Anzi, grazie a Dio, ero nello stato d’animo pacifico di chi ha superato la difficoltà. Lo stato d’animo in cui si può passare tranquillamente il timone a chi viene dopo». Da notare come Benedetto XVI tenga a sottolineare quanto segue: «Se avessero provato a farlo non me ne sarei andato perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione». Dopo l'uscita del libro-intervista, come pure del colloquio che conclude il bel libro biografico curato da Elio Guerriero, che oltre a spiegare le motivazioni della rinuncia contiene anche parole di apprezzamento per il successore, i teorici del complotto hanno reagito di fatto dando a Ratzinger del bugiardo: si sarebbe dimesso perché sotto pressione e sotto ricatto, ma ovviamente non sarebbe in grado di confermarlo, e anzi sarebbe costretto a dire pubblicamente il contrario. Questo fanta-thriller va di pari passo con altre affermazioni per certi versi ancora più gravi, le teorie sul «papato condiviso» e sul «ministero petrino» in co-gestione. Teorie che negli ultimi anni hanno annoverato alcuni sostenitori, mettendo in discussione, questa volta per davvero, la tradizione della Chiesa e la sua divina costituzione. Resta aperta la domanda su quanto alcune scelte personali, e mai codificate per iscritto, fatte da Benedetto XVI - come quella di mantenere l'abito bianco e il nome papale, come pure la scelta della figura dell'emeritato - abbiano involontariamente alimentato i seguaci della teoria dei due Papi poi degenerata nella teoria del Papa rinunciatario perché sotto ricatto. Come pure resta aperta la domanda su quei visitatori che recandosi di frequente a trovare Benedetto fanno poi uso di queste entrature per affermare l'esatto opposto di quel che lo stesso Ratzinger ha detto pubblicamente.
La confessione di un arcivescovo: "Benedetto XVI ha subìto pressioni enormi", scrive "Libero Quotidiano". "Benedetto XVI ha subìto pressioni enormi". A parlare è Luigi Negri, 75 anni, arcivescovo uscente di Ferrara, che in un'intervista concessa al giornale online Riminiduepuntozero (e ripresa da La Stampa) si lascia andare in un commento personale sulle dimissioni di Ratzinger dalla carica di Pontefice nel 2013. "Si è trattato di un gesto inaudito. Sono certo che un giorno emergeranno gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano. Non è un caso che in America, anche sulla base di ciò che è stato pubblicato da Wikileaks, alcuni gruppi di cattolici abbiano chiesto al presidente Trump di aprire una commissione d’inchiesta per indagare se l’amministrazione di Barack Obama abbia esercitato pressioni su Benedetto. Resta per ora un mistero gravissimo, ma sono certo che le responsabilità verranno fuori”. Una voce, quella del complotto, già circolata più volte nell'ambiente. Staremo a vedere se ci saranno ulteriori smentite.
Monsignor Negri: "La mano di Obama dietro le dimissioni di Benedetto XVI". L'ex arcivescovo di Ferrara parla di un "complotto americano" contro il Papa, scrive Stefano Filippi, Mercoledì 8/03/2017, su "Il Giornale". Ancora dubbi sulle dimissioni di Benedetto XVI a quattro anni da quella rinuncia che, l'11 febbraio 2013, ha cambiato la storia della Chiesa. Ancora sospetti su un presunto complotto internazionale, al quale avrebbe partecipato addirittura l'ex presidente americano Barack Obama, che avrebbe indotto Joseph Ratzinger ad abbandonare la cattedra di San Pietro; timori di pressioni che avrebbe subito, così forti che evidentemente era impossibile resistere. E di conseguenza si torna a congetturare che il passo indietro del Papa emerito non sia stato libero, come egli ha dichiarato fin da subito e ribadito successivamente nelle rare volte in cui ha avuto l'occasione di tornare sull'argomento. Fino a ieri lo scenario di una cospirazione anti Ratzinger era un'ipotesi di giornalisti, osservatori di cose vaticane e ambienti cattolici ostili alle novità introdotte da Papa Francesco che non si rassegnano all'abbandono del suo predecessore. Ora invece c'è un autorevole uomo di Chiesa, l'arcivescovo Luigi Negri, sollevato poche settimane fa dalla guida della diocesi di Ferrara per raggiunti limiti di età (il suo successore subentrerà a giugno), che fa propria l'idea del complotto americano. In una lunga intervista a un giornale online di Rimini, Negri parla di «motivi gravissimi» dietro la rinuncia di Benedetto XVI. «Sono certo dichiara - che un giorno emergeranno gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano. Benedetto XVI ha subito pressioni enormi». Aggiunge il vescovo emerito di Ferrara: «Non è un caso che in America, anche sulla base di ciò che è stato pubblicato da Wikileaks, alcuni gruppi di cattolici abbiano chiesto al presidente Trump di aprire una commissione d'inchiesta per indagare se l'amministrazione Obama abbia esercitato pressioni su Benedetto. Resta per ora un mistero gravissimo, ma sono certo che le responsabilità verranno fuori. Si avvicina la mia personale fine del mondo e la prima domanda che rivolgerò a San Pietro sarà proprio su questa vicenda». Il monsignore non manca di ricordare la sua frequentazione con Benedetto XVI, il rapporto di «forte amicizia» con il pontefice emerito: «In questi ultimi quattro anni l'ho incontrato diverse volte. Negli ultimi incontri l'ho visto infragilito fisicamente, ma lucidissimo nel pensiero. È stato lui a chiedermi di guidare la diocesi di Ferrara. Mi sono sempre rivolto a lui nei momenti più importanti per discutere delle scelte da fare e non mi ha mai negato il suo parere, sempre in spirito di amicizia». Traspare il tentativo di accreditarsi come interprete autorevole del Ratzinger-pensiero, benché nel recente libro-intervista con Peter Seewald, intitolato Ultime conversazioni, lo stesso Benedetto XVI abbia liquidato come «assurdità» le tesi complottistiche di giornalisti e gruppi cattolici tradizionalisti: «Nessuno ha cercato di ricattarmi», ha messo per iscritto. Ma ora le dure dichiarazioni di un suo fedelissimo riaprono gli interrogativi.
“Strana testimonianza di amicizia quella di Negri per Benedetto”. Padre Lombardi sul Sismografo commenta e relativizza le parole dell'arcivescovo emerito di Ferrara sulla rinuncia di Ratzinger e il presunto complotto per farlo dimettere. (“La Stampa” 09/03/2017). Il sito web Il Sismografo diretto da Luis Badilla ha chiesto a padre Federico Lombardi, presidente del Cda della Fondazione Ratzinger e portavoce vaticano al momento della rinuncia di Benedetto XVI, un commento alle dichiarazioni del vescovo emerito di Ferrara Luigi Negri, il quale nei giorni scorsi aveva parlato di "motivi gravissimi" dietro la rinuncia di Ratzinger. Lo riproduciamo integralmente:
"Leggere le dichiarazioni di Mons. Negri è sempre interessante e in certo senso piacevole, dato che ama dire quello che pensa “fuori dai denti”. Così è anche per buona parte della sua ultima intervista, pubblicata su duepuntozero.it. Ma talvolta è lecito interrogarsi sulla appropriatezza di ciò che dice. Mi riferisco a quanto afferma nella terza risposta dell’intervista, prontamente ripreso nel titolo del pezzo: “Gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano per le dimissioni di Benedetto XVI”. Affermazioni che non sono passate inosservate e sono state prontamente rilanciate su varie testate, suscitando interrogativi e – a mio avviso – inutile confusione. Mons. Negri, che parla volentieri della sua “forte amicizia” con Benedetto XVI, dice: “Ho poca conoscenza – per fortuna – dei fatti della Curia romana, ma sono certo che un giorno emergeranno gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano. Benedetto XVI ha subito pressioni enormi”. Poi fa riferimento a supposte pressioni esercitate dall’amministrazione Obama e conclude: “Resta per ora un mistero gravissimo, ma sono certo che le responsabilità verranno fuori. Si avvicina la mia personale “fine del mondo” e la prima domanda che rivolgerò a San Pietro sarà proprio su questa vicenda”. Osservo anzitutto che – per fortuna – Mons. Negri riconosce di conoscere poco i fatti, il che in parte permette di relativizzare le sue affermazioni, che tuttavia ci vengono presentate come una “certezza”. Ora, ciò che Benedetto XVI ha affermato pubblicamente davanti ai cardinali riuniti in Concistoro e al mondo, e ciò che ha ribadito ancora una volta chiaramente nelle risposte a Peter Seewald pubblicate nelle “Ultime conversazioni” edite da Garzanti, è assolutamente diverso da ciò che Negri afferma. Benedetto afferma infatti che ha preso la decisione della rinuncia in piena libertà e responsabilità e che non c’è nessun mistero da svelare. Io ho sempre pensato che Benedetto XVI sia un uomo che ha messo la verità al primo posto. Come si fa a contraddire così platealmente ciò che ha detto solennemente e poi ribadito? Mi pare una strana testimonianza di “amicizia” quella di Mons. Negri, che contraddice trionfalmente ciò che il suo amico dice. Osservo anche che io ho praticamente la stessa età di Mons. Negri e mi preparo anch’io alla mia personale “fine del mondo”: ma non farò a San Pietro la stessa domanda di Mons. Negri, perché la risposta me la ha già data Benedetto XVI e personalmente ci credo. Quindi ne penserò un’altra. Per concludere, è verissimo – come dice Mons. Negri - che il Papa emerito è “lucidissimo nel pensiero”, ma anche “infragilito fisicamente”. Perciò da quattro anni non sarebbe stato più in grado di presiedere lunghe celebrazioni pubbliche, lunghe udienze, complesse riunioni, assemblee sinodali, meno che mai fare viaggi e neppure visite a parrocchie, ecc… Nella sua perfetta lucidità, già quattro anni fa ne era del tutto consapevole, ed evidentemente ha pensato che questo sarebbe stato un problema per la comunità della Chiesa… Come dargli torto? Non mi pare proprio che sia necessario pensare a delle terribili pressioni d’oltreoceano. Possiamo tranquillamente pensare che la sua sia stata una decisione molto saggia e ragionevole, davanti a Dio e davanti agli uomini. Gliene siamo grati. Io credo che anche diversi dei suoi successori gliene saranno grati".
Le confessioni di Benedetto XVI: il retroscena su rinuncia e "lobby gay". A settembre uscirà il libro-testamento di Papa Benedetto XVI. Dai motivi della rinuncia al papato alla lotta alla lobby gay presente in Parlamento, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 1/07/2016, su "Il Giornale". Il papato di Benedetto XVI ha sicuramente innovato la Chiesa. Fosse solo per la decisione di rinunciare al soglio di Pietro prima della sua morte. Eppure, ora, Jospeh Ratzinger ha concesso una lunga intervista a Peter Seewald che a settembre sarà pubblicata in tutte le librerie di mezzo mondo e che sarà il vero testamento politico e pastorale di Benedetto. Il titolo: "Benedetto XVI. Ultime conversazioni". Nel libro, come annunciato sul Corriere da una anticipazione, ci saranno molte delle risposte alle domande che i fedeli si sono fatti in questi anni. Dalla rinuncia al papato, alla lotta alla lobby gay. Fino anche all'elezione "inaspettata" di Jorge Maria Bergoglio come suo successore.
La rinuncia di Benedetto XVI. Benedetto XVI ha più volte ripetuto che nessuno lo ha costretto a dimettersi. E anche in questo libro ripete di non aver ricevuto pressioni. Però racconta le riflessioni dei giorni precedenti all'annuncio, la decisione di preparare tutto solo con i collaboratori più stretti per evitare "corvi" e fughe di notizie che avrebbero "tolto forza all'annuncio". Ratzinger ha pronunciato la formula di rinuncia in latino perché in italiano pensava di poter sbagliare qualcosa e lasciare adito a false interpretazioni. Ha riflettuto molto, dice nell'intervista, sulle conseguenze che la sua scelta avrebbe avuto sul papato. Ma poi ha deciso in piena libertà. Quello che è certo, è che anche l'elezione al soglio pontificio fu per il papa emerito uno choc. Nel libro narra l'ansia e le notti insonni passate subito dopo il verdetto del Conclave.
L'elezione di Jorge Maria Bergoglio. Non se lo aspettava, Benedetto XVI, di dover promettere obbedienza a Bergoglio. Aveva fatto alcuni nomi di possibili candidati, ma non aveva pensato "a lui". Poi però, sarebbe stato investito dalla "gioia" di vedere le capacità di approccio con la folla del nuovo Papa. Ovviamente, Benedetto non nasconde le differenze tra lui e il suo successore, e nel libro racconterà anche questi aneddoti. In particolare, Ratzinger rigetta l'idea di essere considerato un "restauratore" in ambito ecclesiale e rivendica la sua azione pastorale e di "pulizia" in Vaticano.
Il legame con Giovanni Paolo II. Ratzinger ripercorre anche i suoi anni di infanzia, la vocazione, gli studi che lo hanno portato a diventare uno dei più giovani prelati ammessi al Concilio Vaticano II. Fu questo probabilmente a renderlo il braccio destro di Giovanni Paolo II, il quale lo mise alla Congregazione per la dottrina della Fede, ruolo che però Ratzinger più volte cerò di abbandonare, chiedendo "l'esonero a Wojtyla"...
I pensieri sulla morte. Nessuno, nemmeno il Papa è esonerato dalla morte. Benedetto XVI si sente "debole" di fronte alla morte e nel testo spiega come si sta preparando al fatidico momento.
La sconfitta della lobby gay. Ratzinger dice di essere venuto a conoscenza dell'esistenza di questo "gruppo di potere" all'interno del Vaticano e di essere riuscito a sciogliere la "lobby gay composta da quattro o cinque persone".
Benedetto XVI non ha detto tutto. E non lo dirà. Molti segreti vaticani se li porterà nella tomba forse anche per il bene della Chiesa. "Ammette di aver preso appunti e note nel corso del Pontificato", scrive il Corriere, e lo ha fatto su molte cose. Ma distruggerà tutti gli appunti.
CONTINUA IL GIALLO DELLA “RINUNCIA” DI BENEDETTO XVI. Scrive Antonio Socci Pubblicato il: 22/07/2015. C’è un giallo appassionante nella Chiesa. Avvolge i due ultimi conclavi, anzitutto quello da cui uscì eletto Joseph Ratzinger, nell’anno 2005. Poi il Conclave del 2013 perché – al di là della regolarità della votazione che potrebbe comportarne la nullità – esso non ci sarebbe stato se Benedetto XVI, l’11 febbraio 2013, non avesse fatto il gesto sconvolgente e tuttora immotivato della rinuncia al pontificato. Rinuncia controversa poiché Benedetto XVI, unico nella storia, ha deciso comunque di restare papa emerito e di mantenere il vestito bianco, il titolo e perfino le insegne pontificie, continuando a vivere “nel recinto di Pietro”. La domanda sulla rinuncia di Benedetto XVI, posta nel mio libro “Non è Francesco” [che abbiamo recensito nel numero 114 di Nexus New Times, ndr], è tornata a riproporsi adesso per la pubblicazione di un’intervista a padre Silvano Fausti, che è stato per molti anni il confessore del cardinale Martini.
RIVELAZIONI. Padre Fausti, che è morto circa un mese fa, in questa conversazione registrata nello scorso aprile da alcune persone della sua comunità, pronuncia una frase sorprendente (al minuto 10,51 del video): “le dimissioni di Ratzinger erano già programmate”. Poi dopo qualche secondo aggiunge: “alla sua elezione con Martini”. Questa è la “rivelazione” più importante. Fausti – per spiegarla – parla del Conclave del 2005 (ma non c’era il segreto? Da dove vengono quelle notizie?). Secondo Fausti nel 2005 Martini e Ratzinger erano i due candidati contrapposti e Martini aveva qualche voto in più. Però qualcuno voleva bruciare entrambi i candidati per eleggere “uno di Curia, molto strisciante, che non ci è riuscito”.
Così, “scoperto il trucco” racconta Fausti. “Martini è andato la sera da Ratzinger e gli ha detto: accetta domani di diventare Papa con i voti miei… accetta tu, che sei in Curia da trent’anni e sei intelligente e onesto: se riesci a riformare la Curia bene, se no te ne vai”. L’insieme di questa versione è opinabile. Infatti Martini non ebbe in realtà un ruolo importante nel 2005: aveva pochissimi voti, era già malato e sosteneva la candidatura di Bergoglio, il vero antagonista di Ratzinger. Ma il dettaglio interessante è dove Fausti sostiene che Martini avrebbe prospettato fin da allora le dimissioni a Ratzinger.
Fausti, subito dopo, dice a proposito di Benedetto XVI: “e il primo gesto che ha fatto è andato all’Aquila a porre la sua stola, il suo pallio sopra la tomba di Celestino V già dall’inizio del papato”. Fausti sembra presentarci una comunanza di idee fra Martini e Ratzinger che però è obiettivamente inverosimile (rappresentarono sempre i poli opposti). Inoltre Fausti fa pensare che sulle future dimissioni, per irriformabilità della Curia, ci fosse accordo fra i due prelati. Tanto è vero che cita l’episodio relativo a Celestino V (il papa che si dimise nel 1200), anche se, a dire il vero, la visita di Benedetto XVI non è affatto avvenuta all’inizio del pontificato, come dice Fausti (“già dall’inizio del papato”), ma nel 2009. Bisogna dunque chiedersi: è vero che su quel Conclave aleggiò il tema del “papato a termine”?
MISTERI ED EQUIVOCI. Due vaticanisti, Paolo Rodari e Andrea Tornielli, in un loro libro del 2010, quando su Benedetto XVI si era ormai scatenato un attacco concentrico mai visto prima (il titolo del libro era “Attacco a Ratzinger”) riportavano una “confidenza”, raccolta dalle labbra di un “autorevole porporato” del Vaticano: “Ricordo ancora, come fosse oggi, le parole che sentii dire da un cardinale italiano, allora molto potente nella Curia romana, all’indomani dell’elezione di Benedetto XVI. "Due-tre anni, durerà solo due-tre anni…". Lo diceva accompagnando le parole con un gesto delle mani, come per minimizzare”.
Cosa significavano quelle parole? Che il nuovo papa era di età avanzata o qualcosa d’altro? Aggiungo una testimonianza personale. Quando io, su queste colonne, nel settembre 2011, lanciai lo scoop che mi guadagnò l’ira risentita dei vaticanisti, una notizia che a quel tempo sembrò folle e falsa, quella delle dimissioni di Benedetto XVI, potei farlo perché la mia fonte era un’importante personalità ecclesiastica della Curia, assolutamente attendibile. Quello che più mi colpì fu la certezza con cui egli, persona seria e di poche parole, mi “scodellò” la notizia, come fatto assolutamente sicuro, tanto che aggiunse perfino la data: compiuti gli 85 anni. È esattamente quello che accadde (Ratzinger infatti nel febbraio 2013 non aveva ancora compiuto gli 86 anni). Per questo le “rivelazioni” di padre Fausti – sia pure in una cornice storica opinabile – confermano l’idea che quella “rinuncia” non sia stata un’iniziativa estemporanea e personale: secondo lui ha radici nel Conclave del 2005. Padre Fausti aggiunge pure un fatto ulteriore avvenuto – dice – “dopo dieci anni”. Secondo i giornali si riferiva al 2 giugno 2012, quando Benedetto XVI andò a Milano per l’incontro mondiale delle famiglie e, fra gli altri, nel pomeriggio, ricevette anche il cardinal Martini, ormai molto malato (morirà dopo tre mesi). Ebbene, in quella circostanza, dice padre Fausti, l’ex arcivescovo di Milano disse a Benedetto XVI: “è proprio ora, qui non si riesce a fare nulla”. Secondo me, se pronunciò solo quelle esatte parole, Martini alludeva al proprio stato di salute, ormai grave. Tuttavia padre Fausti sembra darne un’interpretazione diversa, tanto che il “Corriere della sera” ha titolato: “Quando Martini disse a Ratzinger: la Curia non cambia, devi lasciare”.
Il confessore di Carlo Maria Martini: "Le dimissioni di Ratzinger? Quella frase che spinse Benedetto XVI a lasciare", scrive “Libero Quotidiano” il 16 luglio 2015. Giochi di potere nella Curia rivelati dall'uomo che li ha appresi direttamente dalle parole di uno dei grandi protagonisti della Chiesa contemporanea. Padre Silvano Fausti è morto il 24 giugno all'età di 75 anni. Un nome sconosciuto ai più, in realtà una personalità molto influente in ambito ecclesiastico: era infatti una delle persone più vicine al cardinale Carlo Maria Martini, addirittura il suo confessore. A lui l'arcivescovo di Milano morto nel 2012 confidava molte cose, molti retroscena delle vicende della Chiesa. Compresi alcuni retroscena sulle dimissioni di Joseph Ratzinger. La rivelazione - Al racconto di Padre Fausti, come detto, è affidato lo stupefacente intrigo che stette dietro l'elezione di Joseph Ratzinger al pontificato nel 2005, inedito fino a oggi. Alla morte di Wojtyła, erano due i nomi che si contendevano l'abito di Pietro: Joseph Ratzinger e lo stesso Carlo Maria Martini. Il primo rappresentava l'ala più conservatrice della Chiesa, il secondo quella più progressista. Silvano Fausti racconta che ad avere il maggior numero di voti in questa sorta di ballottaggio era in realtà l'arcivescovo di Milano. Perché allora non venne eletto? Martini scoprì un intrigo di palazzo: la Curia voleva che diventasse pontefice un terzo uomo, un individuo "strisciante", queste sarebbero state le sue parole. Le dimissioni - Per opporsi a questa elezione, Carlo Maria Martini decise di immolarsi, di cedere i suoi voti a Joseph Ratzinger, e di farlo eleggere Papa al posto suo. "Accetta di diventare papa con i miei voti - avrebbe detto il cardinale Martini a Ratzinger -, tu che sei in Curia da trent'anni, che sei intelligente e onesto. Se riesci a riformare la Curia avrai avuto successo, se invece non ci riesci dovrai andartene". Si rivela così una grande verità, che getta un faro di luce sulle dimissioni da pontefice di Ratzinger nel 2013, l'abbandono che stupì il mondo cattolico: tutto sarebbe stato programmato fin dall'inizio, tutto "organizzato" da dietro le quinte. La frase - Ma più che le parole di Martini al momento dell'elezione, offrono una chiave interpretativa sull'accaduto quelle dette dallo stesso a Papa Benedetto XVI il 2 giugno 2012, il giorno dell'ultimo incontro fra i due: "La Curia non si riforma, non ti resta che lasciare". Qui non si riesce a far nulla. Quella che sembrava solo una profezia vagheggiata, si rivelò una vera e propria predizione. Carlo Maria Martini morì ad agosto di quello stesso anno, e non poté assistere alle dimissioni rassegnate da Benedetto XVI, stremato dal suo stesso pontificato.
I lupi - Quando Ratzinger venne eletto Papa, pronunciò un discorso che in maniera velata (col senno di poi) denunciava le macchinazioni che stavano dietro la sua elezione: "Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi". I lupi della Curia, contro cui dopo appena otto anni di pontificato non aveva più le forze di lottare. Padre Fausti nel suo racconto ricorda anche un altro indizio di quello che sarebbe stato il ritiro prematuro di Ratzinger. Nel 2009, recandosi all'Aquila devastata dal terremoto, il Papa entrò nella pericolante basilica di Collemaggio e depose il suo pallio, il suo mantello, sulla teca di Celestino V, il pontefice che abdicò al suo ruolo, rinuncia che Dante definì "il gran rifiuto". Ratzinger sapeva probabilmente già allora che prima o poi, negli anni successivi, avrebbe lasciato il suo posto di guida della Chiesa. Se per paura, o per presa coscienza dell'impossibilità di condurre la cristianità secondo le sue volontà perché soggiogato dai "lupi", probabilmente non lo sapremo mai. Dopo di lui è venuto papa Francesco. Il papa proveniente dalla fine del mondo, al suo primo discorso da vescovo di Roma, disse: "Vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica". Forse i lupi fanno ancora paura.
Ecco perché il cardinal Martini non voleva Wojtyla tra i santi, scrive di Antonio Socci il 13 aprile 2014 su “Libero Quotidiano”. Andrea Riccardi ha rivelato, in un suo libro, il contenuto della «deposizione» che il cardinale Carlo Maria Martini rese al processo per la canonizzazione di Karol Wojtyla. Le sue parole hanno fatto una triste impressione, non solo perché egli giudica inopportuna l’elevazione agli altari di Giovanni Paolo II (desideratissima invece dal popolo cristiano: avverrà in piazza San Pietro il 27 aprile prossimo). Ma soprattutto per il modo e per gli argomenti usati. C’è chi ha scritto che è stata «la vendetta del cardinal Martini», che «opponendosi alla canonizzazione di Papa Wojtyla si è voluto prendere una rivincita». Ma non voglio credere che il cardinale coltivasse (ri)sentimenti del genere, anche perché proprio Giovanni Paolo II lo aveva nominato arcivescovo di Milano, lo aveva creato cardinale e - come Ratzinger - aveva sempre avuto parole di stima personale nei suoi confronti. Qualche caduta di stile si nota, però, nella deposizione di Martini. Il quale critica Wojtyla, fra l’altro, per le sue nomine, precisando: «soprattutto negli ultimi tempi» (la sua fu una nomina dei primi tempi). Inoltre il prelato attacca Giovanni Paolo II per il suo appoggio ai movimenti ecclesiali. Questo livore martiniano contro le nuove realtà suscitate dallo Spirito Santo gli impedì di vedere quanto papa Wojtyla avesse rinnovato la Chiesa, valorizzando i carismi e gli impetuosi movimenti di rinascita della fede, che sono i veri frutti positivi del Concilio. Ci sono anche altre critiche di Martini, in quella deposizione, che sconcertano. Per esempio afferma che Giovanni Paolo II si pose «al centro dell’attenzione, specie nei viaggi, con il risultato che la gente lo percepiva un po’ come il vescovo del mondo e ne usciva oscurato il ruolo della Chiesa locale e del vescovo». Questa desolante considerazione dimentica che papa Wojtyla dovette confortare nella fede e ridare coraggio a milioni di cristiani che negli anni Settanta erano perseguitati e incarcerati in Oriente e umiliati e silenziati in Occidente. Inoltre i pellegrinaggi di Giovanni Paolo II dettero un formidabile slancio missionario proprio alle chiese locali (basti pensare ai sedici viaggi in Africa e alla rinascita della fede che ne è seguita in quel continente). Martini riconosce pure qualche lato positivo a papa Wojtyla, per esempio «la virtù della perseveranza», ma subito aggiunge che fu eccessiva perché decise di restare papa fino alla fine: «personalmente riterrei che aveva motivi per ritirarsi un po’ prima». A dire il vero lo stesso Martini, concluso il suo episcopato milanese, per raggiungimento dell’età canonica, invece di ritirarsi a vita di preghiera, come aveva annunciato, intensificò il suo presenzialismo mediatico. E indurì le sue critiche alla Chiesa. Un comportamento che sconcertò molti fedeli. D’altra parte il cardinale di Milano, per tutto il pontificato di Wojtyla (e pure di Ratzinger), è stato esaltato dai media laicisti come il loro (anti)papa. E non si può dire che egli abbia fatto degli sforzi visibili per sottrarsi alle insidiose lusinghe di anticattolici, mangiapreti e miscredenti. I quali facevano a gara per osannarlo, intervistarlo e amplificare le sue critiche alla Chiesa. Papa Wojtyla - col suo carisma personale e la sua fede accorata - ha affascinato i popoli, milioni di persone andavano a cercarlo per ascoltarlo. Però non è mai stato amato dai poteri di questo mondo. Anzi, è stato letteralmente detestato. Fin dall’inizio fu bollato come reazionario, anticomunista, bigotto, «troppo polacco» e via dicendo. Poi - vista la forza del suo carisma e l’amore che suscitava nelle folle - ritennero che non conveniva loro opporvisi frontalmente e cercarono di logorarlo in altri modi. Ma il grande Giovanni Paolo non ha mai annacquato la verità. Nel suo amore per Cristo e per gli uomini, ha sempre chiamato bene il bene e male il male. Joseph Ratzinger, con la sua recente testimonianza raccolta da Wlodzimierz Redzioch nel libro “Accanto a Giovanni Paolo II”, ha insistito proprio su questo: «Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni, ed era pronto anche a subire colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di primo ordine della santità. Solo a partire dal suo rapporto con Dio è possibile capire anche il suo indefesso impegno pastorale. Si è dato con una radicalità che non può essere spiegata altrimenti». Ratzinger già alla morte di Paolo VI, il 10 agosto 1978, disse: «un Papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede». Infatti, diventato lui stesso papa, Benedetto XVI, indifesa dei piccoli e dei poveri denunciò «la dittatura del relativismo». E sempre affermò che il ministero di Pietro era legato al martirio. Un martirio fisico per i papi dei primi tre secoli. Un martirio morale per i papi di oggi (ma Wojtyla sparse anche il suo sangue). Non che i cristiani debbano cercare l’odio del mondo, ovviamente. Ma le «potenze dittatoriali» delle ideologie o del nichilismo sono realtà e minacciano o condizionano pesantemente la Chiesa. Gesù stesso nel discorso della montagna aveva ammonito i suoi a restare liberi e sottrarsi ai condizionamenti: «Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (Lc 6, 24-26). I veri discepoli di Gesù infatti sono segno di contraddizione per i poteri mondani: «Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo (…) il mondo vi odia. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 16, 18-20). Gesù arrivò a indicare ai suoi questa beatitudine: «Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli» (Lc 6,20-23). Non significa che si debba cercare la persecuzione, ma che non si deve essere succubi dei poteri e delle ideologie di questo mondo. Pietro deve sempre insegnare che fra obbedire a Cesare e obbedire Dio, bisogna scegliere Dio. E non basta nemmeno dichiarare apertamente la scelta giusta, perché la «dittatura» del «politically correct» è insidiosa. Esemplare e inquietante è il modo in cui si piegano certe frasi di papa Francesco verso questo «pensiero unico». Mentre vengono ignorati certi suoi interventi molto decisi, come quelli di venerdì scorso, contro l’aborto, l’eutanasia e per la famiglia naturale uomo-donna («occorre ribadire il diritto del bambino a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Continuando a maturare in relazione alla mascolinità e alla femminilità di un padre e di una madre»). Il Papa - in chiaro riferimento all’attualità - ha anche invitato a «sostenere il diritto dei genitori all’educazione morale e religiosa dei propri figli. A questo proposito», ha aggiunto, «vorrei manifestare il mio rifiuto per ogni tipo di sperimentazione educativa con i bambini. Con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Non sono cavie da laboratorio! Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del «pensiero unico». Nella notte del «pensiero unico» queste parole sono luce e libertà per tutti come lo sono state quelle di Wojtyla e Ratzinger. Di Antonio Socci.
LA CHIESA COMUNISTA.
Il diabolico perseverare dei preti alla "Bella ciao". Don Ciotti ricorda Gallo con il solito canto e lo show cattocomunista fin sopra l'altare. Chissà se qualche autorità ecclesiastica ora interverrà, scrive Igor Traboni il 10/12/2013 su "Il Giornale d'Italia". Le note di Bella Ciao risuonano, ancora una volta, nella chiesa di San Benedetto al Porto, la stessa dove, 43 anni fa Don Andrea Gallo fondò la sua comunità. A ricordare la sua opera, in una chiesa affollatissima, tante persone, da Don Ciotti, che ha concelebrato la messa, al Sindaco di Genova Doria, ma sopratutto i suoi ragazzi, la gente di strada, le princese a cui il Gallo ha dedicato la vita. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Se poi la faccenda riguarda un sacerdote - benché della particolare congregazione cattocomunista - è doppiamente diabolico. Fatto sta che Luigi Ciotti, altra icona antimafia di certa sinistra, si è presentato nella chiesa genovese di San Benedetto al Porto per ricordare Andrea Gallo, il sacerdote scomparso di recente. E, come già avvenuto al funerale di Gallo, anche Ciotti ha intonato (anche se in realtà il video diffuso dimostra più che altro una... stonatura e con palese imbarazzo degli altri sacerdoti officianti) il canto di 'Bella ciao'. Peraltro, lo stesso Ciotti aveva partecipato al funerale dell'amico Gallo, accompagnando il feretro all'uscita (nella foto) tra pugni chiusi e altri canti del genere. Chissà se l'autorità ecclesiastica, alla luce anche delle recenti indicazioni di Papa Francesco sul corretto svolgimento delle Messe, avrà qualcosa da dire, almeno stavolta.
Ius Soli, Monsignor Di Tora (Cei): "La cittadinanza agli immigrati risolve il problema di denatalità e fuga degli italiani", scrive il 18 Giugno 2017 "Libero Quotidiano”. A destra molti la chiamano "sostituzione etnica": fuori gli italiani, dentro gli immigrati. Fantasie da complottisti? Eccessivo allarmismo? Può darsi, ma a leggere le parole di Monsignor Guerino Di Tora, vescovo ausiliare di Roma, presidente della Fondazione Migrantes e della Commissione Cei sulle migrazioni, qualche dubbio viene. Intervistato dal Corriere della Sera, il vescovo sottolinea come il buonismo con lo Ius soli non c'entri nulla: "Qui si tratta di un diritto fondamentale della persona che l'Europa ha già riconosciuto nella stragrande maggioranza delle nazioni. Del resto, come cristiani, andare incontro alle persone in una realtà umana che ci unisce mi pare doveroso. Secondo gli insegnamenti di Papa Francesco, dobbiamo includere, non escludere". E fin qui, tutto abbastanza prevedibile. Ma c'è un altro passaggio, successivo, che fa venire i brividi lungo la schiena: "Da una legge simile abbiamo solo da guadagnare. Si fanno sempre meno figli, è anche una risposta al problema della denatalità. Molti italiani inoltre stanno emigrando, dal 2005 sono 4 milioni e 800mila in dieci anni, circa il 40%, per motivi di studio e gli altri di lavoro, intere famiglie che se ne vanno. Abbiamo bisogno di giovani. Probabilmente ce ne sono già 800mila che potrebbero usufruire di questa regolamentazione. Quante altre volte, in Italia, si sono fatte sanatorie?". La Cei bacchetta i contrari: calcoli elettorali. L'ira della Lega: "Pensi ai nostri disoccupati".
Il segretario dei vescovi Galantino attacca il fronte del no: "Lo fanno per i voti". E Salvini boicotta la Feltrinelli che distribuisce la guida gratuita per i migranti, scrive Jacopo Granzotto, Lunedì 19/06/2017, su "Il Giornale". Anche la Chiesa si affida ai sondaggi. L'ultimo, sullo ius soli, dice che tre italiani su quattro vogliono la cittadinanza agli immigrati. Come dire che la sovraffollata Italia piace ancor più popolosa e piena di disoccupati ciondolanti. Sarà. Forte dell'ipotetico consenso il segretario della Cei, monsignor Galantino, attacca perciò l'«ignobile gazzarra» in Senato e bacchetta chi vuole affossare lo ius soli. «E già che certi sondaggi - annota polemicamente Galantino - fanno venire l'orticaria a coloro che hanno impostato la loro politica e il consenso sul contrario, ma anche a chi improvvisamente ha cambiato strategia per riprendere consenso». Riferimento chiaro alla Lega Nord che più di tutti sta cercando di fermare la legge e a Beppe Grillo che, dopo la batosta delle comunarie, si è messo alla ricerca di voti cavalcando la lotta all'immigrazione. Il leghista Calderoli replica, ricordando al monsignore le priorità degli italiani: «Stupisce la presa di posizione della Cei che invoca l'approvazione della legge che introdurrebbe lo ius soli e lo ius culturae andando a regalare la cittadinanza italiana ad almeno un milione di immigrati, forse il doppio. Raramente dalla Cei abbiamo sentito prese di posizione altrettanto nette davanti ai tanti problemi che affliggono milioni di nostri cittadini in un'Italia che ha una disoccupazione generale all'11,5%, con una disoccupazione giovanile che sfiora il 40, e oltre 6 milioni di italiani con una pensione minima sotto i mille euro. Questi sono i veri problemi degli italiani, di cui dovrebbe occuparsi e preoccuparsi una Chiesa che vuole stare dalla parte degli ultimi, dei poveri, di chi è in difficoltà». Ius soli (che vede crescere il partito, Alfano, di chi vorrebbe rimandare l'approvazione chiedendo un pausa di riflessione al Pd) e quello che gli gira attorno. Come certi ambienti amici, vedi libreria Feltrinelli, luogo da sempre in prima linea per difendere il rifugiato che non c'è. La libreria dell'immigrato che ti aspetta fuori con il perdibile opuscolo si è fatta notare anche per certe cose all'interno: l'opuscolo gratuito Welcome to Italy. A notarlo Matteo Salvini che ha annunciato che non metterà più piede alla Feltrinelli, almeno a Como. La guida è disponibile in italiano, inglese, francese e arabo e, come detto, è gratis. Una trovata contestata da Salvini che su Twitter lancia il boicottaggio della Feltrinelli. «Non darò più una lira agli amici dei clandestini - scrive il leader della Lega - viva le librerie piccole e indipendenti». La crisi sull'eccessiva accoglienza voluta dalla sinistra è uno dei temi della campagna elettorale. In ballo l'elezione del sindaco di Como. Si decide domenica al ballottaggio. Negli ultimi giorni Salvini è stato lì per sostenere il candidato di centrodestra Mario Landriscina. In quell'occasione ha duramente contestato il centro di accoglienza in via Regina e la Feltrinelli che sponsorizza la politica dell'accoglienza «dei clandestini» distribuendo gratuitamente Welcome to Italy - Guida per migranti e rifugiati. È la goccia che fa traboccare il vaso. L'anno scorso, a Bologna, gli avevano fatto a pezzi alcune copie del libro. Militanti rossi, ma - almeno quelli- tutti denunciati.
Quel “comunista” di don Milani, scrive il 16 maggio 2009 Giuliano Guzzo. Nemmeno la Chiesa esce incolume dall’infelice suddivisione del mondo tra “destra” e “sinistra”, categorie che gli studiosi della politica reputano defunte da oltre un decennio ma che continuano, come se nulla fosse, a contaminare il lessico comune. Accade così che alcuni preti siano tutt’ora accreditati come comunisti ed altri come fascisti, quasi che il Vangelo possa essere guardato, a seconda di chi lo predica, come un inserto speciale dell’ “Unità” o de "Il Giornale”. Ora, si dà il caso che il sacerdote più gradito negli ambienti di sinistra sia quel don Lorenzo Milani passato alla storia come il priore di Barbiana. Non è mia intenzione deludere nessuno, né tanto meno pronunciarmi sull’appartenenza politica reale o presunta di Milani. Reputo invece utile lasciare la parola a quest’ultimo che, in una lettera indirizzata all’avvocato Corrado Bacci scritta il 27 dicembre del 1961, a proposito del mondo politico di sinistra annotava:”Nelle Case del Popolo si vedono camerieri in giacca bianca che servono ai tavolini. E negli incontri sindacali non si riesce dai vestiti né dalla maniere a capire quali sono gli oppressori e quali gli oppressi […] ho visto una foto di Togliatti all’Opera in smoking con dama ingioiellata accanto”. In un’altra lettera spedita a Alessandro Mazzarelli, che col priore di Barbiana intrattenne una fitta corrispondenza, possiamo leggere: “Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire ad una classe dirigente parassitaria e brutale la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi”. Ancora: “Gli intellettuali comunisti, quasi tutti borghesi, soni i nostri nemici. Sono loro che vogliono quel laido “compromesso” fra gli sfruttati e gli sfruttatori. Lo vogliono in nome di Cristo e di Marx. Sono proprio dei figli di puttana […] i capi del comunismo affermano che la loro ideologia viene da lontano e andrà lontano. Non è vero. Il comunismo viene da pochi decenni di storia e va avanti strisciano e speculando tra le innumerevoli miseri della terra”. Niente male, per un prete “comunista”.
Il prete amaro di Barbiana. Don Lorenzo Milani e il dissenso cattolico, scrive Carlo Falconi su "L'Espresso" l'11 aprile 1965. Il parroco del Mugello ha scritto una lettera contro i cappellani militari Un altro sacerdote fiorentino, Ernesto Balducci, è accusato di vilipendio. «Non è con i telegrammi d’auguri, il regalo di una croce pastorale e le genuflessioni che si mostra l’amore al vescovo, ma piuttosto con la sincerità rispettosa, il rifiuto del pettegolezzo di sagrestia… Chiediamo all’arcivescovo che risparmi ai nostri popoli lo scandalo di un assolutismo abbandonato ormai anche dal Papa e perfino dai comunisti...». Queste singolari espressioni risalgono ad alcuni mesi fa, e precisamente al primo ottobre scorso, data di una lettera che raggiunse tutti i sacerdoti della diocesi di Firenze e che era apertamente sottoscritta da due loro confratelli: don Lorenzo Milani e don Bruno Borghi. Poche settimane fa, gli stessi sacerdoti tornarono a far parlare di sé, questa volta con due distinte lettere di protesta indirizzate ai cappellani militari toscani che, in un ordine del giorno sottoscritto l’11 febbraio scorso al termine d’un convegno regionale, avevano sprezzantemente quanto gratuitamente accusato di viltà gli obiettori di coscienza. Nella sua protesta, don Milani sostenne fra altro che tutte le guerre combattute dall’esercito italiano dall’Unità in poi erano state guerre di aggressione, ad eccezione della Resistenza. Ce n’era anche più del necessario perché qualcuno si affrettasse a segnalare il documento alla Magistratura perché provvedesse d’ufficio all’incriminazione dell’autore. Pochi giorni dopo, un altro religioso fiorentino (di residenza), padre Ernesto Balducci, veniva denunciato nientemeno che per vilipendio alla religione per aver definito la Chiesa «corpo di peccatori» e accennato a Pio XII in modo da avallare la ben nota tesi della sua inerzia dinanzi ai crimini bellici razzisti. Le ragioni teologiche della denuncia pubblicate sul Secolo stavano ormai volgendo l’episodio al grottesco, quando il 3 marzo, un durissimo corsivo ufficioso dell’Osservatore Romano fece eco alle accuse del quotidiano missino della capitale, ironizzando contro «alcuni che pur si dicono cattolici e che, per conformismo al non conformismo, spendono nome e parole, magari in termini di angoscia problematica, ad avallare campagne che, nell’offesa alla memoria di un grande Pontefice, hanno di mira ben altri scopi». La nota dell’Osservatore si dilungava poi ad accennare a certi tentativi di dialogo, «ben diverso da quello cui esorta Paolo VI nella Ecclesiam suam, e persino a raccoglierne in volume i vari momenti».
L’allusione, estremamente trasparente, colpiva ancora una volta certi circoli del cattolicesimo fiorentino ispirati anch’essi o comunque molto legati al Balducci, e il cui leader più noto è il professor Mario Gozzini, un dirigente della editrice Vallecchi. Che cosa sta succedendo, insomma, a Firenze? E proprio nel momento in cui manovre e pressioni tutt’altro che misteriose hanno costretto al ritiro il sindaco Giorgio La Pira? Si può davvero parlare, come qualcuno ha già fatto, di rivoluzione del cattolicesimo rosso, capeggiata da sacerdoti sediziosi e fiancheggiata da un’équipe fortemente agguerrita di laici? Oppure delle prime avvisaglie della rivolta del clero, amareggiato dalle conclusioni delusive del Concilio nei propri riguardi e deciso ormai alla riscossa? Per rispondere a questi interrogativi occorre anzitutto spiegare perché tra tutte le 320 diocesi d’Italia Firenze sia la sola a dar luogo a questi fenomeni d’insofferenza e di desiderio del nuovo. Tralasciando la tradizione e il carattere dei suoi abitanti, che pure hanno il loro peso, basta pensare a quel che ha significato in questo dopoguerra per il capoluogo toscano la presenza d’un uomo come La Pira. Soprattutto per i cattolici ma in particolare per il clero, La Pira è stato, e molto prima di Giovanni XXIII, anche se con uno stile che poteva apparire fastidioso, la rivelazione di un nuovo spirito cristiano tollerante ed ecumenico e nello stesso tempo sinceramente impregnato di ansie di giustizia sociale. Misticismo e visionarismo si fondevano in lui alla rigidità delle strutture tomistiche, astrattismo ed estro poetico al realismo più astuto e imprevedibile. Nella Firenze di La Pira, uomini come Gozzini, cresciuto nelle fumisterie poetico-teologico-neofasciste degli “Ultimi”, i gioachimisti discepoli di Papini, cambiarono decisamente rotta; e preti come don Milani scopersero la loro vera missione. L’influenza di La Pira, però, specie dopo la sua entrata a Palazzo Vecchio, non si esaurì soltanto nel promuovere queste conversioni: essa fu soprattutto importante per la piattaforma di sicurezza che offriva agli ardimenti apostolici o sociali dei preti e dei laici più coraggiosi. È vero che la Curia fiorentina, sotto Pio XII, aveva ricevuto ordine di controllare e tenere in freno il “sindaco santo”, ma, fino alla morte del cardinale Elia Dalla Costa, il controllo fu assai blando. Don Milani poté così pubblicare le sue polemiche Esperienze pastorali e don Borghi far dapprima il prete operaio vero e proprio, poi il prete guastafeste nelle parrocchie borghesi cittadine. Tuttavia, il fatto che La Pira abbia calamitato attorno a sé un padre Balducci e don Milani, un Gozzini e un don Borghi, non legittima affatto la conclusione che i ribelli fiorentini costituiscano un fronte unico e saldamente amalgamato. Al suo fianco non sono forse sempre rimasti anche uomini della più osservante e nostalgica conservazione, come Bargellini e Lisi? Del resto, per toglier di mezzo qualsiasi illusione, non c’è che da confrontare tra loro, a caso, alcuni di questi protagonisti del cosiddetto cattolicesimo rosso: o ascoltarli parlare dei loro presunti colleghi.
Don Milani, ad esempio, non nasconde affatto la sua avversione per l’intellettuale e borghese scolopio Balducci: un intellettuale, è pronto a concedere don Milani, che ha qualche merito d’engagement, ma che è sostanzialmente frivolo come non può non esserlo, per lui, qualsiasi servitore degli ideali della borghesia. Padre Balducci, del resto è più un intellettuale della parola che della penna e un volgarizzatore del pensiero teologico-sociale d’oltr’Alpe che di proprie idee. Non è forse, a Firenze e a Roma, città tra le quali fa continuamente la spola, l’onnipresente conferenziere alla haute e l’oratore ufficiale delle grandi cerimonie cattoliche? Curioso ma sintomatico, anche il giudizio dei prelati della curia fiorentina su padre Balducci non è molto diverso, escluso beninteso il riferimento alla borghesia. Anzi il loro è ancora più caustico. I curiali, si sa, sono nella Chiesa come burocrati nella vita civile, gli avversari istintivi degli uomini di cultura. E quelli di Firenze in particolare non si lasciano neppure impressionare dal fatto che padre Balducci abbia fondato e diriga una rivista: e non già perché sia di fatto, nel contenuto, aristocraticamente esangue e tediosa nonostante il titolo avanguardistico di Testimonianze, ma perché proprio la rivista, per via dell’“imprimatur”, mette ancor più a loro discrezione. Per essi padre Balducci è un padre Semeria senza la sua pittoresca sciatteria, formalmente più incisivo e brillante come oratore, ma anche senza la cultura e l’impeto del barnabita, e soprattutto senza il suo entusiasmo, il suo estro e, quel che più conta, il suo cuore. Che poi, come malignano, egli sia oggi paolinista sotto papa Montini com’era prima giovanneo sotto papa Roncalli, è un fatto che non li turba. E nessuno è stato felice come loro dell’intervento dell’Osservatore Romano.
Nonostante ciò, proprio loro, che non muovono mai un dito per aiutarlo quando si trova in difficoltà, incontrandolo od ospitandolo non sanno dove cominciare e dove finire con le cerimonie. Un pericolo che non minaccia affatto, invece, il “comunista” don Milani. Comunista, don Milani lo è certamente, sia pure a modo suo, e cioè senza tessera e con la fede religiosa: l’epiteto che lo qualifica meglio, però, è classista. Il suo dogma sociale, infatti, è estremamente semplice: al mondo non esistono che poveri e ricchi, oppressi ed oppressori. E da esso, con dialettica inesorabile, deduce tutte le conseguenze. Per gli altri, s’intende; ma prima di tutto per sé, come uomo e come prete.
Poiché la sua parte nel mondo sono i poveri, egli si è fatto povero e vive da povero, solidarizzando solo coi poveri. Agli altri, i ricchi, i borghesi e i loro servi, specie se intellettuali, non riserva che disprezzo e rancore (gli anatemi e le fruste del Vangelo). E tra i poveri, più per il loro domani che per l’oggi, s’è scelto la missione del maestro dei loro figli: naturalmente gratuita, ma soprattutto con metodi e programmi che sono agli antipodi di quelli della scuola borghese. Infatti, niente di libresco e di vanamente erudito ha posto nel suo insegnamento. La sua vuol essere, ed è, una scuola di vita, dove tutta la vita, quella di ieri ma soprattutto di oggi, vien messa continuamente in discussione sotto tutti i suoi aspetti con tutti i suoi problemi, persino quelli che son ritenuti sorpassare gli interessi e le capacità dei ragazzi. A San Donato prima, e ora a Barbiana, don Milani passa l’intera giornata, comprese le brevi pause per le merende e per il pranzo, coi suoi ragazzi delle medie. Parrocchiani e ospiti son ricevuti da lui avanti alla scolaresca. Quando, dietro suo invito, qualche settimana fa, andai a trovarlo, lo trovai appunto seduto a un’estremità della lunga tavolata a ferro di cavallo, che sostituisce i comuni banchi scolastici. Mi chiese subito di parlare ai ragazzi delle mie esperienze e del mio lavoro: potevo esporre le mie idee anche più assurde o più intime: ad esempio, parlare del come avevo perduto la fede. Ai suoi primi commenti, capii subito ch’egli s’era già fatto di me un’idea tutta sua e che non era affatto deciso a modificare. Non si curava nemmeno di attenuare il suo dogmatismo e il suo assolutismo. Col fascino dispotico della sua dialettica egli è riuscito a spersonalizzare completamente il pensiero dei suoi allievi, sostituendovi il proprio. Quindi non si curava neppure di rispondere alle obiezioni. Tuttavia l’aspetto che mi sgomentò di più nel suo insegnamento non è il fanatismo, bensì l’astio, l’odio classista di cui imbeve i suoi alunni implacabilmente, ininterrottamente. Mi domandavo dove fosse il sacerdote in una predicazione così partigiana e violenta e se avevano del tutto torto i suoi superiori a isolarlo come facevano.
Ma l’estremismo di don Milani ha un suo perché, anzi un suo drammatico perché. Tutti i veri maestri e gli autentici profeti sono estremisti: scandalosamente ed eroicamente estremisti e fanatici. Solo così essi possono evitare che il tempo e la leggenda alterino il loro messaggio. Oggi, comunque, i discepoli di don Milani, per lo meno tra le file del clero, si contano sulle dita. I suoi confratelli che hanno osato firmare il suo appello del 1° ottobre all’arcivescovo Ermenegildo Florit sono stati poco più d’una decina. È vero che quelli che avrebbero voluto farlo erano molti di più: ma non è coi pavidi e coi velleitari che si fanno le rivoluzioni. Neanche a Firenze, dunque, il clero insorgerà. Nessuno del resto l’ha richiamato a un programma organico e preciso. Qualche puntura di pungolo non basta. E non basta soprattutto ora che la caduta di La Pira gli ha tolto un grande scudo e l’offerta della porpora ha confermato l’arcivescovo nella bontà della sua linea tradizionalista. Con molta probabilità monsignor Florit non avrebbe mai avuto il galèro senza i disappunti datigli dai suoi preti e laici “ribelli”. La sua statura sia di vescovo che di dotto è da amici e nemici riconosciuta come assolutamente modesta. Egli non è, tutto sommato, che un coscienzioso amministratore. Nessuna mortificazione più grave poteva esser inflitta a Firenze che quella di averle assegnato un burocrate certamente onesto e retto ma di scarsa iniziativa e di nessuna fantasia. Ai primi dello scorso febbraio i fedeli di Ravenna e di Cervia si sentirono leggere nelle chiese una lettera pastorale collettiva del loro arcivescovo, monsignor Salvatore Baldassarri, e dei loro sacerdoti. Quando invece don Milani e don Borghi chiesero a monsignor Florit di realizzare il dialogo coi suoi parroci egli non trovò di meglio che invitare i due insubordinati ad abbandonare la diocesi. Non poteva immaginare che la salvezza della disciplina non può esser mai confusa con la conquista dei cuori.
«Il Papa da don Milani è un bel segno. Non era un marxista, ma un prete vero». Il cardinale Gualtiero Bassetti, 75 anni, presidente della Cei, racconta la visita di Francesco a Barbiana e sulla tomba di don Primo Mazzolari, scrive Gian Guido Vecchi il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". «Salii da Firenze con un compagno di seminario, su una Lambretta. Andare a trovare don Milani a Barbiana era proibito. Appena ci ha visti, per prima cosa ha chiesto: “Voi due, avete il permesso del rettore?”. E noi: no. Aveva uno sguardo che ti inchiodava. “Male”, ci fa. “Già solo per questo vi sbatterei fuori, perché siete disobbedienti!”». Il cardinale Gualtiero Bassetti sorride, «era fatto così, ti aggrediva per metterti alla prova, “L’ho sempre detto, io, che sarei l’unico a poter fare l’educatore in seminario!”, ma poi ci fece entrare…». I tempi cambiano. Il giovane seminarista di allora è appena stato scelto dal Papa come presidente della Conferenza episcopale italiana. E domattina Francesco andrà a Barbiana e prima ancora a Bozzolo, nel Mantovano, per pregare sulle tombe di don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari, ovvero il prete trentunenne che nel ’54 fu mandato in esilio ecclesiastico nel Mugello e il parroco che ad ogni libro veniva messo all’indice dal Sant’Uffizio.
Che cosa significa per la Chiesa italiana, eminenza?
«È un segno molto bello. Il Papa parla anche attraverso i segni. E vuole indicare ai sacerdoti e ai vescovi di oggi due modelli di “Chiesa in uscita”, due pastori che “hanno l’odore delle pecore”, capaci di cogliere i segni dei tempi e sempre dalla parte dei dimenticati, degli ultimi. Le più belle pagine della Chiesa sono state scritte da anime inquiete, diceva don Mazzolari. Vale anche per don Lorenzo. Erano diversi ma entrambi profetici, lontani dalle etichette cui si tenta talvolta di ridurli».
Quali etichette?
«A don Milani, per esempio, hanno cucito addosso dei vestiti che non erano suoi. È una personalità complessa, difficile da afferrare perché aveva un pensiero fermo nei principi ma in costante evoluzione. L’hanno definito ribelle, disobbediente alla sua Chiesa, il prete rosso. Ma lui, come don Mazzolari, è sempre stato fedele alla sua Chiesa, anche nei momenti più difficili. Ed era temuto non solo dai conservatori. Ricordo che una volta disse: il vescovo mi proibisce di parlare alla casa del popolo di Vicchio e io obbedisco, ma faccio un piacere ai comunisti».
E perché?
«Perché parlava chiaro, e non era tenero con nessuna parte. La verità era quella e la diceva. Già nelle esperienze pastorali, del ’54, accusava i comunisti di tradimento nei confronti dei poveri: nelle case del popolo date giochi e valigette borghesi! Li invitava a trasformarle in scuole, piuttosto».
Per quale ragione fu esiliato a Barbiana?
«Talvolta è destino dei profeti il non essere compresi. Dava fastidio la sua scelta radicale per i poveri, la scuola, il suo lottare contro le ingiustizie. Ragazzi sfruttati, in fabbrica per sedici ore con salari minimi. Aveva capito che i ricchi possono scegliere quello che vogliono ma per i poveri c’è solo un destino bieco. E il Vangelo lo portava a stare dalla parte degli ultimi, i dimenticati, non perché fosse un sociologo né tantomeno un marxista, ma perché era un prete. Tanti fanno confusione: poteva arrivare a conclusioni simili, ma diverse erano le premesse. Penso alla tonaca...».
La tonaca?
«Quando Paolo VI autorizzò il clero a indossare il clergyman, credo sia stato l’unico della nostra diocesi che rimase in tonaca. Forse aveva letto Bernanos, il curato di campagna che dice: porto una veste da beccamorto, ma annuncio il Risorto. Un prete fino in fondo. In una lettera del 25 febbraio 1952 scrive che l’ingiustizia sociale non è cattiva anzitutto perché danneggia i poveri ma perché è peccato, offende Dio e ritarda il suo regno. Anche la cultura diventava per lui uno strumento per evangelizzare i poveri. La scuola per i poveri, gli operai, i contadini, divenne il mezzo di questa sua catechesi: crescere i giovani per farne uomini più liberi, più giusti e in fondo più cristiani».
Il Vangelo «sine glossa»…
«Don Milani veniva da una famiglia altoborghese, colta. Arrivò a Barbiana e non c’era nulla, niente acqua, né luce, né gas, né strade. Bisognava vederla, a quei tempi: solo una piccola canonica in cima a un poggio in mezzo al bosco, e 84 anime. La madre gli scrisse: vedrai, il cardinale ti ha mandato là per tenerti lontano dalle chiacchiere, ma poi torni. Lui le rispose: hai capito male, la dignità di un prete non sta nel numero di fedeli, ma nel modo in cui si rapporta al Vangelo».
Don Milani, retroscena di un processo. Lo storico della Chiesa Sergio Tanzarella ha consultato gli atti processuali per ricostruire la vicenda della “Lettera ai cappellani militari”, un testo che rischia di essere più citato che letto, scrive Iacopo Scaramuzzi il 18/06/2017 su "La Stampa". «Nel caso migliore c’è totale ignoranza, si parla di don Milani senza averlo letto, fino ad attribuirgli frasi che non ha mai pronunciato… Nel caso peggiore si tenta di normalizzare un personaggio così poco accettabile dai benpensanti del passato e del presente». Sergio Tanzarella è storico della Chiesa, ordinario presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e professore invitato presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, ed ha consultato gli atti processuali per ricostruire la vicenda della “Lettera ai cappellani militari” di don Lorenzo Milani (1923-1967), uno dei testi più citati del sacerdote sulla cui tomba si recherà Papa Francesco martedì prossimo 20 giugno, a Barbiana. La storia è lontana nel tempo. Nel febbraio del 1965 i cappellani militari in congedo della Toscana emanano un comunicato stampa accusando i giovani italiani obiettori di coscienza di essere dei vili. In loro difesa interviene don Lorenzo Milani con una riposta pubblica a quegli stessi cappellani nella quale chiede rispetto per chi accetta il carcere a causa dell’ideale della nonviolenza. La lettera viene volantinata tra comunità, associazioni e giornali ma a pubblicarla sarà soltanto il settimanale “Rinascita”, il 6 marzo 1965. Dieci giorni dopo, don Milani – assieme a Luca Pavolini, allora direttore del periodico comunista – viene denunciato da sei ex combattenti per incitamento alla diserzione e vilipendio alle Forze armate. Nell’impossibilità di partecipare al processo per l’aggravarsi del tumore che lo porterà, di lì a poco, alla morte, Milani scriverà una memoria difensiva, per certi versi ancora più sferzante della sua risposta ai cappellani, che invierà sotto forma di “Lettera ai giudici al Tribunale di Roma” il 18 ottobre 1965. Questa volta l’obiezione è lo spunto per un discorso più ampio, che diventa tributo altissimo all’impegno civile individuale, all’«I care» - il «mi importa» scritto sui muri della scuola di Barbiana – in antitesi al «me ne frego» fascista. Il 15 febbraio 1966 don Milani è assolto «perché il fatto non costituisce reato». I giudici nella sentenza sottolineano il vuoto legislativo sull’obiezione. A seguito del ricorso dell’accusa, due anni dopo, il verdetto verrà ribaltato: cinque mesi a Pavolini, per don Milani, deceduto il 26 giugno 1967, il «reato (è) estinto per morte del reo». Pavolini sarà assolto nel 1969 dalla Cassazione in forza di un’amnistia del 1966 che cancellava il reato contestato per i giornalisti la cui testate era registrata, amnistia della quale i magistrati del grado inferiore non si erano accorti… Il professor Tanzarella, ha mandato alle stampe per i tipi del Pozzo di Giacobbe edizioni, collana “Il pellicano”, una edizione critica di “Lettera ai cappellani militari e Lettera ai giudici» che inquadra storicamente le vicende e svela il retroscena di un passaggio nodale nella storia recente dell’Italia, in quei primi anni ’60 del Novecento segnati dalla crisi di Cuba, dal dirompente pontificato di Giovanni XXXIII, dalla fine del Concilio Vaticano II, dalla guerra in Vietnam, dall’insorgere dei movimenti pacifisti. Una ricostruzione fatta a partire dalla consultazione degli atti processuali. «In realtà», racconta Tanzarella, che insieme a Anna Carfora, anch’essa docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale dei gesuiti, Federico Ruozzi e Valentina Oldano ha curato anche l’opera omnia di Don Milani per i Meridiani Mondadori diretta da Alberto Melloni, «ho avuto accesso agli atti del processo come qualsiasi cittadino che fa richiesta. Si è scritto molto su don Milani, centinaia di libri e migliaia di articoli, ma mi sono accorto di essere stata la quarta persona che ha preso visione degli atti del processo, dopo uno studente di dottorato, un magistrato e un altro studioso». Consultare il dossier – «un fascicolo non particolarmente grande» – ha permesso allo storico di scavare nella vicenda del processo, scoprendo dettagli e episodi che restituiscono tutto il peso della vicenda. Dalle carte, ad esempio, «emergono le contestazioni fatte dal pubblico ministero, le annotazioni che i magistrati fanno sui due documenti, la sottolineature di frasi di don Milani che considerano apologia di reato». Il professore evidenzia infatti che «quello che molti dimenticano è che uno dei pilastri delle due lettere era una rilettura della storia nazionale, dall’unità d’Italia alla sua epoca, per mettere in luce che tutte le guerre erano state inutili e ingiuste, fatta eccezione per la guerra della resistenza. Si tratta di un vero e proprio excursus sugli ultimi cento anni di storia patria, densa di conflitti, colonialismo spietato e sistematica sopraffazione verso i ceti più deboli, un excursus scevro di qualunque retorica celebrativa. Che, oggi, non dovrebbe lasciare indifferente chi esalta don Milani e poi continua a partecipare non curante alla messa in scena del 2 giugno». Per Tanzarella, «un altro elemento importante sono i certificati medici che vengono richiesti a don Milani, le indagini fatte per verificare se effettivamente era impedito, le risposte dei carabinieri che scrivono al Tribunale che il sacerdote non si alza più dal letto e non riesce a dire più messa». Atti dovuti, per un Tribunale, che però fanno intravedere una diffidenza di fondo nei confronti di un uomo che, invece, è «in lunga agonia, sottoposto a chemioterapie che gli lasciavano forti danni, sofferenze continue, notti insonne, una tosse incontrollabile, problemi neurologici seri, difficoltà alle gambe, eppure trattato da alcuni come se fosse un intellettuale che comodamente scriveva i suoi testi seduto alla scrivania». «In quell’epoca, per dire, la madre gli chiede insistentemente di tornare a Firenze e farsi curare e lui è refrattario e rimane nella prima linea di Barbiana e continua a fare lezione dal letto». Peraltro, sottolinea ancora lo storico, «è interessante l’atteggiamento di Milani, come emerge da alcune lettere che invia ad Aldo Capitini: egli raccomanda di non far venire fuori la lettera ai giudici prima della data dell’udienza, perché, spiega, i giudici devono rimanere liberi. Don Milani chiede ai suoi sostenitori di essere semmai pronti a contestare la sentenza ma solo dopo che è stata pronunciata, non prima, perché, spiega, i giudici devono rimanere liberi dai condizionamenti dell’opinione pubblica». Un altro elemento che emerge dalle carte, prosegue Tanzarella, «è il lavoro di don Milani a partire dall’estate del ’65, quando si convince sempre di più che sarà chiesto il rinvio a giudizio, poi confermato a luglio. Per la stesura della “Lettera ai giudici” il sacerdote consulta molte persone, anche figure di rilievo come Aldo Capitini e il professore Giorgio Peyrot, responsabile dell’ufficio legale della Tavola valdese a Roma, massimo esperto all’epoca dell’obiezione di coscienza. Quest’ultimo, come ho ricostruito da documenti che ho trovato negli archivi della stessa Tavola valdese, va a Barbiana e ha con Milani un lungo colloquio nella fase finale di stesura della lettera, episodio che mostra il sostegno che a don Milani arriva dal mondo protestante». Allegate alla memoria difensiva, ancora, ci sono «alcune lettere inviate a sostengo della denuncia fatta contro don Milani, ad esempio una lettera di alti ufficiali e soldati. Questo significa che il fenomeno si allarga, e, letto insieme alle decine di lettere anonime, alle lettere di condanna, in qualche caso anche di minaccia, crea un po’ di preoccupazione in Milani e nei suoi amici. Preoccupazione anche che Barbiana venisse isolata. “Ti verremo a prendere”, “farai la stessa fine dei tuoi compagni”, sono alcune delle minacce contenute nelle lettere anonime, che danno l’idea del clima pesante». Il professor Tanzarella precisa, peraltro, che arrivano anche «numerose lettere di cattolici che danno sostegno a don Milani dopo la pubblicazione della lettera ai giudici: i tempi stanno cambiando, si è concluso il Concilio, e diversi cattolici da tutta Italia, anche alcuni preti, gli scrivono per sostenerlo». Quel che emerge dalla ricostruzione storica e critica della sua figura e della sua opera è che don Milani è spesso più citato di quanto viene letto, elogiato senza che agli elogi seguano le logiche conseguenze. «Nel caso migliore», chiosa il professor Tanzarella, «c’è totale ignoranza, si parla di Milani senza le fonti, senza averlo letto, fino ad arrivare invenzione…». Lo storico cita l’esempio di quando una frase di don Primo Mazzolari – l’altro sacerdote che Papa Bergoglio martedì commemorerà, a Bozzolo (Mantova) prima di continuare per Barbiana – «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?», è stata attribuita a don Milani dapprima da Roberto Saviano, e poi, a cascata, da case editrici, giornalisti, anche cardinali, fino ad essere pronunciata, sempre attribuita a don Milani, da Massimo Cacciari ai funerali di don Luigi Verzè… L’altro fenomeno, oltre all’ignoranza, è quello della «normalizzazione», non solo all’interno delle comunità ecclesiali, afferma Tanzarella: «È evidente che il personaggio è così poco accettabile dai benpensanti del passato e del presente che a volte si tenta di addomesticarlo, fino a dimenticarne le parole… un riduttivismo dove Milani diventa pedagogista, oppure si parla del “metodo di Milani”, quando egli stesso ha detto: “Non chiedetemi che cosa bisogna fare, ma come bisogna essere per fare quello che faccio io”». Un personaggio, don Milani, a lungo incompreso, che ora Papa Francesco di fatto riabilita con il suo viaggio a Barbiana. Evento che il professor Tanzarella spera che avrà conseguenze anche il giorno dopo il viaggio: «Sarebbe bello che, a distanza di 50 anni, “Esperienze pastorali” (il testo del 1958 di don Milani che il Sant’Uffizio fece ritirare dal commercio giudicandolo inopportuno, ndr) venga messo nelle mani dei seminaristi».
Don Lorenzo Milani: il comunismo e le altre profezie, scrive sabato 17 giugno 2017 Alessandro Mazzerelli. “Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire, ad una classe dirigente parassitaria e brutale, la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi”. A decenni di distanza dalla pubblicazione, qualcuno, fra gli “intellettuali” comunisti che hanno strumentalizzato e tradito Don Lorenzo Milani, scopre la Profezia che riguarda la loro ideologia, che il Profeta, come è noto ai più seri ricercatori, decisamente avversava. Don Milani, che indubbiamente voleva bene agli ingenui operai e contadini comunisti, non per le loro idee, ma, da buon prete, come figli di Dio e suoi parrocchiani, giunse per gradi alla sbalorditiva Profezia sul comunismo, grazie, credo, all’esperienza degli anni trascorsi, alle polemiche sulla pubblicazione di “Esperienze pastorali” e a molte profonde ulteriori riflessioni. Qui ne ricordiamo qualcuna:
1949: “I comunisti ti hanno ingannato gli industriali ti hanno calpestato noi preti non abbiamo saputo fare”. (Da una lettera del Profeta di Dio del 15 novembre 1949).
1950: “Poi venne il 18 aprile (1948 n.d.a.) il prete aprì gli occhi sul mondo e vide profilarsi vicina la minaccia dei nemici di Dio. Allora gridò forte come la mamma in difesa dei suoi pulcini, se li chiamò intorno, lì coprì delle sue ali. Anche il ricco ebbe paura, e aiutò il prete a salvare i suoi pulcini dai nemici di Dio. Così il grande male fu scongiurato e ognuno poté riprendere a sognare cose belle, vittorie sugli altri mali”. (Don Milani in “Adesso”, 15 dicembre 1950).
1958: “… E il comunismo, anche se dovesse avanzare (ma non avanzerebbe tanto quanto sta avanzando ora: di questo sono sicuro) avanzi pure, tanto la nostra forza interna sarebbe tale da divorarlo, digerirlo, ributtarlo fuori rifatto a nostro modo. Come facemmo qualche secolo fa con i barbari, né più né meno” (Don Milani a Don Piero).
1962: “Il mio classismo, ricordatevelo, è sempre un classismo di cultura. Io chiamo proletari quelli che non hanno istruzione e basta. Faccio soltanto questa questione: di chi non sa usare la parola, non sa intendere, non sa spiegarsi.” (Don Lorenzo Milani a un Direttore Didattico, Firenze 31 gennaio 1962).
1965: “Domani sera grande cerimonia di solidarietà a Vicchio. Spero di riuscire a portarci molti preti, ma non sarà facile. Sarebbe un sistema semplicissimo per smontare la speculazione comunista… (Sull’obiezione di coscienza al servizio militare n.d.a.) E poi, replicando ad un articolo del giornalista Piero Magi, afferma: “Lei ha detto che la Curia mi ha vietato di partecipare al dibattito di Vicchio. Non è vero, la Curia lo ha vietato a tutti i sacerdoti. Un ordine telefonico che è stato un errore. Avremmo fatto blocco. Lo sa come li faccio stare i comunisti? Li faccio stare con il culo stretto”. (Dal Quotidiano “La Nazione” del 3 aprile 1965).
Ho già spiegato ed affermato in ben cinque libri, che Don Milani mi invitò - nell’estate del 1966 - ad andarlo urgentemente a trovare in Barbiana. Era corso poco tempo da quando i suoi “ragazzi”, partecipando al Congresso Provinciale fiorentino della Federazione Giovanile Socialista, avevano votato compatti per me, contribuendo in maniera determinante ad eleggermi Vice Segretario Provinciale, in contrapposizione al social comunista Valdo Spini che ottenne più voti. I “ragazzi” erano infatti tutti dalla mia parte nella corrente “autonomista” del Partito Socialista Italiano, “corrente” che si caratterizzava per la sua contrapposizione al “compromesso storico” e alla sopraffazione comunista negli Enti locali e nelle organizzazioni sindacali. Don Milani, oltre ad essere contrario all’alleanza fra la “bestemmia” democratico “cristiana” (Per Lui, dire “democrazia cristiana”, era bestemmiare, sia per il simbolo, sia per l’appropriazione indebita della definizione “cristiana”: “Facciano, se vogliono, il Partito dei Battezzati e ne siano coerenti, te comunque se devi scrivere il nome di quel partito metti “cristiana” tra virgolette… E così ho sempre fatto…) e i comunisti, definita “compromesso storico”, era rimasto colpito dal Convegno di Prato dell’Associazione Giovanile “Forza del Popolo” che avevo fondato nel 1962. Nel 1964, nel corso del primo Convegno dell’Associazione, che si tenne presso la sede della Federazione Socialista di Prato, scatenai un putiferio che finì a gran caratteri su “L’Unità”, per aver denunciato, fra l’altro, le vere mire politiche dei partigiani comunisti e la loro responsabilità sulla strage delle foibe, con quarant’anni di anticipo su Giampaolo Pansa…
Don Milani, sin dall’inizio dell’incontro, mi sembrò ansioso di manifestare subito il desiderio di notificarmi il suo messaggio, inducendomi con curiose domande a dargli quelle risposte che andranno a costituire il sublime DECALOGO DI BARBIANA. Alcuni argomenti come quello su l’imperialismo - oggi leggi mondialismo - contrastabile soltanto con i “Ventimila Sammarini”, mi parvero quasi incredibili, anche mentre li annotavo sotto una sorta di dettatura. In questo contesto fu pronunciata anche la bellissima ed ineguagliabile definizione del comunismo: “Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire, ad una classe dirigente parassitaria e brutale, la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi”. La conclusione dell’incontro fu clamorosa, il Profeta mi chiede per ben tre volte di non tradirlo, facendomi sbalordire ma anche impaurire. La sua era una sorta di testamento politico, al quale volle dare, come contropartita e concretezza alla fedeltà che mi era stata così fortemente richiesta, l’adesione di tutti i “suoi” “ragazzi” alla mia piccola organizzazione, la suddetta “Forza del Popolo”. Adesione che si concluse nel febbraio del 1967, “perché non tutti erano a Barbiana”, così mi venne scritto in una lettera. Soltanto dopo la morte di Don Milani mi resi conto, con il passare del tempo, sia del gigantesco impianto profetico di cui avevo promesso di dare testimonianza, senza se e senza ma, sia della durissima battaglia che dovetti subito ingaggiare contro chi lo stava tradendo o lo aveva già volgarmente tradito. E’ stata una battaglia di mezzo secolo, e questo documento certifica che è in corso tutt’ora!!! E’ stata una pesantissima “croce”, che mi sono trascinato addosso fra debolezze e talvolta voglia di tradire la parola data, ma non mi sembra di aver tradito… e dalla fedeltà non ho certo tratto mai alcun vantaggio. Concludendo questa breve puntualizzazione, ringrazio innanzitutto la DIVINA PROVVIDENZA, che mi rende ancora capace di testimoniare la grandezza del Profeta. Ringrazio Padre Reginaldo Santilli O.P., Vicario Episcopale per i Laici della Diocesi di Firenze e Direttore dell’Organo della Curia “L’Osservatore Toscano”, che mi fu di grandissimo aiuto e incoraggiamento e che certamente, insieme a Don Milani, da Lassù mi protegge. Voglio anche ringraziare Mons. Luigi Giussani, il celebre fondatore di “Comunione e Liberazione”, che dopo un incontro in Via Martinengo a Milano, sbalordito dalle Profezie milaniane, volle darmi una mano, venendo, il 2 giugno 1976, nel mio piccolo paese di origine, Pozzo della Chiana, frazione di Foiano della Chiana, provincia di Arezzo, ove – incredibile, ma vero – volle parlare alla pari con me in onore del Profeta e, ricordandosi della Profezia dei “Ventimila Sammarini”, che l’aveva particolarmente colpito, ebbe a dire: “Don Milani è stato un grande… Ha ragione! Ha proprio ragione! O “ventimila Sammarini” o la barbarie!”
IL PAPA COMUNISTA.
Un Papa da schiaffi, scrive Marcello Veneziani. Confesso di seguire divertito la svolta manesca di Papa Francesco. Prima il pugno a chi parla male della mamma o di Madre Chiesa, poi il calcio nel fondo schiena ai corrotti e il manganello contro i preti pedofili, ora la sculacciata ai figli e l’elogio del padre picchiatore. E per la curia pedate all’osso sacro e olio santo da trangugiare al posto dell’olio di ricino? Papa Giovanni mandava ai bambini una carezza tramite i loro genitori, Papa Manesco invece manda ai pupi un fracco di bufitone (ceffone in spagnolo e nei dialetti del nostro sud); anche se poi, in un soprassalto di carità, suggerisce di non mollare la pizza in faccia ma sul culetto. Almeno in queste maniere spicce, Papa Francesco segue la linea di don Camillo ed entra nel mirino del telefono azzurro. Del resto, il Papa non considera i figli sempre una benedizione di Dio nel nome del cristiano crescete e moltiplicatevi, perché se superi la modica quantità, dopo il terzo figlio lui ti degrada al rango zoologico (in base alle parole del Papa io che sono un quarto figlio sarei un coniglio). Il messaggio di limitare le nascite è valido per il Terzo Mondo, non da noi dove c’è denatalità e i condom battono i conigli. A parte i sussulti maneschi, da parroco all’antica o alla sudamericana, Papa Francesco celebra nel suo magistero le nozze tra Ovvietà e Progressismo un po’ furbetto. La prego, Santità, non faccia pure lei il democristiano di sinistra, anche se sono tornati di moda. Sennò pure noi rimpiangiamo Anagni, dove volavano gli schiaffi ai papi.
Marcello Veneziani: "Ecco perché papa Francesco non è così rivoluzionario come si presentava", scrive il 14 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". La Chiesa è in balia di scandali mai visti prima d'ora e che toccano soprattutto quella parte più bassa dell'uomo: la pedofilia. E proprio a un uomo, non un uomo a caso però, fa riferimento la critica del giornalista Marcello Veneziani, pubblicata sulle pagine de Il Tempo: "I papi del passato, come Giovanni Paolo II, che non hanno colpito e punito col dovuto rigore la pedofilia, lo hanno fatto nel nome di una visione antica di Santa Madre Chiesa e della tradizione apostolica e romana. Il peccato di alcuni suoi ministri una volta portato alla luce rischiava di gettare un'ombra nera sulla Fede stessa. Una posizione che si può non condividere ma che ha perlomeno una sua coerenza. Invece, Papa Francesco che si presenta come rivoluzionario, che vuole difendere non la Chiesa prima di tutto ma i più deboli e i più indifesi, come sono certamente i bambini, non può permettersi di seguire la stessa strada e voltare la testa dall'altra parte". Veneziani si scaglia ancora contro la pedofilia dilagata in Vaticano: "Quello che fino ad ora è accaduto non coinvolge solo preti solitari che praticavano i loro vizi nella privata clandestinità di una canonica. Ma quello che sta emergendo è un racket, una rete di praticanti, di complici e di omissioni da far paura. E sorge proprio là dove c'è la casa di Dio. Terribile".
Pedofilia plurima aggravata, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo 14 settembre 2018. La pedofilia in Chiesa non è solo quel reato terribile e quel peccato mortale che già sappiamo ma si presenta oggi con due aggravanti che la rendono da un verso più raccapricciante e dall’altro più vergognosa. L’aspetto raccapricciante è dato dalle dimensioni corali del fenomeno: non si trattava di preti solitari che praticavano i loro vizi nella privata clandestinità di una canonica. Da solo a solo. Ma sta emergendo un racket, una rete di praticanti, di complici e di omissioni da far paura. Se tanta gente lo faceva e tanti lo sapevano, vuol dire che non c’è solo la brutta piaga di un vizio, di una malattia, di una imperdonabile stortura. C’è un’organizzazione intorno, una città del vizio che sorge nel cuore della città di Dio, nella Casa di Gesù Cristo. Terribile. L’altra aggravante che rende vergognosa la piaga è che questo tessuto di omissioni e di omertà, questa sottovalutazione nel migliore dei casi, questa complicità nel peggiore, esplode sotto un pontificato che si era presentato come rivoluzionario, in rottura con la Chiesa precedente, francescana e irriverente verso le ipocrisie, le menzogne, i tabù delle curie e dei portoni di bronzi. E invece, l’ipocrisia e la copertura è perlomeno proseguita come nel passato. Con una differenza ideologica sostanziale: i papi del passato, mettiamo Giovanni Paolo II, che non hanno colpito e punito col dovuto rigore la pedofilia, lo hanno fatto nel nome di una visione antica di Santa Madre Chiesa e della tradizione apostolica e romana: il peccato di alcuni suoi ministri una volta portato alla luce rischiava di gettare un’ombra nera e sporca di discredito sull’Istituzione, sulla Tradizione, sulla Fede stessa. Dunque meglio non dare troppo rilievo, meglio non indagare troppo, meglio minimizzare. Una posizione che si può non condividere ma che ha perlomeno una sua coerenza, mirava a salvaguardare un’idea gloriosa del cattolicesimo. Invece, un Papa che si presenta come rivoluzionario, che vuole difendere non la Chiesa prima di tutto ma i più deboli e i più indifesi, come sono certamente i bambini, non può permettersi di seguire la stessa strada e voltare la testa dall’altra parte. Deve saper compiere uno strappo. E invece il deteriore gesuitismo ha preso il sopravvento sul chiaro francescanesimo. Meglio coprire, tacere, che portare alla luce lo scandalo. E i risultati sono questi. Detto questo, ribadiamo: la pedofilia non nasce al tempo di Francesco Papa ma molto, ma molto prima. Affonda nei secoli andati. Ricordo anni fa di aver trovato nelle carte del Seicento, processi a preti pedofili nel mio paese. Un uso che purtroppo si allarga al di là della chiesa cattolica, per esempio tra gli ortodossi, per non dire delle altre religioni. E aggiungo una cosa che non si vuole dire: molti dei preti pedofili sono anche omosessuali. Non a caso preferiscono di gran lunga i bambini alle bambine. Omosessualità e pedofilia non coincidono ma spesso si univano; diciamo meglio, molti omosessuali non sono certo pedofili, ma molti pedofili sono omosessuali. Non a caso l’espressione ormai in disuso di pederastia. C’è un nesso tra la lobby omosessuale che anche questo Papa ha visto operare in Vaticano e tutto quel fenomeno e la sua rete di omissioni? Non so, non posso sapere, ma è una domanda lecita, è un campo di indagini da affrontare senza pregiudizi, in un senso o nell’altro. Resta lo sconcerto. E resta la paura. Quei pochi cattolici osservanti che ancora vanno in chiesa e che affidano o affiderebbero i loro bambini alla parrocchia, al prete, o addirittura al seminario, con che fiducia potranno farlo, se mai più lo faranno? È terribile quel che sta succedendo alla cristianità. Non bastava l’ateismo dilagante e il nichilismo occidentale, il crollo della fede e delle vocazioni, non bastava il fanatismo islamico, non bastava la spaccatura tra la chiesa demo-progressista e “papulista” di Bergoglio e la chiesa della tradizione. Non bastavano tutte queste lacerazioni, adesso ci si mettono pure i bambini violati. E il tradimento del più tenero messaggio di Gesù rivolto a loro: “sinite parvulos venire a me, lasciate che i bambini vengano a me”. No, Dio mio, no.
Se il Papa fa il presidente dell’Ong, scrive Marcello Veneziani su Il Borghese a settembre 2017. Confesso. Ho qualche difficoltà a chiamare Bergoglio Papa Francesco. Gli manca l’aura del sacro, il carisma religioso, la grazia del Santo Padre. Lo sento più come il presidente di una Ong, a capo di una grande, antica organizzazione non governativa. Il suo tema cruciale non è il rapporto tra l’uomo e Dio, il mistero della fede e della resurrezione, l’anima immortale e Nostro Signore Gesù Cristo. Ma è l’accoglienza, i migranti, il soccorso ai poveri di tutto il mondo, il dialogo coi non credenti, o coi credenti d’altre religioni, a partire dagli islamici, la voglia di compiacere i media e lo Spirito del Tempo, più che lo Spirito Santo. È un papa estroverso, cioè ad uso esterno, che avvicina i lontani e allontana i vicini; anzi, a essere più precisi o caustici, che vorrebbe avvicinare i lontani ma intanto allontana i vicini, ossia i credenti e gli ipocredenti, i praticanti flebili e incerti. Per carità, capisco che un Papa si richiami allo spirito originario del Vangelo e faccia prevalere le ragioni dell’umanità sulla realtà di una nazione, uno stato, una comunità. Lo faceva anche Giovanni Paolo II, e con compassata sobrietà anche Benedetto XVI. Ma Bergoglio fa un passo in più e si accoda all’ideologia dello sconfinamento di popoli, di culture, di sessi, di ogni limite. Come una qualsiasi Boldrini o un Mattarella, coi quali Bergoglio forma il Trio Accoglienza. Vuol trasformare l’Italia in un corridoio umanitario e l’Europa in un grande centro di accoglienza, tuona contro i muri altrui e dimentica di vivere nel sicuro recinto dalle Mura Vaticane…Riconosco al papa due meriti. Il primo, di mostrare a volte una fede ingenua, parrocchiale, casereccia, che gli fa evocare la presenza di Gesù, della Madonna e anche del Diavolo nella vita quotidiana, come si faceva da noi una volta. Una fede domestica, un po’ naive e vintage. Bergoglio viene da un mondo che non è vecchio come il nostro, corroso dal nichilismo e dal cinismo. E poi, altro merito, Bergoglio critica il primato assoluto del mercato e del profitto, condanna l’egoismo del neocapitalismo, a volte sfiorando linguaggi che ricordano Peron più che la teologia della Liberazione. In questo prosegue l’opera dei papi precedenti, come la Sollicitudo Rei Socialis di Papa Woityla. Per il resto, Francesco sta facendo precipitare la Chiesa cattolica verso un destino sindacale-umanitario, genere Emergency o sant’Egidio, da agenzia per la ristorazione filantropica universale; un ente spiritualmente spento che preferisce dialogare con i progressisti atei piuttosto che con i cattolici non progressisti. E senza convertire alla fede nessuno. La predilezione per il sociologo Bauman, l’amicizia con Scalfari e la preferenza dichiarata per il quotidiano la Repubblica ne sono testimonianze ulteriori. O il fatto che davanti a tanti massacri e persecuzioni di cristiani taccia o decida di adottare in Vaticano un gruppo di islamici, la dice lunga sulle sue priorità. O ancora, presentarsi come il papa del sorriso, dialogante con tutti e indulgente verso chi sbaglia, e poi far fuori chiunque nelle gerarchie ecclesiastiche non sia dalla sua parte o sia ritenuto conservatore, dimostra la sua doppia faccia. Per non dire poi del suo assordante silenzio su temi che riguardano la vita e la morte, gli aborti e le mutazioni transgeniche, la propaganda gender, le coppie gay e le adozioni omosessuali, gli uteri in affitto e le fecondazioni artificiali, la nascita e la famiglia, che furono punti cruciali nel papato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Anche davanti a episodi clamorosi, sentenze assurde o manifestazioni popolari in difesa della famiglia e delle nascite, Bergoglio tace; ma è pronto invece a intervenire quando si tratta di questioni sindacali o controversie umanitarie, ecologiche, pacifiste, senza risparmiare la demagogia e il facile moralismo. Un papa dei migranti, un papa formato import-export, un papa-portiere alla reception dell’Albergo Italia. Bergoglio è ancora mentalmente rimasto al suo primo viaggio pastorale, a Lampedusa. Non si accorge che, tra denatalità e flussi migratori, si sta spegnendo la civiltà cristiana. Ma soprattutto su una questione il metodo Bergoglio si rivela inadeguato: non sta avvicinando o riavvicinando alla chiesa nuovi o antichi fedeli, non sta risvegliando le vocazioni e l’assiduità nel frequentare la messa. La scristianizzazione procede, le chiese restano deserte, i dati lo confermano in modo drammatico. Lui suscita simpatia personale e mediatica, soprattutto tra i non credenti; ma il tifo del Bergoglio fan-club non si traduce in fede. Quando fu eletto Papa, noi sperammo che dopo un Papa teologo, intellettuale tedesco, lontano dal popolo dei credenti e vicino alle tempeste teologiche e filosofiche dell’Europa in crisi, arrivasse un papa più pastore, più comunicatore, meno legato alla crisi europea, venuto da altri mondi più giovani e lontani, meno pervasi dalla disperazione. Il pastore argentino, che già si presentava con l’astuta mossa di chiamarsi Francesco, sembrava poter rispondere a questo bisogno di ricominciare daccapo. Solo un gesuita avrebbe potuto farsi chiamare Francesco, un francescano non avrebbe mai osato tanto. Ma questo Papa ben presto dimostrò di non avere grazia e lume nell’agire, nel muoversi, nel dichiarare; mostrò di non sopportare la tradizione, il rito, la liturgia, di rifiutare il sacro e di ridurre il santo a rivolta umanitaria. E l’esaltazione recente di don Milani e don Mazzolarine sono la conferma. Senza considerare quel filo di gigioneria, di piacioneria, che lo caratterizza. Poi quei presagi nefasti, i due papi vestiti di bianco, lui che vive praticamente in albergo, la colomba dilaniata davanti ai suoi occhi, le brutte storie vaticane che riprendono a fioccare…È come se un’energia spirituale si stesse spegnendo, e due papi insieme si annullassero a vicenda. Il papa emerito e il papa demerito…
La svolta del Papa, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 17 giugno 2018. Mea culpa, deo gratias, miracolo. L’altro giorno non facemmo in tempo a scrivere della Chiesa e del Papa, silenti sul tema della famiglia e loquacissimi sull’accoglienza dei migranti, che il Papa si occupò ancora di migranti col solito piglio da Ong. Vedemmo così mestamente confermato quel che avevamo scritto la mattina. Ma ieri il miracolo. Il Papa ha parlato della famiglia, dell’uomo e della donna, della nascita e dell’aborto come mai aveva fatto, con un vigore spirituale sorprendente, perfino superiore a ogni aspettativa. Al forum della famiglia ha detto ieri che la famiglia è una sola, quella con padre e madre, formata da un uomo e una donna. Che il matrimonio è un sacramento grande, a immagine di Dio. Che i figli sono il dono più grande, altro che cani e gatti, provette e surrogati. Che l’aborto selettivo è un’atrocità e ricorda l’eugenetica razzista. E chicca finale: sfidando il femminismo e l’accusa di sessismo, Francesco si è spinto a dire che le donne soprattutto, a volte anche gli uomini, devono pazientare se il coniuge le tradisce, anziché litigare e separarsi. Contro l’infedeltà occorre “la pazienza dell’amore che aspetta”. Vivaddio. Parola del Santo Padre. In un primo momento non ci credo, mi stropiccio gli occhi, penso che per un giorno il Papa si sia fatto sostituire dall’Emerito, Benedetto XVI. Poi vedo la sua immagine in video, sento la sua voce; no, è proprio lui. Bergoglio, anzi Papa Francesco. Portentoso, un dribbling e una rovesciata alla Maradona. Francesco II, Papa parte seconda. Poi mi arrivano assurde telefonate che dicono: hai visto, il Papa ti ha ascoltato, ti ha letto. Dai su, ho risposto, non scherziamo, non sono mica Eugenio Scalfari, lui non mi ascolta e non mi legge mica. Ma sono felice, con tutto il cuore, che abbia ricordato anche quel versante cospicuo della sua missione pastorale che aveva trascurato. E quel versante numeroso di credenti italiani, europei, non del terzo mondo. Proprio ieri, l’Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale, mi attaccava, e io li capisco, non può fare altrimenti. Sosteneva che io “di solito stimato”, ero diventato cieco e sordo, che il Papa e la Chiesa parlano sempre di famiglia, nascite, scristianizzazione. Sarà, ma io con alcuni milioni di fedeli e svariati uomini di chiesa, non ce ne eravamo affatto accorti. Anzi, per essere più precisi, se emerge un fatto di cronaca sui migranti il papa è sempre tempestivo e perentorio nei suoi interventi, amplificati poi dai mass media; mentre davanti ai numerosi episodi, anche tragici, che riguardano la famiglia e il suo contrario, gli uteri in affitto e il traffico di figli per le coppie gay, le sentenze assurde della corte europea e della consulta, le manifestazioni a difesa della famiglia, gli aborti e la loro esaltazione, l’esibizionismo lgbt e la demonizzazione della fertilità naturale, la bioetica e la scristianizzazione galoppante, il Papa con la sua Chiesa, da Parolin a Bassetti, si distrae molto, commenta solo di rado e in modo flebile, a mezza voce, e il poco che si dice è ulteriormente minimizzato nei media, che sono papa & ciccia col politically correct e invece silenziano le voci, le dichiarazioni e i gesti in senso contrario. Ma ieri, spero non per un giorno solo, abbiamo ritrovato il Padre perduto. Il Santo Padre. Col suo messaggio chiaro e forte. Il Pastore forse si era perduto nella ricerca della pecorella smarrita, ma ieri è sembrato rientrare a Casa alla guida del gregge. Spero che non sia solo una giornata particolare o una tantum per tenere buoni i cattolici per la famiglia e per la tradizione. Spero che sia il segnale di una svolta, di un risveglio, di qualcosa che un tempo si chiamava ispirazione dello Spirito Santo. Se così fosse, o se avessimo finora solo frainteso, saremmo felici di fare mea culpa e in tutta umiltà di chiedergli perdono. Magari, ci eravamo sbagliati noi. Sarebbe meglio per tutti, noi inclusi. Santità, non dimenticarTi di quel popolo cristiano, anche non praticante, che crede ancora in Dio, nella famiglia, nella civiltà cristiana e nel dono della nascita. Allarga il Tuo abbraccio anche a loro, benché non siano migranti, islamici o atei radical chic.
Padre Nostro: perché il Papa vuole cambiarlo (mentre i vescovi sono divisi). Papa Francesco vuole che il testo della preghiera venga rivisto. Ma nella Cei si scontrano tre fazioni e nulla cambia, scrive Orazio La Rocca il 29 agosto 2018 su "Panorama". "Sul Pater Noster il Papa sta, quasi quasi, perdendo la pazienza...". Ma non perché, si vocifera in Vaticano, abbia qualche riserva sulla preghiera insegnata da Gesù. Dai collaboratori di Francesco, in realtà, si apprende che il pontefice non tollera più che milioni di fedeli continuano a recitare una traduzione errata del Padre Nostro che chiede a Dio di "non indurci in tentazione". Un errore segnalato più volte da Bergoglio alle Conferenze episcopali, sollecitandole a cambiare il testo errato con parole più "appropriate", perché un Padre non "induce" mai i figli a sbagliare.
Perché il Padre Nostro è tradotto male. Qualche episcopato, in verità, si è mosso, in particolare nelle aree spagnole e francesi, ma italiani e nord-europei rimandano. Non a caso, tra i temi sollevati dal Papa davanti ai circa 100 mila giovani radunati il 12 e il 13 agosto scorso a Roma e in Vaticano c'è stato proprio il Padre Nostro, "tradotto in modo sbagliato perché", è la spiegazione del Papa, "è assurdo dire che Dio induce, costringe o abbandona i suoi figli agli errori, al peccato. È una traduzione sbagliata che va corretta con termini più in sintonia con il testo di Gesù, magari implorando Dio ad aiutarci a non farci cadere nelle tentazioni". Bergoglio lo ha detto alle decine di migliaia di giovani arrivati da tutto il mondo, in gran parte dall'Italia, dove purtroppo ci sono le resistenze più dure da parte dei vescovili più tradizionalisti. In realtà, spiegano Oltretevere, il Papa si è "servito" della kermesse giovanile per manifestare il suo disappunto e richiamare i vescovi che remano contro, a partire dagli italiani, che al Consiglio permanente Cei delm19 gennaio scorso avrebbero dovuto presentare proprio la nuova versione della preghiera. Ma non se ne fece nulla per diversità di vedute interne e tutto venne "rinviato alla fine di quest'anno, tanto non c'è mica fretta" spiegò il segretario generale della Cei, il vescovo Nunzio Galantino.
Le divisioni dei vescovi italiani. La verità è che sul Padre Nostro i vescovi italiani si sono spaccati, a causa della dura contrapposizione di tre "partiti": un primo, tradizionalista, che non vuol correggere nulla; un secondo favorevole a cambiare il testo in "aiutaci, Padre, a non farci cadere in tentazione", sponsor tra gli altri il vescovo Bruno Forte, noto biblista, vicino a Francesco e al papa emerito Benedetto XVI; e un terzo che punta a "non abbandonarci alla tentazione", suggerito, sembra, dal cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, ex segretario generale Cei, biblista di lungo corso. "Ma sarebbe un errore chiedere a Dio di non abbandonarci, perché un Padre non abbandona mai i suoi figli", la critica di Forte e di altri vescovi. Da qui lo stallo. Il Papa, però, non sembra disposto a tollerare ulteriori rinvii e per questo ne ha parlato al raduno dei giovani. Sarà ascoltato? Difficile dirlo. Intanto, sabato 18 agosto, ai funerali per le vittime del crollo del ponte di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco ha recitato, senza scomporsi, il Padre Nostro "sbagliato" invocando Dio di "non indurci in tentazione". E il Papa non ha gradito.
"Papa Francesco e il Vangelo secondo Soros": Alessandro Meluzzi brutale su Vaticano e migranti, scrive il 2 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Nei giorni del caos in Vaticano, tra corvi e accuse di pedofilia, Papa Francesco non trova nulla di meglio da fare che non rispondere e, anzi, tornare su uno dei suoi cavalli di battaglia, "le migrazioni e l'accoglienza degli afro-islamici in Europa". Alessandro Meluzzi, sul Tempo, mette sotto accusa il Pontefice e il suo appello nella giornata della Tutela del creato: "È evidente - spiega l'editorialista - che l'ideologia migrazionista rappresenta, più ancora dell'ecologismo, questa scelta geopolitica che qualcuno ha riferito più a Soros piuttosto che al Vangelo". "C'è da chiedersi - è il dubbio di Meluzzi - perché un uomo proveniente da un continente come l'America latina e da un paese come l'Argentina, gelosissimi della propria identità anche nazionale, pensi di dover a tutti i costi concentrare il proprio formidabile sforzo propagandistico ad una sorta di mono-maniacalità irragionevole quanto sospetta, anche in una giornata dedicata all'ecologia". La risposta è da brividi: "facilitare una nuova forma di schiavismo e di migrazionismo strumentale e lavorare per un annientamento dell'identità democratica liberale razionale nelle sue radici cristiane del continente europeo". "Qualcuno - è l'annotazione finale - ha ricordato che con i 2 miliardi di euroversati alle diocesi per l'accoglienza dei migranti si sarebbero potuti non solo salvare ma garantire il futuro a tutti i bambini famelici che ancora esistono in Africa. Ma si è preferita un'altra scelta".
Papa Francesco a chi dovrebbe consegnare le sue dimissioni? Scrivono il 28 agosto 28 2018 Alfonso Indelicato ed Emanuele Boffi su Tempi. Due osservazioni in margine allo scandalo sollevato dal nunzio Viganò. La “dottrina” omosessuale e la richiesta di dimissioni. Ma un pontefice può dimettersi? Beninteso, siamo tutti peccatori. Lo siamo noi laici e lo sono anche i sacerdoti, tanto è vero che il sacramento della Riconciliazione è stato istituito per la nostra e per la loro salvezza. Il sacerdote in stato di peccato, anche mortale, non smarrisce per questo la facoltà di somministrare i sacramenti, la cui efficacia è «ex opere operato» e non «ex opere operantis», cioè non dipende dalla santità del ministro (Catechismo della Chiesa cattolica 1127 – 1128). Non ci siamo mai scandalizzati troppo, pertanto, di fronte alle varie notizie di cronaca indugianti su scandali sessuali i quali coinvolgevano questo o quel prete. Di più: siamo convinti che molti di questi scandali vengano enfatizzati ad arte per gettare fango sull’intero ordine. Di più ancora: i sacerdoti incontrati nella nostra vita erano tutte persone dalla vita proba. Però la questione della cosiddetta lobby gay nella Chiesa, ricollocata sotto i riflettori dal documento di monsignor Viganò pubblicato sulla Verità, in cui il presule arriva ad invitare alle dimissioni papa Francesco per aver “coperto” il cardinale americano McCarrick dedito a rapporti coi seminaristi, presenta dei profili per cui non si può, e neppure si deve, fare a meno di porsi degli interrogativi. Una prima questione è la seguente: se è vero che la presenza di preti omosessuali nella Chiesa è così numerosa, ramificata e compatta come si evince dalla lettura del documento, non si deve ragionevolmente ipotizzare un difetto di origine, per chiamarlo così, nei seminari? Alcuni anni fa papa Benedetto aveva approvato la raccomandazione di non ammettervi persone con «radicate tendenze omosessuali» o sostenitrici «della cosiddetta cultura gay». È lecito domandarsi se essa sia stata accolta, tanto più che papa Ratzinger ha dato sovente l’impressione di essere simile a un capitano alla testa di un esercito a volte riottoso, e in taluni reparti addirittura infido o disubbidiente. Il subentrante Pontefice, che gode di un maggiore appeal, si è mosso sostanzialmente sulla stessa linea, ma a dar retta al documento di monsignor Viganò i risultati sono stati i medesimi del Papa tedesco, cioè scarsi. Ma l’autentico punctum dolens, l’aspetto veramente allarmante della questione, è a nostro avviso un altro. Se questa lobby gay sussiste, e se è davvero numerosa ramificata e compatta come appare dal documento pubblicato sulla Verità, è assai improbabile che essa si accontenti di collocare i propri membri nei luoghi del potere ecclesiastico, insomma di garantirne la carriera e difenderli dagli attacchi. È invece verosimile che essa cerchi di manipolare la dottrina in direzione dei propri interessi. Che insomma cerchi di delineare dei margini di “discernimento” (oggi vera parola-passpartout) e di tolleranza tali da sostanzialmente sdoganare quello che illo tempore era il «peccato abominevole davanti a Dio». Tutto quello che possiamo osservare, in proposito, è che segnali in questo senso ci sono. Fra gli altri non si possono non citare le posizioni del gesuita James Martin, aperto sostenitore del mondo lgbt e incomprensibilmente autorizzato da papa Francesco quale relatore all’incontro Mondiale delle famiglie appena celebrato. È solo un esempio tra i tanti possibili, e ci esentiamo dal proporne altri. Il pericolo, dunque, non è tanto che qualche sacerdote ceda alla tentazione «oggettivamente disordinata», ma che si ufficializzi il messaggio che la pratica dell’omosessualità è cosa possibile, accettabile, perfino buona. La Chiesa può ammettere il peccato nel mondo come dentro di sé, ma deve saperlo chiamare con il suo nome. Alfonso Indelicato, consigliere comunale eletto a Saronno
Gentile Alfonso, c’è qualcosa che non mi convince in tutta questa storia delle accuse di monsignor Carlo Maria Viganò che è arrivato a chiedere le dimissioni di papa Francesco. Cerco di mettere in ordine un po’ di pensieri dando per scontati gli elementi di cronaca che il lettore potrà facilmente desumere con una semplice ricerca su internet. In attesa di particolari ulteriori che confermino o smentiscano la veridicità delle accuse di Viganò, ci sono almeno due osservazioni da fare. Osservazione numero uno: gli omosessuali. La lunga lettera di Viganò mette in rilievo come sia all’interno della curia romana sia nei seminari il problema dell’omosessualità sia rilevante e diffuso. Nei confronti di persone con tendenze omosessuali la Chiesa ha sempre avuto una posizione netta. Chiaro rifiuto di una sessualità disordinata, ma accoglienza per la persona, che alle sue tendenze affettive non può essere ridotta né condannata. Lei ricorda giustamente la raccomandazione di papa Ratzinger, che mi pare sacrosanta. Che a padre James Martin sia persino concesso il palcoscenico della Giornata della famiglia, bé, è semplicemente scandaloso. Che c’entra l’agenda lgbt col Vangelo? Non vediamo complotti dove non ci sono e siamo sempre cauti a giungere a conclusioni affrettate, ma che la Chiesa non possa accettare di essere condotta da vescovi, cardinali o sacerdoti che abbracciano l’omosessualità come linea ideologica, pare il minimo. Attenzione, ribadiamo: il problema non è se queste persone “sono” omosessuali, il problema è se la loro omosessualità diventa dottrina e si sostituisce al magistero. Osservazione numero due: la richiesta di dimissioni. Viganò non si è limitato a denunciare una serie di gravi inadempienze e manovre da parte di molti ecclesiastici, ma è arrivato fino a chiedere le dimissioni di Francesco, colpevole di sapere e di non essere intervenuto. Lo fa nella parte finale del suo lungo scritto appellandosi al fatto che, poiché Francesco ha chiesto «tolleranza zero» contro gli abusi, allora deve dare «il buon esempio» e dimettersi. Ma il Papa non si «dimette», non è il capo di una azienda, non è un amministratore delegato. Lo stesso Benedetto XVI non si è «dimesso», ma ha «rinunciato» all’esercizio petrino. È una differenza sostanziale e mi stupisco molto che Viganò si sia spinto a usare proprio quell’espressione: dimissioni. Ci ritrovo uno modo di argomentare ben poco “cattolico”, se mi si passa l’espressione. Quand’anche Viganò avesse ragione e tutto quello che ha scritto corrispondesse al vero, la sua richiesta di dimissioni è profondamente lontana da quelli che sono i doveri di un uomo di Chiesa. La rinuncia di un Papa deve essere «libera», così invece la richiesta assume i connotati di un ricatto. Lo stesso Benedetto XVI ha più volte ribadito che il suo gesto è stato libero e non costretto da alcuna circostanza. Se Viganò, come dice nella parte finale del suo lungo scritto, ha fatto tutto questo per il bene della Chiesa, è sicuro che la richiesta da lui avanzata faccia – effettivamente – il bene della Chiesa? Leggo sui giornali che Viganò aveva il dente avvelenato per non essere stato promosso nel ruolo che agognava. Non mi interessa, non è questo il punto. Il punto non è se Viganò è meno stinco di santo di quelli che accusa. Il punto non è se all’interno della Chiesa ci siano peccatori (sai che scoperta), il punto è che la richiesta di Viganò, così come è stata formulata, risponde a un modo di ragionare basato su categorie puramente mondane. San Paolo dice che quando vuoi correggere un fratello, prima lo interpelli in privato, poi davanti a testimoni, poi in assemblea. Quando i quattro cardinali fecero pervenire a papa Francesco i loro dubbi, seguirono questo metodo. Ma attenzione: lo fecero in una formulazione prevista dal diritto canonico e posero al Papa delle “domande”. Quello di Viganò, a conti fatti, è invece un ordine: poiché sei stato incoerente, devi dimetterti. Ma, appunto, ci si dimette da un ruolo o da una posizione che si ricopre in un’azienda. E Francesco a chi dovrebbe consegnare le sue dimissioni? Al suo accusatore? A Dio? E d’ora in poi come ci dovremmo comportare? Se ogni papa fosse sottoposto al giudizio degli uomini che possono destituirlo a seconda delle loro preferenze, sulla base di accuse ancora da dimostrare, in sostanza cosa diventerebbe il soglio pontificio? Una carica sottoposta al tribunale degli uomini? È una linea che non va superata, questa. La Chiesa può essere «meretrix» quanto si vuole, ma va sempre rammentato che è anche «casta», cioè «santa», perché il suo fondamento e la sua missione non sono “solo” di questo mondo. Se sbaglia, va corretta; se i suoi sacerdoti si macchiano di gravi peccati, è giusto chiederne la purificazione; ma la sua “natura” non può essere modificata. Perché è fatta “di” uomini, ma non è stata fondata “da” uomini. Nemmeno il papa può decidere di dimettersi, tanto è vero che lo stesso Ratzinger, pur non agendo più da pontefice, lo è comunque rimasto. Chi conosce la storia della Chiesa, sa che ci sono stati pontefici con figli, papi guerrieri, successori di Pietro che si sono macchiati di peccati tremendi. Nessuno si è mai dimesso e nessuno si è mai sognato di chiederne le dimissioni. Fabrice Hadjadj ha detto una volta che un papa è un «supplente dell’Eterno». Ecco, converrebbe tenere sempre a mente che la Chiesa non è una società per azioni: è “in” questo mondo, ma non è “di” questo mondo. Neppure Pietro, che tradì Cristo, poté venire meno a quel compito che Lui gli affidò.
Tutto fa brodo per macellare la Chiesa, scrive l'1 Settembre 2018 Luigi su Amicone Tempi. Carlo Maria Viganò, pur con tutta la buona fede che gli concediamo, ha la stessa logica mondana del New York Times. Ma i nostri vaticanisti devoti nel loro zelo papalino e mainstream non sono da meno. Viva Cristo Re! Viva Santa Madre Chiesa! Viva il Papa! Dovrebbe essere l’Abc della fede cattolica. Così penso io. Intanto però non si spengono i rumors e nemmeno i riflettori sul memoriale Carlo Maria Viganò (e non si spegneranno neanche tanto presto se è vero che dalle Americhe e forse perfino dall’Italia è in arrivo una stagione di scandali sessuali di altissimo livello ecclesiastico). Il memoriale è stato pubblicato dal quotidiano La Verità il 26 agosto, ribadito con approfondimenti il 30 agosto sullo stesso giornale diretto da Maurizio Belpietro e andato in giro per il mondo – Wall Street Journal, New York Times, Le Monde, Bild, Bbc e tanta roba ancora – per qualche giorno, dopo che papa Francesco di rientro dal viaggio in Irlanda aveva detto ai 70 giornalisti imbarcati con lui sul volo che lo riportava a Roma: «Non dirò una parola, giudicate voi». Ecco, questo non «dirò una parola» aveva fatto un po’ arrabbiare perfino il presidente della Conferenza episcopale Usa, che non è uno di quelli alla “destra conservatrice” del Papa, ma un fedele bergogliano, che però ha chiesto immediatamente udienza a Francesco ed esplicitamente sui contenuti del memoriale Viganò. Ed ecco, ancora, questo «giudicate voi» in un primo tempo sembrava fosse stato tradotto (erroneamente, of course) dai vaticanisti italiani come istigazione a dare addosso all’autore, a prescindere, prima ancora di informare il pubblico dei contenuti del documento dell’ex collaboratore di almeno tre Papi (compreso Bergoglio) e altrettante segreterie di Stato vaticane (compreso Parolin). Poi, vista la malaparata della “bomba” scoppiata all’estero, oltre agli insulti sono apparse anche sui media nostrani le prime notizie contenute nel dossier. Dunque prima osservazione sulla moralità – tendenziale amore alla verità più che alle proprie tasche e carriere – dei vaticanisti devoti che sono saltati subito addosso all’ex nunzio a Washington: non ci avete fatto proprio una bella figura professionale presentandoci il monsignore come un mitomane mattacchione («un pollo che si crede un corvo» copyright Melloni), un po’ cercatore di vendetta e un po’ l’Orban della gerarchia cattolica (tesi Corriere della Sera con qualche dubia di Massimo Franco), benché a 77 anni il curriculum di Viganò e il passo breve che lo separa dalla tomba sconsiglierebbero imprudenze e illazioni davanti al tribunale di Dio. Ecco, a meno che nel frattempo siano uscite le prove provate di un complottone; o che di Viganò si sia dimostrato che è proprio matto da legare; beh, questo vaticanismo placidamente e devotamente accovacciato sotto er Cupolone mi è sembrato da ragazzi/e stile amante di Rose McGowan. Che certamente gratis et amore di giustizia e di #metoo ha passato gli sms dell’amica Asia Argento al New York Times. Vogliono essere anche i vaticanisti italiani gender fluid come una qualsiasi Rain Dove? Cioè, un giorno sceriffi che non guardano in faccia nessuno (non dimentichiamo che “tolleranza zero” è conio del sindaco “salviniano” che ha avuto New York) e invocano giustizia e #metoo contro i Weinstein ecclesiastici; un altro le prefiche papiste che attaccano a prescindere uno che potrebbe essere una super gola profonda con la quale un Procuratore americano andrebbe a nozze per portarlo in tribunale come testimone d’accusa delle decine, centinaia, migliaia di contenziosi sex addit che coinvolgono uomini di Chiesa? D’altra parte, al di là del caso specifico di McCarrick, che è già molto dettagliatamente illustrato in memoriale e che esigerebbe risposte o smentite, non ambiguità e dissimulazioni, ci sono almeno due affermazioni molto pesanti nel memoriale Viganò, che non soltanto non vengono contestate ma sono confermate da due autorevoli collaboratori dell’attuale Papa. Viganò sostiene che «l’80% degli abusi riscontrati è stato nei confronti di giovani adulti da parte di omosessuali in rapporto di autorità verso le loro vittime». Il dato è confermato per tabulas, dalle statistiche storiche e dal timbro recentissimo del gesuita Hans Zollner, vicerettore della Gregoriana. Viganò sostiene anche che la Chiesa è prigioniera di «reti omosessuali». A parte il fatto che questa delle «reti» o «lobby gay» in Vaticano è una rivelazione che fece già Benedetto XVI, la cui “rinuncia” si deve forse anche alla fatica di non essere abbastanza assistito nel combattimento di eradicazione di tali lobby (e stando al memoriale Viganò adesso sarebbe più chiaro il perché), sulla stessa lunghezza d’onda di papa Ratzinger è intervenuto più volte anche papa Bergoglio. A cominciare da quell’audio aereo di ritorno dalle Filippine, quando Francesco mostrò comprensione per le persone omosessuali (il famoso «chi sono io per giudicare» che la stampa liberal storpiò in riconoscimento dell’agenda gay) ma accennò alle lobby gay in Vaticano come «fatto negativo». Ecco, non c’è bisogno di cercare altre conferme all’affermazione di almeno due Papi e di una gola profonda calunniata come mitomane vendicativo. C’è infatti il gesuita James Martin, obamiano convinto, già invitato a predicare al raduno delle famiglie in Irlanda e prossima star, così dicono notizie di stampa, a un convegno ecclesiastico pro Lgbt che si svolgerà (se non è stato rinviato causa contrattempi) ad Albano la prima settimana di ottobre, a confermare con toni entusiastici almeno una delle pesanti affermazioni del memoriale Viganò. Infatti, secondo Martin «l’idea di epurare i preti gay è sia ridicola che pericolosa: vuoterebbe parrocchie e ordini religiosi di migliaia di preti e vescovi». Ma questa dell’epurazione è mistificazione da New York Times: nessuno vuole epurare i preti gay in quanto gay, ma un gruppo di potere ferocemente avverso all’autocoscienza e dottrina della Chiesa cattolica, cosa ben diversa. Nessuno confonde gay e pedofilia, perciò basta con questa estrema arma di difesa del dare dell’omofobo a chi contesta non i fatti privati ma i reati del predatore sessuale o l’ex abate di monastero benedettino che va in giro per tutti i bei locali orgiastici d’Europa a spese delle decime dei fedeli. Detto tutto quanto sopra ho detto: per una volta dopo molti anni la penso esattamente come un certo editoriale di Giuliano Ferrara di un mese fa, soprattutto nel punto in cui il mio antico amico sosteneva l’auspicio deluso che questo papato affrontasse in contrattacco i corsi e ricorsi della bolla speculativa sui “preti pedofili”, scoppiata nel 2002 e usata in chiave esclusivamente economica nella forma di miliardi di indennizzi alle vittime. Se sulle prime c’è stato un momento di corsa all’alzi la mano a chi non ha ricevuto attenzioni ai testicoli da parte di un prete, risolto con milionate di dollari di indennizzo e non se ne parli più, dal 2012 in avanti (epoca scandalo pedofilia denunciato da New York Times in America e in Italia fracasso Vatileaks 1 e 2) si è passati all’attacco politico alla Chiesa di papa Ratzinger da parte del regime Obama (vedi sentenza storica Corte Suprema che abolisce differenza sessuale uomo-donna, azione di lady Clinton a supporto dei fondamentalisti Lgbt). Non a caso il cardinal McCarrick era un supporter di Obama e, stando al memoriale Viganò che stava a Washington e formalmente era lui l’ambasciatore presso la Casa Bianca, McCarrick era anche il vero potente presso Obama e dotato di ricca dote finanziaria. Ma insomma giustamente Ferrara si sarebbe aspettato una controffensiva culturale alla Ratzinger, non separata dalla verità e severità di azione contro abusi e lobby. Invece si è seguito e si continua a seguire i tempi e i metodi del New York Times, su un terreno su cui si perde sempre perché i principi e l’idea di Chiesa li dettano loro, mentre la Chiesa ci mette tutt’al più la tolleranza zero e la polizia vaticana. Poca cosa. E comunque in patente subalternità alla mondanità. Così il gatto che gioca col topo. Tanto è vero che anche i vaticanisti devoti sono così ammollicciati dottrinalmente e spiritualmente, che nonostante il loro zelo papalino e mainstream, al Papa fanno dire cose che neanche Bergoglio ha mai potuto dire perché sarebbero cose contro il dogma cattolico: per esempio, titolarono così tutti (ma proprio tutti) i giornali e media social e tv un celebre discorso di Francesco durante il viaggio in Irlanda: «La Chiesa ha fallito». Quando invece il Papa parlò di fallimento di «autorità ecclesiastiche e clericalismo», che è ben diverso dalla Chiesa fallita tout court. Quanto alla sostanza dell’affaire Viganò, ovviamente la penso esattamente come il mio direttore Lele Boffi: Carlo Maria Viganò, pur con tutta la buona fede che gli concediamo, ha la stessa logica del New York Times. Tant’è vero che chiede le dimissioni del Papa. Roba da gente che non conosce nemmeno l’Abc di cos’è la Chiesa fondata sulla roccia di Pietro. E, appunto, con tutta la buona fede del caso, si trova infine subalterno alle categorie mondane di trasparenza aziendale (quando conviene loro) e maccartismo di sinistra (quando serve) al soldo dei big di Wall Street. Insomma, anche questa vicenda mi ha convinto definitivamente a staccare la spina: non ho più neanche un account, me ne sono andato da Twitter, Facebook e Instagram. Do ragione al rasta della Silicon Valley Jaron Lanier, che dopo aver collaborato a googolizzare il mondo, adesso si accorge di “Dieci buone ragioni per cancellare subito i tuoi account social”. I social media odiano l’anima e ti odiano nel profondo dell’anima. Cosa c’entra con Viganò? C’entra che tutto fa brodo-social per macellare la Chiesa. Non a caso ho sempre ricordato che Obama venne alla Casa Bianca innanzitutto per fare il piazzista delle piattaforme digitali (e questo spiega, come dice Trump, che tutti i social pendano algoritmicamente a sinistra). C’entra inoltre perché tutte le impudenze, le banalizzazioni, fake news, i giocatori con le parole, l’odio narcisista e tutto il peggio viene da lì. Perché si sappia che aveva ragione Gekko di Wall Street: «Il denaro non dorme mai, è l’unica cosa che conta, il resto è conversazione». Ecco sono uscito dall’istituzionalizzazione della conversazione mentre loro ci prendono la roba e puntano all’immensa roba ecclesiastica, grazie anche al lavorìo delle quinte colonne lobbystiche infilate come quinte colonne dentro le mura vaticane: roba – dalle scuole agli ospedali, dalle Caritas alle proprietà immobiliari e terriere – che non appartiene ai preti vescovi o cardinali buoni o poveraccisti, devoti o riccastri, ma appartiene ai duemila anni di donazioni di popolo cristiano. Che adesso, con la banale scusa della pedofilia, vogliono incamerare via movimenti e giornalismo stile Travaglio, gli Stati e le multinazionali al servizio della politica “giusta”. P.s. L’unica cosa provvidenziale di questo casino di pedofili e massa di clero gay? Ecco, non potranno più giustificare la fesseria ideologica che reclama l’abolizione del celibato dei sacerdoti e, altra baggianata, la rivendicazione del sacerdozio per le donne come indispensabili anche per sanare le ferite degli abusi sessuali. Come si capisce, all’80% del clero sembra che non piacciono le donne. Con chi si dovrebbero togliere ufficialmente il celibato? Ok, prepariamoci alla carica dei 101 gender fluid. Così vale tutto e il contrario di tutto. E poi potrai andare nel cesso delle signorine, fare la pipì da seduto e, istigazione a delinquere, filmare con la go pro la passerina delle vicine.
5 anni di Papa Francesco, raccontati bene. Parole, gesti, viaggi, incontri che hanno reso Bergoglio il "parroco del mondo" dal 2013 a oggi, scrive Orazio La Rocca il 12 marzo 2018 su "Panorama". Tutto cominciò, 5 anni fa, con quel sorprendente ed inusuale “Fratelli e sorelle, buona sera!....”, saluto che mai nessun pontefice appena eletto in precedenza aveva mai fatto. Era la sera del 13 marzo 2013quando, poco dopo le 20,30 il fresco successore di Benedetto XVI, l'argentino Jorge Mario Bergoglio – primo papa sudamericano -, dalla Loggia delle Benedizioni della basilica di S.Pietro in Vaticano saluta e benedice per la prima volta cristiani, credenti di altre religioni, non credenti, chiedendo – altra sorpresa – di essere benedetto del popolo. Gesti, parole e pensieri che fanno subito scattare una reciproca simpatia tra la gente comune e il nuovo papa, il primo che – altro particolare di non secondaria importanza - ebbe il coraggio di scegliere un nome tanto impegnativo, Francesco, capace di riportare la Chiesa – malgrado gli scandali dei preti pedofili e delle inchieste finanziarie, il caso Vatileaks - sulle orme di S. Francesco di Assisi più vicina a poveri, malati, migranti; ai valori della pace, del dialogo, dell'ambiente. Miracolo di Bergoglio, “l'unico leader morale mondiale”, secondo Julia Krysteva, filosofa laica francese, e di altri intellettuali laici, come Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica, tra i più assidui intervistatori di Francesco, al quale è legato da amicizia e reciproca stima. Ma anche un papa “rivoluzionario” - a parere dei frati francescani conventuali di Assisi - stando ad un libro pubblicato proprio per i 5 anni di pontificato intitolato non casualmente “Francesco il ribelle” (Mondadori) scritto da padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa del Sacro Convento, dove riposano le spoglie del Poverello.
LA “RIVOLUZIONE” DI PAPA BERGOGLIO. La “rivoluzione” di Bergoglio inizia, dunque, con quel sorprendente “buona sera!” per decollare con grandi e piccoli gesti, fin dal giorno dopo l'elezione quando va alla Casa del Clero per saldare il conto della stanza che aveva affittato in precedenza, per recarsi dopo, come un pellegrino “qualsiasi”, a pregare davanti all'icona della Vergine Salus Populi Romani tanto cara ai romani. Gesto che farà ogni volta che tornerà dai viaggi, il primo dei quali all'isola di Lampedusa dopo la morte di centinaia di migranti nel canale di Sicilia. Sorprende, inoltre, quando rifiuta di abitare nel Palazzo Apostolico (in 300 mq con vista su piazza S.Pietro) per sistemarsi nel più modesto Ospizio di S. Marta dove celebra Messa con seguitissime omelie come un parroco di quartiere. Quando si sposta, si serve di semplici auto utilitarie; porta la vecchia borsa di pelle nera usata in Argentina; telefona ad amici e conoscenti in occasione di feste e ricorrenze. Ma pensa anche ai senza fissa dimora che gravitano intorno a S. Pietro per i quali fa allestire servizi di assistenza sanitaria, docce, barberia. Gesti in fondo semplici ma significativi, che affianca a iniziative più delicate come la riforma dei dicasteri vaticani, il controllo dalla banca vaticana, lo Ior, e le nomine, anche se qualcuno lo tradisce, come due membri della Commissione di studio sulle finanze condannati per aver trafugato documenti riservati, e il ministro dell'economia, il cardinale australiano George Pell, costretto a tornare in patria per difendersi in Tribunale dall'accusa di aver coperto preti pedofili. Bergoglio però non molla, anzi moltiplica le proprie energie per portare avanti le sue riforme. Tra le prime, le aperture sulla famiglia con i Sinodi nel 2015 e del 2016 che riammettono ai sacramenti i divorziati risposati e sollecitano più attenzione a unioni civili, coppie di fatto e omosessuali, per i quali chiede “rispetto e accoglienza”, come spiega il 19 luglio 2013 di ritorno dal Brasile quando dice: “Se una persona è gay e cerca il Signore in buona volontà, chi sono io per giudicarla?”, in linea con quella Chiesa “ospedale da campo dopo una battaglia”, auspicata all'inizio del pontificato. Aperture criticare apertamente dalle componenti più conservatrici della Chiesa e persino da un gruppo di cardinali del Sacro Collegio – i cosiddetti porporati dei Dubia, i dubbi, che annunciano critiche e prese di posizioni pubbliche contro lo stesso Bergoglio, che però non demorde.
I VIAGGI SCONVOLGENTI. Altre tappe importanti, il primo storico incontro a Cuba col Patriarca ortodosso russo Kirill; le visite ai carcerati; i 3 viaggi ad Assisi per pregare sulla tomba di S.Francesco; il Giubileo della Misericordia e i mensili Venerdì della Misericordia per incontrare famiglie e poveri della periferia romana, dove è il primo papa che visita una decina di preti sposati con figli e mogli.
Sul piano ecumenico, significativi i viaggi a Ginevra al Consiglio ecumenico delle Chiese del prossimo 21 giugno, in Svezia nel 2017 per i 500 anni della Riforma protestante e la visita con ortodossi e protestanti nel 2016 ai migranti dell'isola di Lesbo, da dove porta con sé alcune famiglie musulmane salvate dal Mediterraneo. Instancabili gli appelli per i migranti, per i quali chiede a parrocchie e conventi di aprire le porte dell'ospitalità.
I NUMERI DEI DISCORSI. Dal 2013 Francesco pronuncia migliaia di discorsi; pubblica le encicliche Lumen Fidei nel 2013 e Laudato sì nel 2015, 178 lettere, 2 Esortazioni apostoliche, l'Amoris Laetitia e la Evangelium Gaudium; compie 39 viaggi, 22 all'estero, una ventina in Italia. In Vaticano riceve Capi di Stato, leader politici, re, regine. Il presidente Usa Donald Trump il 24 maggio 2017. Ma anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, i premier che si alternano a Palazzo Chigi: Francesco, come i suoi predecessori, con tutti parla di pace, di bene comune e di difesa dei poveri. Come un infaticabile pastore, parroco del mondo.
IL BILANCIO NEGATIVO. Vaticano. Antonio Socci rivela il 13 Marzo 2018 su "Libero Quotidiano" su papa Francesco: "Così ha umiliato i cristiani". Per valutare questi cinque anni del papa argentino bisogna usare il criterio dettato da Gesù stesso: «Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi Dunque dai loro frutti li potrete riconoscere» (Mt 7, 17-20). Quali sono i frutti del bergoglismo? Mi piacerebbe dire "buoni", ma purtroppo non è così: sono pessimi. Anzitutto c' è il crollo della pratica religiosa ovunque, ma specialmente nel continente più bergogliano (il Sud America) e nel Paese con l'episcopato più bergogliano, la Germania. Si possono vedere anche casi specifici, prendendo due dei maggiori artefici dell'elezione Bergoglio, cioè il card. Danneels (ex primate del Belgio) e il card. Maradiaga (ancora primate dell'Honduras) e scopriremo che la Chiesa, nel Belgio di Danneels e nell' Honduras di Maradiaga, cola a picco: basti dire che in Honduras in venti anni la percentuale di chi si professa cattolico è passata dal 76 per cento al 47 per cento. E nella diocesi di Bruxelles, quando Danneels lasciò per limiti di età, c' erano quattro seminaristi (quattro!) in una citta di più di un milione di abitanti.
LINEA FALLIMENTARE. Del resto, per capire che la linea perorata da costoro e incarnata da Bergoglio era la peggiore bastava considerare proprio l'Argentina da quando lui diventò arcivescovo di Buenos Aires e primate d' Argentina: dal 1999 al 2014 il numero dei seminaristi in tutto quel vasto Paese è passato da 1.500 a 827. Una catastrofe spirituale. Invece le vocazioni (più 17,4 per cento) e i cristiani crescono nel continente africano, quello del card. Robert Sarah: dal 2014 al 2015 lì si è avuto un aumento del 19,4 per cento dei cattolici battezzati, passati da 186 a 222 milioni. Non a caso l'episcopato africano si è distinto ai Sinodi sulla famiglia per la critica alla rivoluzione bergogliana: i vescovi si sono espressi contro ogni apertura sull' omosessualità e sulla comunione per i divorziati risposati. Inoltre l'episcopato africano si oppone da anni all' emigrazione di massa dall' Africa, che invece Bergoglio sostiene. Ma non sono solo le statistiche a mostrare un bilancio fallimentare. C' è qualcosa di gravissimo che esse non possono misurare: è lo smarrimento generale dei cattolici di fronte al pauroso sbandamento dottrinale e pastorale del Vaticano di Bergoglio. Ho scritto due libri sui disastri di questo pontificato e non posso certo sintetizzare un tale cataclisma in poche righe. In sintesi, il papa argentino ha abbandonato il sentiero tracciato dai suoi predecessori e ha fatto sua l'Agenda Obama (sotto la cui presidenza egli è salito al soglio pontificio). Ecco i tre punti fondamentali di tale agenda: favorire le migrazioni di massa, resa incondizionata della Chiesa sui temi etici e abbraccio con l'Islam.
PROFETI MEDIATICI. La chiesa bergogliana, passando dall' annuncio di Cristo, unico Salvatore, alla politica dei "diritti umani" d' impronta obamiana, «si sovrappone ampiamente - ha notato Ernesto Galli della Loggia - ad altre presenze organizzative, ideali e politiche, che nulla hanno a che fare con la sua tradizione. A cominciare ovviamente dalle grandi agenzie internazionali come l'Onu o la Fao». Inoltre si sovrappone - prosegue Galli - a «componenti laico-progressiste» e alla «straripante presenza pubblica di alcune ricchissime e influentissime figure di "filantropi mondialisti" - non saprei come altro chiamarli: tipo Soros o Zuckerberg o Bezos - ormai assurti al rango di veri e propri profeti mediatici: anch' essi non solo estranei ma senz' altro ostili al cristianesimo cattolico». Questa omologazione al potere implica la necessità bergogliana di "bombardare" quotidianamente i cattolici fedeli a Cristo come "fondamentalisti" (anche annichilendo fiorenti famiglie religiose come i Francescani dell'Immacolata). Per poi indicare come esempi da ammirare personaggi come Emma Bonino, Giorgio Napolitano e Marco Pannella. Nell' orizzonte di questa omologazione al potere mondano vanno letti anche altri fatti sconcertanti come la quasi canonizzazione di Lutero (e il progetto di attacco alla Messa cattolica) o la resa vaticana al regime comunista cinese, con tanti saluti ai cattolici perseguitati che vengono abbandonati (come quelli vittime dei regimi islamici).
METODI DISPOTICI. Sul fallimento dei progetti di riforma della Curia da parte di Bergoglio sono concordi perfino i bergogliani più zelanti. Oggi la confusione oltretevere è totale e c' è sconcerto anche per i metodi dispotici che egli pratica. Ma più grave ancora è la confusione spirituale nel popolo di Dio che si sente allo sbando. Tradito dai pastori. Anche fra i cardinali che lo hanno eletto e sostenuto cresce lo sconcerto e l'allarme, tanto che uno di costoro, fra i più importanti, in uno scontro trapelato sui media, è arrivato ad alzare la voce: «Noi ti abbiamo eletto per riformare, non per distruggere tutto!». Se assumiamo come criterio di giudizio la fedeltà alla Sacra Scrittura, al magistero costante della Chiesa, dovere primario di ogni pontefice, quello di Bergoglio è probabilmente il papato più disastroso della bimillenaria storia della Chiesa. Antonio Socci
Vaticano, papa Benedetto XVI voleva dimettersi un anno prima: la verità di Tarcisio Bertone, scrive il 10 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Benedetto XVI aveva intenzione di annunciare le sue epocali dimissioni già un anno prima, nell'aprile del 2012. A raccontarlo è l'ex segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, nel suo ultimo libro "I miei Papi" (ed. Elledici), nel quale ha raccolto alcuni colloqui privati avuti con Joseph Ratzinger in quei giorni per lui tribolati. Come riporta il blog "Stanze vaticane", Ratzinger aveva già anticipato le sue intenzioni durante un'udienza del 30 aprile 2012: "Poi cadde nel silenzio". Quel cenno: "ritornò in un colloquio confidenziale nel mese di agosto - aggiunge Bertone - mentre eravamo a Castel Gandolfo. Feci fatica a credere che il Papa avrebbe preso veramente tale decisione e, con rispetto ma con forza, gli presentai una serie di ragionamenti che ritenevo fossero fondati per il bene della Chiesa e pedr sventare una generale depressione del popolo di Dio, davanti al suo buon Pastore". Bertone racconta di aver cercato di far desistere Ratzinger dal dimettersi con tutti gli argomenti possibili, rimarcando anche l'importanza dell'Anno della Misericordia in corso. La convinzione all'epoca diffusa sul carattere debole di Benedetto XVI venne drasticamente smentita: "Man mano che passava il tempo, il Santo Padre non solo non recedeva, ma si confermava nella decisione presa in tutta coscienza davanti al Signore. Dapprima era intenzionato a pubblicare la dichiarazione di rinuncia prima di Natale, ma io gli dicevo che per Natale doveva farci dono del suo libero sull'infanzia di Gesù di Nazareth e questo annuncio avrebbe sconvolto l'opinione pubblica, turbato dal clima natalizio e disperso i frutti di questo dono". Bertone ha quindi provato ancora a far rinviare le dimissioni del Papa, fino al febbraio 2013: "Cercavo di prorogarla di settimana in settimana, richiamando al Papa le scadenze dell'Anno della Fede e la promessa dell'enciclica sulla fede. Ma Benedetto XVI, pensando soprattutto all'impegno delle celebrazioni pasquali e in prospettiva della Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro, deciso inesorabilmente di dichiarare l'atto di rinuncia l'11 febbraio 2013".
Vaticano, la lettera di Ratzinger per l'anniversario di papa Francesco: "Basta stolti pregiudizi su me e lui", scrive il 12 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". "Tra i due pontificati c’è una continuità interiore". Così il Papa emerito Benedetto XVI sul magistero di Papa Francesco, del quale domani ricorre il quinto anno dall’elezione. Ratzinger scrive una lettera al prefetto della Segreteria per la Comunicazione mons. Dario Viganò in occasione della presentazione della collana La teologia di Papa Francesco (edita dalla Lev). "Plaudo a questa iniziativa - scrive Benedetto XVI - che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi". Nella lettera personale inviata al Prefetto della Segreteria per la Comunicazione, il Papa Emerito ringrazia di aver ricevuto in dono gli undici libri scritti da altrettanti teologi di fama internazionale che compongono la collana curata da don Roberto Repole, presidente dell’Associazione Teologica Italiana. "I piccoli volumi - aggiunge Benedetto XVI - mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento". Durante l’evento, il nuovo responsabile editoriale della Libreria Editrice Vaticana, fra Giulio Cesareo, ha precisato che sono in corso trattative con editori di tutto il mondo. Fino a ora, sono stati siglati accordi per la distribuzione della collana in inglese, spagnolo, francese, portoghese, polacco e romeno.
Vaticano, il sospetto di Socci sulla lettera di Benedetto XVI per papa Francesco, scrive il 12 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". La lettera di Benedetto XVI in difesa di papa Francesco e contro gli "stolti stereotipi" contro il pontefice e il papa emerito non ha convinto del tutto alcuni attenti osservatori del mondo cattolico, a cominciare da Antonio Socci. Sulla sua pagina Facebook, la firma di Libero ha sollevato il dubbio che quel testo, così duro e così stranamente in contraddizione con quanto finora scritto da Ratzinger: "In attesa di leggere tutta la lettera - scrive Socci - e in attesa che ci mostrino non il dattiloscritto, ma l'autografo di questa lettera che potrà essere sottoposto ad esperti di grafia, rilevo che è stato proprio Benedetto XVI - nel suo ultimo libro intervista - a dire "ognuno ha il suo proprio carisma. Francesco è l'uomo della riforma pratica". "Dunque - aggiunge Socci - oggi si contraddice affermando il contrario? Chi ha scritto il testo avrà letto il libro di papa Benedetto, no? Infine: non è emblematico che Bergoglio abbia questa smania di usare Benedetto XVI per coprirsi e legittimare un pontificato obiettivamente disastroso come è il suo? O dopo 5 anni Bergoglio sente che il popolo di Dio non lo riconosce come suo vero pastore?"
Monsignor Viganò si è dimesso per la lettera «corretta» di papa Ratzinger. È il capo della comunicazione della Santa Sede, nominato da Papa Francesco, scrive il 21 marzo 2018 "Il Corriere della Sera". Papa Francesco ha accettato la rinuncia di monsignor Dario Edoardo Viganò, Prefetto della Segreteria per la Comunicazione. Fino alla nomina del nuovo Prefetto, la SPC sarà guidata dal Segretario del medesimo Dicastero, monsignor Lucio Adrian Ruiz. Lo ha annunciato il portavoce della Santa Sede, Greg Burke. Monsignor Viganò era stato accusato nei giorni scorsi di avere «corretto» una lettera scritta da papa Ratzinger.
La lettera di Bergoglio. In una lettera personale a monsignor Viganò il Papa lo ringrazia della disponibilità a farsi da parte e gli chiede di restare nel dicastero come «assessore». Ecco il testo. «Reverendissimo Monsignore a seguito dei nostri ultimi incontri e dopo aver a lungo riflettuto e attentamente ponderate le motivazioni della sua richiesta a compiere «un passo indietro» nella responsabilità diretta del Dicastero per le comunicazioni, rispetto la sua decisione e accolgo, non senza qualche fatica, le dimissioni da Prefetto. Le chiedo di proseguire restando presso il Dicastero, nominandola come Assessore per il Dicastero della comunicazione per poter dare il suo contributo umano e professionale al nuovo Prefetto al progetto di riforma voluto dal Consiglio dei Cardinali, da me approvato e regolarmente condiviso...Mentre La ringrazio per l’umiltà e il profondo sensus ecclesiae, volentieri la benedico e la affido a Maria».
La manomissione di Viganò. Monsignor Viganò è finito nell’occhio del ciclone in occasione della presentazione del volume «La teologia di papa Francesco»; in quella occasione il capo della comunicazione vaticana aveva letto una missiva del papa emerito Benedetto XVI in cui veniva sottolineato che la pubblicazione di quei volumi sfatava «lo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi». Viganò aveva però omesso di leggere un altro passo della lettera. Nella parte omessa (che, va ricordato, faceva parte di una missiva privata) papa Benedetto XVI esprimeva un ampio elogio della preparazione teologica di Bergoglio ma ammetteva di non aver potuto leggere i libri. Per questa ragione declinava l’invito a farne una recensione. Insomma, il contrario di quanto Viganò aveva tentato di far apparire. In più Ratzinger si rammaricava del fatto che tra gli autori della pubblicazione fosse stato incluso il teologo tedesco Hunermann che in passato aveva assunto posizioni critiche nei confronti della linea ufficiale della Chiesa.
La replica del monsignore. Subito dopo l’annuncio delle dimissioni anche monsignor Viganò ha diffuso una sua dichiarazione rivolta al Pontefice: «In questi ultimi giorni si sono sollevate molte polemiche circa il mio operato che, al di là delle intenzioni, destabilizza il complesso e grande lavoro di riforma che Lei mi ha affidato nel giugno del 2015 e che vede ora, grazie al contributo di moltissime persone a partire dal personale, compiere il tratto finale». «La ringrazio per l’accompagnamento paterno e saldo che mi ha offerto con generosità in questo tempo e per la rinnovata stima che ha voluto manifestarmi anche nel nostro ultimo incontro. Nel rispetto delle persone che con me hanno lavorato in questi anni e per evitare che la mia persona possa in qualche modo ritardare, danneggiare o addirittura bloccare quanto già stabilito del Motu Proprio... Le chiedo di accogliere il mio desiderio di farmi in disparte rendendomi, se Lei lo desidera, disponibile a collaborare in altre modalità».
Il caso. La frase omessa di Benedetto nella lettera a Francesco, scrive il 14 marzo 2018 Massimo Franco su "Il Corriere della Sera". È difficile non definirlo, come minimo, un pasticcio. L’ufficio stampa della Santa Sede che omette dalla lettera del Papa emerito Benedetto XVI a Francesco una frase che suona come presa di distanza dai suoi libri teologici, proietta un’ombra sui rapporti tra i due. Monsignor Dario Viganò, uomo della comunicazione di Francesco, l’altro ieri aveva letto la parte in cui Benedetto sottolineava la «continuità interiore» col successore; e in cui lodava l’iniziativa degli undici libri appena pubblicati: lo sforzo teologico di Jorge Mario Bergoglio. Già il messaggio in sé era apparso inusuale: come se Francesco volesse anche la legittimazione dottrinale di Benedetto, grande teologo, per presentare la sua fatica editoriale. Ma l’occasione del quinto anniversario dell’elezione era un’ottima ragione per giustificarla. Ieri, però, si è saputo che Viganò non aveva letto il messaggio integrale. Il blog Settimo Cielo, spesso critico con Francesco, ha rivelato che mancava un paragrafo finale: sette righe sorprendenti. Si intuisce che c’era stata la richiesta di una «recensione», che il pontefice emerito sembra avere respinto, definendoli «piccoli volumi». La frase omessa, non a caso filtrata dalle stanze vaticane, recita testualmente dopo molti complimenti a Francesco e all’iniziativa: «Non mi sento di scrivere su di essi una breve e densa pagina teologica perché in tutta la mia vita è sempre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso soltanto su libri che avevo anche veramente letto». E nelle righe finali, sullo sfondo di quanto è accaduto, gli avversari del Papa rischiano di trovare nuovi appigli: «Purtroppo, anche solo per ragioni fisiche», scrive infatti Benedetto, «non sono in grado di leggere gli undici volumetti nel prossimo futuro, tanto più che mi attendono altri impegni che ho già assunti». Si sa che Benedetto è particolarmente fragile e ha diradato non solo i suoi pochi impegni ma anche le passeggiate nei giardini vaticani. Ma fa un po’ impressione registrare che non avrà tempo di leggere la summa teologica di Bergoglio. Un particolare: la lettera a Viganò è datata 7 febbraio, in risposta a una missiva del prefetto per la comunicazione del 12 gennaio. È stata resa nota solo il 12 marzo. In parte.
Ratzinger “perfido”? Non scriviamo l’assurdo…, scrive il 19 marzo 2018 Franco Boezi su "Il Giornale". Ogni giorno mi occupo di notizie e/o testi che possano riguardare Joseph Ratzinger. Un po’ per lavoro, un po’ perché sono mosso, come la segretaria di Stato del Vaticano mi scrisse attraverso una missiva di monsignor Paolo Borgia, da “venerazione filiale” nei confronti del Santo Padre. “Sua Santità – riportava la lettera dello scorso agosto – desidera manifestarle cordiale gratitudine per l’apprezzato dono…”. Io, che non sono di certo un teologo né un esperto di dottrina, ho ricevuto una risposta inaspettata e indiretta da Benedetto XVI a una pubblicazione che avevo provato a spedirgli. E tutto quello che ho fatto è stato scrivere un pamphlet elogiativo della sua figura, un libro pubblicato da Il Giornale per la collana “Fuori dal Coro”: Ratzinger, il rivoluzionario incompreso. E questi, direte voi, sono affari tuoi. Sacrosanto. Nella serata di oggi, però, faccio la mia consueta ricerca serale e trovo un articolo in cui Pierfranco Pellizzetti, sul suo blog de Il Fatto Quotidiano, scrive di un “un abbraccio mortale di rara perfidia, con cui il piccoletto malignazzo Joseph Ratzinger, il Matteo Orfini vaticano, finge di smentire le maldicenze che circolano sul suo successore nei sotterranei più tetri dalle parti di San Pietro, mentre in effetti le sta accreditando”. La storia è questa: Benedetto XVI riceve una lettera da monsignor Dario Viganò. La richiesta, con ogni probabilità, è quella di scrivere una “breve e densa pagina teologica” d’introduzione agli undici “piccoli volumi” della collana edita da Lev riguardanti La teologia di Papa Francesco. Ratzinger risponde di essere da una parte impossibilitato e dall’altra stupito. Ma perché stupito? Ci arriviamo tra poco. La querelle della lettera è ormai nota ed è stata raccontata su IlGiornale.it passo passo (qui, qui, qui, e qui è possibile seguire tutta la diatriba per mezzo di un filo cronologico). La missiva viene pubblicata (in parte) il giorno prima del quinto anniversario dell’elezione al soglio pontificio di Jorge Mario Bergoglio. Molti media rilevano come Ratzinger abbia parlato di “continuità interiore” con il pontificato di Francesco. Fine della giostra, quindi, per tutti coloro che usano (secondo me a torto) contrapporre il papa emerito al pontefice argentino. Ma arriva il primo colpo di scena. Viganò legge questa lettera il 12 marzo, alcuni la riportano troncando però un passaggio. Si scopre che alcune righe lette dal prefetto della Segreteria per la Comunicazione non compaiono nella foto diffusa dal Vaticano. Sandro Magister pubblica il paragrafo “omesso”, si comincia a parlare di foto ritoccata e si scopre che Benedetto XVI ha sì risposto e parlato della fine di un “doppio stolto pregiudizio”, ma che al contempo si è rifiutato di introdurre la pubblicazione (e di leggere i libri) perché preso da altri impegni e per ragioni fisiche. Ecco, però, un altro evento inaspettato (roba da Dan Brown). Spunta, infatti, un ulteriore virgolettato della lettera che la Santa Sede, poi, dichiarerà di aver omesso a causa della natura personale e riservata della missiva. E già qui potrebbero sorgere alcune domande sul perché, allora, siano stati letti alcuni passaggi e altri no.
Fatto sta che Ratzinger, in questo secondo paragrafo inizialmente non pubblicato, aveva scritto: “Solo a margine vorrei annotare la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor Hünermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per avere capeggiato iniziative anti-papali. Egli partecipò in misura rilevante al rilascio della “Kölner Erklärung”, che, in relazione all’enciclica “Veritatis splendor”, attaccò in modo virulento l’autorità magisteriale del Papa specialmente su questioni di teologia morale. Anche la “Europäische Theologengesellschaft”, che egli fondò, inizialmente da lui fu pensata come un’organizzazione in opposizione al magistero papale. In seguito, il sentire ecclesiale di molti teologi ha impedito quest’orientamento, rendendo quell’organizzazione un normale strumento d’incontro fra teologi”. Qualcuno, insomma, aveva chiesto a Benedetto XVI di scrivere una prefazione ad un autore anti-Ratzingeriano. Non un semplice critico dottrinale dell’opera di Ratzinger, ma un teologo che “aveva capeggiato iniziative anti-papali”. Torniamo, adesso, all’articolo sul blog del Fatto Quotidiano. Dove risiederebbe la “rara perfidia”? In un uomo di novant’anni che si è rifiutato di avallare i testi di un teologo che ha attaccato “in modo virulento l’autorità magisteriale del Papa” o in chi gli ha proposto di scrivere quella “breve e densa pagina teologica”? Insomma, chi va cercando un “Orfini in Vaticano”, un “maldestro puntellatore di una dottrina indispensabile”, guardi da qualche altra parte e lasci stare un teologo di novant’anni che si è semplicemente rifiutato di chinare il capo a chi aveva provato a destrutturare il suo magistero. Un “Orfini” che aveva persino espresso gratitudine a me, che non sono nessuno. Immaginatevi, quindi, quanto potrebbe essersi “stupito” per la presenza del professor Hünermann tra gli autori scelti per legittimare (?) la teologia di Papa Francesco. Se di “gioco delle tre carte” si tratta, signor Pellizzetti, non è a Ratzinger che deve guardare.
Il primo dualismo fra i Pontefici. Così si è rotto l’incantesimo. Ma Francesco difende il suo collaboratore, che non ammette l’errore. Le dimissioni atipiche di monsignor Dario Viganò, l’uomo della comunicazione di papa Bergoglio. In pochi giorni si è incrinata la coabitazione armoniosa che i due Papi erano riusciti a stabilire, scrive Massimo Franco il 21 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". La settimana che doveva segnare l’apoteosi del quinquennio di Francesco sta segnando una delle crisi interne più acute del suo papato. E esplode proprio nel cuore di Casa Santa Marta, l’albergo dove vive dentro la Città del Vaticano: in quella cerchia ristrettissima di collaboratori che hanno plasmato il suo profilo e la sua grande popolarità. In pochi giorni, si è incrinata la coabitazione armoniosa che l’attuale Pontefice e il suo predecessore erano riusciti a stabilire; e proprio sul tema della dottrina, uno dei più delicati. Senza che né Jorge Mario Bergoglio né Joseph Ratzinger volessero, si sono trovati al centro di un pasticcio tale da farli apparire distanti, segnalando divergenze mai prima emerse. Non solo. Il modo maldestro col quale è stata usata la lettera di appoggio di Benedetto a Francesco su una collana di scritti teologici rischia di sgualcire la credibilità dell’intera macchina comunicativa del Vaticano.
I due Papi. Per un lungo periodo, sembrava che non esistessero «due Papi». Miracolosamente, è il caso di dirlo, nessun dualismo né divergenza erano affiorati: come se ognuno dei due sapesse quanto fosse importante la proiezione di una Chiesa unita; tanto più dopo le dimissioni traumatiche di Ratzinger nel febbraio del 2013, le prime dopo settecento anni. Sebbene ultimamente apparisse meno scontata, l’idea di una continuità tra i due pontificati sopravviveva come una sorta di «verità vaticana» da proteggere e diffondere allo scopo di rassicurare il mondo cattolico. Anche quando veniva strattonato dagli ambienti più conservatori e ostili a Francesco, Benedetto si era limitato a rinnovare la sua lealtà e ubbidienza al successore. Questa narrativa, adesso, promette di dovere essere ricalibrata. Benedetto ha parlato di «stolto pregiudizio» di quanti attaccano teologicamente Francesco; e di «continuità interiore», espressione così sottile da suonare lievemente criptica, tra lui e Bergoglio. Ma le sconcertanti omissioni sulle critiche di Ratzinger all’operazione editoriale, la divulgazione a tappe della sua missiva, e solo sotto la spinta di uno sconcerto crescente, hanno regalato sospetti di manipolazione, se non di censura. Il tentativo di puntellare le lodi di una serie di teologi nei confronti di Francesco con l’imprimatur del «teologo massimo» Benedetto, si è trasformato in un doloroso autogol: anche perché alla fine si è scoperto che tra i «lodatori» figurano un paio di studiosi riconosciuti da Ratzinger come detrattori ostinati sia del papato di Giovanni Paolo II, sia del suo.
Le dimissioni atipiche. La vicenda, almeno per ora, si conclude con una lettera di dimissioni formali quanto atipiche di monsignor Dario Viganò, l’uomo della comunicazione di Francesco. Si tratta di un gesto apprezzabile nella sua inevitabilità, che però può sollevare altre perplessità. L’atipicità sta nel fatto che Viganò, nella sua missiva a Francesco, non riconosce gli errori commessi. Non c’è un solo riferimento all’uso centellinato e pilotato delle parole di Benedetto. Si parla solo delle «molte polemiche circa il mio operato». Il prefetto motiva la volontà di «farmi in disparte» con l’esigenza di non «destabilizzare» le riforme della comunicazione affidategli da Francesco nel 2015. Fa un passo indietro per «imparare a rinascere dall’alto», scrive citando i testi sacri, e non offrire pretesti ai nemici. È una versione che vela qualunque responsabilità. Ma il problema ormai va al di là della sua persona. A colpire è la risposta di Francesco, dalla quale si desume una certa resistenza a accettare le dimissioni. Il Papa spende tali e tante lodi sull’«umiltà e il profondo sensus ecclesiae», lo «spirito di servizio» del monsignore, da rendere tutto un po’ singolare: anche perché a Viganò vengono attribuiti piglio decisionista e modi sbrigativi. Il fatto stesso che accogliendo «non senza qualche fatica» le dimissioni crei per il «Reverendissimo Monsignore» un nuovo incarico, quello di «assessore», e gli chieda di continuare in attesa del nuovo prefetto, acuisce la confusione.
«Amoveautur ut conservatur». Perfino nella cerchia bergogliana si percepisce lo sconcerto. «Questo non è un caso di promoveatur ut amoveatur. Siamo all’amoveatur ut conservatur», scolpisce un cardinale. E cioè: Viganò rimosso perché prosegua più o meno come prima; o comunque perché questo sia il messaggio dentro le Sacre mura. Ufficialmente, per il momento prenderà il suo posto l’attuale segretario del dicastero, l’argentino Lucio Adrian Ruiz. Ma la procedura conferma la determinazione con la quale il Papa difende le scelte compiute e i suoi collaboratori: anche quando provocano reazioni controverse e farebbero credere a un ripensamento. La vicenda, tuttavia, non sembra archiviata. C’è chi sottolinea polemicamente la rapidità con la quale sono stati silurati riformatori designati da Francesco come il supervisore dei conti Libero Milone o il vicedirettore dello Ior, Giulio Mattietti. E la contrappone alla difesa del prefetto per la comunicazione: argomenti che gli avversari usano per accreditare l’affanno e le contraddizioni del papato. Di certo, l’idea che la gestione della lettera di Benedetto possa essere usata per accreditare un complotto contro le riforme, lascia perplessi; ma può favorirlo. E, sullo sfondo di quanto è accaduto, fa riflettere anche il convegno organizzato a fine gennaio in Vaticano contro le informazioni manipolate e le fake news. Senza saperlo, il Vaticano poneva un problema che in qualche misura si sta rivelando anche suo. E ripropone in modo imprevisto, per la prima volta, la questione dei «due Papi».
Joseph Ratzinger, il Vaticano diffonde il testo integrale della lettera: una nuova truffa, scrive il 17 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Papa Ratzinger aveva espresso riserve sul teologo tedesco Hunermann. Per questo la Segreteria della Comunicazione non aveva ritenuto opportuno diffondere il testo integrale della sua lettera privata al prefetto del dicastero, monsignor Dario Edoardo Viganò. Così precisa una nota vaticana che risponde alle polemiche di questi giorni relative alla lettera del Papa Emerito Benedetto XVI letta in occasione della presentazione della collana La teologia di Papa Francesco, edita dalla Libreria Editrice Vaticana, il 12 marzo scorso. "Della lettera, riservata - spiega la nota - è stato letto quanto ritenuto opportuno e relativo alla sola iniziativa, e in particolare quanto il Papa Emerito afferma circa la formazione filosofica e teologica dell’attuale Pontefice e l’interiore unione tra i due pontificati, tralasciando alcune annotazioni relative a contributori della collana. La scelta è stata motivata dalla riservatezza e non da alcun intento di censura. Per dissipare ogni dubbio si è deciso quindi di rendere nota la lettera nella sua interezza". Nel testo, Benedetto XVI rimprovera al teologo tedesco Hunermann di aver attaccato "in modo virulento" il magistero papale all’epoca della pubblicazione dell’Enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor pubblicata nel 1997. L’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, aveva collaborato alla stesura di quel documento che fu interpretato come una "stretta" riguardo alla teologia morale, che nella tradizione della Chiesa, fino ad allora, non prevedeva dichiarazioni infallibili del Papa. Ed era cioè considerata soggetta ad evoluzione sulla base dell’evoluzione della cultura che certamente determina almeno in parte il senso morale (la pena di morte, ad esempio, era ritenuta moralmente accettabile e praticata nello Stato Pontificio). La Veritatis splendor ha dunque segnato una importante discontinuità nella teologia e questo spiega le reazioni infuocate dall’una e dall’altra parte. Ma in realtà c'è un'altra parte mancante. Ratzinger, una volta notato che tra gli autori dei libri era presente almeno un autore non in linea con la sua visione, Hunerman, appunto, dice a Viganò: "Sono certo che avrà comprensione per il mio diniego e La saluto cordialmente".
Ecco il testo integrale della lettera di Benedetto XVI a Francesco: "Reverendissimo Monsignore, molte grazie per la sua cortese lettera del 12 gennaio e per l’allegato dono degli 11 piccoli volumi curati da Roberto Repole. Plaudo a questa iniziativa che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi. I piccoli volumi mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento. Tuttavia non mi sento di scrivere su di essi una breve e densa pagina teologica. In tutta la mia vita è sempre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso soltanto su libri che avevo anche veramente letto. Purtroppo anche solo per ragioni fisiche non sono in grado di leggere gli undici volumetti nel prossimo futuro, tanto più che mi attendono altri impegni che ho già assunti. Solo a margine vorrei annotare la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professore Hünermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per aver capeggiato iniziative anti-papali. Egli partecipò in misura rilevante al rilascio della "Kölner Erklärung", che, in relazione all’enciclica "Veritatis splendor", attaccò in modo virulento l’autorità magisteriale del Papa specialmente su questioni di teologia morale. Anche la "Europäische Theolongesellschaft", che egli fondò, inizialmente da lui fu pensata come un’organizzazione in opposizione al magistero papale. In seguito, il sentire ecclesiale di molti teologi ha impedito questo orientamento, rendendo quell’organizzazione un normale strumento di incontro fra teologi. Sono certo che avrà comprensione per il mio diniego e La saluto cordialmente".
Dopo la lettera di Benedetto eccone altre due. Di Viganò e di Francesco, scrive Sandro Magister il 21 marzo 2018 su "L'Espresso".
Secretaria Pro Communicatione. Città del Vaticano, 19 marzo 2018: "Padre Santo, in questi ultimi giorni si sono sollevate molte polemiche circa il mio operato che, al di là delle intenzioni, destabilizza il complesso e grande lavoro di riforma che Lei mi ha affidato nel giugno del 2015 e che vede ora, grazie al contributo di moltissime persone a partire dal personale, compiere il tratto finale. La ringrazio per l'accompagnamento paterno e saldo che mi ha offerto con generosità in questo tempo e per la rinnovata stima che ha voluto manifestarmi anche nel nostro ultimo incontro. Nel rispetto delle persone, però, che con me hanno lavorato in questi anni e per evitare che la mia persona possa in qualche modo ritardare, danneggiare o addirittura bloccare quanto già stabilito del Motu Proprio "L'attuale contesto comunicativo" del 27 giugno 2015, e soprattutto, per l'amore alla Chiesa e a Lei Santo Padre, Le chiedo di accogliere il mio desiderio di farmi in disparte rendendomi, se Lei lo desidera, disponibile a collaborare in altre modalità. In occasione degli auguri di Natale alla Curia nel 2016, Lei ricordava come "la riforma sarà efficace solo e unicamente se si attua con uomini 'rinnovati' e non semplicemente con 'nuovi' uomini. Non basta accontentarsi di cambiare il personale, ma occorre portare i membri della Curia a rinnovarsi spiritualmente, umanamente e professionalmente. La riforma della Curia non si attua in nessun modo con il cambiamento 'delle' persone - che senz'altro avviene e avverrà - ma con la conversione e nelle persone". Credo che il "farmi in disparte" sia per me occasione feconda di rinnovamento o, ricordando l'incontro di Gesù con Nicodemo (Gv 31,1), il tempo nel quale imparare a "rinascere dall'alto". Del resto non è la Chiesa dei ruoli che Lei ci ha insegnato ad amare e a vivere, ma quella del servizio, stile che da sempre ho cercato di vivere. Padre Santo, La ringrazio se vorrà accogliere questo mio "farmi in disparte" perché la Chiesa e il suo cammino possa riprendere con decisione guidata allo Spirito di Dio. Nel chiederLe la sua benedizione, Le assicuro una preghiera per il suo ministero e per il cammino di riforma intrapreso. Dario E. Viganò".
Reverendissimo Signore Mons. Dario Edoardo Viganò. Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede. Città del Vaticano, 21 marzo 2018: "Reverendissimo Monsignore. A seguito dei nostri ultimi incontri e dopo aver a lungo riflettuto e attentamente ponderate le motivazioni della sua richiesta a compiere "un passo indietro" nella responsabilità diretta del Dicastero per le comunicazioni, rispetto la sua decisione e accolgo, non senza qualche fatica, le dimissioni da Prefetto. Le chiedo di proseguire restando presso il Dicastero, nominandola come Assessore per il Dicastero della comunicazione per poter dare il suo contributo umano e professionale al nuovo Prefetto al progetto di riforma voluto dal Consiglio dei Cardinali, da me approvato e regolarmente condiviso. Riforma ormai giunta al tratto conclusivo con l'imminente fusione dell'Osservatore Romano all'interno dell'unico sistema comunicativo della Santa Sede e l'accorpamento della Tipografia Vaticana. Il grande Impegno [sic] profuso in questi anni nel nuovo Dicastero con Io stile di disponibile confronto e docilità che ha saputo mostrare tra i collaboratori e con gli organismi della Curia romana ha reso evidente come la riforma della Chiesa non sia anzitutto un problema di organigrammi quanto piuttosto l'acquisizione di uno spirito di servizio. Mentre La ringrazio per l'umiltà e il profondo "sensus ecclesiae", volentieri la benedico e la affido a Maria, Francesco".
POST SCRIPTUM – A pagina 6 della sua edizione in data 22 marzo, uscita nel pomeriggio di oggi, anche "L'Osservatore Romano" pubblica le due lettere di Viganò e di Francesco, compreso il refuso presente in quest'ultima. E con curiosa coincidenza, in prima pagina, subito sotto la testata, spicca un servizio sul caso Facebook con un titolo che dice: "Disinformazione per orientare".
Vaticano, Papa Francesco e il nuovo giallo-vergogna: la foto "taroccata" di Papa Ratzinger, scrive il 15 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Un nuovo, clamoroso caso in Vaticano. Dopo la lettera di Papa Ratzinger "sbianchettata", con le 2 righe mancanti che danno tutta un'altra sfumatura al suo messaggio di (apparente) entusiasmo per Papa Francesco, spunta un altro giallo Oltretevere: come riporta La Stampa, si tratta della foto della lettera diffusa dal Vaticano, nella quale le ultime due righe - quelle che introducono il passaggio omesso nel comunicato - sono state sfuocate. La Segreteria per la comunicazione ha ammesso il foto-ritocco. "Plaudo a questa iniziativa - recitava la lettera del Papa emerito come comunicato dalla Santa Sede - che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi. I piccoli volumi mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento". La parte non divulgata (ma letta pubblicamente) dalla Sala Stampa continuava però così: "Tuttavia non mi sento di scrivere su di essi una breve e densa pagina teologica perché in tutta la mia vita è sempre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso soltanto su libri che avevo anche veramente letto. Purtroppo, anche solo per ragioni fisiche, non sono in grado di leggere gli undici volumetti nel prossimo futuro, tanto più che mi attendono altri impegni che ho già assunti", Secondo Antonio Socci, in quel paragrafo si nascondeva una "elegante e sublime presa in giro", mentre per il vaticanista Sandro Magister il passaggio sullo "stolto pregiudizio" sarebbe stato una imbeccata di monsignor Edoardo Viganò, Prefetto della Segreteria per la comunicazione.
Vaticano, il monsignore di Francesco che fabbricava fake news. Dietro le dimissioni di Dario Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione del Vaticano, c'è l’ira di Benedetto XVI per la manipolazione di una sua lettera riservata. Le riforme di Bergoglio sono al palo. Per colpa dei nemici. Ma anche di troppi errori del cerchio magico del papa, scrive Emiliano Fittipaldi il 21 marzo 2018 su "L'Espresso". Papa Francesco con il monsignore Dario Edoardo ViganòLe dimissioni di Dario Eduardo Viganò, potente prefetto della Segreteria per la Comunicazione, non sono motivate, come stanno scrivendo con approssimativa celerità alcuni ultrà bergogliani, dalla guerra della curia contro le riforme volute da Francesco. Né da piccoli «errori di comunicazione» che il monsignore esperto di comunicazione avrebbe pagato a prezzo troppo caro. Le dimissioni di uno dei principali collaboratori di Bergoglio sono state provocate da una clamorosa manipolazione che il prefetto ha operato su una lettera, peraltro “riservata”, di Benedetto XVI. Che Viganò ha utilizzato per fabbricare quella che è, a tutti gli effetti, una fake news. Una contraffazione attraverso cui, qualche giorno fa, il Vaticano ha pubblicizzato non solo l'uscita di alcuni volumi sull'opera teologica di Francesco. Ma pure festeggiato al meglio – grazie alla lettura pubblica della lettera di Benedetto XVI, con significativi complimenti per Francesco – il quinto compleanno dell'elezione del papa argentino. Ebbene, si è presto scoperto che nel comunicato stampa fatto circolare da Viganò, capo assoluto di tutti i media della Santa Sede, sono stati diffusi solo alcuni capoversi del documento di Ratzinger. Quelli (che hanno subito fatto il giro del mondo) nei quali il teologo tedesco respingeva con fermezza «lo stolto pregiudizio» secondo cui Francesco sarebbe solo «un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica» e Benedetto XVI «unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi». Gli altri due capoversi della missiva, invece, sono stati espunti, cancellati. Come mai questa scelta? Il motivo è nel contenuto imbarazzante della missiva. Ratzinger infatti non solo definisce ironicamente «volumetti» i libri dedicati al suo successore, ma chiarisce anche di non volerli leggere sia «per ragioni fisiche» sia «per altri impegni che ho già assunto», e aggiunge che per questi motivi non scriverà la prefazione agli stessi che Viganò, in una precedente lettera, gli aveva chiesto. Un gran rifiuto, dunque. Non è finita. Nella lettera “personale-riservata”, che porta la data del 7 febbraio e che il prefetto dimissionario decide di sfruttare (risulta all'Espresso senza l'autorizzazione del papa emerito) un mese dopo per la campagna di lancio dell'opera teologica su Francesco, Benedetto XVI bacchetta pesantemente gli ideatori di tutta l'operazione. Spiegando a Viganò di essere rimasto «sorpreso per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor Hunermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per avere capeggiato iniziative antipapali». Un teologo, continua Ratzinger, «che attaccò in modo virulento l'autorità magisteriale del papa specialmente su questioni di teologia morale». Benedetto XVI si congeda così: «Sono certo che avrà comprensione per il mio diniego (a scrivere la prefazione all'opera su Francesco, ndr) e la saluto cordialmente». Ricevuta la risposta negativa, Viganò non si dà per vinto. Da audace uomo della propaganda decide di usufruire (possibile che Francesco non avesse letto la lettera e non avesse contezza della strategia di Viganò?) delle prime righe a suo vantaggio. Omettendo scientemente le parti più imbarazzanti (il capoverso sui «volumetti» viene letto in sala stampa, ma cancellato nel comunicato ufficiale; le critiche ai teologi autori dei libri del tutto espunte) e usando persino un programma di photoshop per rendere illeggibili, in una foto in cui compare la lettera a fianco ai “volumetti”, alcune righe del documento. La strategia sembra inizialmente funzionare: tg e giornali raccontano la lettera come la prova definitiva della profonda sintonia tra i due pontefici. La vicenda della manipolazione, una di quelle fake news che lo stesso Francesco ha definito come «serpenti astuti», viene alla luce qualche giorno dopo, grazie agli scoop del blog dell'Espresso Settimo Cielo di Sandro Magister e a quelli dell'Ap firmati da Nicole Winfield. Gli articoli provocano – soprattutto all'estero - enorme scalpore: il passo indietro di oggi è il finale inevitabile. Viganò, nella lettera di dimissioni pubblicata stamattina, non fa però alcun mea culpa al suo operato, né Francesco fa alcun cenno alle motivazioni per cui accetta, seppur a malincuore, la rinuncia l'incarico. Lo scandalo è rilevante, e dà un nuovo, duro colpo alle riforme portate avanti da Bergoglio. Che ha visto cadere, in pochi mesi, gli uomini che aveva messo a capo dei due dicasteri che lui stesso aveva creato per riformare la curia romana: se Viganò, a capo della Segretaria per la Comunicazione, è uscito di scena in queste ore, il cardinale George Pell, prefetto della segreteria dell'Economia, è stato sospeso dall'incarico lo scorso luglio perché accusato da un tribunale australiano di molestie sessuali su alcuni minori. Le riforme di Francesco tornano all'anno zero. Ma non solo per colpa degli oppositori interni, che pure sono molti e battaglieri. Ma anche per l'insipienza di alcune scelte di Bergoglio nella selezione della classe dirigente vaticana, e degli errori marchiani dei fedelissimi del suo cerchio magico.
Censurò le critiche a Bergoglio: già pronto un incarico su misura. Si dimette Viganò il portavoce del Papa. Censurò le critiche di Ratzinger a Bergoglio, scrive Fabio Marchese Ragona, Giovedì 22/03/2018, su "Il Giornale". L'ultimo faccia a faccia, due sere fa, a casa Santa Marta. Papa Francesco aveva accolto monsignore Dario Edoardo Viganò per un incontro informale, amichevole. Uno dei soliti. Il fedelissimo del Pontefice, uomo forte delle comunicazioni del Vaticano e artefice della riforma dei media della Santa Sede, aveva già fatto avere al Santo padre, il giorno prima, la sua lettera di dimissioni da Prefetto della Segreteria per la comunicazione, il super dicastero vaticano che raggruppa e sovrintende a tutti i media della piccola città-Stato. Viganò, in realtà, era intenzionato a farsi da parte già da diversi giorni, da quando si era scatenata la bufera sul caso della lettera «tagliata» di Benedetto XVI e cavalcata nell'ultima settimana soprattutto dai detrattori di Francesco. Gli stessi che, sempre più spesso, avevano tentato di colpire in ogni modo Viganò, colpevole ai loro occhi di volere stravolgere gli equilibri all'interno del Vaticano. Brianzolo, classe 1962, il monsignore chiamato da Francesco per riformare il sistema dei media per creare nuove sinergie nel corso dell'incontro con il Papa non ha usato mezzi termini: «È bene che io mi faccia da parte, per il bene della riforma. Il problema adesso sono io». E Francesco, dopo alcune resistenze, alla fine ha accettato, a patto però che Viganò rimanesse in Vaticano, all'interno della Segreteria per la comunicazione, con un ruolo di «assessore», un incarico nuovo di zecca, cucito su misura dal Papa per il suo stretto collaboratore, per dare una mano al nuovo Prefetto che sarà nominato nelle prossime settimane. «In questi ultimi giorni», aveva scritto il prelato al Papa lo scorso 19 marzo, «si sono sollevate molte polemiche circa il mio operato che, al di là delle intenzioni, destabilizza il complesso e grande lavoro di riforma che Lei mi ha affidato nel giugno del 2015 e che vede ora, grazie al contributo di moltissime persone a partire dal personale, compiere il tratto finale». Poi la richiesta dell'ormai Prefetto emerito, ribadita anche a voce al Santo padre: «Nel rispetto delle persone che con me hanno lavorato in questi anni e per evitare che la mia persona possa in qualche modo ritardare, danneggiare o addirittura bloccare quanto già stabilito, le chiedo di accogliere il mio desiderio di farmi in disparte, rendendomi, se lei lo desidera, disponibile a collaborare in altre modalità». Un chiaro segnale per il Papa: se la riforma deve andare avanti, è bene che io adesso mi faccia da parte. E così, ieri, Francesco, ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al monsignore in cui accetta «non senza qualche fatica» le sue dimissioni, manifestandogli al contempo la sua stima e il suo affetto. «Le chiedo», ha scritto il Papa ieri a Viganò, «di proseguire restando presso il Dicastero per potere dare il suo contributo umano e professionale al nuovo Prefetto e al progetto di riforma voluto dal Consiglio dei cardinali, da me approvato e regolarmente condiviso. Riforma ormai giunta al tratto conclusivo con l'imminente fusione dell'Osservatore Romano all'interno dell'unico sistema comunicativo della Santa Sede e l'accorpamento della Tipografia vaticana. La riforma della Chiesa non è anzitutto un problema di organigrammi quanto piuttosto l'acquisizione di uno spirito di servizio». Un messaggio del Papa che, confermando la sua fiducia nei confronti di monsignore Viganò, non lascia alcun dubbio: la riforma dei media andrà comunque avanti, se il tentativo era quello di bloccare la rivoluzione in corso, così non sarà.
Vaticano, papa Francesco: perchè è scoppiata la guerra tra Bergoglio e Ratzinger, scrive il 22 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Il problema fondamentale è che ci sono due Papi. Per la prima volta dopo settecento anni. Perchè il dimissionario Joseph Ratzinger, anzichè ritirarsi a vita privata nella sua Baviera, è stato lasciato (lo si è voluto lasciare) tra le mura vaticane. Nel cuore del Vaticano. La comunicazione della Santa Sede, in questi cinque anni, ha fatto sì che quella che era una traumatica successione diventasse un passaggio indolore, di continuità, nonostante le evidenti differenze tra Bergoglio e Ratzinger. Finchè, come scrive il Corriere della Sera, tutto si è incrinato proprio nel momento in cui questa "sintonia" doveva apparire più marcata: il quinto anniversario del papato di Bergoglio. E proprio in seguito a alla pubblicazione di un documento (la famosa lettera di Ratzinger) che avrebbe dovuto essere il timbro di ufficialità sulla armonia esistente tra i due pontefici, quello in carica e quello emerito. Forze, un passo troppo ardito e per il quale ora stanno scontando le conseguenze.
Vaticano, Papa Francesco: Antonio Socci il 22 Marzo 2018 su "Libero Quotidiano" svela la vera reazione di Ratzinger alla lettera taroccata. Mons. Dario Viganò, responsabile vaticano per la comunicazione, si è dimesso per le omissioni relative alla lettera di Benedetto XVI. Problema risolto? Al contrario. Perché dall'inizio della vicenda è evidente che non c'era (solo) un "caso Viganò", ma (soprattutto) un "caso Bergoglio". Il "caso Viganò" sta nel dilettantismo con cui è stata gestita l'operazione, con trovate puerili e paragrafi di Ratzinger silenziati (in quel Vaticano che pontifica contro le fake news e l'informazione parziale). Il "caso Bergoglio", molto più grave, consiste nel tentativo fatto da Bergoglio, attraverso Viganò (che è un suo fedelissimo esecutore), di ottenere da Benedetto XVI un clamoroso endorsement. In pratica voleva che papa Ratzinger approvasse pubblicamente la sua "rivoluzione". Quando il papa emerito ha risposto a Viganò che non era disposto a fare l'endorsement e che non aveva nessuna intenzione di leggere i libretti apologetici su Bergoglio, anzi era indignato perché avevano chiamato a elogiare il papa argentino chi negli anni scorsi «attaccò in modo virulento» il papato suo e di Giovanni Paolo II, a Santa Marta hanno masticato amaro. È noto infatti che poco prima Benedetto XVI aveva scritto una bellissima e densa prefazione a un libro del card. Sarah. In quel caso l'endorsement c' era stato ed entusiasta. Scopo iniziale - Invece Benedetto XVI agli emissari di Bergoglio aveva risposto un secco «no», incartato in due frasi di cortesia. Bergoglio avrebbe dovuto prendere atto del no e far riporre la lettera di Benedetto XVI, che era «riservata e personale», nel cassetto. Invece è stato deciso di usarla comunque per lo scopo iniziale. Così hanno raccontato al mondo che Benedetto XVI aveva fatto un clamoroso endorsement per papa Francesco, attaccando i suoi critici ed esaltandone la sapienza teologica (è noto che non ha nemmeno il dottorato in teologia). Un' operazione tanto spregiudicata (trasformare un no all' endorsement in un sì) non è stata certo decisa da mons. Viganò. Solo il suo "principale" poteva, tanto è vero che Bergoglio lo ha sempre difeso e nelle lettere che i due si sono scambiati ieri non c' è critica o ammissione di colpa. Mons. Viganò dice che si dimette solo perché «si sono sollevate molte polemiche» e lui non vuole danneggiare le riforme bergogliane. In pratica, vogliono evitare una vera operazione trasparenza che esigerebbe ora di pubblicare la lettera del 12 gennaio con cui Viganò chiese a Benedetto XVI quell' endorsement. Da lì si capirebbero molte cose: sia del coinvolgimento di Bergoglio, sia della risposta di Benedetto XVI. Le dimissioni di Viganò dunque non servono a fare chiarezza su una vicenda sconcertante, ma solo a mettere tutto a tacere. Perché il regista di tutta l'operazione è stato Bergoglio. Infatti, nella lettera di dimissioni, Viganò non ammette alcun suo errore e dice di poter contare sulla stima di Bergoglio, manifestatagli «anche nel nostro ultimo incontro». E Bergoglio in sostanza gli risponde: accolgo a malincuore le tue dimissioni, ma solo perché ci hanno beccato con le mani nella marmellata. Tuttavia lo ricompensa dicendogli «di proseguire restando presso il Dicastero» e inventando per lui la carica di «Assessore per poter dare il suo contributo umano e professionale al nuovo Prefetto».
Risposta negativa - Infine Bergoglio conferma il «progetto di riforma» dei media portato avanti da Viganò di cui elogia l'operato e addirittura il suo «profondo sensus ecclesiae». Evidentemente ritiene lodevole il fatto che si sia fatta passare una risposta negativa di Benedetto XVI per un endorsement a suo favore. E giudica lodevoli pure quei libretti sui quali perfino un bergogliano come Luis Badilla, del sito paravaticano "Il Sismografo", aveva sollevato grosse domande. Secondo Badilla, mons. Viganò e il responsabile della Libreria editrice vaticana, «in merito al gigantesco pasticcio della lettera del Papa emerito, letta e diffusa con omissioni e tagli non accettabili in generale secondo l'etica giornalistica e, a maggior ragione, più insopportabili quando si tratta di un documento di un ex vescovo di Roma, sono chiamati anche a spiegare - oltre alla manipolazione della lettera - un' altra questione ugualmente delicata». Badilla chiede «come è possibile che la Lev» abbia incluso fra i teologi, chiamati a elogiare il pontificato di Bergoglio, nomi per cui Benedetto XVI si esprime così severamente. «Come è stato possibile - chiede Badilla - dare tribuna ad un teologo fondatore di un'organizzazione contraria apertamente al magistero pontificio? Le parole di J. Ratzinger al riguardo sono come un macigno e si devono trarre le conseguenze». Invece Bergoglio non trae nessuna conseguenza negativa e seppellisce le dure domande di Badilla. Anzi, Bergoglio ha solo parole di approvazione ed elogio per Viganò e per il suo "sensus ecclesiae", quindi per tutta l'operazione. Che però è saltata. Un colpo durissimo per il papa argentino. Non dovuto certo allo spirito critico dei maggiori giornali italiani, ma solo alla pressante ricerca della verità della rete e dei blog. Antonio Socci
Vaticano, continua la stagione dei corvi: chi c’è dietro l'uscita di Viganò. Luigi Bisignani a IL TEMPO del 25 marzo 2016. Chi c’è dietro le dimissioni del pr del Papa di Luigi Bisignani. Caro direttore, non sempre tutti i salmi finiscono in gloria. L’affaire delle clamorose dimissioni di don Dario Viganò, rais della comunicazione vaticana, è ancora tutto da scrivere e s’intreccia con i veleni dei Sacri Palazzi e dei grandi broadcaster internazionali, all’ombra di quello che è ormai definito il “cerchio gaucho” di Papa Francesco. Il Pontefice ha perso tre dei suoi più fidati collaboratori: Monsignor Vallejo Balda, arrestato, condannato ed oggi esiliato per divulgazione di documenti, il Cardinale George Pell, rispedito in Australia per difendersi dalle accuse di pedofilia, e da pochi giorni Dario Viganò, rimosso dal suo incarico di Prefetto ma lasciato negli stessi uffici, nonostante l’irritazione di due figure importanti come Benedetto XVI e il segretario di Stato Pietro Parolin. Francesco, però, non poteva fare altrimenti, anche perché è sempre l’ex potente prefetto alla comunicazione vaticana che deve destreggiarsi per rispettare gli impegni milionari presi, tra gli altri, con la Sony e con Sky. Partiamo da lontano, dunque, per capire come si sviluppa la galassia Viganò. La scintilla imprenditoriale, che fa nascere l’idea magistrale di un Bergoglio superstar mediatico, prende l’avvio quando Paolo Sorrentino decide di girare The young Pope. Risale a quei giorni anche la teorizzazione di un «sistema comunicativo globale» intorno alla figura di Francesco, a immagine di quello che la Walt Disney è nel mondo dell’entertainment con il brand “Pope”. E visto che il motu proprio istitutivo della “Segreteria della comunicazione vaticana” sembrava sposare questa tesi, in tanti ci hanno puntato. Per prima la Sony, fornendo (sulla fiducia) il costoso materiale per un sistema televisivo che voleva diventare “amerikano”: alta definizione a 4K, trasmissioni 3D e tutto l’arsenale mediatico più avanzato. Poi è stata la volta di Sky, certa di diventare il provider mondiale delle immagini del Papa e di eventi megagalattici. E infatti, per due anni, Sky Uno ha trasmesso h24 ogni viaggio papale. Dopo le dimissioni di Viganò, a Sky sono in frenetica attesa di sapere con chi dovranno ora interloquire. Prima delle dimissioni del monsignore erano tranquilli, perché gli intrecci tra Sky e la struttura di Viganò erano sempre più coinvolgenti. Fiore all’occhiello, anche un corso di giornalismo web all’Università del Laterano che lo stesso Viganò dirige insieme all’ormai ex direttore delle news di Sky e neoparlamentare 5 stelle, Emilio Carelli. Viganò-Carelli diventa un binomio affiatatissimo per il lancio di alcune iniziative fortunate, come la distribuzione dei cd del Coro della Cappella Sistina e di prodotti che hanno trovato entusiastica accoglienza pure in Rai. Infine sono iniziati gli “eventi culturali”, come quello in corso sulla genesi della cappella Sistina dove entrano in gioco alcune aziende, tipo “l’officina della comunicazione” e nel quale, forse per la fretta di concludere i lavori, gli esperti hanno riscontrato alcuni errori, come la cronologia dei Papi sbagliata o Michelangelo messo a lavorare sulla cupola di San Pietro l’anno in cui è nato. Anche in Vaticano, come dappertutto, quando qualcuno cade in disgrazia sono tutti pronti ad ogni tipo di maldicenze. Ed ecco che ora la Segreteria di Stato si vede costretta, in seguito a segnalazioni anonime, ad esaminare bilanci e documentazione su collaboratori di alcune società di comunicazione che si ritrovano sempre, accanto al logo della Segreteria della Comunicazione, come partecipanti o azionisti di opere ed eventi, compreso il film-intervista sul Papa diretto da Wim Wenders. Ma i veleni non finiscono qui e, visto che questo cataclisma nasce da una missiva taroccata, tutti ora a chiedersi di chi è la manina che ha allungato al principe dei vaticanisti, Sandro Magister, via Osservatore Romano, la lettera integrale scritta da Benedetto XVI. Ancora una volta è un documento che esce dalla scrivania di Benedetto, ma Gabriele, il maggiordomo infedele, non c’è più e non può essere incolpato. Chi è stato allora? Negli ambienti della Gendarmeria stanno cercando di capire. E c’è qualcuno, anche in Segreteria di Stato, che vuole chiedere lumi ad un personaggio chiave, anello di congiunzione tra i due Papi, molto amato dai media e straordinariamente efficiente: Padre Georg, Prefetto scaduto della Casa Pontificia, non ancora rinnovato, che certamente non gradiva l’intraprendenza di Viganò. In attesa di trovare la manina, Viganò, nonostante le dimissioni resta la star della comunicazione, capace perfino di licenziare, due giorni prima dello scandalo, i poveri salesiani dalla tipografia vaticana, senza neppure avvertire il Segretario di Stato. La stagione dei corvi sembra non avere mai fine.
Papa Ratzinger, sulla Bild le lettere a un vescovo tedesco: «Contro di me la rabbia dei conservatori». Il tabloid tedesco pubblica stralci di una lettera che il Papa emerito avrebbe inviato nel novembre 2017 a un cardinale tedesco: «Rabbia verso mia persona e mio pontificato», scrive Gian Guido Vecchi il 21 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Benedetto XVI denuncia la «rabbia» di alcuni sostenitori conservatori contro di lui per le sue dimissioni. Il tabloid tedesco Bild pubblica stralci di una lettera che il Papa emerito avrebbe inviato nel novembre 2017 a un «cardinale tedesco»: probabilmente Walter Brandmüller - tra gli oppositori e firmatari dei «Dubia» contro Francesco - che aveva criticato la rinuncia. «In alcuni e anche in lei, il dolore è diventato una rabbia che non riguarda più solo la rinuncia ma si estende sempre più alla mia persona e al mio pontificato... Il pontificato stesso è stato svalutato e confuso con la tristezza sulla situazione della Chiesa oggi», scriverebbe Ratzinger nella lettera, di cui la Bild sostiene di essere in possesso, mostrando uno stralcio in tedesco. Il tema della «preoccupazione» per la Chiesa attuale, in Ratzinger, non è affatto nuovo, né legato necessariamente alla data del 2017 (quella della lettera). Il Papa emerito ne parlava già in «Introduzione al cristianesimo» (1968) e la citava nella via Crucis 2005: «Quanta sporcizia!». Sulla rinuncia, secondo quanto riferito dalla Bild, nella lettera Ratzinger aggiunge con sarcasmo, rivolto al suo interlocutore: «Se conosce un modo migliore e crede di poter condannare quello da me scelto, la prego di dirmelo». Poi prega «che il Signore venga in aiuto della Sua Chiesa».
Vaticano, spunta una lettera segreta di Benedetto XVI sulla motivazione delle sue dimissioni, scrive il 21 Settembre 2018 Libero Quotidiano. Benedetto XVI torna a far parlare di sé. Il tabloid tedesco Bild pubblica alcuni passaggi di una lettera, datata novembre 2017 e inviata dal Papa ad un cardinale tedesco, di cui però non si conosce l'identità. Tra i nomi papabili spunta Walter Brandmüller, uno dei quattro porporati contrari alla linea del Vaticano, nonché firmatari dei "Dubia" contro il nuovo Papa. "In alcuni e anche in lei, il dolore è diventato una rabbia che non riguarda più solo la rinuncia ma si estende sempre più alla mia persona e al mio pontificato... Il pontificato stesso è stato svalutato e confuso con la tristezza sulla situazione della Chiesa oggi", si legge. Una denuncia rivolta ad alcuni sostenitori conservatori, che si sono pronunciati contro le sue dimissioni. Ma Benedetto XVI non rinuncia a rispondere al cardinale in questione: "Se conosce un modo migliore delle dimissioni e crede di poter condannare quello da me scelto, la prego di dirmelo". Poi conclude, tornando nei panni di uomo di religione: "Piuttosto preghiamo, come ha fatto a conclusione della Sua lettera, che il Signore venga in aiuto della Sua Chiesa. Con la mia apostolica benedizione, suo, Benedetto XVI".
E Benedetto XVI scrisse: basta, c’è un solo Papa, e non sono io. Le lettere di Ratzinger al cardinale Walter Brandmüller pubblicate dalla “Bild” sono solo l’ultimo tentativo di strumentalizzarlo da parte dei sedicenti ratzingeriani, scrive il 21/09/2018 Andrea Tornielli su La Stampa. Quella del Papa emerito al cardinale Walter Brandmüller pubblicata dalla Bild non era “una” lettera. Erano in realtà due missive. Nella prima, scritta il 9 novembre 2017, Benedetto XVI commentava l’intervista che Brandmüller aveva rilasciato il 28 ottobre alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. La seconda è del 23 novembre, ed è stata scritta da Ratzinger in risposta ad una missiva del cardinale. Le due lettere, inizialmente presentate come una, sono state interessatamente rilanciate per contrapporre l’emerito al Papa regnante. Vale la pena di esaminare innanzitutto la prima lettera. Benedetto XVI risponde alle affermazioni di Brandmüller a proposito della rinuncia al pontificato. Il cardinale, studioso di storia della Chiesa, aveva affermato che Ratzinger decidendo di farsi chiamare “Papa emerito” aveva creato una figura inesistente in tutta la storia della Chiesa. Ecco come risponde l’interessato: «Lei ovviamente sa molto bene che – sebbene rarissimamente – ci sono stati Papi che si sono ritirati. Cosa erano dopo? Papi emeriti? O che cosa altro?». Benedetto XVI introduce qui un esempio, che ha dato adito a molte speculazioni. «Come Lei sa - scrive Ratzinger a Brandmüller - Pio XII ha lasciato un chiarimento nel caso in cui fosse stato arrestato dai nazisti, in base al quale, dal momento dell’arresto non sarebbe più stato Papa. Non sappiamo se questo ritorno al cardinalato sarebbe stato effettivamente semplice». Benedetto si riferisce qui alla lettera che Papa Pacelli aveva lasciato nel caso di sua deportazione: il collegio cardinalizio avrebbe dovuto considerarlo decaduto e procedere all’elezione del successore. «Così i nazisti deporteranno il cardinale Pacelli, non il Papa», aveva confidato Pio XII ai collaboratori. L’esempio del Papa deportato dai nazisti ha fatto rizzare le antenne agli amanti dei complotti: perché Benedetto XVI ha citato proprio questo esempio? Forse anche lui si è dimesso perché costretto, perché temeva? Da chi sono rappresentati oggi i nemici, i nazisti che minacciavano di arrestare Pio XII? Dal seguito della lettera appare però evidente che l’esempio viene citato non per proporre un parallelismo di situazione - oggettivamente infondato - ma per attirare l'attenzione sulla parte riguardante l'automatico ritorno del Papa rinunciatario al rango di porporato nel collegio cardinalizio. «Nel mio caso - scrive ancora Ratzinger a Brandmüller - sicuramente non sarebbe stato sensato dichiarare semplicemente un ritorno al cardinalato. Sarei stato permanentemente esposto al pubblico come appunto è un cardinale – anzi, di più, perché in lui si sarebbe visto l’ex Papa. Ciò avrebbe potuto condurre, volendo o non volendo, specialmente nel contesto della situazione attuale, a conseguenze pesanti. Con il Papa emerito ho cercato di creare una situazione nella quale io fossi per i mass media assolutamente inaccessibile e nella quale fosse pienamente chiaro che c’è solo un Papa. Se lei conosce una via migliore e crede di poter condannare quella da me scelta, la prego di dirmelo. La saluto nel Signore». Dunque Benedetto, spazzando via ancora una volta le assurde teorie sul “papato condiviso”, sul Papa dimissionario che non si è dimesso del tutto, sul Papa che rimane il vero Papa, come pure le sciocchezze ammantate di consistenza canonistica sull’esistenza di un “munus petrinum” a sé stante rispetto al suo concreto esercizio - che farebbe dunque permanere il munus anche a colui che non esercita più la giurisdizione di Vescovo di Roma - cerca di mettere la parola fine sulle elucubrazioni riguardanti la sua rinuncia. A questa lettera, Brandmüller risponde il 15 novembre 2017, scusandosi con Benedetto per le affermazioni sostenute nell’intervista: si dice dispiaciuto e assicura che non dirà più nulla in proposito, ma con ogni probabilità insiste anche sul “dolore” provocato dalla decisione della rinuncia. Il Papa emerito, che evidentemente era rimasto toccato e ferito dalle parole di Brandmüller, replica il 23 novembre, con un’ulteriore missiva, ringraziandolo per l’impegno di non porre più le domande sulle dimissioni. Quindi Ratzinger continua: «Posso ben capire il profondo dolore che Lei e molti altri avete provato con la fine del mio pontificato, ma il dolore, così mi sembra, in alcuni e anche in Lei è diventato una rabbia che non riguarda più solo la rinuncia, ma si estende sempre più anche alla mia persona e al mio pontificato nel suo insieme». «In questo modo il pontificato stesso è stato svalutato e confuso con la tristezza sulla situazione della Chiesa oggi». E questo dolore trasformato in rabbia è diventato una «forma di agitazione». Il Papa emerito cita come esempio la recente pubblicazione del libro di Fabrizio Grasso La rinuncia. Dio è stato sconfitto?, e il riferimento a un possibile scisma che il cardinale citava esplicitamente nell'intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. La conclusione della lettera è un invito a Brandmüller a pregare perché «il Signore venga in aiuto della Sua Chiesa. Con la mia apostolica benedizione, suo, Benedetto XVI». La frase sulla «situazione della Chiesa oggi» è stata rilanciata come un giudizio pesante del Papa emerito sul successore. Anche se questa appare una lettura semplicistica e riduttiva: la situazione della Chiesa oggi è la situazione della Chiesa del nostro tempo, non soltanto identificabile con gli ultimi cinque anni. Se così fosse, bisognerebbe infatti supporre che i problemi, gli abusi sessuali, l’infedeltà del clero, i dissensi dottrinali sbandierati, i carrierismi e le cordate di potere, siano fenomeni spuntati all’improvviso dopo il 2013 e che fino a quel momento la vita della Chiesa fosse stata ideale. Peraltro, proprio Joseph Ratzinger, ancora giovane e brillante teologo, nell’ottobre 1958 scrisse un saggio intitolato “Diue neuen Heiden und die Kirche”, “I nuovi pagani e la Chiesa”. Il timore che la Chiesa si stesse “mondanizzando” era già presente nella sua riflessione teologica. Di certo la pubblicazione delle lettere di Brandmüller rappresenta soltanto l’ultimo episodio di uso strumentale del Papa emerito. C’è da chiedersi perché l’anziano porporato tedesco abbia fatto circolare le due missive: difficile immaginare che la Bild le abbia “rubate” penetrando nella sua abitazione in Vaticano, trattandosi di esemplari cartacei e dunque non presenti nella memoria del computer del porporato. In questione è la rete ecclesiastico-mediatica, con sponde in Vaticano, protagonista dei quotidiani attacchi contro Papa Francesco. Una rete che ha ripetutamente tentato di arruolare Benedetto XVI usandolo contro il predecessore. Peraltro, la discussione sulla figura, non ancora codificata, del “Papa emerito” è un tema sul quale in futuro la Chiesa dovrà riflettere. Benedetto ha fatto una scelta, ma ha intelligentemente deciso di non codificarla. È fuori dubbio che la decisione di conservare il nome pontificale, l’abito bianco e il titolo di “Papa emerito” (dove la parola Papa viene prima dell’aggettivo emerito), insieme ad alcune esternazioni dei collaboratori, hanno contribuito a fomentare dubbi, incertezze e persino, in qualcuno, l’idea di un Papa emerito ancora un po’ Papa, che diventa punto di riferimento della fronda dei delusi del Papa regnante. (Ha collaborato Iacopo Scaramuzzi)
Ratzinger chiarisce ancora in una lettera: "C'è solo un Papa". Joseph Ratzinger, attraverso una lettera indirizzata a un cardinale tedesco, ha ribadito ancora una volta che l'unico pontefice è Jorge Mario Bergoglio. Gli estratti delle due missive pubblicate di recente, però, continuano a far discutere a essere interpretate in modi differenti, scrive Francesco Boezi, Venerdì 21/09/2018, su "Il Giornale". Il Papa è uno solo ed è Francesco. Questo, in estrema sintesi, è il messaggio deducibile da un altro estratto di una di quelle che si sono rivelate essere non una, ma ben due lettere di Joseph Ratzinger, indirizzate entrambe a un cardinale tedesco, che corrisponde al nome di Walter Brandmueller. Della pubblicazione di alcuni passaggi di una di queste missive da parte della Bild avevamo già parlato ieri. Adesso, leggendo su Vatican Insider, si possono conoscere altri virgolettati. In primis il riferimento all'ipotesi fatta da Pio XII rispetto a una sua eventuale rinuncia al pontificato: "Come Lei sa - ha specificato Benedetto XVI - Pio XII ha lasciato un chiarimento nel caso in cui fosse stato arrestato dai nazisti, in base al quale, dal momento dell’arresto non sarebbe più stato Papa. Non sappiamo se questo ritorno al cardinalato sarebbe stato effettivamente semplice". Tramite questo passaggio, il "mite professore" di Tubinga, sembrerebbe contestare una critica alla modalità scelta per rinunciare al soglio di Pietro. Come se qualcuno gli avesse suggerito che sarebbe stato più opportuno tornare a ricoprire la "semplice" carica di cardinale. Ecco, quindi, la parte centrale, all'interno della quale Benedetto XVI spiega che il pontefice è uno solo e che questo pontefice non è lui: "Nel mio caso - ha proseguito il papa emerito riferendosi sempre alla possibilità di indossare di nuovo la berretta rossa - sicuramente non sarebbe stato sensato dichiarare semplicemente un ritorno al cardinalato. Sarei stato permanentemente esposto al pubblico come appunto è un cardinale – anzi, di più, perché in lui si sarebbe visto l’ex Papa. Ciò - ha scritto il teologo tedesco - avrebbe potuto condurre, volendo o non volendo, specialmente nel contesto della situazione attuale, a conseguenze pesanti. Con il Papa emerito ho cercato di creare una situazione nella quale io fossi per i mass media assolutamente inaccessibile e nella quale fosse pienamente chiaro che c’è solo un Papa. Se lei conosce una via migliore e crede di poter condannare quella da me scelto, la prego di dirmelo. La saluto nel Signore". A questo punto il cardinale teutonico avrebbe risposto e Ratzinger avrebbe replicato ancora. Una parte della risposta dell'emerito sarebbe costituita da uno dei passaggi emersi durante la giornata di ieri, quello in cui l'ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede dice: "Posso ben capire il profondo dolore che Lei e molti altri avete provato con la fine del mio pontificato, ma il dolore, così mi sembra, in alcuni e anche in Lei è diventato una rabbia che non riguarda più solo la rinuncia, ma si estende sempre più anche alla mia persona e al mio pontificato nel suo insieme". E ancora: "In questo modo il pontificato stesso è stato svalutato e confuso con la tristezza sulla situazione della Chiesa oggi". Di questo carteggio esistono almeno due interpretazioni: quella che evidenzia la frase in cui il papa emerito cita, una volta ancora, la crisi della Chiesa contemporanea e quella che sostiene che, per mezzo di questa missiva, Benedetto XVI abbia voluto ribadire a un cardinale che l'unico pontefice è Jorge Mario Bergoglio.
Altro che continuità, qui c'è una voragine. La vera storia degli undici libretti, scrive il 26 marzo 2018 Sandro Magister su "L'Espresso". A distanza di giorni è sempre più evidente che Francesco non ha affatto licenziato o punito monsignor Dario Edoardo Viganò, per come ha utilizzato la lettera che Benedetto XVI gli aveva scritto. Al contrario, ne ha confermato e persino rafforzato i poteri, rinnovandogli esplicitamente il mandato di portare presto a termine l'accorpamento di tutti i media vaticani, compreso "L'Osservatore Romano", in un "unico sistema comunicativo" tutto controllato da lui, in filo diretto col papa e finalizzato a curarne l'immagine di pastore esemplare e ora anche di colto teologo. L'operazione che ha fatto perno sulla lettera di Benedetto, infatti, è parte di questo disegno complessivo.
L'origine dell'operazione risale allo scorso autunno, quando Viganò porta alla testa della Libreria Editrice Vaticana un nuovo direttore, Giulio Cesareo, 39 anni, francescano, studi teologici a Friburgo, docente di teologia morale. Il 12 ottobre 2017, giorno della nomina, i due sono alla Buchmesse di Francoforte. Viganò dichiara che il cambio di direttore della Libreria Editrice Vaticana "configura un nuovo tassello importante nel processo di riforma chiesto dal Santo Padre". Ed entrambi annunciano che il nuovo corso dell'editrice sarà inaugurato da una collana di undici volumetti di altrettanti autori, finalizzata a "mostrare la profondità delle radici teologiche del pensiero, dei gesti e del ministero di papa Francesco". Nei giorni di Natale la collana esce nelle librerie di Roma. E tra gli autori compaiono nomi di spicco del campo teologico progressista, o comunque sostenitori del "cambio di paradigma" messo in moto da Francesco, come gli argentini Carlos Galli e Juan Carlos Scannone, i tedeschi Peter Hünermann e Jürgen Werbick, gli italiani Aristide Fumagalli, Piero Coda, Marinella Perroni e Roberto Repole, il gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik, quest'ultimo apprezzato artista oltre che teologo, nonché da qualche tempo direttore spirituale dello stesso Viganò. Nella scelta di questi autori, è particolarmente significativa quella di Hünermann. Ha due anni meno di Joseph Ratzinger e ne è stato per tutta la vita avversario irriducibile, tra l'altro sostenendo una strana tesi sulla natura del Concilio Vaticano II che lo stesso Ratzinger, divenuto papa col nome di Benedetto XVI, si sentì in dovere di citare e di confutare nel memorabile suo discorso del 22 dicembre di quello stesso anno, sulla retta interpretazione di quel Concilio.
Disse Benedetto, con un riferimento implicito a Hünermann che non sfuggì agli intenditori: "[Da qualcuno] il Concilio viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore".
Quanto a Jorge Mario Bergoglio, Hünermann lo conosce fin dal lontano 1968, quando soggiornò per un periodo di studio a Buenos Aires nel collegio dei gesuiti. E con lui, divenuto papa, ha avuto un lungo colloquio a Santa Marta nel maggio del 2015, nell'intervallo tra i due sinodi su matrimonio e divorzio. I particolari di questo colloquio Hünermann li ha riferiti in un'ampia intervista a "Commonweal" del 22 settembre 2016. Sollecitato da amici latinoamericani di Bergoglio, Hünermann inviò al papa un rapporto scritto nel quale argomentava che nella teologia cattolica prima del Concilio di Trento, specie in Tommaso e Bonaventura, l'indissolubilità del matrimonio non fosse un assoluto, ma ne fosse ammessa la rottura. E così per l'assoluzione sacramentale dell'adulterio, anch'essa ammessa pur nel perdurare della relazione. Nel successivo colloquio con papa Francesco i due parlarono di questo, in spagnolo, per un'ora. E poi venne, l'anno dopo, l'esortazione "Amoris laetitia", la quale, a detta di Hünermann, fece tesoro di questo suo contributo. Ebbene, il 12 gennaio di quest'anno, appena passate le feste natalizie, Viganò invia a Benedetto XVI gli undici volumetti raccolti in un cofanetto, assieme a una lettera nella quale gli chiede di scrivere una presentazione degli stessi, elogiandone il contenuto e raccomandandone la lettura. Di questa lettera di Viganò non si conosce il testo. Ma la sostanza di ciò che vi è scritto la si ricava dalla lettera di risposta di Benedetto XVI, in data 7 febbraio e questa, sì, divenuta successivamente nota. È evidente l'intento della richiesta rivolta da Viganò al papa emerito. È quello di strappare al grande teologo Benedetto XVI la sua approvazione pubblica del "nuovo paradigma" del suo successore, così come illustrato, nei volumetti, da una schiera di teologi reclutati tra gli apologeti del nuovo corso. Visti il contenuto e gli autori dei volumetti, l'improntitudine della richiesta fatta da Viganò a Benedetto XVI lascia allibiti. È del tutto negativa, infatti, la risposta di Benedetto, nella lettera "personale riservata" da lui inviata a Viganò il 7 febbraio. Il papa emerito rifiuta di scrivere sui volumetti la "breve e densa pagina teologica" che gli è stata richiesta. Dice che non li ha letti e che non li leggerà neanche in futuro. Esprime la sua "sorpresa" nel vedere tra gli autori prescelti "il professor Hünermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per aver capeggiato iniziative anti-papali". Inoltre, nel rispondere a Viganò, Benedetto si sente in dovere di allontanare da sé lo "stolto pregiudizio" secondo cui egli sarebbe stato "unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi". Così come è ingiusto, scrive, dire che "papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica e filosofica". Perché certamente, insiste, egli "è un uomo di profonda formazione teologica e filosofica". Se si vuole riconoscere una "continuità" tra il suo pontificato e quello di Francesco, Benedetto XVI specifica che tale continuità è da ritenersi "interiore".
Il seguito è noto. La sera del 12 marzo, alla vigilia del quinto compleanno dell'elezione di papa Francesco e in occasione di un rilancio in pompa magna in Vaticano – con primo relatore il cardinale Walter Kasper – degli undici volumetti, Viganò distribuisce un comunicato stampa nel quale, della lettera di Benedetto XVI, cita soltanto le poche righe relative alla "profonda formazione teologica" di Bergoglio e alla continuità tra i due pontificati. E inizialmente Viganò ottiene in pieno ciò che si prefigge, cioè un compatto coro di osanna, nei media soprattutto italiani, per la presunta adesione pubblica di Benedetto XVI al nuovo corso di papa Francesco. Senonché l'indomani, 13 marzo, Settimo Cielo pubblica anche l'altro paragrafo della lettera di Benedetto, quello col suo rifiuto di leggere e scrivere alcunché di quei libretti, paragrafo anch'esso frettolosamente letto in pubblico da Viganò la sera prima, ma del tutto ignorato dalle due dozzine di giornalisti presenti. Ed è tempesta. Perché dai media di tutto il mondo si rovescia ora su Viganò l'accusa di aver costruito e diffuso una "fake news" di gravità inaudita, non solo col comunicato stampa, ma anche con la foto ufficiale della lettera di Benedetto XVI, oscurata nelle sue righe più scomode. La tempesta raggiunge il suo acme la mattina del 17 marzo, quando di nuovo Settimo Cielo anticipa l'ultimo paragrafo della lettera, quello con il riferimento a Hünermann. Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, Viganò è quindi costretto a rendere pubblico il testo completo della lettera di Benedetto XVI. Due giorni dopo, il 19 marzo, egli chiede per iscritto a papa Francesco di accogliere le sue dimissioni da prefetto della segreteria per la comunicazione. E il 21 marzo Francesco le accoglie, sia pure, scrive, "non senza qualche fatica". Le loro due lettere, in realtà, entrambe rese note a mezzogiorno del 21 marzo, non denotano il minimo cenno di ravvedimento per l'inaudita macchinazione compiuta ai danni di Benedetto XVI, che neppure viene nominato. Viganò, nella sua lettera al papa, lamenta unicamente le "molte polemiche circa il mio operato che, al di là delle intenzioni, destabilizza il complesso e grande lavoro di riforma che Lei mi ha affidato". E Francesco, nella sua lettera di risposta, preceduta da colloqui ed incontri personali tra i due, non fa altro che coprire Viganò di elogi per l'opera di riforma da lui compiuta fin lì, e gli riconferma il mandato di portarla a compimento, nel nuovo ruolo di "assessore" creato apposta per lui nella segreteria per la comunicazione.
Ma tornando alla lettera di Benedetto XVI del 7 febbraio, è utile esaminare più da vicino il suo riferimento a Hünermann. Di lui egli scrive che "partecipò in misura rilevante al rilascio della 'Kölner Erklärung', che, in relazione all'enciclica 'Veritatis splendor', attaccò in modo virulento l'autorità magisteriale del papa specialmente su questioni di teologia morale". In effetti, la "Dichiarazione di Colonia" fu un attacco frontale sferrato nel 1989 da numerosi teologi in prevalenza tedeschi contro l'insegnamento di Giovanni Paolo II e del suo prefetto di dottrina Joseph Ratzinger, soprattutto in materia di teologia morale. A far da detonatore di quella protesta fu la nomina ad arcivescovo di Colonia del cardinale Joachim Meisner, lo stesso che nel 2016 è stato tra i firmatari dei "dubia" sottoposti a papa Francesco riguardo ad "Amoris laetitia" e sul quale nel 2017, nel giorno della sua sepoltura, Benedetto XVI ha scritto parole profonde e toccanti. Tra i firmatari della "Dichiarazione di Colonia" c'era il Gotha del progressismo teologico, da Hans Küng a Bernhard Häring, da Edward Schillebeeckx a Johann Baptist Metz. E c'erano due degli autori degli odierni undici volumetti sulla teologia di papa Francesco: Hünermann e Werbick.
Alle tesi della "Dichiarazione di Colonia" Giovanni Paolo II reagì nel 1993 con l'enciclica "Veritatis splendor". La quale però non è mai citata da Francesco in "Amoris laetitia". Mentre viceversa "Amoris laetitia", nei paragrafi 303-305, riprende e fa proprie alcune tesi della "Dichiarazione di Colonia", specie là dove, nel suo terzo e ultimo punto, questa assegna il giudizio nelle scelte morali alla coscienza e alla responsabilità dei singoli. In quel medesimo terzo punto la "Dichiarazione di Colonia" attacca frontalmente l'enciclica di Paolo VI "Humanae vitae" e rivendica la liceità dei contraccettivi. E anche su questo punto il pontificato di Bergoglio si sta muovendo nella stessa direzione. Al contrario, nel testo forse più ampio e meditato finora pubblicato da Benedetto XVI dopo la sua rinuncia al papato, in un volume a più voci del 2014 su Giovanni Paolo II, il papa emerito non esita a indicare proprio nella "Veritatis splendor" l'enciclica più cruciale di quel pontificato per il tempo presente. "Studiare e assimilare questa enciclica – conclude – rimane un grande e importante dovere". Non è un caso che tre dei cinque "dubia" sottoposti a Francesco da alcuni cardinali nel 2016 vertano proprio sul rischio di abbandono dei fondamenti della dottrina morale ribaditi da "Veritatis splendor". E nemmeno è un caso che Ratzinger abbia richiamato, nella sua lettera a Viganò, proprio la contestazione dei principi di "Veritatis splendor" da parte dei teologi della "Dichiarazione di Colonia", oggi riportati clamorosamente in auge da Francesco. Un papa la cui "continuità" col predecessore davvero può essere, a questo punto, tutta e solo "interiore".
POST SCRIPTUM – Il 25 marzo, in piazza San Pietro, nell'omelia della messa della domenica delle Palme, papa Francesco ha impartito questa lezione a chi costruisce una falsa notizia "nel passaggio dal fatto al resoconto": "È la voce di chi manipola la realtà e crea una versione a proprio vantaggio e non ha problemi a 'incastrare' altri per cavarsela. È il grido di chi non ha scrupoli a cercare i mezzi per rafforzare sé stesso e mettere a tacere le voci dissonanti. È il grido che nasce dal 'truccare' la realtà". Il papa ha detto ciò senza arrossire, come dimentico di ciò che è stato fatto pochi giorni prima in casa sua, col "resoconto" della lettera di Benedetto XVI.
Antonio Socci su "Libero Quotidiano": "Così Papa Francesco smentisce Scalfari ed evita il processo dei cardinali", scrive l'1 Aprile 2018. I calcinacci caduti venerdì nella basilica di San Pietro sembrano il segno della disastrosa Pasqua 2018 di papa Bergoglio e del suo pontificato in declino. Dopo mesi di incidenti e scivoloni adesso è scoppiato il giallo dell'intervista con Scalfari sull'inferno. Voleva essere un clamoroso tentativo di recupero di consenso come «papa rivoluzionario» (ama definirsi così) ed invece è stato un passo falso gravissimo. Lo ha capito giovedì mattina quando ha ricevuto una certa durissima telefonata (lo vedremo poi) ed è corso ai ripari. Ma il sito paravaticano "Il Sismografo" ieri lamentava che nonostante la «smentita» quella «presunta frase attribuita al Papa - qualcosa come "l'Inferno non esiste" - ormai da 48 ore è una vera valanga sulla rete e se ne parla in tutte le lingue». In effetti il clamore è grande all' estero, ma non sulla stampa italiana. E soprattutto - a due giorni da quella «smentita» vaticana - Repubblica non ne ha nemmeno dato notizia. Come se fosse inesistente. Perché? Non è un comportamento insolito? E come mai i giornali italiani hanno tenuto la sordina? Per non pestare i piedi al Vaticano e a Repubblica? È strano. Infatti per questa vicenda è aleggiato (e potrebbe ancora aleggiare) su papa Bergoglio addirittura lo spettro dell'impeachment che può costare il papato (per eresia).
FAKE NEWS? - Così come aleggia pure una sorta di pubblica delegittimazione moral-professionale sul papa laico della stampa italiana, il suo amico e confidente Eugenio Scalfari. In effetti chi dice la verità? I casi sono due: o Bergoglio ha fatto quelle esplosive affermazioni eretiche che hanno portato The Times a titolare «Papa Francesco abolisce l'Inferno», oppure Scalfari si è inventato quello scoop facendo uno scivolone professionale inaudito e minando la credibilità di Repubblica, cosa clamorosa nel tempo in cui ogni giorno tuonano contro le fake news. Se è vera la dichiarazione di Bergoglio siamo di fronte al più colossale colpo di scena della bimillenaria storia del papato. Se quella dichiarazione non fosse vera lo scoop di Repubblica sarebbe la fake news del secolo. O è una cosa o è vera l'altra. Tertium non datur. C'era una sola terza spiegazione che poteva rattoppare alla meglio il buco, ma in Vaticano non l'hanno scelta. Infatti - dando per scontato che Scalfari non possa essersi inventato di sana pianta quel colloquio sull' inferno - la vicenda poteva chiudersi se il comunicato vaticano avesse ammesso che i due si sono intrattenuti a conversare su quell' argomento escatologico, ma Scalfari aveva inteso completamente a rovescio quanto detto da Bergoglio. Bastava che il papa, tramite il portavoce, ribadisse il suo fermo e convinto rifiuto di quelle tesi eretiche e la sua chiara ed esplicita adesione al credo della Chiesa, aggiungendo che c'era stato un colossale malinteso. È vero che Scalfari ne sarebbe uscito malissimo, come uno che prende fischi per fiaschi, ma il caso si sarebbe chiuso. Invece non è stata questa la «smentita» vaticana. Infatti il Vaticano non nega che i due hanno parlato di quell' argomento e non dice che Scalfari ha capito a rovescio, ma afferma solo che il testo di Scalfari è «frutto della sua ricostruzione» in cui «non vengono citate le parole testuali» del Papa.
Ma quali sono quelle parole testuali? Perché non ce lo rivelano? Ogni intervista è una ricostruzione. Il Vaticano doveva dirci se Bergoglio disconosce e respinge quella tesi che gli è stata attribuita oppure no (le anime dannate «non vengono punite non esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici»). Perché non lo ha fatto? Se lo sono chiesto, in America, anche autorevoli intellettuali cattolici. Perché il Vaticano non ha smentito la sostanza? La storiella della forma da attribuire al giornalista è cosa vecchia: si era già cimentato su questo il precedente portavoce papale, padre Lombardi, dopo le prime due chiacchierate-interviste fra Scalfari e Bergoglio. Tutte le prese di distanza vaticane si erano poi dissolte davanti alla decisione del papa di ripubblicare in un suo libro quelle interviste e così accreditarle.
ANCORA UNA VOLTA - Del resto Scalfari giovedì ha premesso che ha incontrato per l'ennesima volta Bergoglio «su suo invito». Perché Bergoglio lo invita se sa che poi c' è il rischio che faccia un suo «esplosivo» resoconto non autorizzato attribuendogli enormità che non pensa? Vogliono far credere che anche stavolta ci sono cascati, per l'ennesima volta, senza volerlo? C' è da dubitarne. Come c' è da dubitare che Repubblica stampi questi colloqui senza alcuna forma di consenso dell'interessato. The Times ha interpellato un esperto che su quelle dichiarazioni «tende a credere più a Scalfari che al Vaticano» perché se sai che qualcuno stravolge i tuoi pensieri tu «non continui a invitarlo». C' è quindi un gioco delle parti fra Scalfari e Bergoglio che va avanti da cinque anni e che consente al papa argentino di usare una sorta di doppio binario magisteriale: quando parla ai cattolici si esprime in un certo modo vago e teologicamente ambiguo. Evita strappi espliciti demolendo pian piano la dottrina (la tattica della rana bollita). Invece attraverso Scalfari fa sapere al mondo laico le sue vere idee, così moderne, per accreditare la sua «rivoluzione» e avere popolarità tra i media e i non cattolici. Non a caso The Times, nell' articolo citato, uscito venerdì in prima pagina, accredita quelle affermazioni come sostanzialmente autentiche ed elogia papa Bergoglio perché con questo «suggerimento» sulla non esistenza dell'inferno cercherebbe di «riconciliare le verità eterne con i costumi e la mentalità dell'età moderna». Del resto che quell' idea sull' inferno aleggi da tempo nella teologia cattoprogressista è cosa nota. Il card. Martini - che è considerato il grande anticipatore di questo pontificato - nei suoi ultimi mesi, da pensionato, scrisse una cosa del genere nel suo libro-testamento: «Io nutro la speranza che presto o tardi tutti siano redenti. Sono un grande ottimista La mia speranza che Dio ci accolga tutti, che sia misericordioso, è diventata sempre più forte D' altra parte, è naturale, non riesco a immaginare come Hitler o un assassino che ha abusato di bambini possano essere vicini a Dio. Mi riesce più facile pensare che gente simile venga semplicemente annientata». Con queste idee il cattoprogressismo vuole essere più misericordioso di Dio e di Gesù stesso che invece nel Vangelo descrive con parole terribili le pene dell'inferno. Ecco il senso della misericordia bergogliana: superare quella di Gesù. Sull' Inferno si era lasciato che Scalfari andasse in avanscoperta. Per tre volte, su Repubblica, nel corso degli anni, aveva già attribuito quella tesi a Bergoglio, senza riportare virgolettati diretti. Il Vaticano non aveva mai smentito.
LA TEMPISTICA - Reazioni dentro la Chiesa, confusa e annichilita, non ce n' erano state. Così stavolta qualcuno deve aver pensato che era il momento di virgolettare quei concetti bergogliani. Uscito il giornale, giovedì mattina, dal Vaticano non è partita nessuna smentita. Fino alle ore 15 quando, con molte ore di ritardo, è uscito quel comunicato. Perché? Cosa era accaduto? Pare che stavolta - di fronte a un virgolettato che direttamente attribuisce a papa Bergoglio due eresie esplicite, in contrasto con due fondamentali dogmi della Chiesa - un importante cardinale (non italiano) si sia indignato, abbia chiamato alcuni colleghi e poi, anche a nome loro, abbia prospettato direttamente a Bergoglio cosa poteva significare quell' intervista (professare tesi eretiche è una delle quattro cause di cessazione del ministero petrino). Bergoglio si è consultato con il Sostituto mons. Becciu e ha deciso di correre subito ai ripari con quella dichiarazione del suo portavoce, di cui è stato informato preventivamente Scalfari che - fino ad oggi - è stato al gioco. Questo spiegherebbe perché Repubblica non ha reso nota la «smentita» e non ha risposto. Ma la vicenda finirà qui? Antonio Socci
Papa Francesco, il sogno di Marcello Veneziani: un nuovo Pontefice, scrive l'1 Aprile 2018 "Libero Quotidiano". "Stanotte ho fatto un sogno strano: ho sognato che oggi, nel giorno di Pasqua, si affacciava a sorpresa dal balcone pontificio un nuovo Papa con la testa d'uovo e una grande barba". Esordisce così Marcello Veneziani in un articolo su Il Tempo. Un pezzo in cui dà conto di una sorta di visione e che, non a caso, viene pubblicato proprio a Pasqua. Resta il punto centrale: il Papa non è Francesco. Il Papa è "Pasquale III". E terzo "in virtù della tradizione e non per l'anomalo affollamento di papi viventi in Vaticano". Nel sogno di Veneziani, quel Papa neo-eletto "aveva un programma santo e grandioso: la Chiesa risorta, come Gesù Cristo nel giorno di Pasqua. Il Risorgimento cristiano era indicato dal Papa nella sua orazione come la sua principale missione. Lo splendore della verità unito all'umiltà del sacerdozio, l'amore per la Tradizione, il Rito e la Liturgia come ponti d'oro per connettere la Fede ai popoli, Dio agli uomini, la storia al mistero del sacro". E ancora, il racconto onirico continua sottolineando: "Ma avendo la Provvidenza deciso di farlo eleggere proprio nella notte pasquale, egli pensò di seguire docilmente la simbolica indicazione celeste. Papa Pasquale si diceva convinto che sarebbe ripartito da un atto di fondazione perché la chiesa, anzi la cristianità, ha riportato molte ferite. Ma risorgere non vuol dire cancellare la storia e la tradizione cristiana". E se iniziate a sospettare che dietro a questo sogno si celi un durissimo attacco a Papa Francesco, non sbagliate. L'attacco, infatti, poco dopo si fa assai esplicito: "Per Papa Pasquale Gesù Cristo non è venuto solo col Concilio Vaticano II, ma più di duemila anni fa. E i padri della Chiesa non sono Bauman e Scalfari, ma Sant'Agostino e San Tommaso, più l'esercito di santi, martiri e pontefici dei secoli andati". E ancora: "Papa Pasquale cantava in latino e in aramaico, benediceva con grazia, secondo liturgia, e appariva carismatico, senza battute di spirito perché sapeva distinguere lo spirituale dallo spiritoso". Dunque, la conclusione: "A proposito, che faceva Francesco? Il sogno era sfocato sull'argomento - sottolinea Veneziani -. Forse presiedeva una Ong, si occupava di migranti, scriveva su la Repubblica, giocava a burraco con Ratzinger e Scalfari al circolo dei Papi in congedo, da loro fondato. Aveva dismesso la tonaca, ma non gli scarponi, e ripeteva all'infinito una gag di Totò: Ma io non sono Pascquale. E lì, mi sono svegliato", conclude.
Vaticano, Papa Francesco riaccende le speranze dei teologi sotto censura, scrive il 16 gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Dietro l'immagine del pontificato di papa Francesco lanciato verso la modernità, si nasconde un mondo all'interno della Chiesa fatto di oppressioni e censure che richiamano a tempi che sembravano ormai sorpassati da secoli. Ci sarebbe almeno un centinaio di teologi costretti al silenzio dalle gerarchie cattoliche, grazie a "strutture premoderne che di fatto appartengono al tempo delle monarchie assolute", come denuncia su Repubblica il gesuita Jorge Costadoat, professore dell'università cattolica del Cile e direttore del Centro teologico Manuel Larrain. La libertà di parola nella Chiesa è un diritto sostanzialmente negato, almeno stando a racconti del teologo cileno che fa parte degli scrittori di Reflexiòn y Liberaciòn, il gruppo che nel 2013 aveva denunciato l'esistenza di una "lobby gay" in Vaticano. La natura stessa delle strutture che regolano la vita del mondo cattolico: "rendono possibile la violazione dei diritti umani nei confronti di certi teologi. Anni fa - ha aggiunto Costadoat - ho dovuto difendermi con la Congregazione senza aver diritto a un giusto processo. È stato un incubo. Mi sono ammalato". Il viaggio del papa in Sudamerica ha riacceso le speranze di diversi teologi perché le persecuzioni finiscano. Lo spera anche José Maria Castillo, 87 anni, gesuita tra i più importanti teologi europei. Nel 1988 fu allontanato dall'insegnamento per le sue posizioni critiche verso la Chiesa. Con altri 11 teologi nel 2005 aveva firmato un "appello alla chiarezza", finalizzato a contrastare la beatificazione di Wojtyla. Da quel momento ha dovuto emigrare in San Salvador, dove ha potuto insegnare all'Universidad centroamericana José Simeon Canas. Del suo caso nel 1988 si era interessato anche Joseph Ratzinger, all'epoca prefetto dell'ex Sant'Uffizio: "Sta di fatto che senza alcun processo e senza darmi alcuna spiegazione mi fu tolto l'insegnamento. Per anni - ha aggiunto Castillo - ho vissuto con questa maledizione sulle spalle, guardato con sospetto da tutti". La censura è fortissima tanto in Sudamerica, quanto in Italia. Lo racconta ancora Castillo riferendosi a una vicenda in una diocesi italiana dove era stato invitato per parlare: "Il vescovo, sentendo del mio arrivo, ha proibito a tutti gli istituti cattolici di ospitarmi. E ha avvisato tutti che non era opportuno che venissero ad ascoltarmi. È questo il clima di paura che ancora esiste. Come esistono preti e vescovi che fanno la guerra al Papa". Castillo non ha dubbi che Francesco abbia intenzione di riabilitare tutti i teologi finora costretti al silenzio. Il pontefice però deve scontrarsi con resistenze molteplici perché vede intorno a sé: "una Chiesa che si fa bella della sua liturgia, che vive di denaro e ricchezze, che propone una religione pulita e linda senza incarnarsi nelle sofferenze degli uomini. Per lui non è facile".
Vaticano, Papa Francesco e l'app per la preghiera online: malumori nella Chiesa, scrive l'8 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Il Vaticano e la tecnologia. Papa Francesco guarda al futuro e inaugura la nuova frontiera della preghiera, Click to pray un'applicazione per tablet e smartphone per pregare per la Chiesa con Bergoglio. Si tratta di un'App ideata dalla “Rete mondiale di preghiera del Papa” e dal Meg (Movimento eucaristico giovanile) inizialmente in lingua portoghese, poi tradotta in inglese, spagnolo, francese e tedesco e adesso presentata a Roma in italiano. Il Papa non può che approvare questa iniziativa che diffonde anche le intenzioni mensili di preghiera aprendosi alla comunità del mondo digitale. Click to pray si muove in questa direzione e cerca di creare un legame diretto tra il pontefice e la comunità dei fedeli con una particolare attenzione alle nuove generazioni. L'ala più conservatrice della Chiesa, però, pare aver accolto con un certo malumore l'innovazione hi-tech.
Vaticano, Papa Francesco e il libro di memorie di cardinal Bertone: "Dell'attico sapeva tutto, mi ha detto sì", scrive il 10 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". "Ne ho parlato più volte con Papa Francesco". E ne ha ricevuto "buoni suggerimenti e un pieno consenso". Arriva direttamente dalla bocca del Cardinale Tarcisio Bertone la bomba che può far tremare, di nuovo il Vaticano e la figura del Pontefice in prima persona. L'oggetto di quelle discussioni è l'ormai famigerato attico di 700 metri quadrati che Bertone ricevette in concessione dalla Santa Sede nel 2013 e la cui ristrutturazione (quasi 800mila euro) è stata pagata con fondi dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù. Uno scandalo che travolto mediaticamente il cardinale (ha restituito parte della somma a titolo di donazione) e portato alla condanna a un anno per abuso di ufficio dell'ex manager dell'ospedale Giuseppe Profiti. Lo sfogo di Bertone, come scrive Repubblica, è contenuto in un libro di memorie, I miei Papi (Elledici) e a sorpresa chiama in causa direttamente Bergoglio. Sarebbe stato il Papa in persona a concedere il placet per lavori e la concessione di una segretaria e di un ufficio: "Perché lei è un testimone privilegiato degli ultimi pontificati e deve ancora poter lavorare". Fonti autorevoli d'Oltretevere, raggiunte da Repubblica, difendono però Francesco: "Se davvero il Papa ha dato il consenso, l'ha fatto in tempi non sospetti, senza cioè immaginare i costi e la provenienza dei fondi". Bertone, dal suo canto, assicura che i rapporti con il Pontefice sono sempre stati ottimi: "Mi si mette in contrasto con i Papi. S'immagina che Francesco mi ignori e non abbia benevolenza verso di me, mentre invece lo sento vicino e affettuoso nei miei confronti, come ad esempio quella volta che di ritorno dagli esercizi spirituali ad Ariccia, mi ha chiamato accanto a sé sul pullmino per una lunga, confidente e cordiale conversazione".
Vaticano, morto il cardinale Lehman, amico di Papa Francesco, scrive il 13 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Si è spento a 81 anni il cardinale di Magonza Karl Lehmann, l'anima ribelle del cattolicesimo. Un duro colpo per papa Francesco con cui Lehmann aveva un ottimo rapporto. L'ambasciatrice tedesca in Vaticano ha commentato la sua morte dicendo: "Il giorno che fu eletto papa Francesco, il cardinale più felice fu Lehmann. Con Papa Bergoglio si sentì finalmente libero". "Finalmente" perché i legami con i precedenti papi con furono idilliaci, soprattutto con Papa Wojtyla. Lo scontro lampante avvenne sul tema dell'aborto quando Giovanni Paolo II ordinò ai membri cattolici di uscire dalle commissioni che avrebbero dovuto dare l'assenso per l'interruzione della gravidanza, mentre Lehmann era di diversa opinione. Secondo il cardinale era fondamentale che i rappresentati della Chiesa restassero nelle commissioni per convincere le donne a non abortire offrendo loro sostegno e assistenza. "La Chiesa deve pensare agli uomini e alle donne, rimanere sempre vicina a loro". Questo l'insegnamento del "cardinale ribelle" sempre dalla parte dei fedeli.
Vaticano, Papa Francesco e le elezioni: chi dice di non votare, scrive il 2 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Se non proprio "per chi votare", Papa Francesco la sua indicazione su "chi non votare" l'ha data. Lo ha fatto, ricorda Il Giornale, in tempi non recenti, quando ancora la campagna elettorale non era nemmeno iniziata. Lo scorso ottobre, davanti alla "piazza" di Cesena, Bergoglio ha criticato aspramente l'impostazione moralistica e neogiacobina della convivenza civile, di fatto condannando quella che è l'impostazione di fondo dell'azione politica dei 5 Stelle. Ha poi spiegato che "la buona politica promuove il bene della famiglia", che è evidentemente la famiglia "tradizionale" diversa da quella formata da partner dello stesso sesso sdoganata dalla legge sulle unioni civili voluta dalla sinistra. Il passo successivo di questo processo, nella prossima legislatura, paiono essere le adozioni gay che, volute soprattutto dalla sinistra "a sinistra del Pd" equiparerebbero definitivamente nei fatti la famiglia tradizionale a quella omosessuale. Poi c'è la norma sul biotestamento, che ha sì affrontato un nodo da tempo irrisolto, ma l'ha sbrogliato calcando la mano ad esempio sulla delicata questione dell'obiezione di coscienza, suscitando le proteste della Chiesa.
Papa Francesco, nella sua era i mangiapreti si convertono e attaccano la Lega di Matteo Salvini, scrive Giovanni Sallusti il 24 gennaio 2018 su "Libero Quotidiano". Tutti baciapile. È il miracolo dell’era bergogliana, un miracolo tutto terreno, incartato quotidianamente nei titoli dei giornaloni, dalle nostre parti, più che i “cani da guardia” del potere, i suoi cani da compagnia. Il prodigio consiste in una sparizione. Hanno infatti improvvisamente disertato il dibattito di questo Belpaese non solo i laici autentici, i liberi di spirito e di penna, che già non affollavano le redazioni italiche, ma anche i laicisti, i professionisti dell’anticlericalismo permanente e della dogmatica anticattolica. Sono diventati tutti, con pochissime eccezioni, chierichetti decorativi per le prolusioni terzomondiste di Papa Francesco o al massimo per le escursioni politiche e fin elettorali del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei. Prendendosela con «la cultura della paura che non può mai tramutarsi in xenofobia o addirittura evocare discorsi sulla razza» (con riferimento ben poco allusivo alla supposta gaffe di un candidato in corsa per la guida della Regione più importante del Paese) e con «le promesse che già si sa di non riuscire a mantenere» (perifrasi che il Giornalista Collettivo ha riferito con zelante riflesso di casta a Berlusconi e Salvini e chissà perché non agli stipendifici vari garantiti da Di Maio o alle mance moltiplicate giornalmente da Renzi), costui è diventato l’idolo per un giorno di Corriere e Repubblica. Il (fu) tempio della borghesia produttiva, laica e illuminista, e l’organo del radicalismo giacobino e laicista, ieri hanno scavalcato Avvenire quanto a ortodossia ecclesiastica. «Voto, le critiche dei vescovi», «Vescovi contro la Lega», e mentre scorri distratto la prima pagina rischia di sfuggirti che le centrali del pensiero (unico) del Paese stanno tranquillamente ammettendo ciò che hanno additato per anni come il demonio: il ruolo della Chiesa come attore politico. Ve li ricordate, con Papa Benedetto XVI? Quando a Ratisbona rivendicava la differenza costitutiva tra l’Occidente, edificato sul matrimonio tra fede e ragione, e l’Islam, scaturito da quello tra fede e spada, un argomento un filo più vicino alle preoccupazioni spirituali di un Pontefice rispetto al programma di Salvini sui migranti, gridarono inviperiti dalle loro comode poltrone occidentali all’oscurantismo, alla discriminazione di civiltà, al Papa crociato che l’uomo d’intelletto e di studio Ratzinger non ha mai voluto essere. Quando venne invitato ad inaugurare l’anno accademico de La Sapienza, sessantasette professorini universitari sul cui lascito all’umanità è buio pesto scrissero una lettera (ovviamente rilanciata e sponsorizzata su Repubblica) contro l’invito dell’ateneo a uno dei più grandi pensatori viventi, che aveva il torto di essere cattolico, e perdipiù Papa. Per tacer del baccano immediato a editoriali unificati che scatenava ogni uscita del cardinal Camillo Ruini, quand’era presidente della Cei. Del resto il professor Alberto Melloni, firma di punta del cattolicesimo “progressista” (è l’eufemismo dei giornali seri per dire “cattocomunismo”), su Repubblica l’ha teorizzato espressamente: c’è ingerenza e ingerenza. Che differenza infatti tra «lo stile-Bassetti» e le «prolusioni pre-elettorali di Ruini», che (horribile dictu!) rischiavano addirittura di «dare sponda» a Berlusconi. Oggi i porporati danno sponda ai fanatici dello ius soli e dell’immigrazionismo a oltranza, quindi diventano improvvisamente chic, è di tendenza coccolarli e persino invocare il loro intervento pubblico per dare una lezione a questi buzzurri del centrodestra che quel rito profano e blasfemo che si chiama suffragio universale rischia di portare al governo del Paese. Perfino Il Manifesto, che il giorno dell’elezione di Ratzinger vomitò tutta la sua bile col titolo «Pastore tedesco», recentemente ha offerto in allegato i discorsi di Bergoglio su «Terra, casa, lavoro», perché un cristianesimo che parla come un sindacato non è più il marxiano oppio dei popoli, e i mangiapreti finiscono a braccetto col gesuita. Forse era meglio l’oppio.
Vaticano, Papa Francesco e l'accoglienza per tutti gli immigrati: per Socci è nemico delle Chiesa, scrive il 14 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". La paura sembra condizionare i rapporti tra i migranti e le comunità che li accolgono. Ne è convinto Papa Francesco che nell’omelia della messa per la Giornata del Migrante, celebrata nella Basilica di San Pietro, ha esortato prima di tutto chi è chiamato ad accogliere gli stranieri a "comprendere le loro paure e apprensioni per il futuro". Ma ha anche definito "comprensibili" la paure delle comunità locali riconoscendo che "non è facile entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze. E così spesso rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci". "Le comunità locali a volte - ha osservato - hanno paura che i nuovi arrivati disturbino l’ordine costituito, rubino qualcosa di quanto si è faticosamente costruito". Dunque, da una parte ci sono le paure dei nuovi arrivati che, ha elencato Francesco, "temono il confronto, il giudizio, la discriminazione, il fallimento". E dall’altra quelle di chi teme di vedere modificata la propria situazione da questi arrivi. "Queste paure - ha scandito il Papa - sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano". "Avere dubbi e timori - ha spiegato - non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto". Secondo Francesco, "il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, con il diverso, con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore". In questa ottica, ha spiegato, "per le comunità locali, accogliere, conoscere e riconoscere significa aprirsi alla ricchezza della diversità senza preconcetti, comprendere le potenzialità e le speranze dei nuovi arrivati, così come la loro vulnerabilità e i loro timori". "L’incontro vero con l’altro - ha detto ancora il Papa - non si ferma all’accoglienza, ma ci impegna tutti nelle altre tre azioni che ho evidenziato nel Messaggio per questa Giornata: proteggere, promuovere e integrare". All'invito del Papa di "superare le paure e accogliere" tutti ha risposto Antonio Socci, che sulla sua pagina Facebook non ha fatto mancare il suo commento: "Semmai - dice chiaro e tondo la firma di Libero - va superato questo devastante pontificato, nemico della Chiesa e nemico dell'Italia, amico dell'islam, dei regimi comunisti e dei potentati obamiani".
Papa Francesco, Vittorio Sgarbi: "Sconfessate Salvini ma Bergoglio è il primo a fare politica", scrive il 27 febbraio 2018 "Libero Quotidiano". L'arcivescovo di Milano Mario Delpini ha criticato Matteo Salvini per aver esibito il Vangelo e il rosario ma le sue parole - "ai comizi si parli di politica" - scrive Vittorio Sgarbi sul Giornale, sono "blasfeme". Del resto, è paradossale che "l'accostamento tra lotta politica e religione" venga condannato quando pure "Papa Francesco fa politica e nessuno lo invita a occuparsi solo delle anime, perché i cittadini italiani sono cristiani e i cristiani sono cittadini italiani". Di più, continua Sgarbi, "la Lega, in particolare, esalta e tutela le identità, che sono tradizioni, costumi, valori spirituali cristiani, in un mondo sotto l'attacco del fondamentalismo islamico, che sulla religione fonda la propria azione terroristica" e in questo scenario, "mentre Delpini sconfessa Salvini, il più grande edificio civile di Roma, il Colosseo, viene colorato di rosso contro la persecuzione dei cristiani: Il Colosseo si tinge del loro sangue". E poi c'è la nostra Costituzione: l'articolo 19, sottolinea Sgarbi, ricorda che "tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda ed esercitarne in privato o in pubblico il culto". Proprio "come ha fatto Salvini".
Papa Francesco torna a fare politica: quella frase sugli "stranieri" e il legittimo sospetto su Matteo Salvini, scrive l'11 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Papa Francesco è tornato a parlare di immigrati ed immigrazione. Come ha notato Antonio Socci, toh che caso, è tornato a farlo proprio al termine della campagna elettorale e dopo la vittoria di Matteo Salvini al voto (nelle ultime settimane, il Pontefice, su un tema a lui così caro non si era espresso). "Il mondo oggi è spesso abitato dalla paura. È una malattia antica: nella Bibbia ricorre spesso l’invito a non avere paura. Il nostro tempo conosce grandi paure di fronte alle vaste dimensioni della globalizzazione - ha affermato a Santa Maria in Trastevere, in occasione dei 50 anni della Comunità di Sant'Egidio -. E le paure si concentrano spesso su chi è straniero, diverso da noi, povero, come se fosse un nemico". E ancora, Francesco ha aggiunto: "E allora ci si difende da queste persone, credendo di preservare quello che abbiamo o quello che siamo. L’atmosfera di paura può contagiare anche i cristiani che, come quel servo della parabola, nascondono il dono ricevuto: non lo investono nel futuro, non lo condividono con gli altri, ma lo conservano per sé. Se siamo da soli, siamo presi facilmente dalla paura". Insomma, per il Papa "la paura dello straniero" può contagiare anche i cristiani. Parole che sembrano rivolte a chi, come Salvini, si batte contro l'immigrazione. Parole dalla fortissima connotazione politica, insomma.
Okkupare chiese con l’ok di Papa Francesco. Bergoglio offre immunità sui profughi. E i movimenti ne approfittano. Sventato il blitz a S. M. degli Angeli. E il caso di SS. Apostoli imbarazza la Curia, scrive Francesca Musacchio il 25 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". L’obiettivo era la Basilica di Santa Maria degli Angeli a piazza della Repubblica. Doveva essere occupata dopo un breve corteo ma la polizia è intervenuta prima e non si è potuto fare il bis della chiesa di Santi Apostoli dove da settimane alloggiano rifugiati e antagonisti. Ma altre chiese romane sarebbero nel mirino dei «Movimenti per il diritto all’abitare» e degli immigrati sgomberati negli ultimi giorni dall’occupazione di via Curtatone. Roma è nel caos abitativo e nella gestione degli immigrati e i luoghi di culto sembrano essere l’ultima spiaggia per gli abusivi. Le occupazioni di edifici pubblici o privati, infatti, hanno subito un duro stop da parte della Questura di Roma. E quindi, complice anche una posizione «morbida» di Papa Bergoglio per la situazione nella chiesa di Santi Apostoli (palese l’imbarazzo della Curia e della gendarmeria vaticana) numerose altre «case di Dio» potrebbero trasformarsi in alloggi per i senza casa. Come dicevamo l’esempio più lampante è la Basilica dei Santi XII Apostoli, nell’omonima piazza proprio di fronte alla Prefettura, in pieno centro. Qui, ormai da giorni, vivono in tenda accampati sul sagrato decine di persone, circa 60 famiglie, sgomberate dall’immobile di via di Quintavalle, a Cinecittà, in mano ai Movimenti da 4 anni. Gli occupanti, la maggior parte stranieri, sono stati invitati a sistemarsi sul sagrato separato dalla pubblica strada da un cancello che ne delimita, di fatto, il territorio del Vaticano. Nonostante le lamentele del parroco, del priore e l’insofferenza della Curia, pare non sia possibile sgomberare tende e materassi. La conferma e il rilancio alla linea morbida del Papa è arrivata ieri quando...
Le chiese trasformate in ristoranti, scrive il 26 dicembre 2017 Luca Nannipieri su "Il Giornale". Nella pancia di un affamato è meglio che ci stia un piatto di lasagne che l’omelia di un prete. Le lasagne almeno riscaldano. Ma perché dare da mangiare agli affamati imbandendo tavolate di primi al ragù dentro le chiese storiche, come ha fatto a Roma, Napoli e in altre città, anche quest’anno, la Comunità di Sant’Egidio? Il donare a chi ha bisogno è ovviamente meritorio, ma a chi giova trasformare una navata di intarsi, pale d’altare, mosaici, volte e pulpiti, in un ristorante seppur caritatevole? Sappiamo tutti che chiesa viene da ecclesia, cioè comunità, condivisione; sappiamo che Gesù riuniva gli apostoli attorno alla tavola, e che offrire ai bisognosi è quanto ha richiesto Dio per stargli più vicino. Ma cosa aggiunge farlo in una chiesa, tra affreschi, pitture e sculture, anziché in un capannone o in un padiglione climatizzato di una fiera? Le chiese monumentali sono chiese monumentali, da vedere, osservare, musealizzare, attorno a cui riunirsi e pregare: non sono luoghi dove si intavolano pranzi per mangiare. Per questo ci sono altri spazi, così come non celebri un matrimonio in un cimitero e non insegni geografia nella sala operatoria di un ospedale. La carità – doverosissima per un cristiano – richiede altre destinazioni. Ma queste iniziative di Sant’Egidio sono spie silenziose (e in fondo innocue, non nocive) di un male ben più profondo nel Cristianesimo europeo: le cattedrali e le chiese monumentali esistono e il Cristianesimo non sa più cosa farci, se non farle essere solo occasione di transito turistico o, appunto, di saltuaria carità. Se vuol esserlo, sia dunque più di rottura, più rivoluzionante, il pontificato di Papa Francesco: le chiese ospitino tutti i giorni, pranzo e cena, le mense dei bisognosi. Non solo a Natale o per qualche ricorrenza, ma tutti i giorni, dalla Cappella Sistina al duomo di Firenze. Solo così, con questa violenta e caritatevole trasformazione, vedremo un segno di nettezza francescana. Altrimenti continueremo così, nel non saper cosa farci nelle cattedrali e nelle chiese affrescate, se non a volte la doverosa mensa per i poveri o, nei casi più radical chic come a Milano, mostre d’arte immonde.
Dal Papa, agli antifascisti, fino a chi odia il presepe: San Francesco non era un hippy, né una scusa. Contro l’ideologizzazione della funzione della Fede, scrive il 18 dicembre 2017 Emanuele Ricucci su "Il Giornale". San Francesco non era un hippy. Esattamente come non lo era Cristo, che per un pelo non diventa una maglietta post-Woodstock. Essi non erano ciò che può far comodo. Erano ciò che erano. E così con questo valzer di mistificazioni, quest’epoca comprende, forse, la peggiore delle ideologizzazioni della funzione della Fede. Peggiore, forse, dei Patti Laternanensi, poi Craxi-Casaroli del 1984; peggiore, forse, delle Madonne a caso nei riti ‘ndranghetisti, o nel breviario di Totò Riina, mai pace all’anima sua. Una fu convenienza, l’altra demenza. Oggi, invece, lucidissima devianza. Alla storia non rimane la convenienza, troppo legata al momento; né la demenza, troppo effimera per fare radici. Mentre la devianza, sì, perché rischia di diventare deviazione, assuefazione, nuova verità. Il poverello d’Assisi, nel suo saio ci riassume tutti. Ferventi, menefreghisti. Assidui, latitanti di Dio. Atei, agnostici, credenti. Patrono d’Italia, già lo è. Della laicissima Italia, nella laicissima Europa che, semplicemente, fa a meno di menzionare le proprie origini spirituali tra le sue carte. Europa di carta, fragile impilamento di convenzioni, trattati, sanzioni e regolamenti (di conti). Un punto minimale, come vuole la pubblicità di oggi, sullo sfondo verde di una collina. Un hotspot per Dio, che non è un’imprecazione, attaccato al terreno. Poverello. Italiano. Guerresco, puttaniere, figlio borghese. E per questo più santo di tutti. Più vicino a Dio di ogni pecora farisea, di ogni brava donna che corre all’eucaristia, la Domenica, dopo aver preso le botte dal marito che le siede accanto. Di quegli hypokritai, ipocriti, attori che non vivono Dio, ma giocano il loro ruolo, così definiti da Cristo, che si credono di essere il Bene, ma nient’altro sono che il Male. Ma non dirà nulla, né nulla confesserà. Forse perché la confessione, come sacramento, ormai è in forzato pensionamento. Dio lo sceglie perché è bello e ricco, e ci sa fare di scherma. Andava alla guerra quando l’ha chiamato a sé. Perché ad Esso servono guerrieri della Fede, per scendere ancora tra gli uomini. Non solo attimi di estatica trascendenza, ma anche cadute da cavallo. Botte forti per vite forti.
San Francesco è il collegamento tra Dio e gli uomini. E Francesco d’Assisi, tra gli uomini, è quello che a Gesù Cristo rassomiglia di più. Nella barba diradata, nella dimensioni dei giganti alti un metro e mezzo. Francesco di Pietro di Bernardone è un ponte senza tempo, senza spazio. Che comprende il tempo di tutti, lo spazio di molti, tra Dio, l’Assoluto, il cielo stellato sopra di me, e la legge morale che è in me. È un riempimento, non un riempitivo. È assieme testimonial della Chiesa spompata, senza lucidità e senza idee, e testimonianza. È povero e rock, cantore e perdonatore. Antipapa e papesco. Regolatore. Come in Cristo ci riconosci la sinistra e la destra. La moltiplicazione dei pani e dei pesci, e la difesa della casa. Al contempo ci trovi una delle possibilità chiavi di volta per il ritorno alla sovranità degli uomini, e quindi ad una condizione umana sostenibile, ancor prima che politica, economica, strutturale, ideologica, che sviluppi il pensiero critico, l’angolo intimo e spirituale, la sacra indipendenza degli uomini, la loro capacità di essere il tempo che vivono, e non solo ipocriti, attori, appunto; la loro capacità di reagire alle imposizioni ideologiche, snaturanti, aberranti, annientanti e, soprattutto, massificanti, che rendono uomini standard, costretti a replicare, a pensar poco e bene, e a non trasformare il prodotto della loro intimità, del loro pensiero critico in azione. Francesco D’Assisi, riferimento universale nell’epoca del cedimento di ogni faro nel buio. Molti crollati, come la religiosità, molti pieni di crepe a rischio cedimento, come la famiglia. Talmente rock da essere l’unico collante percepito tra il fedele e l’ateo. Ricongiungimento al Divino persino per l’agnostico. San Francesco è l’antistato. È il grimaldello teorico: per mettere ordine al caos, ci vuole ordine, non altro caos, correndo incontro alla semplicità, che regge e regola il tutto, e smonta l’eccessiva complessità. La semplicità, dalla foglia, al figlio, è generazione di un processo vitale. Facilmente individuabile, scalzo, ancora lo vedi camminare tra le colline dell’Umbria. Vedi un punto, vedi un saio. Sai che lì c’è Dio. Sai che c’è Dio. E non una scusa. Una scusa per un Papa, per gli estremisti del migrantismo, paravento per la politica, indifferenza per chi è incapace, con la propria vita, di testimoniare Dio, valga per un ministro del Culto, o per un fedele. Proprio come per quelli che ignorano il Presepe, non lo fanno, lo cancellano. Perché sì, è vero che Francesco è l’alfiere della pace, della letizia, della povertà e della tolleranza. Ma è pur vero che non è un santo sociale, ma una liason con Dio e la sua parola. Impossibile, quindi, ridurlo ad un hippie. Impossibile eleggerlo a santo patrono dei migranti, degli antipresepisti, del bergoglismo, se si va, necessariamente, a dimenticare l’aspetto teologico, divino, spirituale, cristiano della sua essenza. Perché è qui che Francesco diventa scomodo, in quanto capace di unire l’uomo al precetto di Dio, di completarlo ed integrarlo, non di separarlo dal Divino per offrirlo in sacrificio al culto estremo, ed unico possibile, della materia, della Tecnica come involuzione ripetitiva ed organizzatrice, come divinità del raggiungimento, in quanto strada lastricata per il Progresso: Dove sono le tenebre, che io porti la luce. E quindi dove sono le tenebre della negazione, della censura, della dimenticanza, dell’oppressione, fa che io, tramite Dio, porti la luce. E l’uomo, da solo, può farcela a reagire, a ritrovare se stesso. Passando anche e soprattutto per Dio, però: “Dove è dubbio, che io porti la fede”. Proponendo, quindi, un santo sociale, anziché “integrale”, si compirebbe un gesto barbaro e indegno, che ricorda quelli che, forzatamente, riducono Ernesto Che Guevara a paladino di una destra rivoluzionaria, finanche conservatrice, per via delle sue uscite “nazionaliste”. Leggasi mistificazione, non interpretazione. E se non ci rimane che aggrapparci alla realtà, alla geometria, alla logica, e a certi riferimenti dati, alla semplicità, alla lucidità per non impazzire ed andare a regredire nella categoria del nuovo millennio, quella delle non-persone, San Francesco va assolutamente riscoperto. Ma non come misero oggetto di militanza e presenza. Come ispiratrice virtù esemplificativa di una vita sostenibile, con Dio, certamente, ma soprattutto con sé stessi. Va fatto riscoprire ad un Papa green, che anziché confermare il proprio popolo, sembra pensare a compiacere il mondo dei non-credenti, quasi Dio dovesse diventare una giustificazione per chi non ci crede. Ad un Papa che vede nei migranti il volto di Gesù e fa politica, anziché pensare a riempire le Chiese, che dedica un giubileo alla misericordia, anziché al Timor di Dio, come suggerito da Camillo Langone, proprio nel momento, grazie alla trasformazione materialistica della vita, del tocco, dell’erotismo appagante della tangibilità, di un Dio genio della lampada, a cui si chiede di curare le malattie dei propri figli, senza che nessuno gli dedichi l’anima, Cristo, e con sé il senso di Assoluto, scappano dalla nostra vita, ormai impegnata in una continua esecuzione di compiti concreti, che ci inquadra nel ruolo di cittadini e di individui, senza che nessuno si dedichi la vita. Un Papa che vuole chiamarsi Francesco, perché è bella la sua figura oggi, ma a cui, per dirla con Marcello Veneziani, manca l’aura del sacro, il carisma religioso, la grazia del Santo Padre”. E continua: “Lo sento più come il presidente di una Ong, a capo di una grande, antica organizzazione non governativa. Il suo tema cruciale non è il rapporto tra l’uomo e Dio, il mistero della fede e della resurrezione, l’anima immortale e Nostro Signore Gesù Cristo. Ma è l’accoglienza, i migranti, il soccorso ai poveri di tutto il mondo, il dialogo coi non credenti, o coi credenti d’altre religioni, a partire dagli islamici, la voglia di compiacere i media e lo Spirito del Tempo, più che lo Spirito Santo”. A cosa servirebbe un’altra ONG, nella fattispecie individuabile in questa Chiesa con tanti diritti e pochi doveri? “Bergoglio fa un passo in più e si accoda all’ideologia dello sconfinamento di popoli, di culture, di sessi, di ogni limite. Come una qualsiasi Boldrini o un Mattarella, coi quali Bergoglio forma il Trio Accoglienza. Vuol trasformare l’Italia in un corridoio umanitario e l’Europa in un grande centro di accoglienza, tuona contro i muri altrui e dimentica di vivere nel sicuro recinto dalle Mura Vaticane… Per il resto, Francesco sta facendo precipitare la Chiesa cattolica verso un destino sindacale-umanitario, genere Emergency o sant’Egidio, da agenzia per la ristorazione filantropica universale; un ente spiritualmente spento che preferisce dialogare con i progressisti atei piuttosto che con i cattolici non progressisti. E senza convertire alla fede nessuno”. In quella chiesa, ormai simile ad un’agenzia sociologica, ad una cooperativa sociale, ad un’associazione, anziché ad istituzione umana e divina allo stesso tempo. Continuando ad occuparsi con superficialità spirituale, sempre più riassuntino opportunistico delle Sacre Scritture, teologico, impegnata a richiamare la povertà solo parlando dei migranti, dei sistemi sociali. Indaffarata nel dimenticare che la salvezza dell’ecclesia, della comunità, dell’origine, dell’identità spirituale, è fondamento per l’uomo, specie occidentale, inevitabilmente passante dal Vangelo. Per cui la teologia, l’interpretazione del Vangelo, dei precetti sacri, e degli accordi religiosi essenziali, costituiti di pontificato in pontificato, diventano sempre meno preponderanti rispetto al messaggio che pubblicamente la Chiesa offre; generando così non un faro nella tempesta, non un’interpretazione maggiore del tempo, ma un ennesimo tweet sulla realtà, che si perde in un mare di fugaci letture che si “accodano all’ideologia”. Qui, Francesco d’Assisi ricorda il ruolo del sacerdote, la strada del Ministro del Culto. Ricorda che essi hanno dei doveri, e non solo dei diritti, proprio nell’epoca del diritto facile. Hanno il dovere della testimonianza di Dio, tra i tanti. Dovere che, tra SACERDOTI DANZANTI, PRETI CANTANTI, MESSE CONCERTO, o vigliaccate come la mancata creazione, e quindi celebrazione, del Presepe per paura di offendere i fedeli musulmani – come accaduto qualche giorno fa. Don Sante Braggiè, cappellano del cimitero civico di Cremona, ha deciso di non allestire il tradizionale presepe per “non urtare la sensibilità dei musulmani”. -, viene sempre meno. “Ricordatevi, fratelli miei sacerdoti, ciò che è scritto riguardo alla legge di Mosè: colui che la trasgrediva, anche solo nelle prescrizioni materiali, per sentenza del Signore, era punito con la morte senza nessuna misericordia.”
Fratello Sole. Sorella Luna. Sì, ma anche “dove è odio, fa’ che io porti l’amore. Dove è offesa, che io porti il perdono. Dove è discordia, che io porti l’unione”. Per gli antifascisti che predicano l’inclusione democratica, rendono santa quella Costituzione che permette loro di esprimersi. Abituati alla mistificazione, alla deviazione, essi stravolgono anche ciò che gli occhi vedono. E paraculamente si riscoprono francescani perversi, nelle parole di negazione e censura, anziché in quelle di tolleranza e accettazione di un messaggio diverso. Così capita di leggere una nota di alcuni intellettuali e accademici di Perugia, contro una pacifica e legittima manifestazione di Casa Pound, contro il degrado cittadino. Una missiva in cui si legge la chiarissima volontà di impedire ai neofascisti di sfilare, di esserci, anche solo di essere, di esistere. Nella quale cui si contrastava fortemente la manifestazione nella città di Perugia “multietnica e democratica”. Ed in cui, insieme, “la regione di San Francesco dicano un secco no a questo ritorno al passato, riaffermando i valori della Costituzione antifascista nata dalla Resistenza”. La regione di San Francesco. Ma San Francesco non avrebbe voluto questo. Ed ecco, tra le tante, l’immagine bieca e stupida dell’ideologizzazione della funzione della Fede. “Dove è odio, fa’ che io porti l’amore. Dove è offesa, che io porti il perdono. Dove è discordia, che io porti l’unione”. E così ragionando semplicemente per spunti, si giunge al Presepe, con una riflessione finale che costituiva un mio commento uscito nei giorni scorsi su Il Giornale, e che vuole chiudere questo percorso.
“Amatrice vista in foto dall’alto sembra un presepe. Tra quei resti, vi è una disperata richiesta d’attenzione. Nell’inverno delle coscienze, si gela al freddo dell’indifferenza di Stato che costringeranno Cristo, dal sisma del 2016, a nascere ancora in un alloggio di fortuna, e ad aspettare una casetta per ritrovare dignità nel dramma. Una casa per ripararsi dalla distruzione e rinnovare l’esistenza. Evocazione del Natale, che è, insieme, richiamo allo spirito di Francesco d’Assisi, da cui nacque l’immagine del Presepe, a Greccio. Occorre recuperare i significati. Nel cammino di San Francesco è racchiuso il senso del presepe, come vicinanza e manifestazione di Dio; il più puro senso di misericordia ed accoglienza, ma anche la necessità di ricostruire la casa dalla rovina: «Francesco va’ e ripara la mia chiesa». Rifonda la casa in disgrazia, gli disse Cristo; mattone su mattone, egli donò nuova immagine ad un’antica essenza, alle macerie di San Damiano. Poco prima di Natale, mentre impazza la tolleranza dei buonisti, qui è il significato del Presepe, nelle mani di Francesco d’Assisi, che non solo accolgono chi migra, ma, ancor più, ricostruiscono la distruzione, offrendo nuova vita e armonia alle macerie di Amatrice. Così come dovrebbe essere. Ma non è. E mentre ci si sbraccia per rendere l’integrazione, sostituzione, mentre a Castenaso (Bologna), Cristo nasce in un gommone, che viene messo al centro del Presepe in una piazza cittadina, – per evidenziare «il problema legato all’accoglienza dei migranti», secondo il sindaco Sermenghi -, la ricostruzione ad Amatrice è ferma – «in un anno sono state presentate mille domande di contributo e approvate cento, a fronte di 60 mila case da sistemare o ricostruire» (Corriere della Sera) -. Su 3.700 casette richieste, solo 1.300 sono state consegnate, mentre ci si annulla nella riconoscenza sfrenata dell’accoglienza, e nell’irriconoscenza delle proprie priorità. Torna alla mente la figura di San Francesco, ed una reazione concreta alla contaminazione ideologica della funzione della Fede, che il politicamente corretto dei nostri giorni opera. In quel “prossimo tuo” da amare come te stesso, che è migrante, sì, ma anche, e ancor più, un italiano a cui non rimane più nulla. L’empatia è a senso unico. Guardando quella foto di Amatrice dall’alto, viene da pensare che prima di integrare altre civiltà, forse dovremmo ancora integrarci tra di noi, prendendo per mano quei fratelli senza più niente, prima di ogni altro prossimo. Tra quei resti di case trovi la croce di Cristo. La sua morte. E la sua rinascita. Tra gli italiani che non vanno più di moda, lì è il Natale e il presepe”.
Il Papa sostituisce il vescovo tradizionalista con il "prelato dei migranti". Al posto di Monsignor Luigi Negri, vescovo di Ferrara e critico in tema di islam e accoglienza, arriverà Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". Il vescovo tradizionalista e conservatore, più volte critico contro l'accoglienza indiscriminata, verrà sostituito dal direttore di Migrantes, la fondazione della Chiesa che si occupa di immigrati. L'ufficialità è arrivata questa mattina dalla Sala Stampa Vaticana: a guidare l'Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio verrà chiamato monsignor Giancarlo Perego, 56enne cremonese conosciuto soprattutto per la sua militanza in associazioni caritative e assistenzialistiche. Prima la Caritas, poi la guida di Migrantes. Forse si tratta solo di un caso, ma fa sorridere il fatto che Perego vada a sostituire quel monsignor Luigi Negri che più volte ha criticato le posizioni più progressiste del papato di Bergoglio. L'elenco è lungo. Nell'aprile del 2014, il vescovo ferrarese disse senza mezzi termini che i cristiani hanno "la responsabilità di un popolo di cui non fanno parte solo gli stranieri, ma anche gli italiani". Come a dire: basta pensare solo ai migranti, ci sono troppi concittadini in difficoltà. Indicando una via in parte dissimile da quella tracciata da Bergoglio sull'accoglienza. L'alto prelato, un tempo vicino a Cl e poi messo un po' da parte dal nuovo corso di Julian Carron, è stato molto duro anche in tema di islam e islamizzazione dell'Occidente. La sua diocesi è una delle poche che mostra con orgoglio sulla porta della curia la "N" di "Nazareno", il marchio di infamia che i miliziani dell'Isis disegnano sulle case dei cristiani perseguitati nel mondo. Nel commentare la decisione di esporlo, Negri disse che il dialogo con l'islam "non può essere perseguito ad ogni costo e non può rappresentare assolutamente una forma di dimissione della presenza cristiana nel Medio Oriente". A incrinare ulteriormente il rapporto con pontefice arrivò nel novembre del 2015 la rivelazione di un colloquio sul treno con il suo segretario. Ad alta voce il prelato si fece sfuggire dure critiche contro il Papa, contestando le nomine dei giovanissimi vescovi "di strada" di Palermo (Corrado Lorefice) e di Bologna (Matteo Zuppi). "Dopo queste nomine – disse – posso diventare Papa anch’io. È uno scandalo. Incredibile, sono senza parole. Non ho mai visto nulla di simile". Poi aggiunse di aver promesso a Caffarra, vescovo uscente del capoluogo emiliano, di "far vedere i sorci verdi a quello lì (Zuppi): a ogni incontro non gliene farò passare una". Monsignor Negri non smentì nulla, anche se chiese a Francesco un incontro "filiale" per provare a ricucire lo strappo. Forse inutilmente. Come da cerimoniale, infatti, Negri al compimento del 75esimo compleanno di età ha presentato le dimissioni. Bergoglio le ha accolte e ha deciso di sostituirlo con un prelato da sempre impegnato nell'accoglienza dei migranti, imprimendo una svolta "terzomondista" ad una diocesi fino ad oggi in improntata alla difesa dei valori cristiani. Nemmeno la dura presa di posizione ("ripugna alla coscienza cristiana", disse Negri) contro le barricate di Goro e Gorino, dove gli abitanti nell'ottobre scorso sbarrarono lo strada all'arrivo di 12 richiedenti asilo, aiutarono a ridurre le accuse di eccessivo "tradizionalismo" contro il vescovo di Cl. A breve i fedeli di Ferrara e Comacchio conosceranno un nuovo Arcivescovo, più allineato alla pastorale di Bergoglio.
Cei, Papa Francesco ha scelto il cardinale Gualtiero Bassetti come capo dei vescovi italiani, scrive il 24 Maggio 2017 "Libero Quotidiano". Papa Francesco ha scelto il cardinale Gualtiero Bassetti come presidente della Cei. Il 75enne alla guida della Diocesi di Perugia ha avuto la meglio nella terna indicata dai vescovi italiani. Una lista che comprendeva il vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla e l'arcivescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro. Bassetti era considerato il favorito alla successione di Angelo Bagnasco, di sicuro è nome gradito alla linea di Bergoglio che ha confermato l'indicazione dei vescovi italiani. Poco prima delle votazioni, era stato lo stesso Papa a lanciare una sorta di avvertimento mascherato da battuta ai delegati dell'assemblea, chiarendo che avrebbe accolto i tre nomi indicati dai vescovi, ma senza vincoli. Il Papa infatti avrebbe potuto decidere autonomamente il nome del capo della Cei, soprattutto nel caso in cui nessuno dei tre indicati fosse vicino al suo modo di pensare.
Un pastore di anime arrivato dai monti. Come piace a Bergoglio. Ecco chi è Gualtiero Bassetti, il nuovo presidente della Cei, scrive Mauro Bonciani il 24 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera”. Alla mano, solare, capace di comunicare con tutti, a cominciare dai giovani. «Un pastore, di quelli con l’odore delle pecore addosso». Così tutti parlano di Gualtiero Bassetti, parroco, vescovo, cardinale, figlio maggiore di un falegname, nato a Popolano, frazione di Marradi, sulle montagne dell’Appennino. Figlio della Chiesa fiorentina del Novecento ma ben radicato nel futuro, nelle sfide della «chiesa in uscita» di Papa Francesco che lo stima e lo apprezza. In casa Bassetti si è sempre respirata la fede — due suoi cugini sono sacerdoti, don Giuseppe e don Luca Bassetti, un altro è l’ex sindaco di Marradi, Paolo Bassetti — e dopo l’infanzia passata a Fantino, sempre nel Comune mugellano, Gualtiero a soli 14 anni è entrato nel Seminario di Firenze per poi essere ordinato nel 1966 dal cardinale Ermenegildo Florit ed essere inviato come vice parroco a San Salvi, dove il 4 novembre assieme ad alcuni giovani del rione sventò l’esplosione di diversi fusti di carburo che avrebbero devastato la zona e provocato morti e feriti. Due anni dopo è chiamato come assistente al Seminario Minore, di cui nel 1972 viene nominato rettore, mentre nel 1979 diventa rettore del Seminario Maggiore per volere del cardinale Giovanni Benelli. Le sue doti colpirono anche il successore, l’arcivescovo Silvano Piovanelli, che nel 1990 lo nominò suo pro-vicario e nel 1992 vicario generale, ordinandolo dopo l’elezione a vescovo di Massa Marittima-Piombino da parte di Giovanni Paolo II nel 1994, ma soprattutto diventandone amico e punto di riferimento. A Piombino Bassetti è rimasto quattro anni, affiancando la comunità nelle traversie legate alle acciaierie, con una vicinanza al mondo del lavoro che poi da vescovo di Arezzo, Cortona e Sansepolcro lo ha portato ad intervenire sulla Buitoni, messa in vendita dalla Nestlé, assieme al vescovo di Città di Castello, Domenico Cancian. Si trattava del futuro di 450 famiglie impiegate nei due territori e Bassetti scrisse della «preoccupazione della comunità cristiana per le conseguenze sociali ed economiche», invitando «Nestlé Italia, il mondo dell’imprenditoria locale e le realtà economiche presenti sul territorio a favorire una soluzione industriale che abbia piena consapevolezza del valore storico, sociale e culturale, oltre che economico, del pastificio, garantendo responsabilmente non soltanto un serio impegno finanziario per la sua sopravvivenza, ma anche un percorso e che ne assicuri la continuità e lo sviluppo». Ad Arezzo Bassetti è stato arcivescovo dal 1999 al 2009, quando ha fatto ingresso a Perugia (anche se molti lo avevano visto destinato a Firenze, dove invece pochi mesi prima era arrivato Giuseppe Betori) designato da Papa Benedetto XVI, mentre Papa Francesco nel 2012, nel suo primo Concistoro, lo ha elevato cardinale dimostrando così la sua fiducia in lui. Fiducia ribadita un mese fa, con la proroga del suo incarico alla guida della diocesi umbra arrivata subito dopo il compimento dei 75 anni di Bassetti (limite oltre il quale i vescovi devono rassegnare le dimissioni) con una velocità insolita che dagli addetti ai lavori è stata letta come una chiara indicazione del pontefice in vista dell’assemblea della Cei. Bassetti è legato alla sua terra —quando può va a Marradi dai fratelli— alla sua diocesi di origine e all’arcivescovo Betori, ai giovani che ama definire «le rondini che vanno verso la primavera» usando le parole di Giorgio La Pira, a Papa Bergoglio che più volte lo ha incontrato a Roma — Francesco è l’uomo della nuova primavera della Chiesa», ha spiegato Bassetti — e che nel 2016 gli ha affidato le riflessioni della Via Crucis al Colosseo. Francesco e Bassetti sono quasi coetanei e anche se di formazione diversa si capiscono bene, sono «complici», in un rapporto che ha visto il rimprovero di Bergoglio all’amico. «Ero stato appena ricoverato al Santa Maria della Misericordia quando squilla il cellulare e al telefono era Papa Francesco: “Cardinale ma cosa mi combini? Che problemi di salute hai?”. Il Santo Padre era preoccupato perché solo poche settimane prima mi aveva ordinato cardinale...». Un legame forte, schietto — «Anche a me ha detto una frase riferita all’effetto che hanno le sue parole: “Se io parlo dei poveri e li aiuto, mi battono le mani, ma se vado a cercare le cause della miseria e dei poveri mi dicono che sono comunista”. Con questo suo modo di evangelizzare Papa Francesco ci chiama a tenere vivo in noi e nel cuore dell’uomo moderno, insidiato da indifferenza e cronica stanchezza del vivere, il Dio della misericordia» — anche all’insegna della comune «gioia della carità», che è il titolo del libro-manifesto di Bassetti in cui si ritrovano tutti i temi bergogliani. Quelli che la Chiesa italiana a due anni dalla sferzata del Papa in Santa Maria del Fiore sembra pronta a fare propri. Grazie anche alla nuova guida della Conferenza Episcopale Italiana.
Antonio Socci: Papa Bergoglio premia i preti comunisti e snobba quelli fedeli a Ratzinger, scrive l'8 Settembre 2014 su "Libero Quotidiano". Nell’epoca Bergoglio, il Vaticano ha praticamente riabilitato la Teologia della liberazione che, nata negli anni Sessanta, molti disastri ha combinato, soprattutto in America latina, per aver alimentato la subalternità della Chiesa al pensiero marxista. Nei mesi scorsi ci sono stati eventi clamorosi, come lo «sbarco» trionfale in Vaticano di Gustavo Gutierrez, «padre» della Tdl. Un anno fa «L’Osservatore romano» pubblicò ampi stralci di un suo libro che celebrava le sue invettive contro il neoliberismo. Questa estate è arrivato un altro gesto altamente simbolico, passato quasi inosservato, che riguarda Miguel d’Escoto Brockmann.
D’Escoto era il figlio dell’ambasciatore del Nicaragua negli Stati Uniti. Ordinato prete nel 1961 si coinvolse nella Tdl e nell’ottobre 1977 si pronunciò pubblicamente a favore del Fronte Sandinista, un gruppo rivoluzionario d’ispirazione marxista che nel 1979 prese il potere in Nicaragua. D’Escoto fu ministro degli Esteri nel governo sandinista dal 1979 al 1990. Nello stesso governo-regime il gesuita Fernando Cardenal fu ministro dell’educazione e suo fratello Ernesto fu ministro della cultura. Giovanni Paolo II bocciò duramente il coinvolgimento dei tre religiosi nel governo sandinista. Già subito dopo la sua elezione papa Wojtyla aveva tuonato contro la Tdl. Nel suo viaggio in Messico del 1979 affermò: «La concezione di Cristo come politico, rivoluzionario, come il sovversivo di Nazaret, non si compagina con la catechesi della Chiesa».
Giovanni Paolo II - Nel 1983 Giovanni Paolo II andò in visita pastorale proprio in Nicaragua dove già all’aeroporto rimproverò pubblicamente padre Ernesto Cardenal per il suo coinvolgimento nel governo. Il fatto fece scalpore e il regime sandinista organizzò una contestazione pubblica del papa durante la celebrazione della messa. Ma papa Wojtyla non era tipo da farsi intimidire e, dall’altare, urlò più dei contestatori sollevando il alto il crocifisso, come l’unico vero Re dell’universo. Nonostante il richiamo pubblico i tre religiosi risposero picche e D’Escoto nel 1984 fu sospeso a divinis con gli altri. Il governo sandinista cadde nel 1990, ma D’Escoto continuò a far politica. Nel 2008 addirittura lo ritroviamo a presiedere la sessione annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Eletto Bergoglio, D’Escoto fiuta l’aria e scrive al nuovo papa chiedendo il ritiro della sospensione a divinis per poter tornare a celebrare la messa. Richiesta subito accolta. Il 1° agosto di quest’anno Bergoglio firma la revoca. Perché «sono mutate le epoche, i contesti e soprattutto è cambiato lui», spiegavano in Curia il 4 agosto 2014. D’Escoto - a loro dire - «ha capito di aver sbagliato e il Pontefice ha compreso la sincerità del ravvedimento». Infatti l’indomani, 5 agosto, «La Prensa» di Managua riporta alcune bombastiche dichiarazioni rese in quelle ore dallo stesso D’Escoto alla tv governativa Canal 4. Titolo dell’articolo: «D’Escoto: Fidel Castro è eletto da Dio». Il religioso ed ex ministro, appena riammesso alla celebrazione eucaristica da Bergoglio, ha affermato: «Il Vaticano può mettere a tacere tutto il mondo, (ma) allora Dio farà in modo che le pietre parlino e che trasmettano il Suo messaggio. Tuttavia (Dio) non ha fatto questo, ha scelto il più grande latinoamericano di quasi tutti i tempi: Fidel Castro». D’Escoto che - dice «La Prensa» - è «attuale consigliere per gli affari di frontiera e per le relazioni internazionali del Governo, del presidente del Nicaragua, il sandinista Daniel Ortega» (ma non aveva abbandonato la politica?), ha anche aggiunto: «È attraverso Fidel Castro che lo Spirito Santo ci trasmette il messaggio, questo messaggio di Gesù sulla necessità di lottare per stabilire con forza e in maniera irreversibile il Regno di Dio in terra, che è la Sua alternativa al potere». Dopo questa esaltazione teologica del tiranno di Cuba, che opprime da decenni un intero popolo con la dittatura comunista, D’Escoto si è rallegrato per il provvedimento di revoca della sospensione da parte di papa Francesco. Il guanto di velluto usato da Bergoglio verso il potente e famoso «compagno» D’Escoto contrasta col pugno di ferro che ha usato per colpire un bravo e umile religioso dalla vita santa, padre Stefano Manelli, figlio spirituale di padre Pio e fondatore dei Francescani dell’Immacolata. Anche padre Manelli aveva scritto al papa, ma la sua lettera non è stata nemmeno presa in considerazione. La sua famiglia religiosa, ortodossa, disciplinata e piena di vocazioni è stata annientata per volere di Bergoglio, in quanto applicava il motu proprio di Benedetto XVI sulla liturgia. Ed era troppo ortodossa.
Padre Manelli - Padre Manelli non ha mai disobbedito alla Chiesa, mai ha deviato dalla retta dottrina, mai si è buttato in politica come D’Escoto e mai ha esaltato dei tiranni comunisti. Così è stato duramente punito. E non a caso a firmare il provvedimento punitivo è stato il cardinale Braz de Aviz, prefetto della Congregazione vaticana di competenza. Questo cardinale brasiliano, guarda caso, viene proprio - lui stesso - dalla Teologia della liberazione e nelle interviste che ha rilasciato, a proposito della Tdl, ha dichiarato essa è non solo «utile», ma addirittura «necessaria». Ha aggiunto: «Rimango convinto che in quella vicenda è passato comunque qualcosa di grande per tutta la Chiesa». Sì, un grande disastro. Ma certi «compagni» in rosso porpora oggi stanno ai vertici in Vaticano e puniscono coloro che sono stati sempre fedeli alla Chiesa. Il cardinale Braz de Aviz in quell’intervista ha allegramente snobbato le memorabili condanne della Tdl firmate da Joseph Ratzinger (e Giovanni Paolo II) con la «Libertatis Nuntius» (1984) e la «Libertatis Conscientia» (1986). Ormai si sentono i trionfatori: Wojtyla è morto e ritengono che Ratzinger abbia perso. Proprio Benedetto XVI, di recente, ricordando Giovanni Paolo II, ha scritto: «La prima grande sfida che affrontammo fu la Teologia della liberazione che si stava diffondendo in America latina. Sia in Europa che in America del Nord era opinione comune che si trattasse di un sostegno ai poveri e dunque di una causa che si doveva approvare senz’altro. Ma era un errore. La fede cristiana veniva usata come motore per questo movimento rivoluzionario, trasformandola così in una forza di tipo politico (…). A una simile falsificazione della fede cristiana bisognava opporsi anche proprio per amore dei poveri e a pro del servizio che va reso loro». Nel 2013 uno dei fondatori della Tdl, Clodoveo Boff (fratello dell’altro Boff), uno dei pochi che ha veramente capito la lezione (non così D’Escoto), ha dato ragione a Ratzinger per quello che (a nome di papa Wojtyla) fece trent’anni fa: «Egli ha difeso il progetto essenziale della teologia della liberazione: l’impegno per i poveri a causa della fede. Allo stesso tempo, ha criticato l’influenza marxista. La Chiesa» osservava Clodoveo Boff «non può avviare negoziati per quanto riguarda l’essenza della fede: non è come la società civile dove la gente può dire quello che vuole. Siamo legati ad una fede e se qualcuno professa una fede diversa si autoesclude dalla Chiesa. Fin dall’inizio ha avuto chiara l’importanza di mettere Cristo come il fondamento di tutta la teologia (…). Nel discorso egemonico della teologia della liberazione ho avvertito che la fede in Cristo appariva solo in background. Il ’cristianesimo anonimo’ di Karl Rahner era una grande scusa per trascurare Cristo, la preghiera, i sacramenti e la missione, concentrandosi sulla trasformazione delle strutture sociali». Oggi, nell’epoca Bergoglio, si torna indietro proprio a Rahner, a quella filosofia che già tanti danni ha fatto fra i gesuiti e nella Chiesa. E in questo vuoto abissale i cattolici tornano ad essere sballottati qua e là «da ogni vento di dottrina». Subalterni ad ogni ideologia e inquinati da qualunque eresia. Una grande tenebra avvolge Roma. Di Antonio Socci
Così Bergoglio manipola anche don Camillo (ma lui è un prete cattolico, non è come don Francesco-Chichì), scrive Antonio Socci il 12 novembre, 2015. Non c’è da stupirsi che Bergoglio, a Firenze, abbia manipolato e strumentalizzato anche il don Camillo di Guareschi, dal momento che lo fa pure col Vangelo, facendogli dire l’opposto di quello che c’è scritto (per esempio su Gesù, i farisei e i temi morali). Ma è comico che Bergoglio, per intimare alla Chiesa italiana di stare alla larga dalla politica (cioè per intimarle di inchinarsi al Potere e non disturbare il manovratore), indichi come esempio don Camillo che faceva l’esatto opposto. Don Camillo infatti è il simbolo di quelle migliaia di coraggiosi preti italiani che, anche rischiando la vita, prima e dopo il 1948, insieme a Pio XII, nella battaglia epocale contro il comunismo del dopoguerra, hanno letteralmente salvato l’Italia, guidando la propria gente fin dentro la cabina elettorale, per consegnare il Paese alla libertà e all’Occidente. Salvando la cristianità e scongiurando l’arrivo al potere del Pci di Togliatti e di Stalin. Del resto il modo in cui Bergoglio cita don Camillo è del tutto equivoco: ne fa quasi un cattocomunista. Ecco le sue testuali parole: “pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente”. Da queste parole sembra che don Camillo sia stato un timido assistente spirituale della cellula del Partito comunista guidata da Peppone e pare quasi che abbia accompagnato con la preghiera l’indottrinamento comunista del popolo. E’ un grottesco stravolgimento dei personaggi guareschiani. Don Camillo – come la Chiesa di Pio XII – aveva chiaro che l’impero comunista che, dopo il 1945, si era divorato mezza Europa fino a Trieste, e minacciava direttamente l’Italia, era la più potente e sanguinaria incarnazione anticristica che la Chiesa avesse conosciuto in duemila anni. Per questo è ridicolo dire che don Camillo “fa coppia” con Peppone: erano piuttosto come due pugili che se le davano di santa ragione, perché don Camillo – lungi dal limitarsi alla sola preghiera – combatteva palmo a palmo contro la devastante propaganda comunista, fino a tentare di strappare al Partito (e riportare alla Chiesa) lo stesso Peppone e i suoi familiari. In effetti ci vorrebbero davvero, anche adesso, dei nuovi don Camillo che, con la sua stessa energia, difendessero il popolo dalle nuove (disumane) ideologie di oggi, figlie di quelle di ieri.
Torniamo a Bergoglio. Dopo quella frase equivoca, ha indicato ad esempio ciò che don Camillo dice di sé: “sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie e sa ridere con loro”. Ottima citazione. Purché si aggiunga che è l’esatto contrario di quello che fa Bergoglio, il quale disprezza i cristiani, specie i più eroici, arrivando perfino a rifiutarsi di ricevere in udienza privata i poverissimi familiari di Asia Bibi (la madre cristiana condannata a morte in Pakistan per la sua fede: per lei Bergoglio non ha mai voluto spendere nemmeno una parola). Mentre lo stesso Bergoglio – nel signorile residence in cui vive – continua a ricevere amabilmente e a conversare con il ricco e potente mangiapreti Scalfari, al quale confida idee fuori dalla tradizione cattolica. E quello – felice – ricambia facendogli monumenti su “Repubblica”. Anche il Bergoglio che – tutto soddisfatto – si porta in Vaticano il regalo terribile di Morales, con Gesù Cristo sulla falce e martello, avrebbe fatto inorridire don Camillo. Sia chiaro, don Camillo conosceva bene la miseria che induceva tanta povera gente a credere all’illusorio paradiso promesso dal comunismo e comprendeva la loro ansia di riscatto sociale (infatti al pretino progressista che esalta la povertà ribatte: “la povertà è una disgrazia, non un merito”), ma combatteva il comunismo perché sapeva che era la più terribile truffa ai danni dei poveri. E predicava la regalità sociale di Cristo come l’unico ideale su cui costruire un mondo più giusto.
L’Introduzione a “Il compagno don Camillo” (dove si narra come il prete della Bassa vada in incognito in Urss e combini sfracelli), è scritta nel 1963, fra i fasti del miracolo economico e i “nefasti” della “letteratura social-sessuale di sinistra”, come la chiama Guareschi che mette in guardia – in quell’introduzione – proprio da chi, in Italia, tresca coi comunisti: “si cerca di combinare un orrendo pastrocchio di diavolo e d’Acquasanta, mentre una folta schiera di giovani preti di sinistra (che non somigliano certo a don Camillo) si preparano a benedire, nel nome di Cristo, le rosse bandiere dell’Anticristo”. Guareschi dedica quel libro: “ai soldati americani morti in Corea (nella guerra contro i comunisti, ndr), agli ultimi eroici difensori dell’Occidente assediato (…). E lo dedico ai soldati italiani morti combattendo in Russia e ai sessantatremila che, caduti prigionieri nelle mani dei russi, sono scomparsi negli orrendi Lager sovietici e di essi ancora s’ignora la sorte. Ad essi è dedicato, in particolare, il capitolo decimo intitolato: "Tre fili di frumento". Questo mio racconto” aggiunge Guareschi “è dedicato anche ai trecento preti emiliani assassinati dai comunisti nei giorni sanguinosi della liberazione, e al defunto Papa Pio XII che fulminò la Scomunica contro il comunismo e i suoi complici. È dedicato altresì al Primate d’Ungheria, l’indomito Cardinale Mindszenty e all’eroica Chiesa Martire. A Essi è particolarmente dedicato il capitolo ottavo intitolato: Agente segreto di Cristo”. Siamo agli antipodi del bergoglismo. Anche dal punto di vista umano, don Camillo è l’opposto esatto di Bergoglio. Da una parte c’è il prete italiano formato sul Catechismo di san Pio X che, in nome di Cristo, con audacia e generosa umanità, si oppone dal pulpito e in piazza al grande inganno del comunismo che ha strappato Dio dal cuore del popolo, sostituendolo con un’ideologia disumana. Dall’altra c’è il gesuita furbo che in Sudamerica vive tranquillo sotto i colonnelli e poi, passata quella stagione, civetta con la Teologia della liberazione (versione argentina) e a Roma col mondo scalfariano annacquando il Vangelo e svendendo i “principi non negoziabili” per compiacere i nemici della Chiesa.
Guareschi era furibondo con i guasti del postconcilio e nell’ultimo libro – “Don Camillo e i giovani d’oggi” – racconta lo scontro di don Camillo con i preti progressisti come don Chichì, il cui nome – guarda caso – era proprio “Francesco”. Ecco la descrizione di Guareschi: “Il pretino progressista inviato dalla Curia a rimettere in carreggiata don Camillo, si chiamava don Francesco ma, per quella sua personcina asciutta e nervosa, per quel suo clergyman attillatino, per quel suo continuo agitarsi e scodinzolare, era stato ribattezzato dalla gente don Chichi. Un nomignolo che non significa niente di preciso, ma rende perfettamente l’idea. Don Chichì, demistificata esteriormente la chiesa, aveva sferrato la sua offensiva in profondità, con una serie di prediche che erano una continua, ardente denuncia della malvagità e delle colpe dei ricchi. Parecchia gente disertò la Messa”. Guareschi vedeva lontano. Infatti i disastri del postconcilio allontanarono tanta gente dalla Chiesa anche in Italia, ma soprattutto in Sudamerica dove i preti alla don Chichì e alla Bergoglio presero il sopravvento. Lì, parlando più da (cattivi) sindacalisti che da sacerdoti di Cristo, da decenni hanno perso il popolo, con una drammatica emorragia di fedeli verso le sette o altre confessioni. Forte di questo fallimento pastorale oggi Bergoglio ritiene di dare lezioni a una Chiesa come quella italiana che invece – grazie a Giovanni Paolo II e a Ratzinger – ha tenuto ed è tuttora una Chiesa di popolo. E’ il famoso adagio: chi sa fa, chi non sa insegna. Bergoglio, avendo già fallito in Argentina, vuole imporre a tutta la Chiesa la sua ricetta. Per arrivare al naufragio. Antonio Socci
Post scriptum: DITEMI SE QUESTO DON CHICHI NON E’PROPRIO BERGOGLIO. ECCO UN BRANO CHIARISSIMO DI GUARESCHI: Il pretino progressista, don Chichì, sentenzia rivolgendosi al rude parroco della Bassa: “Don Camillo, la Chiesa è una grande nave che, da secoli, era alla fonda. Ora bisogna salpare le ancore e riprendere il mare! E bisogna rinnovare l’equipaggio: liberarsi senza pietà dei cattivi marinai e puntare la prua verso l’altra sponda. E’ là che la nave troverà le nuove forze per ringiovanire l’equipaggio. Questa è l’ora del dialogo, reverendo!” Ma don Camillo risponde: “Litigare è l’unico dialogo possibile coi comunisti. Dopo vent’anni di litigi, qui siamo ancora tutti vivi: non vedo migliore coesistenza di questa. I comunisti mi portano i loro figli da battezzare e si sposano davanti all’altare mentre io concedo ad essi, come a tutti gli altri, il solo diritto di obbedire alle leggi di Dio. La mia chiesa non è la grande nave che dice lei, ma una povera piccola barca: però ha sempre navigato dall’una all’altra sponda. (…) Lei allontana molti uomini del vecchio equipaggio per imbarcarne di nuovi sull’altra sponda: badi che non le succeda di perdere i vecchi senza trovare i nuovi. Ricorda la storia di quei fraticelli che fecero pipì sulle mele piccole e brutte perché erano sicuri che ne sarebbero arrivate di grosse e bellissime poi queste non arrivarono e i poveretti dovettero mangiare le piccole e brutte?” Da “Libero”, 12 novembre 2015.
I Papi e la tentazione della Sinistra: dal "marxiano" Wojtyla al "comunista" Bergoglio, scrive Piero Schiavazzi su "L'Huffington Post" il 5/05/2014. Il primo comunista fu Wojtyla. Trent’anni fa e in incognito, mantenendosi però a distanza di sicurezza dall’epiteto, poiché per lui sarebbe stato troppo. Mentre in Sudamerica infatti la falce e il martello costituiscono la bandiera degli oppressi, nell’Est europeo rappresentano all’opposto il vessillo degli oppressori. Ad ogni modo già nel 1984, cinque anni prima di abbattere il muro di mattoni, Giovanni Paolo II aveva smontato quello dell’ideologia. Con un’ardita operazione di chirurgia genetica, dissimulata in un testo all’apparenza innocuo: “Reconciliatio et Paenitentia”, il documento finale del sinodo sulla confessione, tenutosi allora in Vaticano. In esso, tanto per restare al linguaggio del confessionale, Wojtyla non “assolveva” il marxismo dalle sue colpe, tuttavia ne assumeva il metodo analitico, depurandolo dal nucleo materialista e ribattezzandolo in un orizzonte concettuale cristiano. Un’abile manovra sotto copertura, che realizzava di fatto un’annessione. Filosofo prima che teologo, il Papa mostrava di non essere rimasto impermeabile, né insensibile, al mantra della lettura marxiana della storia, centrata sull’idea che le impalcature del capitalismo tendono inesorabilmente a sovrapporsi all’uomo e alla sua volontà. Nacque così la teoria delle “strutture di peccato”, sviluppata successivamente nell’Enciclica Sollicitudo Rei Socialis, la più a sinistra del magistero di Giovanni Paolo II, per giustificare l’esistenza di apparati giganteschi e perversi, che risalgono in origine al peccato e alla responsabilità dei singoli, ma poi si consolidano, si ramificano e finiscono per agire autonomamente, “introducendo nel mondo condizionamenti e ostacoli, che vanno molto più in là delle azioni e del breve arco della vita di un individuo”. Una piovra che agli occhi di Bergoglio estende i propri tentacoli al pianeta intero e soffoca la pianta della libertà, inverando “la profezia” di Romano Guardini, esposta lucidamente dieci anni fa dall’arcivescovo di Buenos Aires nel discorso che l’Huffington Post ha pubblicato in esclusiva domenica 27 aprile: “Guardini affermava che il tratto più onnicomprensivo e dirimente della nostra civiltà contemporanea era che il potere si stava trasformando, in modo crescente, in qualcosa di anonimo. Di qui discendono, come da una radice, tutti i pericoli e le ingiustizie che attualmente soffriamo”. Di conseguenza, secondo Francesco, è in ambito lavorativo e sindacale, assai più che partitico e parlamentare, che si giocano le sorti della democrazia nel 21° secolo. Un approccio e quasi un auspicio conflittuale da parte del Papa, come un grido di battaglia che trova legittimazione, anzi consacrazione, nella Lettera Evangelii Gaudium, magna carta e manifesto del pontificato: “Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole…Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire”. Ma procedendo in ordine cronologico, dopo Wojtyla viene Ratzinger. Anche lui, per solidarietà di patria, non si è mostrato indifferente al fascino e al lascito del connazionale Carlo Marx. E in un regolamento di conti tutto interno al mondo tedesco gli ha conteso l’eredità del marchio e del lessico rivoluzionario, rivendicandone il copyright al cristianesimo, rappresentato di volta in volta come religione di rottura, “mutazione genetica” e “fissione nucleare” nella storia dell’umanità. Non solo. Spingendosi oltre, ha perfino cercato di strappare al ‘68 la bandiera della liberazione sessuale, dedicando l’ouverture della sua prima Enciclica, “Deus caritas est”, niente meno che all’eros, “capace di sollevarci in estasi verso il divino e condurci al di là di noi stessi”, in una delle pagine più sorprendenti e insospettate del magistero. Tanto insolita da restare pressoché sconosciuta nelle parrocchie o nelle scuole cattoliche, dove il brano di Joseph Ratzinger subisce una curiosa e bigotta censura, in luogo di venire proposto come manuale d’amore e risposta d’autore, corporea e sensuale, ai solleciti ormonali della letteratura per ragazzi attualmente in voga. Tornando e approdando quindi a Francesco, nel Pontefice argentino confluiscono e affiorano pulsioni libertarie che di per sé soggiacciono, spesso latenti e inespresse, nel ministero petrino, ma vengono oggi esaltate dalla congiuntura storica e dall’indole profetica, dal retaggio biografico e dalle origini geografiche del protagonista, con effetto domino. Del resto in un primo maggio orfano di falci e martelli, asfittico di passioni e prolifico di tensioni, le icone dei Papi contadino e operaio, che continuavano ad affacciarsi dal frontale della basilica di San Pietro, hanno costituito un riferimento nello smarrimento e una conferma del ruolo di leadership sociale che il secolo esige dalla Chiesa e dalle sue guide, pena l’ininfluenza della loro missione spirituale. Rispetto ai predecessori, Bergoglio rappresenta su questa direttrice una evoluzione della specie. Sotto il profilo oggettivo e soggettivo. Geopolitico e antropologico. Dalla cortina di ferro dei regimi dell’Est a quella invisibile del capitalismo finanziario, Francesco ha dichiarato una guerra mondiale e si scaglia contro i nuovi poteri coloniali come un moderno libertador, sostituendo l’impeto creolo di Bolivar, non privo di venature chaviste, al millenarismo slavo di Wojtyla. Al tempo stesso, l’ottimismo gioviale e giovanneo in lui ha ceduto il passo alla percezione drammatica di un nemico non solo immateriale, ma soprannaturale. Alla luce dei suoi costanti richiami a Satana, non è azzardato concludere che, nelle centrali anonime della “economia senza volto” e nella divinizzazione idolatra del mercato, il Pontefice avverte la forma storica della presenza del demonio nella nostra era e considera il magistero ecclesiale alla stregua di un esorcismo, dove l’analisi da sola non può bastare, ma deve farsi azione e invocazione. In un mondo che versa in prognosi riservata, non è più tempo per “eccessi diagnostici”, ma urgono terapie concrete, come si legge ironicamente e severamente nella Evangelii Gaudium, prima di “innescare processi di disumanizzazione da cui poi è difficile tornare indietro”. Venuto dalla terra di Perón, il Papa descamisado che appena eletto rinunciò alla mozzetta, cioè alla “giacca” da pontefice, come se il balcone della basilica fosse quello della Casa Rosada, non ha dismesso l’habitus e la vis sindacale, che nel suo paese risultano connaturati all’idea stessa della leadership. Tale attitudine, asceso al sacro soglio, ne ha fatto seduta stante un sindacalista ed ecologista planetario, conforme alla mission di “custodire il creato”, che si è dato nel giorno inaugurale del ministero. Lavoro e ambiente appaiono del resto intimamente connessi nella sensibilità di Francesco. Proprio il lavoro configura il luogo dove l’uomo decide di proseguire o meno l’opera creatrice di Dio, assecondando “il principio della destinazione universale dei beni” o invece snaturandolo e deviandolo a beneficio di alcuni soltanto. Una scelta da cui scaturiscono “tutte le trasformazioni sociali” e si definisce il grado di democrazia sostanziale di uno stato. Questo profilo sindacale conferisce al pontificato un marcato carattere di “lotta”, che non si esaurisce in una proiezione orizzontale. Audacemente, il Vicario di Cristo non esita infatti a farlo valere anche nei confronti del cielo e a considerare Dio stesso come sua controparte, “lottando” con lui per il popolo come Abramo e Mosè, fino a quando non veda realizzato almeno in parte il suo obiettivo. A quale categoria, psicologica prima che sociologica, della sinistra si deve dunque ascrivere il progressismo del Successore di Pietro? In combinazione ma non in contraddizione con il dirigismo autoritario dei suoi esordi da giovane provinciale della Compagnia di Gesù, candidamente quanto astutamente confessato nell’intervista con Padre Spadaro, il Papa perito chimico è fondamentalmente e prevalentemente un “ribelle”, insofferente alle dimensioni statiche della vita, personali come istituzionali, e tendente a sperimentare in ogni ambito, compreso quello del rapporto con Dio. Sul piano interno tale dinamismo delinea un ampio progetto riformista, che per ora tuttavia si intravede soltanto, appena in itinere e ancora incerto, con gradualità e intensità variabili, come un prototipo camuffato in prova lungo una fitta rete viaria di commissioni, consultazioni, audizioni, atte a orientare e all’occorrenza utili a depistare. Oppure, se vogliamo declinarla nel gergo sportivo caro a Bergoglio, diremo che l’azione riformatrice si sviluppa per passaggi laterali, sul terreno molle, in apparenza condiscendente ma in realtà scivoloso della curia, dove non è facile far viaggiare il pallone e mantenere la lucidità degli schemi. Sul versante esterno, del magistero sociale, l’interventismo di Francesco palesa invece, e infine, un tratto decisamente rivoluzionario e di rottura, che si è manifestato subito in una epifania di gesti profetici e invettive bibliche, dritto a destabilizzare gli equilibri che reggono il mondo, senza nascondere il proprio intento e anzi tanto più dichiarandolo quanto più gli avversari appaiono al contrario anonimi, fuori legge o ammantati di legalità, con la forza d’urto che tradizionalmente la Chiesa impegna nello scontro tra Regno di Dio e impero del maligno. Mettendola nuovamente in chiave di metafora, si evince chiaramente che il Papa in questo caso non fa nulla per tenere palla o prendere tempo, ma coglie di slancio ciascuna occasione per pronunciarsi e tirare in porta, verticalizzando il gioco e spostando l’asse in avanti. Un modulo d’attacco e spettacolare, applicato sul terreno duro di egemonie e disuguaglianze consolidate, dove il contrasto e l’interdizione dei poteri forti non tarderanno, però, a farsi sentire, nel prosieguo di una partita che già presenta i caratteri e la consapevolezza di una sfida mondiale.
Papa Francesco, i cattolici e i comunisti, scrive Gianfranco Morra su "Formiche.net" il 20 11 2016. Ma è vero che il Papa ha preso la tessera del Partito comunista? Assolutamente falso, fandonie e provocazioni. Come avrebbe potuto prendere quella tessera, visto che nel cuore l’ha già da sempre? Ce l’ha spiegato lui stesso nel discorso ufficiale tenuto in Vaticano all’incontro con 180 operatori dei Movimenti sociali del mondo su “Lavoro, casa, terra” il 5 novembre. E, ancor più chiaramente, nell’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari e pubblicata l’11 novembre su Repubblica. Due testi importantissimi, da leggere e meditare. Tutti e soprattutto i cristiani non dovrebbero fare delle ipotesi avventate, la parola del Vicario di Cristo è sempre chiara e decisa. Basta ascoltarla. Vi sono dei tópoi che ricorrono sempre uguali e perentori nei discorsi di Bergoglio. Vale la pena di tentarne, se non un riassunto, un elenco. La Chiesa è dei poveri, anche se non può essere una Chiesa povera, perché i soldi servono, ma vanno usati solo per proteggere e aiutare i bisognosi, è il suo primo dovere. Il 98 per cento dei discorsi del papa esprimono questo impegno socioreligioso, senza trascurare quel 2 per cento, che non manca, dedicato alla vita interiore, alla morale e all’aldilà. I nemici dei poveri e di Dio che li protegge sono i ricchi. Bergoglio riprende il pauperismo della Teologia della Liberazione, suo primo amore: “Il danaro è contro i poveri e i rifugiati”. Solo l’attaccamento a Mammona conduce alcuni paesi europei a rifiutarli, mentre il dovere di un cristiano è di accoglierli tutti, per realizzare un meticciato universale: «Immigrati di tutti i paesi, unitevi». Perché i ricchi sono cattivi, buoni soltanto i poveri. Il Demonio dei poveri è il sistema capitalistico multinazionale, il “Denaro che uccide”, l’economia non diretta e finalizzata all’etica. Bergoglio è un no-global? Certo occorre far cadere la globalizzazione “cattiva”, ma solo per realizzarne una “buona”, tanto che i suoi seguaci si definiscono “alter-mondialisti”. Un nuovo mondialismo dei poveri. Il capitalismo non sfrutta e uccide solo i poveri, ma anche la natura. Bergoglio, soprattutto nella enciclica “Laudato si'” esprime un ecologismo catastrofista, certo partendo da reali pericoli della produzione industriale per la geosfera, ma anche esasperandoli oltre ogni limite ragionevole. Senza tener conto che l’aumento fortissimo della popolazione mondiale richiede dei metodi di trasformazione della natura, che in qualche modo inevitabilmente la modificheranno. Tolti i quali la fame nel mondo e la mancanza di acqua non troveranno una risposta. Il cristiano non deve aver paura del comunismo, ma accettare la sua utopia di liberazione dell’uomo senza usare le armi, rifiutandone cioè i metodi violenti. Scalfari gli ha chiesto: “Lei, che è un rivoluzionario e un profeta, vagheggia una società di tipo marxiano?”. E il Sua Santità ha risposto: “I comunisti la pensano come i cristiani”. Non c’è nessun bisogno di fare un inciucio tra cattolici e comunisti, i veri comunisti sono i cristiani. Ad essi il marxismo ha insegnato che la carità cristiana può realizzarsi solo come amore per i poveri e creazione di una totale eguaglianza. Oggi deve essere il compito primario degli eredi del comunismo, i cristiani. Come insegnava il marxista ebreo Ernst Bloch: Ubi Lenin, ibi Jerusalem. Ecco perché in Bolivia Bergoglio si è messo al collo una medaglia, che raffigurava l’abbraccio della falce e martello con la croce. Parlare di un gioco significa offenderlo: l’ha mostrata come un biglietto da visita, perché ci ha sempre creduto.
Il comunismo è nato nel mondo cristiano, dal quale ha assunto, in chiave atea, tutti i paradigmi: il libro sacro indiscutibile, la fede incrollabile, la promessa di una salvezza in un “regno di Dio senza Dio”, la propaganda missionaria, la disponibilità al sacrificio e al martirio, l’ “indegnità intellettuale e morale” dei dissidenti da scomunicare e bruciare. Esso è stato la “quarta religione ebraica” (Toynbee). Una religione surrogata che si è realizzata come la più sanguinaria e crudele delle ideologie: cento milioni di morti. Ricchi e poveri. Chi volesse oggi, nei paesi evoluti e del benessere, trovare ancora residui di comunismo, deve andare in chiesa. Il processo di secolarizzazione che ha investito la religione nel XX secolo l’ha inevitabilmente spogliata di molte sue dimensioni sacre e soprannaturali, trasformandola in una filantropia sociale. Quella stessa che auspicò in Argentina un filosofo molto vicino a Bergoglio, Gianni Vattimo: “Abbiamo bisogno di una internazionale papista-comunista, che riconosca come leader papa Francesco e conduca sino in fondo la lotta di classe del XXI secolo contro il dominio del capitale” (Discorso al Teatro Cervantes di Buenos Aires, 13 marzo 2015). (Articolo pubblicato su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi).
Il Papa, la Chiesa e l’anticapitalismo globale, scrive Benedetto Ippolito il 6 11 2016 su "Formiche.net". L'analisi di Benedetto Ippolito, storico della filosofia. In un momento molto particolare della storia, in cui si attende l’esito incerto delle elezioni negli Stati Uniti e nel quale non mancano occasioni di morte e di guerra ovunque, certamente la figura internazionale più interessante e incisiva è quella di Papa Francesco. Il Santo Padre, infatti, in questi anni, dall’alto scranno che occupa come titolare del ruolo di guida della confessione cristiana più antica e più importante, non soltanto si sta imponendo come l’unica vera leadership morale e politica mondiale, ma anche come la sola in grado di proporre ricette, disegnare prospettive e lanciare messaggi filosofici universali. Certo, con ciò non si vuole disconoscere il dibattito che molte delle sue idee stanno creando attorno, fuori e dentro la Chiesa Cattolica. Forse il tratto della sua personalità che maggiormente lo contraddistingue è la veracità e la schiettezza con cui denuncia alcuni mali etici e culturali del pianeta, unite ad una coerenza di fondo intransigente e coraggiosa. Se, pertanto, Francesco ha abituato l’opinione pubblica a questo suo stile, a questa sua interpretazione diretta e pratica del Cristianesimo, nel tempo il suo magistero sta maturando e quindi rendendo sempre più chiari i presupposti di fondo che ne ispirano la missione. È in questa ottica non superficiale che va interpretato l’essenziale Discorso che egli ha esposto ieri ai partecipanti al 3° incontro mondiale dei movimenti popolari. Il contesto, bisogna riconoscere, era forse il più congeniale per il Papa: gli uditori, infatti, erano i delegati delle periferie, rurali e industriali di ben cinque continenti. Dunque persone comuni, espressive di un campione identificativo di tutti i popoli della Terra. Secondo un metodo collaudato, Francesco ha ordinato le idee puntando su tre obiettivi da realizzare contro il cosiddetto globalismo dell’indifferenza: primato dei popoli; la pace e la giustizia; la difesa dell’ambiente. La tipicità del suo ragionamento contro i muri e contro la logica del terrore, ha trovato così finalmente la calibrazione decisiva nel più radicale e luminoso discorso di condanna al sistema capitalistico mai fatto da un Pontefice. Con ciò si comprende anche il senso del suo riavvicinamento al Protestantesimo, la cui tappa svedese indubbiamente costituisce una pietra miliare: popoli diversi, religioni diverse, anche forme divergenti di interpretazione del Cristianesimo, possono coniugarsi e avvicinarsi tra loro unicamente se riscoprono il valore principale su cui può reggersi una convivenza autenticamente umana tra le persone, animata dalla consapevolezza democratica orizzontale di un declino ineluttabile del sistema materialistico, che ha negli ultimi trecento anni dominato la scena delle varie rivoluzioni che si sono susseguite: da quella industriale, a quella ideologica, per finire alla sua destinazione tecnologica contemporanea. Per il Papa il nostro tempo ha sancito la fine, insomma, non solo del primato del denaro, ormai divenuto un artefatto al servizio di poteri oligarchici autoreferenziali, improduttivi e oppressivi, ma sta rivelando una deleteria contrapposizione frontale tra il benessere del genere umano, ridotto a scarto della ricchezza finanziaria, e le sovrastrutture create e alimentate da lobbie disumane che distruggono speranza, giustizia, pace, ergendo muri e seminando indifferenza per l’altro. Un messaggio indubbiamente provocatorio e intenso, il quale tuttavia non deve essere confuso, come sovente si fa, con una presa di posizione ideologica neo comunista o neo marxista. Bisogna ricordare che la filosofia di Bergoglio, pur essendo di sensibilità non europea, quindi non sempre facilmente decifrabile, si associa rigorosamente alla linea sociale che da Pio XI arriva a Benedetto XVI, passando per due pontificati rilevantissimi come sono stati quelli di Paolo VI e di Giovanni Paolo II. La tesi centrale è che marxismo e capitalismo sono il prodotto contrapposto di un medesimo materialismo il cui risultato individualista e collettivista si è costruito sul primato del capitale e il disconoscimento del supremo valore d’essere dell’umanesimo. Ed è proprio tale primato del danaro che oggi è sopravvissuto dopo la fine delle ideologie, quasi una sorta di marxismo senza comunismo, il quale sta trasformando il mondo in una giungla invivibile sul piano ecologico, belligerante sul piano politico, disumana e miserabile dal punto di vista etico ed economico. Riscoprire non solo i popoli con le loro identità reali e comunitarie, ma anche le necessità di una convivenza non gerarchica e non verticale, relazionale, caritatevole, misericordiosa e orizzontale, vuol dire avere una visione spirituale anti materialista, anti capitalista e anti marxista, autenticamente cattolica. Papa Francesco, in fin dei conti, presenta una filosofia e una pastorale rigorosamente cristiana, non protetta da autoritarismo di facciata, non pronta a compromessi con l’esclusiva cultura occidentale, perfettamente in linea con la migliore tradizione apostolica romana. Papa Francesco ha ragione a condannare tutto ciò che un tempo avremmo chiamato modernismo, sapendo che oggi tale tentazione si presenta rivestita di un materialismo capitalistico il cui ultimo fine è permettere una vita viziata di individualismo a pochi egoisti e la morte certa del restante genere umano. Ascoltare il Papa significa poter comprendere, in definitiva, ciò che siamo, il nostro tempo e il futuro che possiamo immaginare, ma anche cosa possiamo essere, imboccando la sola via di uscita umana e universale per resistere ad un globalismo violento, corrotto e senza speranza.
COMPAGNO BERGOGLIO. Se per il Papa «i comunisti la pensano come i cristiani», scrive Gianluca Veneziani su "L'Intraprendente" l'11 novembre 2016. Bene, Sua Santità, già non ci pare proprio un’ideona rilasciare l’ennesima intervista al Papa Laico, suo alter ego, Eugenio Scalfari, che finora non si è distinto per aver – usando un eufemismo – riportato fedelmente il Suo Pensiero. Ma facciamo finta che stavolta l’ultranovantenne Eugenio sia stato ligio al dovere, obbediente alla lettera e alla Sua parola, e abbia fatto il bravo cronista, non mettendole in bocca espressioni non Sue. Bene, a questo punto, si pone un problema un tantino più grande, e cioè le cose che Lei gli avrebbe detto, i contenuti stessi dell’intervista, le sue risposte, Santità, che agli orecchi di un cristiano più o meno maturo fanno scandalo, eccome. Ma non nel senso in cui Cristo fece scandalo al mondo. Nel senso, ahimè, esattamente opposto. Spieghiamo perché. Sollecitato da Eugenione, che le vuole far dire che l’eguaglianza cristiana coincide in fin dei conti col socialismo marxiano, Lei gli risponde candidamente: “Semmai sono i comunisti che la pensano come i cristiani”. Boom! Colpiti al cuore e affondati. Rileggiamo, avessimo capito male: “i comunisti la pensano come i cristiani”. Dopodiché Lei riduce Cristo a un capopopolo che “ha parlato di una società dove i poveri, i deboli, gli esclusi, siano loro a decidere”. Ecco, Santità, Lei che non dovrebbe essere proprio a digiuno di dottrina cattolica, sa bene che il comunismo pretendeva di eliminare completamente la dimensione verticale dell’uomo, la sua aspirazione alla trascendenza, con la pretesa di realizzare il Paradiso in Terra. La dialettica marxiana imprigionava il progresso umano, il cosiddetto sol dell’avvenire, tutto all’interno della Storia, senza prevedere vie d’uscita metafisiche. Anzi, la Storia stessa era divinizzata come dinamica ineluttabile che avrebbe condotto al trionfo umano, tutto umano, dell’uomo oppresso e realizzato, in tal modo, anche una rivoluzione antropologica, con la nascita dell’Uomo Nuovo, il Proletario al Potere. L’ideologia comunista diventava allora l’unica fede, era essa stessa la Chiesa, che non prevedeva la sopravvivenza delle vecchie chiese. E l’essere umano, ridotto a una sola dimensione, si riduceva al suo essere materiale, al suo vivere storico, al suo riscatto sociale, con una perdita d’anima, e di tutto ciò che riguardava la vita ulteriore. Far corrispondere viceversa il cristianesimo al mero messaggio di eguaglianza significa banalizzare profondamente la Parola di Cristo, perdere tutta la sua dimensione di salvezza, di promessa eterna, di ingresso nella storia (la kénosis), ma anche di uscita da essa, di riscatto ultraterreno. Ma al di là di questa mancata aderenza dottrinale, ciò che più colpisce è che lei non tiene conto di quanto il comunismo sia stato per decenni il più acerrimo nemico del cristianesimo. Tra Russia sovietica, Cina, Cuba si calcola che siano stati eliminati milioni e milioni di cristiani. Portati nei gulag, vittime di pogrom, privati dei diritti civili, torturati e uccisi per la “colpa” di essere cristiani. Martiri, Sua Santità, del Co-Mu-Ni-Smo. E allora come si fa a derubricare l’ideologia che nel Novecento ha fatto più strage di cristiani, il Male storico per eccellenza che ha provato a scristianizzare l’Europa e il mondo, a una copia del cristianesimo, a una sua imitazione? Parliamo della stessa feroce ideologia contro cui si è battuto come un leone Giovanni Paolo II per tutto il suo pontificato, fino a sconfiggerla, parliamo di quell’ideologia che ha partorito il relativismo più volte denunciato da Papa Ratzinger, parliamo di quel virus che ha provato a contaminare il cristianesimo nel Suo Sudamerica, dando una lettura social-marxista della fede attraverso la Teologia della Liberazione e confondendo subdolamente Croce e Falce e Martello, come simbolicamente ha dimostrato anche il dono fattole dal premier boliviano. Non si è accorto, Sua Santità, che le due cose sono agli antipodi, che dove c’è comunismo non c’è cristianesimo e viceversa, e chiunque provi a ad associarle o è un finto comunista o, come più probabile, un cristiano ipocrita? Lasci stare questi paragoni, Sua Santità, non si faccia blandire dal Verbo di Eugenio Scalfari, si riferisca piuttosto a un altro Maestro, di cui Lei dovrebbe essere il rappresentante in Terra. E non si lasci sedurre dal mondo, come troppo spesso le capita, ché noi vorremmo sentirla più Pastore e meno Compagno, Papa e non Guru laico, ché per quello già ci basta Barbapapà.
Il Papa: "Non sono comunista", scrive Igor Traboni su “Il Giornale d’Italia” il 28 febbraio 2014. Bergoglio azzittisce tanti progressisti di casa nostra: "Se difendo i lavoratori, sono un cristiano coerente". Anche questa volta Papa Francesco non le manda a dire. Soprattutto a quanti lo tirano per la papalina del progressismo (a giorni alterni però, ovvero quando non parla di valori cristiani come il diritto alla vita o famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna). Ieri Bergoglio, durante l’omelia della consueta Messa mattutina a Santa Marta, ha infatti detto: “Chi difende la giusta paga contro lo sfruttamento dei lavoratori non è un comunista, è un cristiano coerente”. Richiamando subito dopo le parole dell’apostolo Giacomo, che già parecchi secolo fa faceva riferimento a "alcuni incoerenti, che si vantavano di essere cristiani, ma sfruttavano i loro dipendenti. Ecco: il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre e che voi non avete pagato, grida; e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore Onnipotente". E qui Papa Francesco ha esclamato: “Se uno sente questo, può pensare: 'Ma questo lo ha detto un comunista...'. No, no, l'ha detto l'apostolo Giacomo! E' Parola del Signore! E' l'incoerenza e quando non c'è la coerenza cristiana e si vive con questa incoerenza, si fa lo scandalo. E i cristiani che non sono coerenti fanno scandalo". Tutto qui, tutto straordinariamente qui. Altro che le ‘lenzuolate’ di Eugenio Scalfari – comprese le interpretazione di comodo dello stesso fondatore di Repubblica – o le letture a senso unico di altri cattocomunisti di casa nostra. D’altro canto, non è la prima volta che Bergoglio dà pane al pane e vino al vino su certe tematiche, ad iniziare da quella ‘teologia della liberazione’ da lui sempre condannata, da semplice vescovo a Pontefice, dimostrando come la ‘liberazione’ è ben altra cosa. E non s può certo dire che Bergoglio, dal suo passato osservatorio privilegiato in America Latina, non conoscesse le storture di quella corrente ecclesiastica.
Ci sono un Papa, due preti e un comunista...La credenza che papa Francesco sia orientata a sinistra risale al conclave del 2005, quando il gruppo di porporati progressisti che faceva riferimento al cardinal Marini lo votò per ostacolare l'elezione del "reazionario"Joseph Ratzinger, scrive il 3 Gennaio 2017 “Il Populista". Strana, la Sinistra. In Italia di papa Bergoglio ne ha fatto un eroe, solo perché ha telefonato a Pannella e ha detto di leggere unicamente Repubblica, in Argentina ne ha fatto un nemico, perché lo ritiene responsabile dell'arresto e della tortura di due preti comunisti. Durante il regime di Jorge Videla, che mai Francesco denunciò apertamente, monsignor Bergoglio avrebbe abbandonato i due confratelli gesuiti mandati a vivere in una baraccopoli di Buenos Aires, le villas miserias, che furono rapiti, torturati e segregati dai militari con l'accusa di favoreggiamento verso la guerriglia comunista dei montoneros. Accuse false, in realtà, smentite poi da uno dei due sacerdoti sopravvissuti. In entrambi i Paesi la Sinistra non si è resa conto che il porporato di Bergoglio ha sempre tenuto le distanze dal mondo della politica, sia ai tempi di Carlos Menem che dei coniugi Kirchner, con i quali gli incontri sono stati rarissimi (anche se il presidente Cristina Kirchner è stata l'unico capo di stato ricevuto da papa Francesco prima dell'insediamento ufficiale del 19 marzo 2013). La credenza che papa Francesco sia orientata a sinistra risale al conclave del 2005, convocato alla morte di papa Wojtyla, quando il gruppo di porporati progressisti che faceva riferimento al cardinal Marini votò Jorge Bergoglio intendendo ostacolare l'elezione di Joseph Ratzinger, candidato più forte ritenuto però più reazionario. Come andò a finire è noto.
Il Papa non è comunista: "Solo sinistrino", scrive Mario Giordano su “Libero Quotidiano il 24 settembre 2015. "Scusi Papa, lei è comunista?", "No, se volete posso recitare il Credo". Dite la verità: se questo dialogo non l'aveste ascoltato con le vostre orecchie non ci avreste creduto. Invece è successo davvero. È andata proprio così. E per fortuna i giornalisti a bordo dell'aereo papale non hanno invitato Francesco a procedere con la recita della preghiera. Altrimenti avremmo potuto avere qualche altra sorpresa: «Credo in Guevara onnipotente, creatore del cielo e della revolucion…». Esagerato? Ma no: in fondo i giornali, nel riferire dell'incontro fra il Pontefice e Fidel Castro, avevano parlato di «abbraccio delle due rivoluzioni», avevano detto che «una rivoluzione lascia il posto ad un'altra» come in un ideale «passaggio di consegne». E avevano definito il Papa argentino come un «Che disarmato». Quasi che il cristianesimo potesse ormai considerarsi un'appendice del castrismo. E come se l'unica differenza fra Francesco e Guevara fosse nell' assenza del mitra dalle sue mani. Dunque non osiamo immaginare i prossimi viaggi aerei. E i prossimi colloqui con i giornalisti. Scusi Papa, lei è comunista? No, non ho mica ordinato di sostituire Amen con Hasta la victoria siempre. E non ho nemmeno adottato come catechismo il libretto rosso di Mao. Se volete posse recitare anche l'Ave Maria, conosco il Gloria al Padre un po' meglio del Gloria a Marx, non sarei nemmeno d' accordo con la canonizzazione di Togliatti e la sostituzione della via Crucis con la Lunga Marcia. E allora che volete? È tutto frutto di una cattiva interpretazione. L'altro giorno, per dire, quanto ho celebrato messa lì, fra il crocifisso e Che Guevara, non ho mica fatto confusione fra i due. E anche con Fidel Castro è stato un bel colloquio, abbiamo parlato dei gesuiti e dell'ecologia. Lui si è pentito? No, però neanch' io sono diventato Lider Maximo. Quindi se non altro siamo pari. Scusi Papa, lei è comunista? Ma no, insomma: basta con queste insinuazioni. E poi il comunismo che cos' è? L' avete visto? Fidel Castro aveva la tuta sponsorizzata dall' Adidas. Ecco, forse si è convertito: al capitalismo. Per non essere da meno io mi sono fatto sponsorizzare dalla Fiat. Poi dite che Castro non ha nulla da insegnare… Avete visto quant' era bella la Fiat 500 L con cui sono andato in giro negli Stati Uniti? Me l'ha mandata Marchionne. Non è bellissimo andare in 500 L? Faccio finta di essere umile e insieme faccio un spot alla grande industria. Così lo capiscono tutti che non sono comunista. Che poi, scusate, questa storia del comunismo è francamente esagerata. Al massimo ho dato un'impressione «un po' sinistrina» (testuale, lo giuro, sull' aereo ha detto proprio così: «un po' sinistrina»). Ma è solo un'impressione sbagliata, per dimostrarvelo se volete vi recito il Credo: credo in Obama onnipotente, creatore del cielo e dei radical chic. Qui negli Stati Uniti in effetti mi hanno accolto come una rockstar: bandierine. T-shirt, borse e zainetti con il mio logo, lo slogan «Love in our mission tour 2015». C'era anche l'hastag: #PopeinDc. Non è meraviglioso? Se volete vi recito il Credo: credo in Twitter onnipotente, figlio unigenito dell'account… Scusi Papa, lei è comunista? No, ve l'ho già detto: al massimo «sinistrino». Fra l'altro negli Stati Uniti, lo sapete, sono degli esperti nei software per limitare le emissioni: hanno bloccato le Volkswagen, avrebbero bloccato anche il mio castrismo. Così, nel discorso alla Casa Bianca, mi sono limitato a citare Martin Luther King, che è ecocompatibile e fa molto chic, soprattutto con Obama e Michelle lì davanti, e poi non impegna. È stata un bella idea, no? Martin Luther King si porta con tutto, non è come Che Guevara che è ingombrante, così ingombrante da dominare piazza della Rivolucion mentre dicevo Messa. E poi, già che c'ero, sempre per essere radical chic, alla Casa Bianca sono tornato a parlare di profughi. In questi giorni è l'argomento più trendy che ci sia, quasi trendy come la Fiat L 500 e Twitter. Però adesso non dite che sono noioso e che dico sempre le stesse cose. È vero: ne avevo parlato a Roma prima di partire. E ne ho parlato oggi, appena arrivato negli Stati Uniti. Ma all' Avana, per dire, ecco: lì mi sono trattenuto. Nemmeno una parola sui migranti. Nemmeno una parola su quelli costretti a scappare da Cuba per via del terrore comunista o della fame castrista. Che dite? Che c' erano anche dei dissidenti che volevano incontrarmi? Mi spiace ma non era previsto, non ho ricevuto nessuno e c'era anche un Capo dello Stato che lo chiedeva (testuale, ha detto proprio così: "non era previsto, non ho ricevuto nessuno e c'era anche un Capo dello Stato che lo chiedeva"). E allora perché continuate a domandarmi se sono comunista? Hanno pure detto che sono l'Antipapa perché porto le scarpe rosse. Che sciocchezza. Se volete vi canto il nuovo canto liturgico, l'ho appena composto: fischia il vento, infuria la bufera, scarpe rosse eppure bisogna andar. Osanna nell' alto del ciel. Anzi del Che.
Il Papa è il leader mondiale dei no global. Sconfitta la Clinton, ormai l’unico riferimento della sinistra è Francesco. Che, infatti, parla sempre più da politico, scrive Antonio Socci il 13 novembre 2016 su “Libero Quotidiano”. I no global ora hanno un leader planetario: papa Bergoglio. Però non si definiscono più «no-global», ma «altermondialisti» perché vogliono la globalizzazione, ma «in una forma diversa». Lo ha spiegato ieri, in un’intervista, Vittorio Agnoletto - portavoce della contestazione contro il G8 di Genova del 2001 - indicando appunto in papa Francesco il loro «punto di riferimento etico e morale». Soprattutto adesso che - dice Agnoletto - «la sinistra politica siè dissolta» e sulla scena mondiale ha fatto irruzione il Kattivo: Trump. «Cinque giorni fa» racconta ancora Agnoletto «il Papa ha convocato in Vaticano un incontro con 180 personalità, leader o protagonisti dei movimenti sociali. C’ero anch’io. Abbiamo lavorato, al di là del credo religioso dei singoli, su tre temi proposti personalmente da lui: lavoro, casa e terra. A questi si è aggiunta una riflessione comune sulla democrazia partecipativa e sulle migrazioni. Alla fine, davanti a più di tremila persone in sala Paolo VI, il Papa ha parlato e ha riproposto i contenuti del nostro movimento. Ma ci ha anche detto che dobbiamo fare un salto nella politica, perché dobbiamo cambiare un sistema fondato sulle ingiustizie». Più che un papa è davvero il loro leader politico. Infatti Agnoletto spiega: «Sul piano politico oggi è una partita a tre: gli alter-mondialisti, vicini a Francesco. In mezzo c’è l’establishment. Poi ci sono le destre nazionaliste e razziste, che sono cresciute dove abbiamo perso noi». Papa Bergoglio è per loro il nuovo (e mondiale) Bernie Sanders (che non a caso era stato da lui ricevuto in Vaticano durante le primarie). Che potesse andare a finire così era prevedibile. Già Fausto Bertinotti lo aveva fatto capire. Ma Gianni Vattimo, filosofo e parlamentare della variegata sinistra italiana, è stato il primo a indicare Bergoglio come il leader della sinistra mondiale, il 13 marzo 2015, a Buenos Aires, nel Teatro Cervantes affollato di entusiasti. Lì Vattimo lanciò la proposta di una nuova «Internazionale» comunista che fosse anche «papista», cioè riconoscesse papa Francesco come il suo leader, come il grande paladino di quella «lotta di classe del XXI secolo» che si oppone al dominio del capitale. La cosa, con il tempo, è apparsa sempre più verosimile, soprattutto considerando i tre cavalli di battaglia del suo pontificato: il pauperismo della Teologia della liberazione che lo porta a sostituire (di fatto) Gesù Cristo con i nuovi proletariati; l’ideologia emigrazionista di massa (si vedano le tesi sulla «moltitudine» di Toni Negri) e l’ecologismo catastrofista della sua enciclica ambientalista. Venerdì scorso, sul Tempo, è stato lo storico cattolico Roberto De Mattei a prendere atto della realtà: «Dopo la disfatta della Clinton, Francesco è rimasto l’unico punto di riferimento della sinistra internazionale, priva di leader. Quando, il 5 novembre, si è concluso in Vaticano il Terzo Incontro mondiale dei cosiddetti “Movimenti popolari”, alla presenza di agitatori rivoluzionari dei cinque continenti, papa Francesco si è rivolto loro dicendo “Faccio mio il vostro grido”. Ma il grido di protesta che si leva dai movimenti convenuti nella sala delle udienze Paolo VI, è purtroppo caratterizzato dal fanatismo ideologico». Il caso ha voluto che proprio in concomitanza con questo articolo di DeMattei, su Repubblica uscisse l’ennesima intervista di Scalfari a Bergoglio e stavolta si è trattato di una intervista totalmente politica: la «lotta alle disuguaglianze» e la questione emigrazione come centro di tutto (il «migrante» ha soppiantato i temi spirituali e la vita eterna che neanche esistono nell’intervista di Bergoglio).Lo stesso Scalfari ha commentato compiaciuto: «Questo, come lei sa, è il programma del socialismo marxiano e poi del comunismo». Bergoglio non ha obiettato, anzi ha risposto che «i comunisti la pensano come i cristiani». L’intervista è stata realizzata alla vigilia del voto americano e pubblicata dopo. Avendo vinto Trump - cioè proprio l’uomo contro cui Bergoglio si scagliò perle sue idee sull’emigrazione - il papa argentino si trova lanciato sulla scena mondiale come l’antagonista morale e politico del nuovo presidente Usa. Del resto si comporta più da politico che da papa, avendo molto più interesse per le questioni sociali che per quelle spirituali o per quelle dottrinali (che liquida sempre con disprezzo). La collocazione politica di Bergoglio è molto chiara: basta confrontare il suo duro attacco (preventivo) a Trump con gli affettuosi segnali di amicizia e disponibilità che invece ha inviato, in diversi modi, ai regimi comunisti di Cina e Cuba. Il celebre anatema di Bergoglio «contro l’economia che uccide» è stato scagliato sull’Occidente, sui sistemi capitalistici, cioè l’Europa e l’America. Non si ricorda che abbia mai condannato i sistemi comunisti con la stessa veemenza (e sì che - quanto a uccisioni ed «economia che uccide» - su Cina e Cuba ci sarebbe stato da dire più di qualcosina…). Inoltre DeMattei ha ricordato che nel suo ultimo viaggio in Sudamerica, Bergoglio ha reso visibile la sua simpatia per i leader di Bolivia ed Ecuador e il 24 ottobre scorso ha addirittura ricevuto il presidente venezuelano Maduro, «anch’egli di estrema sinistra, a cui ha assicurato il suo sostegno». Mentre non ha avuto «nessuna parola di approvazione e compiacimento» nota De Mattei «per lo straordinario gesto del presidente del Perù, Kuczynsky, che, il 21 ottobre, davanti ai membri di Camera e Senato, ha consacrato il suo paese al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria». D’altronde, nonostante la sua invadenza politica, Bergoglio ha raccolto in Sudamerica una serie di sconfitte clamorose. Anzitutto nella sua Argentina, dove il candidato presidente da lui sponsorizzato è stato battuto dal candidato di centrodestra, Mauricio Macrì, con grande disappunto di Bergoglio che lo ha manifestato pubblicamente. Poi c’è stata la disfatta politica (non proprio gloriosa) dei suoi amici brasiliani, Lula e Dilma Roussef (che erano gli ultimi simboli della sinistra mondiale). Quindi, il 2 ottobre scorso, la sconfitta nel referendum, in Colombia, sull’accordo di pace con le Farc che Bergoglio aveva personalmente sponsorizzato. Con la vittoria di Trump negli Stati Uniti, dovuta anche al massiccio voto dei cattolici, Bergoglio incassa l’ennesima, micidiale batosta e adesso la sua sovraesposizione come bandiera dell’estrema sinistra, specie sul tema dell’emigrazione, accentuerà i suoi problemi nella Chiesa, dove è percepito, sempre di più, come un politico e un corpo estraneo. A bocciare, in questi giorni, con una semplice frase, l’ideologia emigrazionista di Bergoglio, è stato proprio un cardinale africano, Robert Sarah, un uomo straordinario che, nel suo Paese, è stato un vescovo eroico, che ha rischiato la vita. Sarahè sempre molto vicino alla sua Africa e al popolo povero da cui proviene e di cui ha sempre condiviso la povertà materiale e la ricchezza spirituale. Oggi in Vaticano si occupa di liturgia, è molto vicino a Benedetto XVI ed è molto amato dal popolo cattolico per la sua sapienza cristiana e la sua profonda spiritualità. In un’intervista di questi giorni, lui, che proviene dall’Africa, ha parlato così dell’Occidente: «La più grande preoccupazione è che l’Europa ha perso il senso delle sue origini. Ha persole sue radici. Ma un albero che non ha radici, muore. E io ho paura che l’Occidente muoia. Ci sono molti segni. Il crollo della natalità, per esempio. E poi voi siete invasi da altre culture, altri popoli, che gradualmente vanno a sopravanzarvi in numero e a cambiare totalmente la vostra cultura, le vostre convinzioni, i vostri valori. C’è anche, come si vede, questa (vostra) ansia, per la quale solo la tecnologia e solo il denaro contano. Non vi è alcun altro valore». Così parla un vero pastore della Chiesa: da uomo di Dio, non da uomo di potere (cioè da politico).
Il piano per far dimettere il papa "comunista", scrive Antonio Socci il 28 febbraio 2017 su Libero Quotidiano”. Giorni fa Der Spiegel ha riferito le parole di papa Bergoglio ad alcuni fedelissimi: «Non è escluso che io passerò alla storia come colui che ha diviso la Chiesa Cattolica». È per questo che il suo amico Eugenio Scalfari lo considera il più grande «rivoluzionario». Tempo fa una copertina di Newsweek si chiedeva se il papa è cattolico («Is the pope catholic?»). E un'altra dello Spectator lo rappresentava su una ruspa demolitrice col titolo: «Pope vs Church» (il Papa contro la Chiesa). Coglievano un sentire diffuso. In effetti a quattro anni esatti dalla «rinuncia» di Benedetto XVI e dall' irrompere di Bergoglio, la situazione della Chiesa cattolica si è fatta esplosiva, forse davvero al limite di uno scisma, più catastrofico di quello del tempo di Lutero (che peraltro oggi viene riabilitato nella chiesa bergogliana). La confusione è enorme anche perché si susseguono le picconate pure dei suoi stretti collaboratori. Nei giorni scorsi ha suscitato sconcerto il nuovo Generale dei gesuiti (voluto da Bergoglio) per quello che ha detto sul Vangelo e su Gesù. Come pure il nuovo presidente della Pontificia Accademia per la vita, nominato dallo stesso Bergoglio, che ha fatto l'esaltazione incondizionata di Marco Pannella arrivando ad affermare: «Io mi auguro che lo spirito di Marco ci aiuti a vivere in quella stessa direzione». Nella Chiesa sta accadendo di tutto. I massimi esponenti dell'ideologia laicista sulla vita sono invitati con tutti gli onori al simposio vaticano, i cardinali che chiedono al papa di chiarire o correggere i punti erronei dell'Amoris laetitia vengono trattati malamente. Poi stanno per istituire le «donne diacono» e potrebbe addirittura venir manomessa la liturgia per andare verso una «messa ecumenica» con i protestanti che segnerebbe il punto di non ritorno. Giorni fa una vescova protestante del nord Europa - con l'intenzione di fargli un complimento - ha dichiarato che Bergoglio le sembra sempre di più un criptoprotestante («verklappter protestant»). Molti fedeli cattolici hanno proprio il timore che sia vero. Per questo gran parte dei cardinali che lo votarono è fortemente preoccupata e il partito curiale che organizzò la sua elezione e che lo ha affiancato fin qui, senza mai dissociarsi, sta coltivando l'idea (a mio avviso velleitaria) di una «moral suasion» per convincerlo alla pensione. Avrebbero già il nome di colui che dovrebbe rimpiazzarlo per «ricucire» la Chiesa in frantumi.
Ma per capire meglio quello che sta accadendo, è necessario ricostruire com' è che la Chiesa è finita in questa situazione, forse la più grave dei suoi 2000 anni di storia. Bisogna partire dal contesto geopolitico degli anni Novanta, quando gli Stati Uniti, ritenendo di essere rimasta l'unica grande potenza mondiale, cominciarono a elaborare il progetto di un mondo unipolare «per un nuovo secolo americano». Fukujama annunciò «la fine della storia» cioè un pianeta totalmente americanizzato. Una follia, l'ultima utopia ideologica del Novecento. Il presupposto era che - spazzato via il blocco sovietico - la Russia democratica, prostrata e umiliata da un'americanizzazione selvaggia sotto Eltsin, non riuscisse mai più a risollevarsi, restando una depressa provincia dell'impero. Poi è arrivata la grande crisi del 2007-2008, mentre in Russia un nuovo leader, Vladimir Putin, ha riportato il più vasto Paese del mondo a ritrovare la sua identità spirituale, una vera indipendenza nazionale (anche economica) e un ruolo internazionale. Così, dal 2010 al 2016 l'amministrazione Obama/Clinton (con annesso sistema di potere globale) ha sviluppato una pesante strategia planetaria che mirava a isolare la nuova Russia di Putin e neutralizzarla. I due pilastri geopolitici dell'impero Obama/Clinton erano - in Europa - il fedele vassallo tedesco guidato dalla Merkel; nell' area mediorentale l'Arabia Saudita. Dovendo anzitutto spazzar via la presenza russa nel Mediterraneo e in Medio Oriente, gli Usa si sono schierati per l'eliminazione dei due regimi di quest' area alleati della Russia, cioè Libia e Siria guidati da Gheddafi e Assad. L' idea americana prevedeva di lasciare questa regione sotto l'egemonia dell'Arabia Saudita, ma è anche strana la sottovalutazione obamiana del rischio rappresentato dai Fratelli musulmani protagonisti delle cosiddette «primavere arabe». Anche in Europa assistiamo ad altri sommovimenti. Nel 2011 il governo italiano guidato da Berlusconi si trova isolato nella Ue franco-tedesca di Merkel e Sarkozy, quindi finisce sotto attacco attraverso il cosiddetto spread ed è costretto alle dimissioni (peraltro Berlusconi a quel tempo era l'unico capo di governo europeo con cui Putin avesse un rapporto di amicizia). Poi assistiamo alla destabilizzazione diretta dell'area russa con l' incendio dell' Ucraina che fornisce alla Nato il pretesto per portare tutta l' Europa dell' Est, fino ai confini russi, sotto il suo protettorato. Addirittura iniziano pericolose manovre militari al confine che creano un clima da guerra fredda. Già da tempo del resto i media occidentali sono pesantemente all' attacco di Putin, una criminalizzazione curiosa, considerato quello che gli americani - con le loro «guerre umanitarie» - stavano facendo. Nel frattempo Obama - col secondo discorso d' insediamento - ha lanciato anche un’offensiva ideologica che mira a imporre al mondo una nuova antropologia liberal, cioè relativista (nozze gay, gender ecc). È un progetto globale che tenta di de-costruire (oltre alle identità sessuali) le identità nazionali, culturali e religiose anche attraverso il fenomeno migratorio. Lo stesso segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon esalta le migrazioni come nuova frontiere del progresso a cui nessuno deve opporsi. Il fenomeno esplode: dal 2010 al 2016 c' è un vertiginoso aumento delle masse di migranti che si riversano in Europa, anzitutto tramite Italia e Grecia. Nel frattempo cosa accade nella Chiesa? Dal 2010 si assiste a una pesantissima pressione, interna ed esterna, contro il pontificato di Benedetto XVI che, nel febbraio 2013, «rinuncia». Nei giorni scorsi alcuni intellettuali cattolici americani hanno chiesto pubblicamente a Trump di aprire un'indagine per appurare - considerati alcuni documenti usciti da Wikileaks - se vi siano state, fra 2012 e 2013, interferenze americane per un «cambio di regime» in Vaticano. Ma stiamo ai fatti pubblici. Nel 2013 viene eletto papa Bergoglio che accantona il magistero dei papi precedenti, troppo ostico per l'ideologia dominante (niente più principi non negoziabili, né radici cristiane dell'Europa, né confronto virile con l'Islam come il discorso di Ratisbona). Bergoglio aderisce all' Agenda Obama: viva l'emigrazione di massa, abbraccio con l'Islam ed ecologismo catastrofista. Ma aderisce pure all' Agenda tedesca che va verso una protestantizzazione della Chiesa Cattolica. In effetti due sono i «partiti» che lo hanno eletto: quello progressista guidato dai cardinali tedeschi (che si rifaceva al cardinal Martini e al gruppo di San Gallo) e il «partito della Curia» che ha mal sopportato Benedetto XVI e vuole riprendere il controllo della Chiesa. È quest' ultimo, che ha sostenuto tutto il pontificato di Bergoglio, quello che oggi punta a portare al papato l'attuale segretario di stato Pietro Parolin. La motivazione addotta è «per ricucire» la Chiesa e scongiurare una tragica spaccatura. C' è sicuramente una seria preoccupazione per la confusione e lo sbandamento di oggi. Ma molti ritengono che la bussola di questo partito sia sempre il potere ecclesiastico, che oggi è limitato dalla «curia parallela» creata a Santa Marta. Confidano nel fatto che lo stesso Bergoglio ha parlato in passato di sue possibili dimissioni e, nel 2015, disse: «Tutti i servizi nella Chiesa è conveniente che abbiano una scadenza, non ci sono leader a vita nella Chiesa. Questo avviene in alcuni Paesi dove esiste la dittatura». Dunque dimissioni? Probabilmente s' illudono. D Antonio Socci.
LA LAVATA DEI PIEDI AI MUSSULMANI.
Il Papa non frena il dialogo con l'islam, scrive Giancarlo Mazzuca, Domenica 1/04/2018 su "Il Giornale". Ricevere una lettera dal papa. È capitato al sottoscritto che è andato in Vaticano per ritirare il messaggio che Francesco ha scritto come prefazione al libro Noi fratelli (Mondadori) completato assieme al collega Stefano Girotti Zirotti e in libreria dai primi di maggio. L'opera cerca di rileggere i tentativi di dialogo tra il mondo cristiano e quello musulmano da Maometto fino ai giorni nostri: tante guerre e tanti fallimenti. Eppure papa Francesco continua a portare avanti la missione che è, forse, diventata il punto centrale del suo pontificato. È sufficiente guardare in retrospettiva cosa è successo in questa settimana pasquale: se Bergoglio ha lanciato un altro ponte verso l'Islam lavando i piedi anche ad alcuni detenuti musulmani durante i riti del Giovedì Santo e facendo portare la croce, nella «Via Crucis» dell'altra sera, a suor Genevieve al-Hadaj, la religiosa irachena scampata all'Isis, l'emergenza-terrorismo di matrice religiosa non si attenua e comincia a prendere di mira anche l'Italia con gli ultimi arresti di estremisti. Il Santo Padre non si illude e, nella lettera-prefazione, scrive: «Nessuno di noi ha la sfera di cristallo per sapere come andranno le cose. Ma è certo che davanti a noi stanno l'acqua e il fuoco - come direbbe Siracide 15,16 e spetta a noi continuamente scegliere dove tendere la mano». Secondo Francesco, è opportuno porsi la domanda sul futuro dell'Europa guardando le luci e le ombre del passato: in questo senso, il pontefice giudica gli autori del libro «audaci e, al tempo stesso, realisti» anche perché, scrive, il dialogo non deve essere portato avanti solo dalle élites, ma da «ogni persona nel vivere quotidiano». Al di là delle parole, il messaggio del Santo Padre rafforzato da due interviste riportate nel libro al cardinale francese Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, e a Mohammad Masjed Jamei, guida spirituale ed ex ambasciatore iraniano presso la Santa Sede - è molto chiaro: stanno venendo al pettine i nodi irrisolti da secoli di contraddizioni e di scontri. A questo punto, dobbiamo, dunque, interrogarci in modo ancor più pressante sui prossimi scenari. In questi cinque anni appena compiuti di pontificato, abbiamo spesso sentito Francesco parlare di fratellanza tra cristiani e musulmani. Tanti ramoscelli d'ulivo papali che hanno anche provocato molte critiche, a cominciare da quelle di Magdi Cristiano Allam che considera sbagliato l'atteggiamento di apertura perché, a suo parere, finisce per legittimare l'Islam e per denunciare la nostra arrendevolezza nei confronti del terrorismo. Ma oggi, con il messaggio che ha inviato, il papa sembra andare più in là interrogandosi sulla tenuta del vecchio continente e coinvolgendo un po' tutti. Anche noi, in questi mesi, ci siamo resi conto in modo particolare del momento molto delicato che attraversiamo andando a bussare alla porta di vari leader religiosi musulmani: tranne pochissime eccezioni, il dialogo non sembra ancora facile.
Papa Francesco e la pericolosa rivoluzione del politicamente corretto. Il vaticanista Americo Mascarucci nel suo libro “La rivoluzione di papa Francesco” racconta le tante aperture di Bergoglio, i dubbi, le perplessità e il disorientamento di una parte del mondo cattolico e i rischi di un carisma che appare svuotato di riferimenti dottrinali, scrive Fabrizio de Feo, Lunedì 02/04/2018, su "Il Giornale". Americo Mascarucci è il giornalista che due giorni prima dall’Habemus Papam e dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro, predisse la sua elezione. Ora, cinque anni dopo quel momento, Mascarucci analizza i frutti e gli effetti del suo pontificato in un libro - «La rivoluzione di Papa Francesco - Come cambia la Chiesa da Don Milani a Lutero» (edito da Historica Edizioni) - che è anche un approfondito viaggio tra i tanti dubbi seminati dalle aperture Papa Francesco e in particolare sull’accusa di cedere al sincretismo, al relativismo, all’equiparazione di tutte le religioni, all’idea che tutte le religioni siano uguali e quindi interscambiabili. Mascarucci nel suo libro evidenzia quanto Bergoglio si concentri su un concetto di santità basato sulla «profezia», ovvero la capacità di saper anticipare i tempi. «Papa Francesco sembra orientato a privilegiare quelle figure che, nella sua ottica, erano dalla parte giusta quando la Chiesa ne contrastava o ne puniva l’irruenza, lo spirito ribelle, il comportamento molto ideologico e poco pastorale». Come avvenuto per don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana che risultava incomprensibile all’epoca anche ai settori più progressisti della Chiesa che ne criticavano le derive protestatarie e rivoluzionarie, la volontà di piegare il Vangelo alle sue discutibili convinzioni ideologiche, in una sorta di lotta classista che sarebbe poi in parte diventata un prezioso manifesto per il ’68 italiano. O come nel caso di don Primo Mazzolari, il parroco di Bozzolo che cercava il dialogo con i comunisti evidenziando gli stretti collegamenti fra la dottrina cristiana e il marxismo negli anni in cui la Chiesa era sotto l’attacco del comunismo in tutto il mondo e l’Italia faticava ad arginare l’avanzata elettorale dei social-comunisti legati a doppio filo con la Russia di Stalin. Un prete duramente censurato dalla Chiesa di Pio XII e che oggi Francesco riabilita ignorando completamente il contesto storico che giustificò l’ostilità della Chiesa verso di lui. Francesco poi sogna di elevare agli onori degli altari l’arcivescovo brasiliano Helder Camara in virtù del suo impegno verso i poveri, dimenticando le posizioni di quello che fu definito in Vaticano il «vescovo rosso», in favore del divorzio, dell’aborto, del controllo delle nascite, dell’abolizione del celibato sacerdotale. Un Papa che in questi primi anni di pontificato non ha fatto che riabilitare e «perdonare» i nemici di Wojtyla e di Ratzinger: dal teologo brasiliano Leonardo Boff, uno dei fondatori della Teologia della Liberazione, all’ex prete guerrigliero Ernesto Cardenal protagonista della rivoluzione in Nicaragua e ministro del governo comunista dei sandinisti, autori della violenta contestazione contro Giovanni Paolo II nel 1983. Per finire con il teologo svizzero Hans Kung, contestatore dei dogmi mariani e dell’infallibilità papale, il principale ispiratore delle contestazioni interne alla Chiesa cattolica al quale Francesco non ha mancato di mostrare attenzione e apprezzamento dichiarandosi perfino disponibile a discutere le sue obiezioni. E poi c’è la vicinanza a capi di stato ed esponenti politici lontani anni luce dalla Chiesa, promotori dell’affermazione dei diritti civili, del relativismo etico, del laicismo. Da Barak Obama ad Emma Bonino, figure che hanno lottato per l’affermazione di diritti come il divorzio, l’aborto, l’eutanasia, le nozze gay, che hanno sposato l’ideologia gender e hanno contribuito a sradicare le radici cristiane dal tessuto economico e sociale dell’Europa e del mondo, spesso amati da Francesco perché promotori del principio dell’accoglienza e della solidarietà verso i migranti. E infine l’attenzione spasmodica verso il mondo protestante e l’appassionata difesa di Martin Lutero, colui che ha diviso la Chiesa e spezzato l’unità di tutti i cristiani. Mascarucci ricorda - a proposito di profezie - quanto siano state smentite quelle di coloro che immaginavano di trovare in Bergoglio un naturale successore di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, consci delle sue posizioni conservatrici, quasi tridentine, che ne caratterizzarono l’operato quale superiore dei gesuiti e che lo portarono a scontrarsi con l’ex preposto della Compagnia di Gesù Pedro Arrupe. Come mai da grande oppositore della Teologia della Liberazione, ne è oggi diventato il principale riabilitatore? Il libro del giornalista diventa così proprio un viaggio di analisi e riflessione tra le incertezze, i dubbi, i dilemmi che tanti nel mondo cattolico si stanno ponendo convinti che i frutti di questa rivoluzione rischino di non portare alcun beneficio alla Chiesa. «Questo libro non è contro il Papa ma per la Chiesa» spiega Mascarucci. «Quella Chiesa che per noi cattolici è madre e maestra. E il grido d’allarme di chi in questo momento, pur sentendosi figlio della Chiesa e rispettando la sacra figura del Pontefice, si sente disorientato di fronte a certi comportamenti o posizioni che si fa fatica a comprendere. Perché Papa Francesco ancora una volta ha scelto di dialogare con Eugenio Scalfari che nel libro definisco il più autorevole sacerdote del laicismo? Perché nonostante la Santa Sede ancora una volta sia stata costretta a correggere il pensiero di Francesco liberamente interpretato da Scalfari, il Pontefice continua ad affidare a lui i suoi pensieri, le sue riflessioni? Questi comportamenti stanno lasciando l’amaro in bocca a quanti nella Chiesa hanno sempre visto nel Papa oltre a un pastore, anche una guida morale, carismatica e in un certo senso politica, se per politica si intende la difesa di una dottrina che prima di tutto dovrebbe essere guida e modello di una società, una società fondata sul bene comune». Qual è allora il punto di caduta possibile di questo Pontificato? «Il carisma pastorale di Francesco rischia di apparire completamente svuotato di riferimenti dottrinali, se non nella sola difesa di valori 'politicamente corretti' (difesa dell'ambiente, contrasto alla pena di morte, accoglienza), riferimenti dottrinali che dovrebbero invece richiedere ben altri interventi in un contesto storico caratterizzato sempre di più dal disprezzo della vita (aborto, eutanasia) e dall'affermazione di diritti civili in palese contrasto con il disegno di Dio (ideologia gender)» chiosa Mascarucci. «Alla fine la sensazione che si ha è quella di un Pontificato segnato dall’affermazione di un infinito ed incontrollato “progressismo cattolico”. Del resto fu il grande filosofo cattolico Augusto Del Noce ad affermare che 'per un cattolico progressista un ateo era sempre migliore di un cattolico non progressista'. Con Francesco questa sembra diventata la regola».
Papa Francesco, lavanda dei piedi a due musulmani e un buddista. Provengono da sette diversi Paesi i 12 detenuti ai quali Papa Francesco fa quest'anno la Lavanda dei piedi, scrive Raffaello Binelli, Giovedì 29/03/2018, su "Il Giornale". Una lavanda dei piedi decisamente internazionale e multirazziale quella con cui si apre il triduo pasquale di quest'anno. Provengono da sette diversi Paesi i dodici detenuti ai quali Papa Francesco laverà i piedi in occasione della messa in Coena Domini nella cappella del carcere di Regina Coeli: 4 sono italiani, 2 filippini, 2 marocchini, 1 moldavo, 1 colombiano, 1 nigeriano e 1 della Sierra Leone. Otto di loro sono di religione cattolica; due musulmani; uno ortodosso e uno buddista. All'arrivo del pontefice, intorno alle ore 16, il Papa incontra i detenuti ammalati in infermeria. Dopo la celebrazione, infine, prima di far rientro in Vaticano, Papa Francesco incontra alcuni detenuti della VIII Sezione del carcere.
Pasqua, la lavanda dei piedi ai carcerati? Il Papa si attiene al Vangelo, scrive giovedì 29 marzo 2018 "Il Secolo d’Italia". Dopo Casal del Marmo, Rebibbia e Paliano è la quarta volta in cinque anni di pontificato, che il Papa sceglie un carcere all’inizio del Triduo pasquale. Oggi infatti si recherà nel pomeriggio nel carcere romano di Regina Coeli per il rito della lavanda dei piedi a dodici detenuti, tra cui due musulmani e un buddista. Scandalo? Discontinuità rispetto alla tradizione? Niente affatto. Innanzitutto vediamo qual è il significato del rito. Durante l’Ultima Cena Cristo si levò da tavola e, preso un asciugatoio versò dell’acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi degli apostoli come racconta il Vangelo di Giovanni. Finito di lavare i piedi agli apostoli Gesù disse: “Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché io lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato infatti l’esempio perché, come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica…”. La lavanda dei piedi, annota Alfredo Cattabiani nel suo Calendario, un libro dedicato all’essenza delle ricorrenze e delle festività dell’anno, “ricorda quell’episodio e lo rinnova esprimendo simbolicamente il dovere di vivere nel servizio degli altri”. I sacerdoti nelle parrocchie e il Papa compiono il rito per insegnare ai fedeli che “non c’è eucarestia senza fraternità”. La morte dell’uomo vecchio e la vita nuova del cristiano conforme agli insegnamenti del Risorto si esprimono nella pratica quotidiana e non nell’ideologia. La lavanda dei piedi agli ultimi – che papa Francesco individua oggi nei carcerati come San Francesco li individuava nei lebbrosi del suo tempo – è segno e simbolo di quella rivoluzione interiore, esistenziale, senza la quale non c’è vera accettazione del Vangelo ma solo conformismo e fredda adesione ai riti della tradizione.
Tra i fedeli anche gli immigrati, il prete annulla il lavaggio dei piedi, scrive Nazareno Dinoi su Nuovo Quotidiano Di Puglia Venerdì 30 Marzo 2018. «Vergognosamente stasera il razzismo è salito sull’altare». È stata questa frase, apparsa sul profilo Facebook di un manduriano nella tarda sera di giovedì 29 marzo, ad accendere le polemiche di chi era a conoscenza dei fatti e a dare via alle domande di chi voleva sapere. A provocare «il disgusto» dell’autore di quel primo post, era stato il mancato lavaggio dei piedi dei fedeli, da parte del sacerdote, durante la messa serale del giovedì santo nella chiesa manduriana di San Michele Arcangelo. Il motivo, sempre secondo i fedeli, è molto più grave dell’aver saltato il rituale sacro che nella simbologia cattolica è il gesto che compie Gesù nei confronti dei discepoli durante l'ultima cena, prima di essere condannato a morte, quale segno estremo di ospitalità: a Manduria, invece, il padre celebrante si sarebbe rifiutato perché tra i fedeli ci sarebbero stati degli immigrati. Così era stato concordato dai parrocchiani che si son dovuti arrendere di fronte alle insistenze di uno dei due padri reggenti la parrocchia che era assolutamente contrario all’apertura nei confronti degli extracomunitari ospiti di una casa alloggio del posto. La cosa non è piaciuta a molti fedeli che timidamente sui social e fervidamente tra loro in privato, hanno criticato aspramente l’intollerante chiusura. «Ci sarebbe tanto da dire ma mi limito a condividere il tuo sfogo, invito però molti a farsi un esame di coscienza», scrive un’altra fedele a conferma dello sdegno provato da chi aveva acceso la miccia. Più eloquenti le parole di un altro parrocchiano che scrive: «Per fortuna nella Chiesa ci sono persone che combattono il razzismo, compreso il Santo Padre. Chi non segue i valori della solidarietà andrebbe, quanto meno, richiamato dalle autorità cattoliche». Per questo, però, bisogna attendere che terminino i riti della settimana santa perché ieri nessun esponente della chiesa era disposto a dare risposte in merito. Dall’ufficio per le comunicazioni sociali della Diocesi di Oria si dicevano all’oscuro di tutto scoprendosi anche impotenti nell’acquisire informazioni poiché tutto il personale religioso di Manduria era impegnato nei riti del venerdì di Pasqua. Sempre dalla Curia, fanno però sapere che i padri che hanno celebrato la santa messa alla San Michele Arcangelo di Manduria non «sono diocesani, ma religiosi appartenenti all’ente ecclesiastico dei Servi di Maria». Evidente imbarazzo anche da parte di don Dario De Stefano, amministratore parrocchiale della chiesa dove si sono svolti i fatti ma assolutamente estraneo agli stessi perché assente. Contattato telefonicamente, ieri, anche con messaggio chat, il religioso ha preferito non dare risposte concentrandosi nell’organizzazione della sua parrocchia San Giovanni Don Bosco alla imminente processione dei Sacri Misteri. «Abbiamo raggiunto il fondo», scrive un altro frequentatore della San Michele Arcangelo a conclusione di una brutta pagina della parrocchia gestita dai Servi di Maria.
Papa Francesco ha nuovamente baciato i piedi di due carcerati musulmani. Mi auguro che capisca che per loro significa sottomettersi all’islam. Dovrebbe prodigarsi per salvare la civiltà cristiana su cui si è fondata l’Europa, scrive il 30/03/2018 Magdi Cristiano Allam. Buongiorno amici. Scusatemi ma io non ce la faccio proprio ad accettare l’immagine del Papa che lava e bacia i piedi dei carcerati musulmani. C’è qualcuno tra i suoi collaboratori in grado di spiegargli che un Papa che bacia i piedi dei musulmani per loro significa che si sottomette all’islam? Ma soprattutto il Papa dovrebbe sapere che la sua missione è di convertire anche i musulmani alla fede cristiana, non di legittimare l’islam a prescindere da ciò che Allah prescrive nel Corano, da ciò che ha detto e ha fatto Maometto, da ciò che da 1400 anni i musulmani perpetrano per sottomettere anche l’Europa all’islam. Ancora una volta ieri, nel rito della lavanda dei piedi del Giovedì Santo, Papa Francesco per la sesta volta dall’inizio del suo pontificato, ha lavato i piedi a dodici detenuti, questa volta del carcere romano di Regina Coeli, e tra loro c’erano due musulmani. Io non sono un teologo cattolico ma da cristiano per scelta, dopo essere stato musulmano per 56 anni, mi permetto di far rilevare a Papa Francesco cinque realtà. Le realtà si sostanziano di fatti. E i fatti sono fatti.
Innanzitutto Allah nel Corano e Maometto nei suoi detti e nei suoi fatti condannano di miscredenza l’ebraismo e il cristianesimo, legittimano l’uccisione degli ebrei e dei cristiani, ordinano ai musulmani di combattere fino a quando l’islam non sottometterà l’intera umanità. Pertanto il Papa che va a baciare i piedi di un musulmano, dal loro punto di vista, è la conferma della sottomissione del cristianesimo all’islam. Nessun musulmano bacerebbe mai i piedi, ma neppure le mani, di un ebreo o di un cristiano perché sarebbe un tradimento dell’islam. «O voi che credete, non sceglietevi per alleati i giudei e i nazareni, essi sono alleati gli uni degli altri. E chi li sceglie come alleati è uno di loro. In verità Allah non guida un popolo di ingiusti...» (5, 51) «Sono certamente miscredenti quelli che dicono: “Allah è il Messia, figlio di Maria!”. Mentre il Messia disse: “O Figli di Israele, adorate Allah, mio Signore e vostro Signore”. Quanto a chi attribuisce consimili ad Allah, Allah gli preclude il Paradiso, il suo rifugio sarà il Fuoco. Gli ingiusti non avranno chi li soccorra!...» (5, 72) «Combatteteli finché non ci sia più politeismo e la religione sia tutta per Allah...» (8, 39)
In secondo luogo, sempre al riguardo del comportamento nei confronti dei nemici del cristianesimo, il Papa farebbe bene ad approfondire la realtà del comportamento di San Francesco d’Assisi, da cui ha preso il nome papale, che nel 1219 a Damietta incontrò il Sultano d’Egitto Malik al Kamil e gli chiese di convertirsi al cristianesimo. San Francesco era al seguito della Quinta Crociata indetta da Papa Onorio III per recuperare Gerusalemme caduta nelle mani degli islamici.
In terzo luogo, Gesù lavò i piedi ai suoi dodici apostoli, non ai suoi nemici. E lo fece per far loro comprendere che il migliore degli apostoli sarà il più umile. «Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto Io, facciate anche voi». (Giovanni 13,12-15)
In quarto luogo, Gesù non esitò a impiegare la forza per cacciare i mercanti dal Tempio, concepiti come nemici della vera fede in Dio. Così come si sottomise alla condanna a morte tramite crocifissione ordinata dal Governatore romano Ponzio Pilato. L’insistenza con cui Papa Francesco immagina un’umanità affrancata dalla violenza, concepisce la pena detentiva come puramente rieducativa e non sanzionatoria di un reato perpetrato, sottintende l’immagine dell’uomo come naturalmente buono e prefigura un modello di società tollerante e comprensiva anche nei confronti dei crimini più efferati. Eppure lo stesso Stato del Vaticano adottò la pena di morte fino al 2001.
In quinto luogo Papa Francesco dovrebbe sapere che l’islam è sempre stato il nemico storico dell’Europa da 1400 anni. Possibile che non sappia che persino le Mura che cingono lo Stato del Vaticano, che si chiamano Mura Leonine perché furono edificate dal Papa Leone IV nell’847, furono edificate un anno dopo la seconda invasione islamica di Roma e il secondo saccheggio della Basilica di San Pietro (la prima volta fu nell’830), perpetrando delle atrocità tra la popolazione romana?
Concludo auspicando che ci sia qualcuno in seno ai vertici della Chiesa, che abbia l’onestà intellettuale e una fede cristiana integerrima, in grado di far capire a Papa Francesco di smetterla di lavare e baciare i piedi ai musulmani e, piuttosto, di prodigarsi per la loro conversione alla fede in Gesù Cristo. In ogni caso, in questa fase storica cruciale, in cui l’Europa decadente rischia di scomparire e di essere sottomessa all’islam, un Papa dovrebbe ergersi a difensore della civiltà cristiana su cui si è fondata l’Europa. Forse servirà un miracolo. Ma se si crede nella Resurrezione di Gesù, si deve credere anche nei miracoli.
LA FINE DEL CRISTIANESIMO.
Vaticano e Papa Francesco, il libro di Aldo Maria Valli: presto arriverà la fine della Chiesa Cattolica, scrive il 22 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Aldo Maria Valli, vaticanista della Nave ammiraglia della RaiTv, fa gli auguri di natale a Papa Francesco dedicando al 266mo papa un romanzo dal titolo inquietante: Così la Chiesa finì (Liberilibri, pp. 156, euro 16). Il narratore del racconto è il Cantore cieco, che, come Omero è l'unico che vede lontano in un modo unificato dalle fax-news. Egli ci fa conoscere i molti papi che verranno dopo Bergoglio, tutti di nome Francesco e tutti sudamericani. Essi ne continuano l'opera dissolutrice. Nel mondo secolarizzato e nichilista la Chiesa, incapace di opporsi al radicale anticristianesimo trionfante, si illude di sopravvivere trasformandosi in una filantropia sociale: "Dimentica del Vangelo e impegnata a inseguire il mondo, nel folle tentativo di rendersi più amichevole e attraente, più dialogante e accogliente, meno arcigna e dottrinale, finisce per tradire se stessa e si consegna nelle mani dei dominatori di turno". Ciò che più conta è annacquare il messaggio cristiano, così da renderlo indistinguibile rispetto al pensiero dominante. Vale anche per il culto e per i sacramenti: "Occorre aprire le porte a chiunque e rendere la liturgia quanto di più simile a un incontro festoso, fatto per stare insieme lietamente, in spirito di condivisione". E così l'ultimo papa, Francesco XXX, cioè l'argentino Carlo Ramirez Cabrera, stabilì che del presepio era bene fare a meno: "La suprema causa del Dialogo imponeva una scelta nuova, un'opera che rappresentasse tutte le religioni del mondo".
La fine della Chiesa cattolica. In un romanzo del vaticanista del Tg1, Aldo Maria Valli, scrive Gianfranco Morra su Italia Oggi Numero 300 pag. 10 del 21/12/2017. Aldo Maria Valli, vaticanista della Nave ammiraglia della RaiTv, non ha mai dimenticato di fare gli auguri di Natale ai papi, di cui parlava dallo schermo. L'anno scorso li fece a Francesco con il saggio 266. Jorge Mario Bergoglio (Liberilibri). Li ripete per questo Natale dedicando al 266mo papa un romanzo dal titolo inquietante: Così la Chiesa finì (Liberilibri, pp. 156, euro 16). Il narratore del racconto è il Cantore cieco, che, come Omero è l'unico che vede lontano in un modo unificato dalle fax-news. Egli ci fa conoscere i molti papi che verranno dopo Bergoglio, tutti di nome Francesco e tutti sudamericani. Essi ne continuano l'opera dissolutrice. Nel mondo secolarizzato e nichilista la Chiesa, incapace di opporsi al radicale anticristianesimo trionfante, si illude di sopravvivere trasformandosi in una filantropia sociale: «Dimentica del Vangelo e impegnata a inseguire il mondo, nel folle tentativo di rendersi più amichevole e attraente, più dialogante e accogliente, meno arcigna e dottrinale, finisce per tradire se stessa e si consegna nelle mani dei dominatori di turno». Nascono così la «Neochiesa» con la sua «Neolingua», che è quello stesso «Doubletink» di cui parlava Orwell. Occorre abbandonare i tradizionali princìpi della logica europea definiti da Aristotele (non contraddizione, identità e terzo escluso): «Non c'è nessun problema di coerenza, occorre tenere assieme ciò che assieme non può stare». Non è più la Chiesa dei dogmi, ma del «sì, tuttavia», dell'«è vero, però», del «ma anche». È vero che il Vangelo dice: «Sia il vostro parlare sì sì, no no, quel che v'è in più viene dal maligno» (Mt 5, 37). Ma erano altri tempi. Oggi la Chiesa è «antidogmatica», essa definisce il «Superdogma del dialogo», fotografa se stessa nell'enciclica «Captatio benevolentiae. Il primo precetto del cristiano è «non giudicare», come insegna papa Francesco XVIII, il brasiliano Thiago Firmino: «Basta con i giudizi sul mondo, basta con le parole critiche. Vogliamo essere in sintonia col mondo, amichevoli verso tutti. Solo così potremo avere un dialogo con la cultura nella quale viviamo. Altrimenti saremmo visti come corpi estranei. Questa separazione deve finire». Ciò che più conta è annacquare il messaggio cristiano, così da renderlo indistinguibile rispetto al pensiero dominante. Ciò vale anche per il culto e per i sacramenti: «Occorre aprire le porte a chiunque e rendere la liturgia quanto di più simile a un incontro festoso, fatto per stare insieme lietamente, in spirito di condivisione». Ecco perché l'ultimo papa, Francesco XXX, cioè l'argentino Carlo Ramirez Cabrera, stabilì che del presepio era bene fare a meno: «La suprema causa del Dialogo imponeva una scelta nuova, un'opera che rappresentasse tutte le religioni del mondo». Valli redige anche un «Vocabolario della Chiesa accogliente», un preciso elenco delle «verità dogmatiche» della «Neochiesa», 72 voci da «Accogliere» («tutti e sempre») a «Zitella» («la Chiesa triste e priva di fantasia»). Non è difficile scorgere che il filo che unisce queste voci sono gli insegnamenti del papa attuale, non di rado usando le sue stesse parole. Non poteva mancare un «Neosillabo», col quale vengono anatemizzati tutti coloro che ancora sono legati alla tradizione passata: «Al fine di avvicinarsi ancora di più al mondo era necessario adottare la linea dell'ambiguità e della superficialità». D'accordo, un libro acuto e informato, coraggioso e anticonformista. Ma è solo una favola, anche se tutto ciò che vi viene narrato prende il via da fatti realmente accaduti. Tommaso Moro scrisse l'Utopia, per progettare una futura società perfetta, anche se sapeva che non sarebbe mai arrivata. Il racconto di Valli è invece un «distopia», come in Orwell (1984): non annuncia una Chiesa forte e rinnovata, ma una rissante e scalcinata che potrebbe concludere nel nulla una storia di due millenni. Sia l'utopia che la distopia sono generi iperbolici, non vanno presi alla lettera. L'utopia insiste su valori ideali così alti, che mai potranno realizzarsi e tuttavia costituiscono un modello necessario per il politico, anche quando sarà costretto a fare i conti con la Realpolitik. La distopia suona un campanello d'allarme: state attenti il pericolo è reale, speriamo di poterlo evitare o almeno limitare. Entrambe irrealistiche, utopia e distopia hanno una precisa funzione morale. Del resto Valli intitola il libro, ma non lo conclude con la «fine» della Chiesa: «Sappiamo bene che proprio la fine segnerà un nuovo inizio». Quando la Chiesa capirà che non deve divenire il Partito del Grande Fratello. L'utopia vince sulla distopia, come sempre nell'uomo, che non può vivere senza speranza.
"Così la Chiesa finì", ecco le conseguenze di Bergoglio. La Chiesa finisce abbracciando il modernismo. Questo è l'ammonimento contenuto nel nuovo libro di Aldo Maria Valli, vaticanista del Tg1, scrive Francesco Boezi, Giovedì 07/12/2017, su "Il Giornale". "Come la Chiesa finì" è il titolo del nuovo libro di Aldo Maria Valli. Il vaticanista di punta del Tg1 immagina - mediante un racconto distopico - la dissoluzione del cattolicesimo. Un processo lungo, che avviene tramite il succedersi di una serie di "Francesco", pontefici accomunati dalla necessità dottrinale di adeguare la forma, la sostanza e le istanze della religione cattolica allo "spirito del tempo". Il Vaticano - nell'opera di Valli - abbandona progressivamente i dogmi di fede, sino a promulgare l'esistenza del "Superdogma dell'accoglienza": l'unica verità dottrinale riconosciuta come tale. La Chiesa immaginata dal giornalista rinuncia - insomma - a se stessa: sposa la postmodernità, adotta il "bispensiero", stralcia ogni tradizione e usanza, pubblica "Il Vocabolario della Chiesa Accogliente", aderisce ad una neolingua di orwelliana memoria, introduce il sacerdozio femminile, concede l'eucarestia a tutti, termina di essere una monarchia assoluta, riduce la liturgia ad un fenomeno di "aggregazione sociale", approva la poliandria, riabilita Marcione, abolisce le tipiche forme d'espressione pastorale e così via. Nasce - infine - la "Nuova Chiesa antidogmatica", che proclama il "Superdogma dell'accoglienza". Nell'immaginario Concilio Ecumenico Vaticano V - inoltre - i cristiani si riuniscono in un'unica fede: un avvenimento che, nonostante l'intenzione bonaria di base e la valenza sempieterna del dialogo, finisce per divenire uno degli elementi determinanti per la dissoluzione finale. Aldo Maria Valli affida ad un Cantore Cieco il compito di raccontare questa storia: un unico testimone che, sfidando le proibizioni del mondo rappresentato come "unificato" dal giornalista, riesce - con un messaggio in bottiglia - a tramandare la cronaca delle tappe della scomparsa del cattolicesimo. In uno scenario dominato dal relativismo e dalla secolarizzazione, l'unica preziosa testimonianza dell'estinzione della religione cattolica è affidata - non a caso - ad un personaggio di chiaro richiamo omerico. I pontefici che si susseguono dopo Bergoglio al soglio di Pietro - come anticipato - si chiamano tutti "Francesco". Scrive l'autore sulla rivoluzione subita dal ruolo del papa: "Come ben potete intuire, un papa oggi non è apprezzato quando mette in guardia dalle conseguenze pratiche dell'ateismo, o quando, avendo a cuore la tenuta della comunità sociale e denunciando la mancanza di un collante, chiede a tutti di rivedere "come se Dio esistesse", non è ammirato quando avverte che il più povero fra i poveri, sebbene non si veda, è il bambino che non viene lasciato nascere...". La religione cattolica - nel libro di Valli - finisce per abbracciare mortalmente il mondo, i suoi rinnovati schemi comunicativi i e le sue deformazioni culturali. Uno dei primi testi che contribuisce al sorgere del processo narrato - poi - è l'enciclica "Captatio Benevolentiae": pubblicata da Papa Francesco IV. Questo documento "contiene le istruzioni da seguire perché si metta fine a ogni differenza tra la Chiesa e il mondo". Curiosamente - ancora - ad ispirare la lettera apostolica del papa è un cardinale di cui Valli cita solo le iniziali: "W.K.". Walter Kasper, cardinale tedesco realmente esistente e avversario teologico di Benedetto XVI, che non viene mai nominato, ma rispetto al quale si potrebbe supporre l'esistenza di un riferimento indiretto. Sì, perché nel romanzo distopico del vaticanista c'è spazio anche per Joseph Ratzinger. Il papa Emerito viene descritto come il grande sconfitto della storia: un uomo che ha lottato per la salvezza della fede, ma la cui battaglia si è infranta inesorabilmente contro le tendenze neomoderniste dominanti. L'opera stessa - in realtà - si apre con una "profezia" di Benedetto XVI, un aforisma reale sulla "graduale perdita" della fede nel mondo occidentale e sul conseguente "ridimensionamento" della Chiesa. Ma com'è accaduto - nel corso della storia ecclesiale - che tutti i papi siano finiti per chiamarsi "Francesco"? Scrive il Cantore Cieco rivolgendosi al lettore: "Ebbene, devi sapere che il capostipite dei Francesco, ovvero papa Francesco I, l'argentino Jorge Mario Bergoglio, fu così amato dal mondo, così osannato, così stimato, che la Chiesa dell'epoca, sotto il pontificato del successore, papa Francesco II, stabilì che da allora in avanti tutti i pontefici sarebbero stati scelti tra cardinali sudamericani e tutti si sarebbero chiamati Francesco". "Coloro che amano" - nel mondo figurato da Valli - governano le logiche del mondo, ma tutto è distrutto, umanità compresa. L'uomo - infatti - è ormai privato tanto delle religioni quanto della libertà. Un romanzo - quello edito da LiberiLibri - che più che una distopia sembra essere un avvertimento sulle conseguenze di un certo modo di intendere il magistero papale.
Ratzinger, la profezia sulla fine del papato, scrive il 10 Settembre 2016 Antonio Socci su "Libero Quotidiano". Ma chi è oggi il Papa e precisamente quanti ce ne sono? La confusione regna sovrana e la nuova uscita di Benedetto XVI - il libro-intervista «Ultime conversazioni» - invece di dissolvere i dubbi li moltiplica. Parto dal dettaglio più curioso. Domanda Peter Seewald a Benedetto XVI: «Lei conosce la profezia di Malachia, che nel medioevo compilò una lista di futuri pontefici, prevedendo anche la fine del mondo, o almeno la fine della Chiesa. Secondo tale lista il papato terminerebbe con il suo pontificato. E se lei fosse effettivamente l'ultimo a rappresentare la figura del papa come l'abbiamo conosciuto finora?». La risposta di Ratzinger è sorprendente: «Tutto può essere». Poi addirittura aggiunge: «Probabilmente questa profezia è nata nei circoli intorno a Filippo Neri» (cioè la chiama «profezia» e la riconduce a un grande santo e mistico della Chiesa). Conclude con una battuta di alleggerimento, ma quella è stata la sua risposta. Dunque Benedetto XVI ritiene di essere stato l'ultimo papa (per la fine del mondo o la fine della Chiesa)? Probabilmente no. Allora ritiene - almeno secondo la versione dell'intervistatore - di essere stato l'ultimo ad aver esercitato il papato come l'abbiamo conosciuto per duemila anni? Forse sì. E anche questa seconda fa sobbalzare, perché è cosa nota che il papato - d' istituzione divina - per la Chiesa non può essere cambiato da una volontà umana. Del resto quale cambiamento? C' è una rottura nell' ininterrotta tradizione della Chiesa? Un altro flash del libro porta in questa direzione. «Lei si vede come l'ultimo papa del vecchio mondo» domanda Seewald «o come il primo del nuovo?». Risposta: «Direi entrambi». Ma che intende dire? Cosa significa «vecchio» e «nuovo», soprattutto per uno come Benedetto XVI che ha sempre combattuto l'interpretazione del Concilio come «rottura» della tradizione e ha sempre affermato la necessaria continuità, senza cesure, della storia della Chiesa? A pagina 31 Seewald afferma (e il testo è stato rivisto e vidimato da Benedetto XVI) che Ratzinger ha compiuto un «atto rivoluzionario» che «ha cambiato il papato come nessun altro pontefice dell'epoca moderna». Questa tesi - che evidentemente allude all' istituzione del «papa emerito» - ha qualche aggancio con le cose che dice Ratzinger in questo libro? Sì, a pagina 39. Prima di riassumere cosa dice qui papa Benedetto, però, devo ricordare che la figura del «papa emerito» non è mai esistita nella storia della Chiesa e i canonisti hanno sempre affermato che non può esistere, in quanto il «papato» non è un sacramento, come invece è l'ordinazione episcopale, infatti in duemila anni tutti coloro che hanno rinunciato al papato sono tornati allo status precedente, mentre i vescovi rimangono vescovi anche quando non hanno più la giurisdizione di una diocesi. Ciononostante Benedetto XVI, negli ultimi giorni del suo pontificato, andando contro tutto ciò che i canonisti avevano sempre sostenuto, annunciò che lui sarebbe diventato appunto «papa emerito». Non ne spiegò il profilo teologico, però nel suo ultimo discorso affermò: «La mia decisione di rinunciare all' esercizio attivo del ministero, non revoca questo». Benedetto accompagnava tali parole con la decisione di restare in Vaticano, di continuare a vestirsi con la tonaca e zucchetto bianchi, di conservare lo stemma papale con le chiavi di Pietro e il titolo di «Sua Santità Benedetto XVI». Ce n' era abbastanza per chiedersi cosa stava accadendo e se si era veramente dimesso dal papato. Cosa che io feci su queste colonne, anche perché nel frattempo il canonista Stefano Violi aveva studiato la «declaratio» di rinuncia ed era arrivato a queste conclusioni: «(Benedetto XVI) dichiara di rinunciare al ministerium. Non al Papato, secondo il dettato della norma di Bonifacio VIII; non al munus secondo il dettato del can. 332 § 2, ma al ministerium, o, come specificherà nella sua ultima udienza, all'"esercizio attivo del ministero"». In seguito ai miei articoli, il vaticanista Andrea Tornielli, molto vicino a papa Francesco, nel febbraio 2014, andò a domandare a Benedetto XVI perché era rimasto papa emerito e la sollecitata risposta fu questa: «Il mantenimento dell'abito bianco e del nome Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c' erano a disposizione altri vestiti». Il vaticanista in questione sbandierò ai quattro venti lo scoop che, però, a una seria osservazione, si rivelava un'elegante battuta umoristica (in Vaticano non c' erano tonache nere?) per eludere una questione di cui Benedetto XVI, evidentemente, a quel tempo non poteva parlare. E infatti ne parla oggi, dopo tre anni, spiegando le ragioni di quella scelta che ovviamente non c' entrano nulla con questioni sartoriali. Dunque nel libro appena uscito papa Ratzinger parte dalla riflessione sui vescovi. Quando si trattò di decidere le loro dimissioni a 75 anni si istituì il «vescovo emerito» perché - dicevano - «io sono "padre" e tale resto per sempre». Benedetto XVI osserva che anche quando «un padre smette di fare il padre», perché i figli sono grandi, «non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete. Continua a essere padre in un senso più profondo, più intimo». Per analogia papa Ratzinger fa lo stesso ragionamento sul papa: «se si dimette mantiene la responsabilità che ha assunto in un senso interiore, ma non nella funzione». Questo ragionamento poetico però è esplosivo sul piano teologico perché significa che lui è Papa. Per capire il quadro teologico che sta dietro la rivoluzionaria pagina di Ratzinger bisogna rileggere il clamoroso testo della conferenza che il suo segretario, mons. Georg Gaenswein, ha tenuto il 21 maggio scorso alla Pontificia università Gregoriana. In quel discorso - «censurato» dai media, ma che in Curia è stato una bomba atomica - don Georg disse che «dall' 11 febbraio 2013 il ministero papale non è più quello di prima. È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d' eccezione». Il suo è stato un «ben ponderato passo di millenaria portata storica», un «passo che fino ad oggi non c'era mai stato». Perché Benedetto XVI «non ha abbandonato l'ufficio di Pietro», ma «l'ha invece rinnovato». Infatti «egli ha integrato l'ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in commune» e «intende il suo compito come partecipazione a un tale "ministero petrino"… non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato - con un membro attivo e un membro contemplativo». Fino a quel discorso del 21 maggio, Bergoglio - che deve aver ascoltato queste cose da Benedetto XVI (ma senza capirle bene) - spiegava il papato emerito sulla stessa linea: diceva che quello di Benedetto era stato un «atto di governo», che egli aveva rinunciato solo all' esercizio attivo e faceva l'analogia con i vescovi emeriti. Però dopo il discorso di Gaenswein di maggio, alla corte bergogliana si è capito la portata del problema ed è scattato l'allarme. Così a giugno, di ritorno dall' Armenia, Bergoglio ha bocciato la tesi di un ministero papale «condiviso». Poi, in pieno agosto, su «Vatican Insider» (termometro della Curia) è uscita un'intervista di Tornielli a un importante canonista ed ecclesiastico di Curia, dove si delegittima in toto la figura del «papa emerito» perché «l'unicità della successione petrina non ammette al suo interno alcuna ulteriore distinzione o duplicazione di uffici o una denominazione di natura meramente "onorifica" o "nominalistica"». Inoltre «non si dà alcuna sottodistinzione tra il munus e il suo esercizio». Però Benedetto XVI, nella pienezza dei suoi poteri, decise proprio di restare papa e rinunciare al solo esercizio attivo del ministero. Se quella sua decisione è inammissibile e nulla significa che è nulla anche la sua rinuncia? Antonio Socci
Vaticano, Papa Francesco accerchiato. Il chierico: "Siamo sfibrati, lo stanno mollando tutti", scrive il 23 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Per Papa Francesco, in Vaticano, non sarà un Natale sereno. Già, le recenti parole contro i "traditori" dimostrano come, nella Santa Sede, sia accerchiato. Il vescovo "venuto quasi dalla fine del mondo" è a capo della Chiesa da quasi 5 anni, ma la sua opera riformatrice si è impantanata: troppe fronde contro di lui, troppi passi in avanti e troppo veloci da parte sua. E come sottolinea Il Venerdì di Repubblica, "tra i suoi gregari affiorano segnali di logoramento. In particolare tra quelli che, in tonaca o abiti civili, lo circondano in Vaticano". Un Papa accerchiato, insomma. E che, sempre stando all'articolo, "ha rimpiazzato i punti di riferimento canonici, prediligendo il confronto con persone di fiducia che, a volte, sono persino esterne al perimetro delle mura leonine". Una ricostruzione confermata anche da un chierico impiegato da anni negli uffici della Santa Sede, che interpellato dal settimanale, ovviamente sotto anonimato, confida: "C'è disorientamento, il Papa sembra ascoltare e accogliere tutti tranne noi che gli siamo vicini". Tanto che, aggiunge, appena avrà la possibilità di andare in pensione, chiederà di congedarsi: "Lo stanno facendo in tanti, ma non è una diserzione. Si tratta di persone fedeli al Papa e alla Chiesa, ma sfibrate da un ambiente ne quale non si sentono più a loro agio". Insomma, in Vaticano il malessere sarebbe assai più diffuso di quanto si immagini tra gli oltre 2.800 dipendenti. Un malessere "rafforzato dalle frequenti scudisciate rivolte dal pontefice al clericalismo e al carrierismo ecclesiastico, applaudite dal mondo laico ma percepite come ingiuste generalizzazioni da sacerdoti e monsignori, anche quelli impegnati nelle parrocchie costretti a rintuzzare ogni giorno i pregiudizi più diffusi".
TERRORISMO ISLAMICO. IL 2017 INIZIA COL TERRORE.
Istanbul, attentato al night club: morti e feriti. Un killer armato di fucile automatico vestito da Babbo Natale ha fatto una strage al Reina: 39 le vittime. Incertezza sul numero di stranieri, scrive il 2 gennaio 2017 Panorama. Il killer nel Reina di Istanbul non indossava il costume di Babbo Natale, come riferito in precedenza da alcune testimonianze. Avrebbe lasciato la pistola prima di fuggire. E nel Paese è caccia all'uomo dopo che la polizia ha diffuso la sua foto. L'attacco non è stato ancora rivendicato ma l'attentatore, secondo le testimonianze di alcuni dei sopravvissuti, avrebbe urlato "Allah Akbar" mentre apriva il fuoco dentro il locale. Si pensa alla matrice dell'ISIS. Sono almeno 39 i morti e oltre 60 i feriti nell'attentato. Gli stranieri sarebbero, secondo le ultime testimonianze, 29. Non risultano finora italiani coinvolti. Tra le vittime turche, c'è anche una guardia di sicurezza che era sopravvissuta il 10 dicembre scorso al duplice attentato dinamitardo al vicino stadio di calcio del Besiktas. Per il resto, sono ancora molti i punti da chiarire sulla dinamica dell'attacco. Non si sa con certezza se il terrorista abbia agito effettivamente da solo. Pare sia entrato vestito di nero e incappucciato con un fucile automatico in braccio con cui ha sparato ad un agente di guardia al locale, che all'interno era vestito di bianco con un cappello a pon-pon bianco, che si è cambiato dopo aver massacrato le persone all'interno del locale, "sparando ovunque, come un pazzo", ed è riuscito a fuggire nella notte, scatenando una gigantesca caccia all'uomo estesa a tutta la Turchia alla quale partecipano almeno 17.000 agenti. Le poche certezze sono quelle suggerite dalle immagini catturate dalle telecamere di sicurezza, ma alcuni testimoni sopravvissuti alla strage hanno raccontato di aver sentito sparare più di una persona, forse due o tre terroristi. L'unico uomo armato ripreso dalle telecamere è entrato in azione intorno all'1.30 locale (le 23.30 in Italia), mentre nel locale si trovavano circa 700 persone. Ha ucciso l'agente all'ingresso prima di entrare e iniziare a sparare sui clienti. Per sfuggire alla strage, alcuni dei clienti si sono lanciati nelle acque gelide del Bosforo e sono poi stati tratti in salvo, anche se non c'è certezza che tutti siano stati salvati. I testimoni sopravvissuti sono concordi su una cosa: i terroristi "sparavano a casaccio", sparavano su tutti, sulla folla. "Sparavano ovunque, come dei pazzi", ha raccontato alla Cnn turca una donna, ferita a una gamba da un proiettile. Un altro testimone afferma che le forze speciali sono intervenute portando via i sopravvissuti. "Ero di spalle e mio marito ha urlato: Buttati giù!. Eravamo vicino a una finestra e ho sentito due o tre persone che sparavano. Poi sono svenuta", ha raccontato una donna. L'ambasciata americana ad Ankara ha negato le notizie comparse su alcuni social media secondo cui l'intelligence avesse avvertito le autorità turche di imminenza di attentati a Istanbul. Ancora un strage a Istanbul. In un famoso locale notturno del distretto di Ortakoy, il Reina Club, un uomo vestito da Babbo Natale ed armato di fucile automatico è entrato e ha fatto fuoco uccidendo almeno 39 persone e ferendone 69 tra cui almeno 15 stranieri. Secondo una parlamentare del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (al governo), Selina Dogan, sarebbero invece 24 gli stranieri morti nell'attentato. Dogan lo ha affermato dopo aver visitato ospedali e obitori. Lo riferisce il Guardian. I morti accertati di nazionalità turca sono 11 mentre non si conosce ancora la nazionalità di quattro vittime, ha aggiunto Dogan. Delle 39 vittime, 25 sono uomini e 14 donne. Nel locale c'erano tra le 500 e le 600 persone. L'assalto è avvenuto alle 23:30 circa ora italiana, l'1:30 del 1 gennaio a Istanbul. L'uomo è ancora in fuga ed è ricercato in tutta la Turchia. Secondo la BBC la natura dell'attacco potrebbe essere di matrice terroristica ad opera di ISIS. Sul numero degli assalitori, vestiti con costumi da Babbo Natale, ancora non c'è certezza: solo uno, secondo fonti ufficiali; fino a tre, secondo testimoni e media locali. L'uomo avrebbe prima ucciso un poliziotto e una guardia giurata all'ingresso, per poi entrare nel locale e iniziare a sparare a caso sulla folla. Delle immagini che circolano sui media mostrano il terrorista - l'unico di cui si sappia con certezza - mentre si toglie l'abito bianco e il berretto con pon-pon tipo Babbo Natale prima di fuggire. Si tratta di fermi immagine da una telecamera di sicurezza. Molte delle centinaia di persone del night club Reina si sarebbero gettate nelle acque dello stretto del Bosforo per tentare di sfuggire all'attacco, secondo testimoni.
"A nome del Governo, del popolo italiano e mio personale le esprimo le più sentite condoglianze per il vile e brutale attacco terroristico che ha colpito Istanbul questa notte". Così il presidente del consiglio Paolo Gentiloni nel messaggio al presidente turco Erdogan dopo la strage di Capodanno a Istanbul. "Il nostro pensiero - scrive Gentiloni - va alle vittime innocenti la cui vita è stata spezzata da ferocia inumana proprio nella normalità della condivisione di un momento di festa. L'Italia si stringe tutta intorno alle famiglie e piange con loro. Signor Presidente, in questo momento doloroso le confermo la solidarietà piena del governo italiano e la determinazione assoluta a combattere insieme contro la piaga del terrorismo".
"Purtroppo, la violenza ha colpito anche in questa notte di auguri e di speranza. Addolorato sono vicino al popolo turco". Lo ha detto il Papa all'Angelus commentando quanto accaduto stanotte a Istanbul e assicurando le sue preghiere per quanti colpiti. Il Papa ha poi assicurato il suo sostegno "a tutti gli uomini di buona volontà che si adoperano" contro il terrorismo e contro questa "macchia di sangue" che getta ombre e sconforto.
Il presidente francese Francois Hollande ha ribadito oggi il suo sostegno alla Turchia. Presidente dello Stato europeo che ha subito le maggiori perdite a causa di attentati sin dal 2015, ha denunciato "con forze e indignazione l'atto terrorista" e ha garantito "solidarietà" alla Turchia oltre a confermare l'impegno di Parigi a "continuare la lotta implacabile contro questa piaga (del terrorismo) con i suoi alleati.
"Stanno cercando di creare caos, demoralizzare il nostro popolo, destabilizzare il nostro Paese con attacchi abominevoli che prendono di mira i civili. Manterremo il sangue freddo come nazione e resteremo più uniti che mai e non cederemo mai a questi sporchi giochi": questo il primo commento a caldo alla strage da parte del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, affidato a una nota ufficiale diffusa dai media. "Come nazione - ha aggiunto Erdogan nella nota - lotteremo fino alla fine non solo contro gli attacchi armati dei gruppi terroristici e le forze che stanno loro dietro, ma anche contro i loro attacchi economici, politici e sociali".
Il primo capo di Stato ad esprimere personalmente la sua vicinanza al presidente turco Recep Tayyip Erdogan per l'attentato di stanotte a Istanbul e stato l'omologo russo Vladimir Putin: "Non si può immaginare un crimine piu sfacciato che l'assassinio di persone pacifiche al culmine della festa di Capodanno. Ma i terroristi sono completamente privi di sentimenti umani" ha detto Putin ribadendo "il dovere comune di combattere il terrorismo ed in questo la Russia è stata e sarà un alleato affidabile per la Turchia".
Ancora nessun gruppo terroristico ha rivendicato l'attentato, ma secondo la Bbc la natura dell'attacco ed i precedenti fanno propendere per una responsabilità di Isis. Il servizio pubblico britannico ricorda infatti come nella lunga serie di attentati che hanno insanguinato la Turchia negli ultimi anni i gruppi curdi come il Pkk o la frangia irriducibile del Tak hanno sempre colpito soldati o agenti di polizia, Isis ha preferito uccidere civili, meglio se turisti stranieri. Il tutto coinciderebbe anche con una possibile rappresaglia al cambio di fronte - ufficioso ma sostanziale - del governo turco che dopo aver nei primi anni del conflitto (marzo 2011) aiutato Isis pur di far cadere Bashar Assad, nel corso del 2016 ha cambiato fronte arrivando negli ultimi 4 mesi a colpire direttamente i jihadisti sunniti in Siria. È ancora sotto shock Mehmet Dag, 22 anni, che ha visto uccidere una guardia e una passante di fronte al night club da parte di un uomo armato che poi è entrato nel locale teatro della strage di Capodanno. "Ha preso di mira l'agente di sicurezza e poi ha sparato e l'uomo ed una donna che passava di lì sono caduti a terra", ha raccontato il ragazzo. L'assassino poi è entrato nel locale. "Una volta entrato, non so cosa sia successo. Si udivano colpi di arma da fuoco e dopo due minuti, il suono di un'esplosione'', ha raccontato il testimone. I filmati girati da Dag con il suo IPhone ed ottenuti dall'Associated Press mostrano un poliziotto steso a terra fuori dal club e poi una donna. Il ragazzo ha raccontato che la donna, è caduta a terra a faccia in giù e giaceva in una pozza di sangue. "Sorella mia, vedrai starai bene", sono le parole di conforto che Dag ha detto alla donna prima di chiamare un'ambulanza. Il filmato mostra le ambulanze e le luci di un ponte di Istanbul, mentre il rumore degli spari risuona dall'interno del club. Secondo un corrispondente di Sky Tg 24, i servizi segreti americani avevano avvertito le autorità locali dell'imminenza di un attentato a Istanbul per questa notte. Condanna dell'attacco e solidarietà alla Turchia da parte di Stati Uniti, Ue e Nato: la Casa Bianca ha offerto ad Ankara l'aiuto degli Usa, mentre il dipartimento di Stato ha espresso solidarietà "all'alleato turco"; l'alto rappresentante europeo per gli Affari esteri Federica Mogherini ha sottolineato come si debba "lavorare per prevenire tali tragedie"; il segretario generale dell'alleanza atlantica Jens Stoltenberg ha parlato di "tragico attacco".
Tutti gli attentati che hanno sconvolto la Turchia, scrive Chiara Degl'Innocenti il 2 gennaio 2017 Panorama. Dalla fine del 2015 a oggi la Turchia è stata colpita da feroci attacchi terroristici. Un bilancio che ha assunto i toni più cupi nel 2016 con otto attentati avvenuti negli ultimi sei mesi, di cui tre solo nel mese di giugno con un bilancio, purtroppo provvisorio, di quasi 250 vittime e centinaia di feriti. Ecco quali sono.
Istanbul, 1 gennaio 2017: un uomo armato di kalashnikov entra nel night club reina dove erano in corso i festeggiamenti per il Capodanno e apre il fuoco uccidendo 39 persone e ferendone altre 69. Urlava "Allah Akbar".
Istanbul, 10 dicembre 2016: 44 persone, la maggioranza agenti di polizia, vengono uccisi, e 166 ferite dall'esplosione di due ordigni al termine di una partita nello stadio del Besiktas a Istanbul. Altro attacco rivendicato dal Tak.
Semdinli, 9 ottobre 2016: l'esplosione di un pulmino imbottito di esplosivo davanti ad un commissariato di polizia nella provincia sud-orientale di Semdinli ha causato 18 morti. Attacco attribuito da Ankara al Pkk.
Cizre, 26 agosto 2016: 11 agenti sono uccisi da un kamikaze che fa saltare in aria in un'autobomba a Cizre, città prevalentemente curda. Azione rivendicata dal Pkk.
Gaziantep - 20 agosto 2016: 57 persone, 34 dei quali bambini, muoiono in un attentato dinamitardo rivendicato da Isis ad un matrimonio curdo a Gaziantep, vicino al confine con la Siria.
Instanbul- 28 giugno 2016: Attentato all'aeroporto Ataturk, l'ultimo di una serie di attacchi terroristici che hanno colpito la Turchia. Per il momento 41 sono le persone uccise, di cui una decina turisti, e oltre 239 i feriti.
Instanbul - 7 giugno 2016: Perdono la vita 11 persone nello scoppio di un'autobomba con un autobus della polizia del centro storico della città.
Midyat - 8 giugno 2016: Un veicolo imbottito di esplosivo salta all'esterno del quartier generale della polizia a Midyat, nel sud-est a maggioranza curda. Morte 5 persone, una trentina i feriti. L'attentato è attribuito al PKK.
Istanbul - 19 marzo 2016: Cinque morti, di cui due americani, e 36 feriti è il bilancio di un attentato in una centralissima via di Istambul, nella strada Istiklal, dove un kamikaze si è fatto esplodere contro i turisti. I sospetti sono stati ricondotti all'Isis.
Ankara - 13 marzo 2016: Un gruppo armato TAK lascia a terra 37 i morti e 125 i feriti in un attentato suicida con un'autobomba nel centro di Ankara.
Ankara - 17 febbraio 2016: Un attentato suicida contro un convoglio militare turco provoca 28 morti e 61 feriti attribuito al gruppo siriano kurdo YPG, coordianto con la guerriglia kurda del PKK.
Istanbul - 12 gennaio 2016: vicino alla Moschea Blu un suicida del EI provoca la morte di 12 turisti.
Ankara - 10 ottobre 2015: Due kamikaze, vicini all'Isis, si fanno saltare in aria nella piazza centrale della capitale dove dove si sta tenendo un corteo per la pace con i curdi, in opposizione alle politiche del presidente Tayyip Erdogan. Il bilancio finale è pesante: 103 morti e oltre 245 feriti.
Soru - 20 luglio 2015: Muoiono 32 persone e più di 70 saranno quelle ferite in un attentato suicida da parte di una giovane donna simpatizzante dello Stato islamico, che si fa esplodere a nella città di Suru, a 10 chilometri dal confine siriano.
2016. EUROPA, UN ANNO DI TERRORE.
L'attentato al mercatino di Natale di Berlino è l'ennesimo atto terroristico che colpisce il cuore dell'Europa in un anno, scrive Luca Romano, Domenica 25/12/2016, su "Il Giornale". L'attentato al mercatino di Natale di Berlino (19 dicembre 2016, 12 morti 48 feriti) è l'ennesimo atto terroristico che colpisce il cuore dell'Europa in un anno, facendo ripiombare nella paura il Vecchio continente. Dalla Francia alla Germania, il 2016 è infatti stato segnato da un'escalation di terrore, che ha lasciato una scia di sangue che sembra non fermarsi. Questa la cronologia degli attentati che hanno insanguinato l'Europa nel 2016:
7 GENNAIO - Nel giorno in cui la Francia celebrava l'anniversario dell'attentato al settimanale satirico, Charlie Hebdo, un uomo, che indossava un cintura esplosiva, armato di coltello e gridando "Allah Akbar", si lancia contro alcuni poliziotti, ferendone uno, per vendicare i morti in Siria. L'uomo viene ucciso dagli agenti davanti al commissariato di Goutte-d'Or a Parigi.
22 MARZO - Una raffica di attentati, rivendicati dall'Isis, colpisce Bruxelles provocando 32 morti e circa 300 feriti. Le prime due esplosioni avvengono nell'aeroporto Zaventem, dove due kamikaze si fanno saltare in aria devastando la sala partenze internazionali. Poco dopo esplode un ordigno piazzato nel vagone centrale di un convoglio della metropolitana in viaggio tra le stazioni di Maelbeek e Schuman, nel cuore del quartiere che ospita le istituzioni Ue. Tra le vittime anche l'italo-belga Patricia Rizzo.
13 GIUGNO - A Magnanville, vicino a Parigi, un uomo uccide un poliziotto e sua moglie, anche lei agente di polizia, nella loro abitazione. L'attentatore, il 25enne Larossi Abballa, ne rivendica la responsabilità su twitter in nome dell'Isis. Viene ucciso dalle forze speciali.
14 LUGLIO - Un camion piomba sulla folla radunata sul lungomare della Promenade del Anglais di Nizza per i festeggiamenti della festa nazionale francese. Le vittime sono 86, tra cui 6 italiani, i feriti oltre 300. L'attentatore, Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, nato a Sousse in Tunisia, era già noto alla polizia per piccoli casi di criminalità minore, in particolare violenze e uso di armi, ma nessun fatto legato al terrorismo. Il 16 luglio, lo Stato Islamico rivendica la responsabilità dell'attentato, affermando che l'attentatore era un suo "soldato", che ha eseguito l'attacco in risposta agli appelli del gruppo di "colpire i cittadini dei Paesi della coalizione che combatte lo Stato Islamico".
18 LUGLIO - Un ragazzo di 17 anni proveniente dall'Afghanistan e richiedente asilo in Germania, Muhammad Riyad, viene ucciso dopo aver ferito cinque persone a colpi d'ascia su un treno regionale tra Wurzburg e Heidingsfeld, nella Germania meridionale. L'Isis rivendica l'attacco, in un video in cui il ragazzo, Muhammad Riyad, dice di essere un soldato del califfato.
22 LUGLIO - Nove persone rimangono uccise e 16 ferite nell'attacco condotto da un 18enne tedesco, di origine iraniane, nel centro commerciale Olympia a Monaco di Baviera. Il killer si suicida davanti agli agenti. Sembra da escludersi la matrice terroristica islamica.
24 LUGLIO - Un richiedente asilo siriano di 21 anni uccide a colpi di machete a Reutlingen, nel sud della Germania, una donna incinta e ne ferisce due. Anche in questo caso si esclude la pista terroristica, privilegiando quella di un delitto passionale.
24 LUGLIO - Ad Ansbach, in Germania, un uomo di origine siriana muore dopo essersi fatto esplodere all'ingresso di un concerto, dove c'erano oltre 2500 persone. Restano ferite 15 persone di cui 4 in modo grave.
26 LUGLIO - A Rouen, in Francia, due giovani fanno irruzione durante la messa del mattino nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, al grido di "Allah Akbar". Prendono cinque ostaggi (tra cui due suore) e sgozzano il sacerdote Jacques Hamel, 84 anni. I due aggressori, entrambi cittadini francesi, vengono poi uccisi dalla polizia. Uno di loro, identificato come Adel Kermiche, per due volte aveva tentato di raggiungere la Siria. L'Isis ha rivendicato l'attacco affermando che è stato compiuto da due 'soldati' del gruppo.
6 AGOSTO - Due poliziotte vengono ferite a colpi di machete nel centro di Charleroi, in Belgio. Un individuo, al grido di "Allah Akbar", ferisce due agenti di polizia, una delle quali riporta ferite profonde all'altezza del viso, prima di essere ucciso da una collega. L'aggressore era di origine algerina.
19 DICEMBRE: L'attentato di Berlino è stato un attacco terroristico avvenuto a Berlino, Germania, il 19 dicembre 2016, in un mercatino di Natale, provocando 12 morti e 56 feriti. Un autoarticolato con targa polacca, proveniente dall'Italia, ha investito la folla al mercatino di Natale del quartiere berlinese a Breitscheidplatz, nelle vicinanze della Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche di Charlottenburg. Nella notte del 22 dicembre 2016, il sospetto attentatore Anis Amri è stato ucciso in Italia a Sesto San Giovanni (Milano) durante un controllo di polizia all'esterno della stazione ferroviaria. Il cosiddetto Stato Islamico ha rivendicato la responsabilità dell'attentato attraverso l'agenzia di stampa Amaq.
L'ISIS PARTIGIANO DELL'ORRORE.
L’odio dell’Isis sui cristiani, scrive il 5 marzo 2017 Fausto Biloslavo su "Gli Occhi della Guerra”. A Qaraqosh tombe profanate, croci fatte a pezzi, chiese distrutte oppure usate come rifugio jihadista per salvarsi dagli attacchi aerei. Il viaggio nella persecuzione dei cristiani della piana di Ninive si snoda attraverso i simboli sacri fatti sistematicamente a pezzi dallo Stato islamico nei villaggi liberati dall’offensiva su Mosul. Il cimitero a ridosso della chiesa di Santa Shemoni nel villaggio cristiano di Bartella è stato profanato. I seguaci del Califfo in cerca di oro, preziosi o per puro odio hanno divelto le tombe e scoperchiato le bare. In una delle casse di legno devastate si vede un teschio. Un crocefisso nel marmo è stato scalpellato via e sono rimaste intatte solo le braccia aperte di Cristo. “È impressionante osservare questa atrocità. Non hanno avuto alcun rispetto, né dei morti, né dei simboli religiosi. Mi chiedo che male poteva fare una croce” spiega monsignor Francesco Cavina. Il vescovo di Carpi invitato dalla fondazione pontificia Aiuto alla chiesa che soffre (Acs) si aggira attonito fra le tombe profanate. Nell’agosto 2014 di fronte alla fulminea avanzata delle bandiere nere dalla Siria, 132mila cristiani sono stati costretti alla fuga dalla pianura di Ninive. L’esercito di Baghdad ed i combattenti curdi hanno iniziato a liberare i loro villaggi solo dallo scorso novembre con l’offensiva su Mosul, la “capitale” dello Stato islamico in Iraq. I seguaci del Califfo si sono lasciati alle spalle immani distruzioni. La chiesa di San Giorgio, a Bartella, è scalfita all’esterno dalla furia islamica, ma all’interno non esiste più. “È stata completamente bruciata con degli agenti chimici” denuncia padre Thabet Mekku. Si è fatto ordinare sacerdote con il nome di Paolo, lo stesso del suo vescovo martire per mano jihadista a Mosul nel 2008, prima della nascita delle bandiere nere. Soffitto e pareti sono un involucro nero. L’altare in marmo è sbrecciato, ma ha resistito assieme ad alcune icone scampate per miracolo alla distruzione. A Karamles, un altro villaggio liberato, i cristiani che sono ancora sfollati ad Erbil, capoluogo del nord dell’Iraq, tornano con i morti. La nuora della defunta Gazala, una signora di 82 anni, stringe la sua foto piangendo. Gli uomini si caricano in spalla la bara per poi calarla nelle botole del cimitero. “Anche se Daesh (Stato islamico) ha distrutto tutto noi riportiamo i nostri defunti nella loro terra cristiana a riposare in pace” spiega Yusuf Shamoun, prete della comunità dispersa dalle bandiere nere. Alessandro Monteduro, che guida la missione di Acs ha le idee chiare: “Vogliamo lanciare un piano Marshall per la piana di Ninive con l’obiettivo di farla rinascere. È in atto un monitoraggio sul terreno e con immagini satellitari, che dimostra come alcuni villaggi siano distrutti al 90%. Per far tornare i cristiani prima ci vogliono case, acqua, elettricità, cliniche e poi si penserà a rimettere in piedi le chiese”. Secondo un sondaggio di febbraio solo il 41% dei cristiani vuole tornare nelle loro case. Tutti temono per la sicurezza e suor Silvia, delle domenicane di Mosul ripiegate ad Erbil è convinta che i numeri siano più bassi: “Tre quarti dei cristiani vogliono andarsene dall’Iraq”. A Teleskoff occupato prima dalle bandiere nere e poi dai combattenti curdi sono tornate 170 famiglie nelle ultime settimane. Il primo villaggio cristiano che rinasce. Altre 600 sono pronte a farlo, ma solo la chiesa le aiuta a ricostruirsi una vita. E all’orizzonte ci sono nuove minacce. All’ingresso di molti villaggi cristiani abbandonati sventolano le bandiere delle vittoriose milizie sciite, che vorrebbero espandersi nella zona di Ninive. Sui muri di Karamles sono ancora intatti i simboli e gli slogan delle bandiere nere come la scritta “oh Allah distruggi gli ebrei ed i cristiani”. La piccola chiesa di Santa Maria veniva usata come “bunker” dai miliziani jihadisti per ripararsi dai caccia alleati. Una madonnina è stata volutamente sfregiata portando via il volto e all’altezza del petto c’è il foro di un proiettile, come se fosse stata utilizzata per il tiro al bersaglio. Il sollievo arriva con il rintocco di una delle poche campane scampate alla furia jihadista. A Qaraqosh, centro della cristianità di Ninive, i seguaci del Califfo hanno massacrato gli anziani, che non volevano andarsene e si rifiutavano di convertirsi all’Islam. La cattedrale dell’Immacolata concezione è devastata e annerita dal fuoco. In piedi sono rimaste solo le possenti colonne ed i cristiani hanno recuperato quello che resta dell’altare. Monsignor Cavina è il primo vescovo italiano a celebrare una toccante Messa nella chiesa violata per oltre due anni dalle bandiere nere. Nell’omelia sottolinea il “sacrificio” dei cristiani perseguitati in Iraq, ma pure il raggio di luce “dei simboli sacri che tornano al loro posto”. Nella cattedrale i barbari jihadisti hanno fatto a pezzi pure la lapide di padre Ragheed Ganni martire delle fede a Mosul prima del Califfato. La guerra con le bandiere nere ha raso al suolo Betnaya un villaggio cristiano di 5mila anime. La feroce devastazione della chiesa di San Kiriaqos è un pugno nello stomaco. Si è salvata una grande croce arrugginita, ma l’altare l’hanno preso a martellate. E su ognuna delle antiche colonne che sostengono la navata i seguaci del Califfo hanno scritto con lo spray nero “Allah” o “Maometto”.
“Francesco, vieni tra noi”.
“Papa Francesco ti prego vieni a trovarci. È molto, molto importante. Abbiamo bisogno di te in mezzo a noi. La tua visita ci incoraggerà e ricorderà che abbiamo una missione: portare il messaggio di Gesù Cristo nell’agitato Medio Oriente. Vieni presto”. L’accorato appello al Santo padre è di Bashar Matti Warda, arcivescovo di Erbil.
I cristiani dell’area di Mosul vivono da oltre due anni sfollati nel capoluogo del Kurdistan nel nord dell’Iraq. Quanti sono?
“A Erbil abbiamo 10mila famiglie cristiane rifugiate. Purtroppo ben 3.200 se ne sono andate nei Paesi vicini o verso l’Europa e altre nazioni. Chi rimane continua ad aver bisogno di aiuto per l’alloggio, il cibo, l’educazione dei figli e l’assistenza sanitaria”.
Perché i villaggi liberati restano vuoti?
“I cristiani non si sentono sicuri. A Mosul si combatte ancora e il governo iracheno non ha iniziato alcuna ricostruzione dei villaggi”.
Chiedete protezione armata internazionale?
“Non vogliamo truppe internazionali, ma osservatori che garantiscano il rispetto della minoranza cristiana e dei suoi diritti”.
Quanti simboli cristiani sono stati cancellati?
“Nove chiese su dieci risultano saccheggiate, bruciate o danneggiate. Il messaggio ai cristiani è chiaro: Vi odiamo, non vi vogliamo e non dovete tornare”.
A Mosul abbiamo trovato minacce a Roma. Solo propaganda?
“Ogni vero musulmano ha l’ambizione di invadere Roma. Ci hanno già provato arrivando alle porte di Vienna. I graffiti di Mosul non sono solo delle scritte, ma una volontà”.
L'Isis segreto: oltre i luoghi comuni del Fallacismo. Scrive Cristiano Puglisi il 15 luglio 2015 su "Il Talebano". Isis Segreto è un libro fuori dal comune. E che va letto. E non perché chi l’ha scritto ci sta simpatico. Piuttosto perché l’analisi degli autori, Matteo Carnieletto e Andrea Indini, una volta tanto non parte dalla solita e ripetitiva prospettiva “fallaciana” di un Islam cattivo e violento, oscurantista e medioevale. Un Islam caricaturale, visto nell’ottica dello “scontro di civiltà”. È invece un’inchiesta, quella di Carnieletto e Indini, che va molto più in profondità, alle radici del fenomeno Isis. Che è un fenomeno prodotto e partorito non tanto dall’ignoranza dei ceti popolari arabi, ma dall’aggressività dell’Occidente. Che l’Isis sia stato inizialmente finanziato dagli Stati Uniti d’America e dai suoi alleati regionali nella lotta contro il presidente siriano Bashar Al Assad è ormai cosa assodata. Troppo spesso chi commenta le vicende relative all’Isis dimentica di ricordare che nel 2013 andammo vicinissimi a una guerra in Siria per destituire Assad al fianco di coloro che poi avrebbero costituito il nucleo centrale del Califfato di Al Baghdadi. Al di là della retorica sulla paura, sul sangue, sulle decapitazioni e sulle bombe, che può guidare a riflessioni irrazionali sull’ “Islam che vuole conquistare Roma” e sulla necessità di improbabili nuove crociate (chissà, forse si intende farle con i soldati transessuali presto arruolabili nell’esercito Usa, NdA), basta scendere leggermente più in profondità per capire cosa ci sia alla base. Le foto che ritraggono il senatore repubblicano John McCain fianco a fianco dei futuri leader dell’Isis nel 2013 in Siria hanno del resto fatto il giro del mondo. Eppure incredibilmente, e a ulteriore dimostrazione dell’assoluta faziosità del circuito mediatico, non sono trapelate sulla grande stampa. Così come, sforando nell’attualità, un totale oscuramento è calato sulla misteriosa vicenda del video diffuso nelle ultime ore dagli hacker filorussi del gruppo ucraino ‘Cyber Berkut’ che mostrerebbe come una delle famose decapitazioni ad opera di “Jihadi John” sarebbero state registrate in uno studio cinematografico (unica lodevole eccezione, nell’ambito dell’informazione mainstream, è rappresentata dall’agenzia Adn Kronos). A prescindere dall’attendibilità della fonte, il merito di aver portato alla luce questa che in un mondo normale sarebbe stato comunque una notizia, va a uno scrittore definito “complottista” come Leo Lyon Zagami e una rivista indipendente come L’Intellettuale Dissidente, primo a riprenderla sui propri canali. Ma che cos’è allora l’Isis? Innanzitutto è bene ricordare, anche ai vari profeti nostrani del “celodurismo” anti islamico a tutti i costi, che in gran parte del mondo musulmano, anche in quello sunnita, i guerriglieri del Califfato sono definiti takfir. Eretici, apostati. È anche il caso dell’eresia wahabita alla base del jihadismo, ma anche del regime saudita, più o meno fedele alleato di Washington e di quello del Qatar. Inoltre per mantenere la propria egemonia in Medio Oriente, gli Stati Uniti hanno bisogno di mantenere la propria presenza militare. E questa si mantiene solo in una situazione di instabilità. Ecco allora che l’Isis, al di là di ogni complottismo, è perfetto per questo scenario, ed è perfetto per indebolire quei governi che non rispondono alle logiche imperiali americane, come appunto la Siria. “Isis segreto” è un libro che aiuta a comprendere questi scenari e che, con un linguaggio avvincente ed esente da noiose divagazioni accademiche, mantiene elevata l’attenzione del lettore, rendendosi fruibile anche dai neofiti della materia.
L'Isis segreto: ecco come si diventa Foreign Fighter. Dodici ore per arruolarsi. La gavetta la offre al-Baghdadi, scrive l'1 luglio 2015 "Il Talebano". Il Talebano ha il piacere di presentare un primo stralcio del libro Isis segreto, pubblicato dai due cronisti de Il Giornale Matteo Carnieletto e Andrea Indini, per portare un po’ di luce nell’angolo buio in cui è stato relegato il nuovo spauracchio dei media. È solo un anticipazione: nei prossimi giorni potremmo anche sorprendervi. Stay tuned. Ci vogliono meno di dodici ore per riuscire a trovare i contatti per volare in Siria e combattere al fianco degli jihadisti. Lo strumento più comodo e rapido è Facebook: basta crearsi un profilo, scegliere un’immagine che richiami la rivoluzione anti-Assad, iniziare a aggiungere agli amici qualche persona che sia stata in Siria come cooperante (Greta Ramelli, eg) e il gioco è fatto. In pochissimo tempo si è invasi da una marea di richieste di amicizia. Sono perlopiù uomini che, forse ingannati dalla mia foto profilo (un’immagine delle cooperanti italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo), cercano relazioni sul web. Spesso mi viene chiesto se sono disposto a fare “cam”, una maniera nemmeno troppo fine per chiedermi di spogliarmi. Inizio a chattare. Tutti chiedono se sono musulmano. Sembra essere una caratteristica necessaria per continuare la conversazione. Le richieste di amicizia continuano a fioccare. Bandiere nere jihadiste, donne in niqab che impugnano il mitra. Mi contatta un ragazzo siriano. Odia Assad, lo chiama “scimmia”. Lo incalzo: gli dico che vorrei raggiungere la Siria, se non per combattere, almeno per aiutare la popolazione. Mi dice di no. Quando gli chiedo il perché usa una sola parola: “war”. C’è la guerra. Mi ripete: “Non venire in Siria”. Lo rassicuro e lui mi ringrazia. Apprezza la mia “sensibilità”. Guardo le immagini di profilo delle persone che mi hanno aggiunto. Molto spesso sono riprese dai siti di propaganda jihadista e raffigurano uomini vestiti totalmente in nero, armati di pistole o mentre imbracciano un kalashnikov. Spesso vengono scelte le foto dei capi dello Stato islamico: al Baghdadi, innanzitutto, ma anche il suo portavoce e braccio destro, Sheych Adnani. Mentre chatto – e sono passate circa cinque ore – mi scrive, penso che raggiungere la Siria non è poi così semplice. Contatto “il servo ribelle Al-Mujahed”, un altro siriano. Dopo i primi convenevoli, provo a inquadrarlo. Non che ci voglia molto: le sue immagini di profilo e di copertina lo ritraggono con un kalashnikov. Mi spiega chiaramente che è uno jihadista, che combatte per la sua nazione, la Siria, e che così dovrebbero fare tutti i buoni musulmani. Rilancio: gli dico che anche io sono un musulmano. Un musulmano italiano che vorrebbe raggiungere quanto prima la Siria per combattere il jihad. Ed è ora che il “servo ribelle” mi sorprende. Mi dice “ti aiuto”. Mi consiglia di abbandonare quanto prima l’Italia e di prendere un aereo per Istanbul per poi di spostarmi verso il confine tra Turchia e Siria. Mi dice: “arriva a Hatay, lì ti verremo a prendere per poi portarti in Siria. E qualcosa di vero, penso, deve esserci se l’aeroporto di Hatay, nel 2012, quindi nell’anno in cui è iniziata la guerra civile, ha registrato un +11,6% di passeggeri stranieri. Una sfortunata coincidenza o è davvero questo lo scalo dei foreign fighters che vogliono raggiungere la Siria? “E le armi?”, chiedo al “servo ribelle”. Lui mi rassicura: “Abbiamo tutto”. Mi saluta. Gli dico che lo aggiornerò sul mio viaggio. “Insciallah”, mi risponde. Se Dio vuole.
L’Isis segreto di Matteo Carnieletto e Andrea Indini. Un tuffo nella melassa del terrorismo islamico, scrive Alessandro Sallusti. Questo non è il classico libro scritto a tavolino attingendo a ritagli e conoscenza. "Isis segreto" è il tuffo fisico di due cronisti dentro la melassa del terrorismo islamico che a nostra insaputa, o all'insaputa dei più, è già penetrata nelle nostre città e nelle nostre case. Due giovani giornalisti – potrebbero essere i nostri figli o il vicino di casa – si fingono attratti dalla rivoluzione di Allah contro l'Occidente e cercano contatti per passare dall'infatuazione all'azione. Il bandolo della matassa è a portata di tutti, dentro quel mondo parallelo che è internet. Dall'altra parte del filo – si sarebbe detto ai tempi del telefono – c'è un grande orecchio pronto a captare ogni segnale con una efficienza da multinazionale. Prima finti diffidenti, poi suadenti, infine motivanti. E il gioco è fatto. È la stessa tecnica dei venditori porta a porta. Non importa quanti campanelli dovrai suonare, conta che una piccola parte apra l'uscio e faccia mettere piede in casa, che in questo caso è la nostra testa. Il resto verrà, col tempo o a tempo debito. Quello che è certo – e questo libro-inchiesta lo dimostra – è che una organizzazione segreta gigantesca sta lavorando da luoghi sicuri e forse insospettabili per disseminare tra i giovani occidentali il virus del terrorismo islamico e traffica per mantenere contatti con agenti insonni già arruolati. Leggere queste sorprendenti pagine ci fa capire come essere geograficamente lontani da bombe e sgozzamenti, insomma dall'orrore del fronte, non deve essere un buon motivo per farci sentire più sicuri. Perché la rivoluzione islamica, arcaica nei modi e nei contenuti, ha messo in campo l'arma più moderna e pericolosa: la comunicazione e le sue libertà tipicamente occidentali. "Quando abbiamo iniziato a scrivere questo libro, abbiamo proposto all'amministratore delegato de ilGiornale.it, Andrea Pontini, di rinunciare al nostro compenso per devolverlo a Gli occhi della guerra, l'associazione no profit che, da oltre un anno, finanzia i grandi reportage attraverso donazioni spontanee dei lettori (il cosiddetto crowdfunding). Acquistando Isis segreto sarete voi i veri protagonisti dei grandi reportage di guerra."
Andrea Indini e Matteo Carnieletto «Isis segreto»: come nascono e come operano i tagliagole dello Stato islamico, scrive Fabio Polese. Nato un anno fa, quando il 29 giugno del 2014 Abu Bakr Al-Baghdadi si è proclamato Califfo, lo Stato islamico sembra inarrestabile. «La loro avanzata è davvero singolare. L’Isis nasce, in parte, da un pasticcio dell’America. Lo racconta la Clinton in Scelte difficili. Si voleva abbattere Assad ad ogni costo e, così, si è deciso di armare i cosiddetti ribelli moderati. Il problema è che poi si è scoperto che i ribelli moderati non erano affatto moderati. Hanno abbandonato la guerra contro Assad e si sono affiancati allo Stato islamico. Se queste sono le basi, ovvero si riconosce apertamente che qualcosa è andato storto nel piano di destabilizzazione di un governo legittimo, si capisce anche perché l’Occidente non ha ancora attaccato l’Isis. Conviene, politicamente, a certe Nazioni, come gli Usa, la Turchia e il Qatar, avere una forza destabilizzante in Medio Oriente». A parlare ad Istituto di Politica, sono i due giornalisti de il Giornale, Andrea Indini e Matteo Carnieletto, autori del libro-inchiesta «Isis segreto». Un volume fondamentale per capire com’è nato, come agisce e come si espande lo Stato islamico. Isis e social network. Quello dei social è da sempre un regno di libertà. E gli uomini dello Stato Islamico, che lasciano libera iniziativa ai singoli, lo hanno capito bene. Internet è sicuramente lo strumento più facile da usare per arruolare nuovi adepti. Proprio partendo da questo, i due autori del libro-inchiesta, hanno creato un profilo Facebook falso e hanno cercato di addentrarsi dentro il mondo virtuale delle bandiere nere. «Abbiamo cominciato ad aggiungere tra i nostri amici alcune persone che abitavano in Siria e che, diciamo, avevano profili poco raccomandabili. In pochissimo tempo, meno di 12 ore, abbiamo trovato una fonte buona, disposta a parlare. Si chiamava Il servo ribelle al Mujahed. Ci ha invitato ad abbandonare l’Italia degli infedeli, per raggiungere la Siria e combattere con gli jihadisti». La promessa di beni materiali. Gli uomini del Califfo propongono quello che per loro è un mondo migliore, dove finalmente regnano Allah e la sharia. E, soprattutto, si propongono anche beni concreti. «Lo abbiamo visto proprio in questi giorni», spiegano i due giornalisti. «Maria Giulia Sergio, la 27enne italiana che ora si trova nella Siria meridionale a combattere con gli uomini di Al Baghdadi, in una delle conversazioni intercettate, dice a suo papà: “Qui potrai trovare una jeep a 3000 euro”. Il sogno di ogni uomo». Ma non è tutto: «Non dimentichiamo che lo Stato islamico sta arrivando là dove alcuni governi non sono riusciti ad arrivare: sta proponendo un sistema di welfare. Certo, islamico, ma sempre welfare. Si offre anche un ideale, quello del jihad, che fa leva sul vuoto in cui vivono i nostri giovani, disposti ormai a tutto pur di sentirsi vivi». Isis e l’impatto mediatico del terrore. Gli jihadisti dello Stato Islamico puntano anche sul terrore, soprattutto attraverso video che sembrano molto vicini ai film hollywoodiani. Con effetti speciali, ma con sangue vero. «Con questi video – puntualizzano Indini e Carnieletto – l’Isis si radica nelle nostre teste. È un po’ come quando si guarda un film dell’orrore: vorremmo chiudere gli occhi, ma non ce l’ha facciamo e continuiamo a guardare. La cosa tragica è che quelli dell’Isis non sono film. Sono la realtà. Sanno che con questi video possono terrorizzarci e, quindi, annichilirci». Come si finanzia l’Isis? Lo Stato islamico è ben organizzato e riesce a finanziarsi in vari modi. Con la vendita del petrolio. Con il commercio delle tante opere d’arte che vengono confiscate dagli uomini del Califfato e che poi vengono vendute nel mercato occidentale. Con il contrabbando di armi e con i riscatti. Ma non solo. «L’Isis – spiegano i due giornalisti – aumenta il proprio erario anche grazie a tutti quegli Stati che godono, più o meno apertamente, della sua presenza in Medio Oriente. L’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar». Pericolo Isis in Europa. «L’Isis può colpirci in ogni momento», spiegano i due autori. «Bisogna tenere a mente che lo Stato islamico non è Al Qaeda. Non ha una struttura solida e preferisce lasciar agire i cosiddetti lupi solitari. È da questi che dobbiamo innanzitutto guardarci». L’Isis, infatti, a differenza di Al Qaeda, è da una parte più organico, dall’altra lascia più libera iniziativa ai suoi miliziani. E, soprattutto, lo Stato islamico accetta chiunque sia disposto a combattere per lui. Gli errori dell’Occidente. Secondo i giornalisti de il Giornale, l’errore dell’Occidente è stato madornale ed è iniziato ben prima del tentativo di destabilizzare Assad. «Si è iniziato con le primavere arabe e i risultati sono stati disastrosi. Poi si è provato a far fuori un presidente legittimamente eletto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Lo Stato islamico si estende in un territorio immenso. In Siria c’è Al Nusra, che è un gruppo qaedista a cui gli Usa strizzano l’occhio. Gli errori in Siria sono gli stessi della Libia: fatto fuori un governo forte, il potere viene preso dagli islamisti. E così gli Stati crollano». I migliori alleati sono gli sciiti. «L’Occidente dovrebbe tornare indietro sui suoi passi, riconoscesse di aver sbagliato e comprendere che i possibili alleati per sconfiggere lo Stato islamico, paradossalmente, sono Assad, Hezbollah e Iran». Un’altra alternativa, «più concreta è che si passi per un’operazione militare internazionale. Una scelta davvero pericolosa, che magari potrebbe sì annientare l’Isis, ma che potrebbe far aumentare ancora di più l’odio di una certa parte del mondo islamico nei confronti dell’Occidente». Se non lo avessimo capito, «stiamo ancora pagando le guerre, politicamente scellerate, in Afghanistan e in Iraq». «Isis segreto» è dunque un testo prezioso e completo per comprendere quello che sta succedendo in Medio Oriente. Ma non solo. Ci fa anche capire che, essere geograficamente lontani dall’orrore dei tagliagole, non può farci sentire più sicuri. Sarebbe solo una illusione, un pericolosissimo errore di prospettiva.
L’intervista. Isis segreto, l’inchiesta choc di Indini e Carnieletto: “Jihadisti in dodici ore”, scrive il 23 giugno 2015 Giovanni Vasso su "Barbadillo". Isis è nome che evoca immediatamente paura e indignazione. Soprattutto in Europa, specialmente in Italia, naturale “porta” del Mediterraneo, ponte tra il vecchio continente e l’area infuocata del Vicino Oriente. Cosa vogliono gli uomini del califfo ormai appare chiaro. Come si muovano e cosa rappresentino realmente, invece, ancora non del tutto. L’incubo è che i jihadisti, come nel celeberrimo film degli anni ’50, siano tra noi. Manco fossero gli Ultracorpi. Per capirne di più sugli uomini di Al Baghdadi, Andrea Indini e Matteo Carnieletto – firme di punta de Il Giornale – hanno portato avanti un’inchiesta sconvolgente, condensata nel libro “Isis Segreto”, con la prefazione del direttore Alessandro Sallusti.
Quanto è facile diventare jihadisti al tempo dei social network?
Matteo: Avevamo notato quanto fossero abili, gli jihadisti dello stato islamico, a utilizzare sia Facebook che Viber per arruolare nuovi miliziani. Ci siamo chiesti se fosse davvero così e, perciò, abbiamo voluto verificare noi stessi se e quanto fosse facile attirare i ragazzi, soprattutto stranieri. Non ci dobbiamo scordare, infatti, che i foreign fighter al servizio del califfo sono circa 30mila. All’inizio sembrava difficile, le prime ore le abbiamo passate tutte a spulciare profili, scovare personaggi, cercare tracce. Abbiamo cominciato il nostro percorso partendo dalle amicizie web di Greta Ramelli, la cooperante rapita e liberata qualche mese fa insieme all’amica Vanessa Marzullo. Abbiamo aggiunto al nostro profilo i suoi amici e, dopo cinque ore, eccoci con una pista interessante tra le mani. Era un ragazzo siriano che combatteva lì, che chiaramente era jihadista e io, che mi ero spacciato per un neo-convertito italiano all’Islam, gli ho detto che ero interessato e pronto a partire. Lui si è mostrato molto disponibile a spiegarmi la tratta per raggiungere gli altri jihadisti. Tratta che è tragicamente facile: viaggi in aereo fino a Istanbul e poi raggiungi i centri minori di Hatay e Gaziantep. Da lì, vicino al confine con la Siria, ci avrebbero presi e portati direttamente al fronte.
Praticamente una bazzecola. O quasi. Ma cosa promettono ai combattenti?
Matteo: Quanto abbiamo scoperto ci ha confermato l’estrema facilità di accesso alla Jihad. E questa è una grandissima differenza dell’Isis rispetto ad altre organizzazioni, su tutte Al Qaeda. Se Bin Laden era estremamente selettivo nel reclutamento, il califfo accoglie praticamente chiunque. Se poi la recluta si rivela una spia non ci pensano più di tanto a farti fuori in pochi minuti, filmandone l’esecuzione. A me, poi, han promesso solo la guerra. Nessun compenso finanziario. Però si sa che i miliziani vengono pagati, anche abbastanza bene. L’Isis sembra puntare alla creazione di un vero e proprio sistema assistenzialista, come dimostra addirittura il fatto che se un combattente si sposa, gli viene concessa una sorta di congedo nuziale.
Davvero l’Isis è così pericoloso?
Andrea: Sono anni che l’Occidente si interroga sul livello di pericolosità dell’Isis e più in generale del radicalismo islamico. Una soluzione “comune” e condivisa non sembra ancora esserci. Anzi ci si divide tra chi derubrica problema a fenomeno passeggero (come per esempio il generale Fabio Mini, che abbiamo intervistato, e che non considera l’Isis come un vero problema per l‘Occidente) e chi all’opposto considera la minaccia jihadista un pericolo per il mondo occidentale. Ciò che indubbiamente ha dimostrato l’avanzata “nera” è il fatto che dove c’è stato vuoto di potere governativo, lì l’Isis s’è inserito facilmente conquistando il sostegno della base popolare. E da lì è partito alla conquista di paesi come Iraq e la Siria. Si tratta delle stesse condizioni che stanno maturando adesso in Nord Africa dopo l’esperienza delle cosiddette primaverea arabe. Non ci vuole molto, poi, per capire come il fanatismo dell’Isis sia un effettivo pericolo, basta vedere cosa accade ai cristiani in Siria. Per comprendere se ci sia una vera criticità per noi occidentali, occorre leggere e analizzare la scia di sangue che è stata lasciata negli ultimi venti-trent’anni di terrore.
C’è continuità, dunque, nel fronte jihadista?
Andrea: Prima l’incubo si chiamava Al Qaeda oggi Isis, però la radice, più o meno, rimane la stessa. Tanto che molti combattenti sono passati agevolmente da una sigla del terrore all’altra. Basta considerare quanto è accaduto negli ultimi vent’anni in Europa, non troppo lontano da noi. Nei Balcani erano arrivati a combattere i mujaheddin afghani e lì sono rimasti tra Kosovo e Bosnia. Dove formano combattenti da mandare, oggi, al fronte dalla parte dello Stato Islamico oppure in giro per l’Europa ad arruolare nuovi combattente.
Negli ultimi tempi il dibattito s’è infuocato e radicalizzato. Il “male” è l’Islam in sè oppure il califfo ne rappresenta la degenerazione?
Matteo: senza dubbio dei passi del Corano incitano alla guerra santa. Lo dice senza nascondersi, tra gli altri, Bilal Bosnic che, intervistato da Repubblica afferma chiaramente che essere musulmano obbliga l’uomo a combattere il jihad, imbracciando le armi oppure sostenendo, economicamente e moralmente, chi è in guerra. Bosnic, vale la pena ricordarlo, è ritenuto uno degli esponenti più importanti dello jihadismo in Europa e, addirittura, responsabile di reclutamento e indottrinamento degli aspiranti “soldati” provenienti anche dall’Italia. Dall’altra parte, però, ci sono tantissime altre personalità che la pensano all’opposto. C’è l’imam di Roma, Pallavicini (che abbiamo intervistato nel libro), che si dimostra sinceramente preoccupato dal fenomeno del terrorismo. Ha ragione un intellettuale di “casa nostra”, Pietrangelo Buttafuoco quando scrive che quella che si gioca in questi anni è una partita tutta interna all’Islam. Buttafuoco, difatti, spiega come il pericolo incomba anche sui musulmani. In Siria e in Iraq vengono uccisi innanzitutto i cristiani, ma anche i musulmani sciiti, considerati infedeli dagli uomini del califfo.
L’area in cui si muove l’Isis è strategica e l’emergenza è diventata planetaria. Qual è lo scenario attuale e quelli plausibili?
Andrea: Di sicuro, nell’immediato futuro, si dovrà intervenire su quei problemi che dovevano essere risolti già da mesi. In Libia, l’Italia doveva intervenire, anche perchè questo è il Paese dove attualmente l’Isis attecchisce maggiormente. Necessario, sul fronte dell’immigrazione clandestina, che l’Occidente decida cosa fare con Tripoli. Oggi la Libia è divisa tra due governi, uno ufficiale e l’altro islamista. Tutto questo mentre la Libia brulica di una molteplicità di miliziani, tribù in armi e combattenti jihadisti. Sicuramente l’Europa, dopo aver fatto danni clamorosi con la guerra a Gheddafi che ha fatto da prologo all’attuale caos in Libia, deve trovare il modo per riportare tutto sotto controllo. Solo così si potranno pattugliare le coste libiche e contrastare i barconi che attraccano sulle coste italiane. Un altro fronte è di sicuro quello della lotta all’Isis. E qui si chiamano in causa maggiormente gli Stati Uniti d’America che per mesi hanno ingaggiato una campagna violentissima contro Bashar al Assad, prima armando i ribelli e, adesso, ritrovandoseli armati contro. Situazione incresciosa dato che oggi l’alleanza Atlantica è costretta a scendere a patti proprio con Assad. Non è innocente l’Ue che ha assecondato fin troppo a lungo gli Usa nella campagna d’odio contro il governo siriano e che ora deve rivedere tutto. Tutte questioni che chiamano in causa, poi, la Russia di Vladimir Putin, rivelatasi l’unico vero baluardo contro il fondamentalismo islamico. Si pensi solo a quanto è stato fatto in Cecenia. Solo Putin, del resto, quando l’America attaccò Assad, si schierò con la Siria, insieme alla Cina. E nonostante ciò, Putin resta sempre osteggiato dagli Usa. In questo complicato e delicato scacchiere l’Europa diventa sempre più centrale non tanto perchè valga qualcosa sotto il punto di vista politico o diplomatico ma perchè i problemi vengono a bussare direttamente alla nostra porta. Il conflitto ucraino, per esempio, è la dimostrazione plastica di questo braccio di ferro (sbagliato) tra Usa e Russia. Il vero problema di oggi sta nei conflitti e nelle loro ripercussioni: le potenze si confrontano e misurano su un Paese come l’Ucraina e intanto chi ne fa le spese è tutta l’Europa. Tutti questi scenari di tensione, sebbene divisi e diversi tra loro, hanno una matrice unica. Per questo, occorre seguire attentamente quanto avverrà sullo scenario internazionale da qui a breve: dalle alleanze ai futuri rapporti, quale sarà la strada da percorrere in vista delle risoluzioni delle crisi tra Vicino Oriente ed Europa dell’Est.
Libri. L’Isis e la guerriglia partigiana: esce “Sangue Occidentale” di Indini e Carnieletto, scrive il 7 novembre 2016 Wim Kieft su "Barbadillo". Due anni di violenza, terrore e guerra. La paura che fa breccia nel cuore dell’Europa sconvolta dalle mire del Califfato che, da Charlie Hebdo fino all’eccidio degli italiani a Dacca passando per l’orrore di Nizza, fa scorrere “Sangue Occidentale”. Uscirà domattina con Il Giornale in edicola, il nuovo libro di Matteo Carnieletto e Andrea Indini che si intitola proprio “Sangue Occidentale” e vuole indagare sulle mire e nelle strategie del terrorismo islamico internazionale, del sedicente soldato di una visione sballata dell’Islam. La cui parabola, come scrivono gli autori, pare essere diventata quella del “partigiano”, quello descritto da Carl Schmitt e che nel terzo millennio si manifesta come: “Una mina vagante, l’antesignano del lone wolf, il lupo solitario di Al Baghdadi. Non conduce una guerra, ma una guerriglia. Per questo è più pericoloso”. Carnieletto e Indini partono dall’attuale situazione dello Stato Islamico che è (quasi) in rotta, costretto alla ritirata da gran parte dei territori occupati. Ma più si restringono i confini, più svanisce la chimera di farsi nazione dell’estremismo islamico, più l’Isis si fa pericolosa, radicale perché – abbracciando la logica della guerriglia – sembra voler disporre di decine e decine di disperati pronti a immolarsi diffondendo terrore per le strade d’Europa, agevolati da reti più o meno ramificate e dai buchi delle politiche sull’immigrazione adottate nel Vecchio Continente. Indini e Carnieletto, firme de Il Giornale, tornano a occuparsi di terrorismo dopo “Isis Segreto”, il libro-inchiesta in cui i due giornalisti svelarono (tra le altre cose) quanto fosse facile farsi arruolare dall’estremismo islamico.
Quei partigiani dell'orrore assetati di "Sangue occidentale". Nel libro di Carnieletto e Indini l'assalto jihadista alle nostre città e ai nostri valori. Che ha già fatto oltre 770 morti, scrivono Matteo Carnieletto ed Andrea Indini, Lunedì 07/11/2016, su "Il Giornale". La guerra dell'Occidente, il terrorismo islamico, gli anni orribili dell'Europa ma non solo. Si intitola Sangue occidentale ed è il nuovo libro dei nostri Matteo Carnieletto e Andrea Indini dopo il successo di Isis segreto. Sarà allegato domani al Giornale al prezzo di 8.50 euro, rientra nelle iniziative degli Occhi della guerra, spiega con fatti, analisi, cifre come l'Occidente sia nel mirino del terrorismo islamico. Ve ne anticipiamo uno stralcio. Perché conoscere serve a capire. Il 2015 ha rappresentato l'annus horribilis per l'Europa. Tutto è iniziato con la strage di Charlie Hebdo, il 7 gennaio, ed è proseguito con gli attacchi in Danimarca, in Tunisia, nel Sinai, per poi concludersi, quasi fosse un magico cerchio dell'orrore, ancora in Francia, il 13 novembre, con attacchi multipli culminati nella carneficina del teatro Bataclan. Tutti questi attentati nessuno escluso hanno un minimo comune denominatore: sono rivolti contro occidentali, anche quando vengono compiuti in Africa, e sono firmati dall'Isis, lo Stato islamico che pur battendo in ritirata in Iraq, Siria e Libia sta continuando a mietere vittime in tutto il mondo. Il 2016 sembra essere un anno ancora peggiore rispetto a quello precedente. Prima l'attacco all'aeroporto di Bruxelles avvenuto pochi giorni dopo l'arresto di Salah Abdeslam, uno degli attentatori di Parigi poi quelli in America, a San Bernardino e a Orlando. Si è proseguito quindi con gli attentati di Dacca, dove sono morti nove nostri connazionali; di Nizza, costati la vita a ottantaquattro persone, di cui molti bambini; e poi in Germania, a Heidingsfeld, dove un pakistano di diciassette anni ha ferito cinque persone con un'ascia, e ad Ansbach, dove un siriano si è fatto saltare in aria, ferendo quindici persone. Settecentosettanta morti falciati dall'odio islamista. Ci troviamo davanti a una precisa strategia del terrore. Gli attacchi contro l'Occidente continuano a moltiplicarsi. Lo vediamo purtroppo ogni giorno. Ma perché? Il motivo fondamentale è che l'Isis sta perdendo terreno. Lo Stato islamico ha dovuto abbandonare il 50% dei suoi territori in Iraq e il 20% in Siria. La battaglia di Mosul potrebbe dare la spallata definitiva al Califfato e l'Isis sparirebbe là dove è nato. Proprio a Mosul, Al Baghdadi aveva annunciato la creazione di uno Stato islamico e aveva lanciato la sua sfida al mondo intero. La situazione in Libia è ancora peggiore per i terroristi, che hanno perso l'85% delle zone in loro possesso. Almeno per il momento sembrerebbe essere quindi andata a monte l'idea di mantenere uno Stato vero e proprio e ciò avrebbe provocato un cambio di strategia da parte dei jihadisti. Non a caso, proprio davanti all'arretramento dell'Isis, Abu Muhammad al-Adnani, il portavoce dell'autoproclamato Califfo Abu Bakr Al Baghdadi, ha affermato: «Non combattiamo per difendere un territorio o per mantenerne il controllo». Una retromarcia clamorosa se si pensa che l'elemento che ha caratterizzato la propaganda dell'Isis rispetto a quella di Al Qaida e degli altri movimenti terroristici degli ultimi decenni è proprio il tentativo di creare uno Stato. A cosa ci troviamo di fronte oggi? Terroristi agguerriti che vanno e vengono dai territori controllati dallo Stato islamico fino al cuore dell'Europa. C'è chi si mischia tra i migranti e chi, invece, passa senza che nessuno osi dire «beh». Ci troviamo poi a dover combattere i «partigiani» dell'orrore. Il riferimento è a un libro di Carl Schmitt, Teoria del partigiano, appunto. Il partigiano non ha una divisa, non lo si riconosce. «Il partigiano combatte da irregolare». Combatte per un ideale, qualunque esso sia. «Il partigiano moderno non si aspetta dal nemico né diritto, né pietà. Egli si è posto al di fuori dell'inimicizia convenzionale della guerra controllata e circoscritta, trasferendosi in un'altra dimensione: quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento». È una mina vagante, l'antesignano del lone wolf, il lupo solitario di Al Baghdadi. Non conduce una guerra, ma una guerriglia. Per questo è più pericoloso. Ad un anno dai tragici fatti del Bataclan e degli attacchi multipli di Parigi che hanno portato alla morte più di centotrenta persone e al ferimento di più di trecentocinquanta innocenti, l'Europa e l'Occidente non sono ancora al sicuro. Le minacce si fanno ogni giorno più frequenti e la coordinazione tra lupi solitari e Stato islamico sempre più forte. Ed è per questo che, potenzialmente, siamo tutti nel mirino del terrorismo di matrice islamica.
Ecco il manuale dell'orrore che insegna la guerra santa. È un volume di oltre 5mila pagine che circola online da alcune settimane. Potrebbe essere stato utilizzato anche dagli attentatori del resort tunisino, scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 29/06/2015, su "Il Giornale". Il «Libro del terrore» è un manuale dello Stato islamico per gli aspiranti tagliagole in Occidente, che vogliono colpirci a casa nostra in nome di Allah. Un volume in pdf di 5232 pagine, che ti spiega nei dettagli come far saltare una macchina minata stile Iraq, tecniche di spionaggio, pianificazione degli attentati e forma fisica per il perfetto terrorista. Il manuale ha cominciato a circolare nei forum jihadisti un paio di settimane prima del venerdì di sangue alla vigilia del Ramadan. Negli stessi giorni il portavoce del Califfato, Abu Mohammad al-Adnani, lanciava l'appello ad attaccare gli infedeli in Occidente durante il mese di digiuno islamico, che finirà a metà luglio. I recenti attacchi in Francia e Tunisia rispecchiano i «consigli» del libro del terrore. Sulla copertina spicca il simbolo nero e bianco del Califfato. Il manuale viene definito «una guida per scatenare il terrore nel cuore dei miscredenti dell'Occidente». L'autore è un mujahed inglese, che utilizza il nome di battaglia Abu Kitaab Al-Inkaltarra (Inghilterra). La prefazione è indirizzata a chi «vuole fare la guerra santa». E non lascia spazio a dubbi: «Cari fratelli e sorelle ho scritto questo libro per farvi capire come mettere in pratica piani ed operazioni senza destare sospetti». Un capitolo si intitola «macchina minata stile Iraq», un altro «norme per un omicidio urbano», ma non mancano sezioni di contro sorveglianza che spiegano «come restare anonimi con il tuo cellulare Android». Le parti più consistenti e letali riguardano l'utilizzo di armi da fuoco, la confezione di bombe artigianali ricavate con materiale in commercio come gli ordigni della maratona di Boston contenuti in pentole a pressione e un allarmante capitolo su avvelenamenti di massa e «guerra chimica». La sezione multimediale contiene i video di precedenti attentati come lo sgozzamento in strada del fuciliere britannico Lee Rigby a Londra e gli attacchi alle metropolitana della capitale inglese. L'obiettivo è proporre degli scenari evitando gli errori compiuti dai terroristi nel colpirci in casa. Un intero capitolo è dedicato ai «dispositivi di spionaggio». Il manuale ti spiega i sistemi per piratare un sistema wifi, inviare messaggi criptati, intercettare una linea telefonica, acquistare una penna che nasconde una telecamera nascosta o apparecchiature capaci di mandare in tilt i cellulari. Lo scopo è sempre uguale: «Colpire al cuore i nemici di Allah» attivando cellule in sonno o lupi solitari pronti ad immolarsi in mezzo agli occidentali. Il manuale viene propagandato non solo sui forum jihadisti, ma pure attraverso tweet in inglese per raggiungere gli aspiranti jihadisti che vivono nelle nostre città. Al Qaida aveva lanciato manuali fai da te attraverso In spire, la rivista online del terrore, che fornivano istruzioni sulla «confezione di una bomba nella cucina di casa». Lo Stato islamico ha pubblicato in rete alcuni testi come Hijrah, la «santa emigrazione», una specie di Lonely Planet jihadista per raggiungere il Califfato. O manuali per cecchini, trappole esplosive per far saltare i blindati e tattiche di guerriglia. Il libro del terrore è l'opera più completa dedicata nei dettagli agli attentati in Occidente. E per il perfetto terrorista propone anche una serie di esercizi fisici per tenersi in forma prima di colpire i kuffar, gli infedeli.
Il terrorismo dei coltelli gemello diverso dell'isis, scrive Fiamma Nirenstein, Venerdì 20/11/2015, su "Il Giornale". Ieri Israele ha avuto altri 4 uccisi per terrore. Uno stillicidio, un'ondata di terrorismo parallelo a quello di Parigi prosegue la continua tortura che nelle ultime settimane ha fatto 18 morti, 350 feriti e 1500 episodi di terrore nella strade di Gerusalemme e in tutta Israele fra accoltellamenti, spari, esplosioni, uso delle auto per travolgere i passanti. Oggi si aggiungono alla lista altre quattro persone, due pugnalate all'ingresso di una sinagoga nello scenario metropolitano di Tel Aviv, l'altro nel Gush Etzion, uno di 25 anni e uno di 50, 10 i feriti. L'assoluta casualità degli attacchi risulta lampante se si guarda all'immensa differenza fra gli obiettivi prescelti: gente di Tel Aviv che va alla sinagoga per la preghiera serale, e due automobilisti fermi in coda vicino a Alon Shvut, nei Territori del Gush Etzion. Agli attentatori non interessava affatto l'identità dei loro obiettivi, perchè questo è il terrorismo: basta che siano ebrei, come ai terroristi di Parigi bastava che fossero francesi. Ebrei, cristiani, imperialisti, oppressori, corrotti occidentali. Gli uccisi sono per il terrorista, esattamente come a Parigi, o a Londra, o a Madrid o a Tolosa e Bruxelles, segnali piantati nella terra del suo piano di dominazione che, nella prima fase, si esprime nella confusione che riesce a seminare, nella gente che perde fiducia nel potere costituito e resta a casa avvilito nella sua vita quotidiana, per poi sfociare nella seconda fase, quella della compiuta dominazione, nel caso di Israele nella cacciata del popolo ebraico; nel caso dell'Occidente intero in spazi sempre più vasti per il Califfato. Per l'uomo del Daesh, o Isis, gli attentati, dal Canada alla Francia, già delimitano i confini dello Stato islamico, così come per i palestinesi gli attentati sul territorio israeliano lo destinano a entrare alla fine a far parte del dominio islamico. Israele ha messo due giorni fa fuori legge il Movimento Islamico del nord dello sceicco Ra'ad Salah, ne ha tagliati i finanziamenti e chiuse le sedi, una mossa che Netanyahu ha accompagnato con rassicurazioni ai musulmani di rispetto e accettazione: ma la decisione del Gabinetto israeliano è quella di non consentire che un'organizzazione contigua al terrorismo sia libera di spargere il suo seme. Ultimamente l'Isis, in un video postato lunedì, ha lanciato una campagna in cui incita i palestinesi a attaccare ovunque gli israeliani mentre in ben sei video i loro predicatori invitano a uccidere gli infedeli sullo sfondo delle immagini degli attacchi coi coltelli. Un video intitolato «Restituite il terrorismo agli ebrei» rispecchia il tipico atteggiamento per cui qui Israele, là gli occidentali, vengono accusati delle «colpe» che causano il terrorismo che si rovescia su di loro. Si calcola per altro che nelle file del Daesh si annidino circa 200 palestinesi, la loro presenza è maggiore a Gaza mentre nell'West Bank gran parte dei palestinesi lo rifiuta, ma di sicuro l'uso sconsiderato anche da parte dell'Autonomia Palestinese della bugia che Israele vuole occupare la Moschea di Al Aqsa ispira l'islamismo che porta i giovani al terrore. L'ondata dei coltelli è un tentativo di imitare l'Isis e le sue decapitazioni; l'attacco a luoghi sacri agli ebrei, come l'incendio alla tomba di Giuseppe mima altri attacchi ai vari luoghi sacri. Israele è abituata a rispondere al terrorismo sin dagli anni '20, ben prima che esistesse il problema dei territori. Il mondo invece non è abituato a prendersi cura del terrore in Israele, che è sempre stato lasciato solo a fronteggiarlo mentre invece si adoperava a fare muro per tutti quanti.
Wikileaks dell'Isis. I segreti del califfato svelati da un alto dirigente dello Stato islamico, scrive Daniele Mastrogiacomo, inviato di guerra de la Repubblica su "huffingtonpost.it" il 26/09/2014. C'è un Julian Assange jihadista che svela i segreti del Califfato. Segreti inconfessabili. Perché imbarazzanti. Quelli che nessun alto dirigente dell'Isis vorrebbe rendere pubblici. Ma che spiegano bene la struttura della più potente e pericolosa organizzazione terroristica islamica, i suoi legami con chi l'ha finora sostenuta e finanziata e che magari oggi, nel tipico doppio gioco dello scacchiere mediorientale, fa parte della coalizione dei 40 paesi che la combatte. L'autore dei wikiLeaks dello Stato islamico si nasconde dietro un account twitter apparso improvvisamente in rete nel gennaio scorso. Ha iniziato a postare una serie di domande su chi fosse veramente Abu Bakr al Bagdadi e su come fosse riuscito a conquistare un territorio che si estende dai confini est del Libano fino alla provincia sunnita irachena di al Anbar. Ha creato un dossier a puntate sotto l'accattivante titolo: "I segreti di Stato di Baghdadi". Le sue risposte sono state raccolte da un pool investigativo dal sito arabo in lingua inglese "alakhbar". Si tratta informazioni difficili da verificare. Pochissimi sono a conoscenza delle trame e degli scontri interni al Fronte delle brigate impegnate da tre anni nella guerra in Siria; le stesse che tra mille divisioni alla fine hanno contribuito alla nascita dello Stato Islamico. Ma la serie di episodi che li hanno scanditi sono realmente accaduti. Hanno date, nomi e luoghi. L'anonimo estensore dei Wikileaks del Califfato li ha vissuti in prima persona. Si tratta probabilmente di qualcuno interno al gruppo che aveva accesso a informazioni di prima mano. Un alto quadro dell'Isis tuttora attivo. Magari infiltrato da un gruppo avversario. Perché nella feroce lotta per la conquista della leadership si è fatto di tutto: anche una raffica di omicidi per eliminare i dissidenti, i potenziali disertori, chiunque poteva svelare dettagli che dovevano restare segreti. L'obiettivo era costruire per la prima volta un'entità territoriale ben definita. Un vero Stato islamico. Ma doveva restare coperto fino all'ultimo. Il Califfo di Raqqa in realtà si chiama Ibrahim Awwad Bou Badri bin Armoush, noto come Abu Awwad o Abu Doaa. Abu Barkr al Bagdadi è solo uno pseudonimo. Ha vissuto a Falluja, in Iraq, ed è stato per anni l'imam di una moschea a Diyala. Le sue origini, al dispetto del nome, non sono di Bagdad ma di Samarra. Fa parte del clan Bou Abbas: clan che sostiene essere discendente dell'imam al Hassan Bin Alì. Le sue radici affondano nella tribù Quraysh, condizione essenziale per diventare un emiro in un gruppo jihadista. Questo spiega perché il principe del terrore ha potuto proclamarsi Califfo dello nuovo Stato Islamico. L'assenso delle più alte cariche religiose dell'area è indispensabile. Ma va cercato e conquistato. Abu Bakr al Bagdadi appare raramente in pubblico e anche davanti ai suoi stessi uomini. È sospettoso, ossessionato dai tradimenti e dai complotti. Per questo, lui iracheno, si contorna solo di connazionali che controllano la leadership dello Stato islamico. Il Consiglio o Shura, l'organo esecutivo dell'Isis, è formato da 8 persone alle quali, in occasioni speciali, se ne aggiungono altre 5. Il direttivo, struttura strategica del gruppo, è costituito da 3 ex ufficiali iracheni che hanno servito nell'esercito di Saddam Hussein. Tutti sono stati agli ordini di un ex colonnello iracheno, Haji Bakr, capo militare dell'Isis, ucciso ad Aleppo il 2 febbraio scorso durante uno scontro con le brigate laiche dell'Esercito libero siriano. È stato questo oscuro e spietato ex militare a creare le basi per la nascita dello Stato islamico. Conosceva bene il suo paese. Sapeva dove trovare le armi e gli esplosivi. Ha svelato al gruppo dirigente tutte le tecniche di combattimento che aveva appreso in anni di servizio nell'esercito di Saddam. Ha spiegato come agivano gli ex militari entrati nella guerriglia dopo l'invasione americana dell'Iraq, i sistemi di comunicazione, di difesa, di intercettazione. Ha lavorato nell'ombra per mantenere in Iraq la futura leadership del Califfato e ha proposto nel momento giusto la nomina di Abu Bakr al Bagdadi come suprema guida. Ma ha anche creato una struttura di comando a compartimenti stagni. Al tempo stesso ha messo in piedi un servizio di intelligence simile a quello di Saddam: ha sguinzagliato spie in tutte le brigate che combattevano in Siria e ha pianificato gli omicidi per i sospetti. L'ordine era bloccare ogni dissidenza. Con il terrore e la delazione. Uno squadrone della morte ha fatto fuori decine di alti responsabili delle brigate e di quadri intermedi. Era noto come il "Gruppo del silenziatore": firmava le sue azioni con pistole silenziate. A molti combattenti stranieri decisi a rientrare a casa sono stati confiscati i passaporti. Gli altri sono stati fermati con il piombo. È stato sempre Haji Bakr a pianificare la raccolta dei fondi: taglieggiando i commercianti, i cristiani, gli yazidi, conquistando i pozzi petroliferi, gli impianti energetici e di carburante, le fabbriche e i centri di distribuzione. Nel 2011 scoppia la rivolta in Siria. L'ex colonnello teme la fuga di molti combattenti impegnati in Iraq. Serra le fila. Con le buone e le cattive. Uccidendo e facendo lanciare ordini al Consiglio della Shura. "La situazione è confusa, meglio aspettare", suggerisce. Ma la rivolta diventa presto guerra e un fiume di combattenti si riversa in Siria. Al Qaeda forma nel nord del paese il Fronte al Nusra e lo affida a Abu Mohammed al Golani. Tra l'ancora neonato Isis e al Nusra ci sono i primi contatti. Hajii Bakr sonda le intenzioni di una brigata che può contare fino a 10 mila combattenti. Spedisce un gruppo di soli iracheni in Siria. Ma i rapporti con al Golani sono pessimi. Per ricucire i contrasti interviene spesso anche al Zawahiri, il nuovo capo di al Qaeda. Il quale, alla fine, appoggia il giovane comandante e confina l'Isis in Iraq. La tensione esplode nel 2013: i due gruppi si confrontano per quattro mesi, con centinaia di morti e prigionieri. Haji Bakr torna nell'ombra. Cerca consensi religiosi e politici. Convince l'influente imam saudita Abu Bakr al Qahtani a riconoscere il progetto del Califfato. E al Qahtani, a sua volta, incarica un ex ufficiale della monarchia Bandar Bin Shaalan a creare un gruppo religioso di supporto nel Golfo. Vengono coinvolti il Qatar e il Bahrain. Entrambi, attraverso religiosi e facoltosi commercianti, contribuiscono alla raccolta dei fondi. Lo Stato islamico non è più un sogno, può essere una realtà. Al Golani, sempre più pressato, non risponde più agli ordini. Si sente braccato, teme di essere ucciso, diffida di tutti e tutto. Cadrà in battaglia il 25 ottobre del 2013. Neanche l'intervento del capo di al Qaeda in Yemen, Nasser al Wahishi e di quello kwaitiano Hamed ad-Ali, riescono a salvarlo. Al Zawahiri si pronuncerà ufficialmente a favore di al Nusra ma l'intensa attività politica e diplomatica di Haji Bakr porta alla sconfitta dello stesso capo di al Qaeda. Il Califfo ha le porte aperte. Con decine di brigate irachene irrompe sulla scena siriana e si installa a Raqqa. Il Fronte delle altre brigate è in rotta. I ceceni si defilano in silenzio. Hanno persino paura di annunciare la loro ritirata. Gli altri sono infiltrati da Haji Bakr. Vuole sapere i loro punti deboli. Deve contrastarli perché sono i più forti oppositori all'arrivo degli iracheni in Siria. Sul campo resta solo una decina di gruppi. Sui tutti domina Liwaa al Tawhid, legata ai Fratelli Musulmani: può contare su 10 mila combattenti. I suoi dirigenti diffidano dell'ex colonnello iracheno e del suo progetto di Califfato. Durante uno dei tanti scontri catturano un centinaio di combattenti e alti quadri dell'Isis. Tra questi la moglie di Hajii Bakr. Conoscono molti segreti del nuovo Stato islamico. Sono ostaggi preziosi. L'Isis teme che possono parlare, svelare dettagli vitali per il gruppo. Quando conquista Mosul cattura 49 cittadini e funzionari turchi nel consolato. Li userà come merce di scambio per gli ostaggi nelle mani di Liwaa al Tawhid. Grazie alla mediazione dei servizi turchi che avevano tutto l'interesse a unire il Fronte dei ribelli jihadisti. Per dare l'ultima spallata a Bashar al Assad. E cancellare ogni prova sul suo, finora presunto, aperto sostegno al sogno mai tramontato di un Califfato sotto l'egida di Ankara.
La spia e la Jihad, scrive Imma Vitelli il 28.09.2014 su Vanity Fair. Il tavolo, solitario, è su una radura rocciosa rischiarata da un’incongrua luna piena. Prendo appunti a lume di candela; un cameriere ci serve del tè e alla sua comparsa l’uomo si fa muto. Ha trent’anni ed è minuto e quando parla di quel che faceva, fino a ieri, il volto rivela un ghigno astuto. Egli è un agente pentito del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi o, per essere più precisi, un ex ufficiale dei servizi segreti dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria: l’Isis. Fino a questa estate se ne andava in giro per la sua città, Raqqa, la capitale del Califfato, vestito d’ordinanza: barba e camicione, maschera in viso, kalashnikov in spalla, esplosivo in vita. «Amavo il mio lavoro», dice. «Lo amavo così tanto da dormire la notte con la mia cintura kamikaze». Lo incontro grazie ai buoni uffici di un amico siriano in una località della Turchia che ho promesso di non rivelare. Lo ascolto per una notte mentre Obama annuncia all’America che sta per bombardare la sua città e la Siria. La storia del nostro uomo, che chiamerò Abu Ali, comincia con le manifestazioni e la repressione in Siria. Abu Ali sa quel che vuole: imbracciare il fucile. Esplora gli islamisti di Jabhat al-Nusra, il Fronte del sostegno, in pratica Al Qaeda, e sale su un altro pianeta. Nel gennaio del 2013, i barbuti aprono un paio di campi di addestramento ad Aleppo: «Vengo scelto per le forze della Sicurezza», dice fiero. Al campo gli insegnano a setacciare i teatri conquistati a caccia di file e archivi. Agli agenti spiegano anche come formare cellule dormienti, governi ombra da insediare nei villaggi vinti. Il cuore dell’Isis è strabiliante. Gli iracheni hanno forze eterogenee: ingegneri, agronomi, amministratori, filmmaker. Il capo dei servizi informatici è il miglior hacker d’Egitto, uno sul cui capo pende una taglia da cinque milioni di dollari dell’Fbi. Si chiama Abdullah Ahmed Abdullah, detto Abdullah el Masri, un tizio spietato e scaltro. Settimana dopo settimana, i quartieri al Hod e al Masaken Shorta e al Thakanah, un tempo occupati dall’élite del governo di Assad, vengono popolati da una nuova folla multinazionale: i muhajirin, i combattenti stranieri, e le loro famiglie. L’Isis guadagna 3 milioni di dollari al giorno nel contrabbando del petrolio, e per i suoi membri single si dedica allo shopping di mogli locali, per radicarsi. Mese dopo mese, si delinea la nuova classe dirigente: gli iracheni sono i leader, i tunisini e i ceceni i comandanti militari, i sauditi i magistrati e i kamikaze, gli uzbeki e i kazaki la soldataglia, gli inglesi i principali addetti alla propaganda destinata al mercato occidentale. Abu Ali non ha problemi con i metodi dell’Isis e si unisce entusiasta alle sue brigate. Lo fa il 90 per cento dei soldati di Nusra. Per aver diritto alle cinture esplosive e al kalashnikov, al tesserino e alle maschere, è previsto un rituale. Ricorda i voti dei mafiosi: «Si esegue al cospetto di uno sheikh», spiega Abu Ali. «Gli stringi la mano e ripeti: giuro di seguire l’Isis nella buona e nella cattiva sorte e di ubbidire qualsiasi cosa accada. Giuro di accettare le sue decisioni e di non discuterle mai, a meno che esse non siano contrarie alla volontà di Allah». Egli è ora un detective dei servizi di Daesh (Isis, in arabo). Il suo compito è smascherare le spie curde e turche ed europee e interrogare i sospettati di reati politici e religiosi. Le decapitazioni non gli fanno effetto: «Sono nel Corano». Ammette le torture. A dargli fastidio è la discriminazione. Perché i comandanti ceceni e tunisini ed egiziani hanno diritto alle auto e alle mogli, e lui a così poco? Il salario base di un siriano è di 40 dollari al mese, che diventano 80 se hai moglie. Ci sono, certo, i bonus: se arresti o rapisci qualcuno e la preda è buona possono darti un extra di 100 dollari. Poi ci sono i figli: l’Isis concede 20 dollari a erede, l’Isis incoraggia la riproduzione, l’Isis considera la prole la generazione futura della jihad: «Ci sono campi per bambini, dai sette anni in su». È solo quando gli tolgono il lavoro che Abu Ali nota la violenza pulp, l’amministrazione metodica del terrore. Centinaia di ribelli, tra cui amici suoi, si arrendono in cambio di promesse di salvezza: l’Isis li fa fuori. Abu Ali va dallo sheikh saudita e gliene chiede conto. Il magistrato risponde: «Per dimostrare l’autorità, devi far rispettare la legge. E per far rispettare la legge, devi applicare le punizioni». Le sue domande provocano rumore. Abu Ali viene mandato al fronte a Deir ez-Zor e frustato 70 volte. Un suo amico gli dice: «Ho sentito via radio la tua condanna a morte». Ora che ha fatto il salto, l’ex agente esprime rammarico: «Ho sbagliato. Ma non voglio che Obama bombardi. Ci sono oggi a Raqqa ottomila soldati, metà diserteranno, lo posso garantire. Però ci sono almeno 300 civili innocenti in prigione. Moriranno». Degli ostaggi stranieri non si è mai occupato direttamente. Gli chiedo di Padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita sequestrato il 29 luglio 2013. «È vivo», dice. Gli chiedo perché non lo abbiano liberato. L’Italia paga. «L’Isis ama le sorprese. Prima o poi sapranno che cosa farne». Gli chiedo, infine, come ci si libera del Califfato. «È impossibile liberarsene totalmente. L’ideologia resterà. Alcuni civili, qui in Turchia, dicono: se l’America bombarda l’Isis, noi sosteniamo l’Isis. È questo il problema: i musulmani che non ci hanno mai vissuto dentro».
Aldo Giannuli: Gli errori dei servizi segreti sull’Isis: ma lo fanno apposta? Partiamo da alcune constatazioni difficilmente contestabili:
–la lotta al terrorismo islamico sta dando risultati catastrofici, peggiori della più pessimistica aspettativa;
-nella storia dell’intelligence occidentale non c’è una serie così lunga di insuccessi così completi, dunque non c’è un precedente in cui l’intelligence si sia dimostrata così al di sotto del loro compito;
-siamo di fronte ad un tipo di terrorismo totalmente nuovo per dimensioni, modalità d’azione, forme organizzative e di lotta (con buona pace di qualche imbecille che le compara con le brigate rosse che è come mettere sullo stesso piano la “compagnia della teppa” con il cartello di Medellin);
-i servizi segreti stanno facendo errori evidenti, persino sul piano del comune buon senso.
Tutto questo sta stimolando un dibattito: è solo una questione di errori o si tratta di complicità? Insomma: ci sei o ci fai? E allora vediamo. Confesso che alla tesi “dietrologica” che pensa che l’Isis sia una longa manus degli americani ed Israele o che, quantomeno, ci sia una intesa cordiale fra essi, non ho mai creduto molto e continuo a non credere. In primo luogo non si capisce che cosa ne verrebbe agli americani, in questa fase, da un gioco così contorto e stravagante. Quanto ad Israele, faccio presente che, allo stato attuale, ha posizioni che lo proiettano in modo divaricante rispetto agli Usa e, semmai e per certi versi, ha più in comune con la Russia di Putin. Anche qui si fa fatica a capire il senso politico di una operazione di copertura dell’Isis, salvo che per la sua inimicizia con l’Iran; ma se si trattasse solo di questo, basterebbe “stare a vedere” senza compromettersi più di tanto. Poi non so se i feriti Isis siano curati in Israele ed in cambio di cosa: magari, c’è una sorta di patto di non aggressione momentaneo. Tutto questo è possibile ma non ha il valore di una vera e propria alleanza politica o tantomeno un rapporto di dipendenza. Insomma, per sostenere una tesi del genere dovremmo avere molti più elementi e tali non sono i gossip di rete. Ma soprattutto, dovremmo capire il senso politico di tutto questo, quel che per ora non è spiegato e fa a cazzotti con tutto quel che sappiamo della situazione internazionale (poi è evidente che ci sono cose che non sappiamo, ma delle cose sconosciute non si piò parlare). Dunque, l’idea che dietro questi insuccessi ci sia una volontà positiva di aiutare l’Isis mi pare poco convincente, se non al massimo come interesse oggettivo alla sua esistenza. Sin qui le uniche cose fondate sono quelle che riguardato Arabia Saudita, Quatar e Kwait con un forte sospetto sulla Turchia. Ma questo non riguarda le intelligence occidentali ed in particolare quelle europee. Ma è credibile la tesi opposta che riduce tutto ad insufficienze personali degli operatori dei servizi europei? Anche questa non mi convince. Quando parlo di incredibile serie di errori (vere e proprie bestialità) non intendo parlare di un deficit di preparazione ed intelligenza degli operatori dei servizi, magari a livello apicale. Queste mancanze di professionalità ed intelligenza ci sono ed anche in modo massiccio, ma non sono la causa principale del disastro presente. Il problema è più generale e io lo riassumo in questi termini schematici:
a. assenza di direzione politica da parte dei governi che delegano tutto ai servizi lavandosene le mani e senza neppure chiamare i capi dei servizi a rispondere dei loro insuccessi;
b. assenza di una vera e propria linea politica da parte di Europa (e questa è storia vecchia) ed Usa (questa è la novità) che non sanno cosa fare. Obama è fermissimo nel tentennare ed è evidente che in testa non ha nulla;
c. persistenza dell’ideologia antiterrorista da non confondere con il contrasto al terrorismo. Il vero contrasto è quello fatto al terrorismo per come è effettivamente, l’ideologia è quella che combatte per il terrorismo per come lo immagina;
d. il persistere del dogma base dell’ideologia antiterrorista è pensare il terrorista come un criminale, pazzo o fanatico con vaghe idealità politiche, mentre il terrorista è un soggetto politico pienamente razionale che ricorre a forme di lotta criminali. Ne consegue che, nel primo caso, la lotta al terrorismo è in primo luogo un problema di polizia e di intelligence, nel secondo che è un problema in primo luogo politico e sono secondariamente di intelligence cui occorre dare le indicazioni necessarie per evitare che diventi uno strumento cieco che colpisce a caso;
e. la scarsa duttilità degli apparati a rivedere le proprie impostazioni di partenza anche quando queste sono evidentemente superate. Il dogma dell’ideologia antiterrorista era sbagliato anche 60 anni fa ai tempi dell’Algeria, ma diventa devastante oggi dopo gli sviluppi della guerra irregolare. I cinesi hanno capito la guerra asimmetrica, gli uomini di Al Zarkawi la hanno capita e sviluppata, mentre i servizi occidentali sono fermi alle tesi del generale De Beaufre.
f. di fatto i servizi hanno mancato gravemente nella analisi non riuscendo a capire il nemico islamista tanto nella versione Al Quaeda quanto in quella Isis e non si sono neppure accorti della differenza fra i due.
g. a questo poi bisogna aggiungere il processo di decadenza dei servizi occidentali a seguito di una serie di infelici scelte che risalgono a Bush e che si intrecciano con la II guerra del Golfo (ma sul punto torneremo);
h. infine ci sono le meschine “furberie” particolaristiche degli europei per cui ognuno gioca la partita per conto suo con compromessi, pasticci, imbrogli e veri e propri tradimenti come quello dei Belgi. E’ evidente che la polizia belga aveva stipulato nei fatti un “patto di non aggressione” con gli jihadisti per cui, in cambio di non essere oggetti di attentati, concedevano di poter usare il loro paese come retrovia per gli attentati in Francia; e lo conferma la notizia che i Turchi avevano estradato in Belgio uno dei due kamikaze di avantieri e che il Belgio lo aveva rilasciato. Begli alleati! Come si vede, la scelta non può essere ridotta a confusi retroscena complottistici o a semplice negligenza di una parte degli operatori. Ci sono complesse ragioni di ritardi culturali, retaggi ideologici, rigidità organizzative, che producono una sorta di “coazione a ripetere l’errore”. Non tutto può essere ricondotto alle singole persone, perché le istituzioni hanno spesso una propria logica, talvolta perversa, che supera anche le responsabilità personali. Aldo Giannuli
Documento segreto del Pentagono rivela che gli USA “crearono” l’ISIS come “strumento” per rovesciare il presidente Assad in Siria, scrive il 25 maggio 2015 Tyler Durden. Fin dalla prima improvvisa e teatrale comparsa sulla scena mondiale del fanatico gruppo islamico noto come ISIS, praticamente sconosciuto fino a un anno fa e che ha sostituito la logora al-Qaeda nel ruolo di terrorista cattivo, avevamo suggerito che lo scopo del video con la decapitazione postato su YouTube e dello Stato Islamico finanziato dall’Arabia Saudita (thedailybeast.com/) era molto semplice: usare i jihadisti come strumento per ottenere un obiettivo politico, ovvero la deposizione del presidente siriano Assad, che da anni ostacola la realizzazione di un cruciale gasdotto del Qatar (zerohedge.com-), gasdotto che detronizzerebbe la Russia dal ruolo di principale fornitore di energia dell’Europa. La situazione raggiunse l’apice della tensione nel 2013 con l’accumulo di forze militari nel Mediterraneo, che fecero sfiorare un conflitto potenzialmente mondiale. Il racconto e la trama erano così trasparenti che perfino la Russia non si fece ingannare. Lo scorso settembre scrivemmo: “Secondo il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov, se l’Occidente bombarderà i militanti dell’ISIS in Siria senza consultare Damasco, LiveLeak riporta che l’alleanza anti-ISIS potrebbe sfruttare l’occasione per lanciare attacchi aerei contro le forze di Assad. Capendo chiaramente che la nuova strategia di Obama contro l’ISIS serve solo a far passare il gasdotto del Qatar (come la spinta ad intervenire nel 2013), la Russia frena, notando che l’ISIS è un pretesto per bombardare le forze siriane e ammonendo che - ciò potrebbe portare a un’enorme intensificazione del conflitto in Medio Oriente e in Nord Africa-.” Una cosa però è speculare, un’altra è avere prove concrete. E mentre c’erano un sacco di speculazioni sul fatto che, come Al Qaeda, finanziata dalla CIA, era stata usata dagli USA come facciata per ottenere i loro interessi geopolitici e nazionali negli ultimi 20 anni, così l’ISIS non fosse altro che al-Qaeda 2.0, di questo non c’erano prove concrete. Ora però tutto è cambiato con un documento segreto declassificato del Pentagono, ottenuto da Judicial Watch, che mostra come i governi occidentali si allearono deliberatamente con al Qaeda e altri gruppi estremisti islamici per deporre il presidente Assad. Secondo quanto afferma il reporter investigativo Nafeez Ahmed su Medium, “il documento rivela che l’Occidente, in coordinazione con gli stati del Golfo e la Turchia, ha sponsorizzato intenzionalmente i gruppi islamici violenti per destabilizzare Assad, nonostante prevedesse che ciò avrebbe portato all’emergere dell’ISIS.” […] E non solo: ora che l’ISIS sta andando in giro per il Medio Oriente a tagliare le teste alla gente in alta definizione e qualità da Hollywood (forse letteralmente), gli USA hanno una giustificazione credibile per vendere miliardi in armi moderne e sofisticate ad alleati come l’Arabia Saudita, Israele e Iraq. Ma che il complesso militare-industriale statunitense sia il vincitore ogni volta che scoppiano guerre nel mondo (di solito con l’assistenza della CIA) ormai è chiaro a tutti. Quello che non era chiaro è come gli USA predeterminarono l’attuale svolgimento degli eventi in Medio Oriente. Ora, grazie al seguente resoconto declassificato abbiamo una comprensione molto migliore non solo del modo in cui si sono sviluppati gli odierni avvenimenti in Medio Oriente, ma anche del ruolo dell’America quale burattinaio. Le rivelazioni contraddicono la linea ufficiale dei governi occidentali riguardo alle loro politiche in Siria, e pongono domande inquietanti sul supporto segreto fornito dall’Occidente agli estremisti violenti all’estero, mentre la minaccia del terrorismo viene usata all’interno per giustificare la sorveglianza di massa e la restrizione dei diritti civili. Tra i documenti ottenuti da Judicial Watch attraverso una causa federale ve n’è uno dell’Agenzia d’Intelligence per la Difesa statunitense (DIA), datato 12 agosto 2012. […] Finora i media hanno evidenziato che l’amministrazione Obama sapeva che da un baluardo terrorista libico venivano inviate armi ai ribelli in Siria. Alcuni media hanno riportato che l’intelligence statunitense aveva previsto l’ascesa dell’ISIS. Tuttavia, nessuno ha esposto i dettagli inquietanti che mettono in evidenza come l’Occidente ha fomentato in Siria una ribellione settaria guidata da al-Qaeda. […] Il documento DIA del 2012 conferma che la componente principale delle forze anti-Assad era composta da insorti islamisti affiliati a gruppi che avrebbero portato all’emergere dell’ISIS, ma che nonostante questo dovevano continuare a ricevere supporto dagli eserciti occidentali e dei loro alleati regionali. “Notando che salafiti, Fratelli Mussulmani e al-Qaeda in Iraq sono le forze principali dell’insurrezione siriana, l’Occidente, i paesi del Golfo e la Turchia supportano l’opposizione, mentre Russia, Cina e Iran supportano il regime di Assad.” Il documento di 7 pagine afferma che al-Qaeda in Iraq (AQI), il precursore dell’ISIS, ha appoggiato l’opposizione siriana fin dall’inizio, sia ideologicamente che tramite i media. […] La DIA prevede che il regime di Assad manterrà il controllo sul territorio siriano, ma la crisi si intensificherà fino a diventare una “guerra per procura”. Il documento raccomanda anche la creazione di “rifugi sicuri sotto riparo internazionale, come in Libia quando Bengasi venne scelta come sede del governo provvisorio.” In Libia i ribelli anti-Gheddafi, in gran parte milizie affiliate ad al-Qaeda, venivano protetti dalla NATO tramite zone di non sorvolo. Il documento del Pentagono predice esplicitamente la probabile dichiarazione di uno “Stato Islamico, tramite la sua unione con altre organizzazioni terroriste in Iraq e in Siria.” Nondimeno, “i paesi occidentali e la Turchia stanno supportando gli sforzi dell’opposizione siriana che lotta per il controllo delle aree orientali adiacenti alle province irachene occidentali (Mosul e Anbar)”: “…c’è la possibilità che venga istituito un principato salafita dichiarato o non dichiarato in Siria orientale (Hasaka e Der Zor), e questo è esattamente ciò che le potenze che supportano l’opposizione vogliono, così da isolare il regime siriano, considerato la profondità strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran).” Il documento segreto del Pentagono fornisce perciò la straordinaria conferma che la coalizione anti-ISIS guidata dagli USA aveva salutato l’emergere di un “principato salafita” come strumento per indebolire Assad e fermare l’espansione strategica dell’Iran. E’ significativo che anche l’Iraq vi venga citato come parte integrante di questa “espansione sciita”. Più avanti, il documento rivela che gli analisti del Pentagono conoscevano benissimo i rischi di questa strategia, ma decisero di andare avanti comunque: “L’istituzione di un simile principato salafita in Siria orientale porrebbe l’AQI nelle condizioni ideali per tornare alle sue vecchie roccaforti di Mosul e Ramadi.” Ebbene, l’estate scorsa l’ISIS ha conquistato Mosul in Iraq, e proprio questo mese ha preso controllo anche di Ramadi. Tale entità quasi statale avrebbe fornito: “…un rinnovato impulso alla pretesa di unificare la jihad tra l’Iraq sunnita, la Siria e il resto del mondo arabo contro quello che esso considera il suo nemico. L’ISI potrebbe anche dichiarare uno Stato Islamico tramite la sua unione con altre organizzazioni terroristiche in Iraq e Siria, il che costituirebbe un grave pericolo per l’unificazione dell’Iraq e la protezione del suo territorio.” Il documento della DIA è un resoconto informativo, non una valutazione definitiva, ma è circolato nella comunità d’intelligence statunitense, compreso il Dipartimento di Stato, il Comando Centrale, il DIpartimento per la Sicurezza Nazionale, la CIA, l’FBI e altre agenzie. In risposta alle mie domande riguardo alla strategia, il governo britannico ha semplicemente negato le rivelazioni contenute nel documento del Pentagono. […] La DIA non ha risposto alla richiesta di commento. L’analista per la sicurezza Shoebridge, tuttavia, che ha tenuto traccia del supporto occidentale ai terroristi islamici in Siria fin dall’inizio della guerra, ha sottolineato che il resoconto segreto del Pentagono mette in evidenza fatali contraddizioni nelle dichiarazioni ufficiali: “Per tutti i primi anni della crisi siriana, i governi statunitense e britannico e quasi tutti i media occidentali dipinsero i ribelli siriani come moderati, liberali, secolarizzati, democratici e quindi meritevoli del supporto occidentale. Visto che questi documenti smentiscono del tutto questa immagine, è significativo che i media occidentali li abbiano quasi completamente ignorati, nonostante la loro importanza.” Secondo Brad Hoff, ex ufficiale statunitense di Marina che servì durante i primi anni della guerra in Iraq, il documento declassificato del Pentagono fornisce la prova che: “L’intelligence statunitense prevedeva l’ascesa dell’ISIS, ma invece di delineare chiaramente il gruppo come nemico lo considerava una risorsa strategica degli USA.” […] I critici della strategia statunitense nella regione hanno ripetutamente sollevato domande circa il ruolo degli alleati della coalizione nel fornire intenzionalmente supporto a gruppi islamici terroristi con lo scopo di destabilizzare il regime di Assad. La versione convenzionale è che il governo USA non controllò abbastanza il finanziamento ai gruppi ribelli anti-Assad, che avrebbe dovuto essere monitorato e valutato affinché venissero appoggiati solo i gruppi “moderati”. Tuttavia, il documento del Pentagono dimostra senza dubbio che anni prima che l’ISIS lanciasse la sua offensiva contro l’Iraq, l’intelligence degli USA era pienamente consapevole che i militanti islamici costituivano il nucleo principale dell’insurrezione siriana. Nonostante ciò, il Pentagono continuò a supportare l’insurrezione islamista, anche se prevedeva la probabilità che ciò avrebbe portato all’istituzione di una roccaforte salafita in Siria e Iraq. […] Diversi ufficiali governativi statunitensi hanno ammesso che i loro alleati nella coalizione anti-ISIS stavano finanziando gruppi islamisti violenti che diventarono parte intengrante dell’ISIS. L’anno scorso per esempio il vice presidente Joe Biden ammise che Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia avevano incanalato centinaia di milioni di dollari verso i ribelli islamisti in Siria che hanno poi dato vita all’ISIS. Ma non ha ammesso che questo documento interno del Pentagono dimostra che l’intera strategia segreta era approvata e supervisionata da USA, Gran Bretagna, Francia, Israele e altre potenze occidentali. Tale strategia pare essere conforme a uno scenario politico identificato da un resoconto della RAND Corp commissionato dall’Esercito USA. Il resoconto, pubblicato 4 anni prima del documento della DIA, suggeriva agli USA “di capitalizzare sul conflitto tra sciiti e sunniti, schierandosi con i regimi conservatori sunniti e lavorando con loro contro tutti i movimenti sciiti del mondo mussulmano.” Gli USA avrebbero dovuto contenere “il potere e l’influenza iraniana” nel Golfo “appoggiando i tradizionali regimi sunniti di Arabia Saudita, Egitto e Pakistan.” Allo stesso tempo gli USA devono mantenere “una forte relazione strategica con il governo iracheno sciita”, nonostante la sua alleanza con l’Iran. Il resoconto RAND confermava che la strategia del “divide et impera” era sempre stata usata per “creare divisioni nel campo jihadista. Oggi in Iraq tale strategia viene usata a livello tattico.” […] La rivelazione di un documento interno dell’intelligence statunitense, secondo il quale la stessa coalizione guidata dagli USA che oggi combatte contro l’ISIS lo ha coscientemente creato, pone interrogativi inquietanti sui recenti sforzi dei governi occidentali di giustificare l’espansione dei poteri anti-terrorismo degli stati. In seguito all’ascesa dell’ISIS, da entrambe le parti dell’Atlantico si stanno perseguendo nuove misure invasive per combattere l’estremismo, tra cui la sorveglianza di massa, l’orwelliano “dovere di prevenire” e perfino progetti che permetterebbero ai governi di censurare i media, il tutto indirizzato prevalentemente contro gli attivisti, i giornalisti e le minoranze, specialmente mussulmane. Eppure il nuovo documento del Pentagono rivela che, contrariamente alle affermazioni dei governi occidentali, la causa principale della minaccia è la loro stessa politica profondamente sbagliata di sponsorizzare segretamente il terrorismo islamista per dubbi fini geopolitici.
Isis e l’ultimo segreto di Fatima: “Il Papa sarà ucciso nella città dei teschi”, scrive "Articolo 3". Il 3 gennaio 1917 suor Lucia scriveva “il sangue dei martiri cristiani non smetterà mai di sgorgare per irrorare la terra e far germogliare il seme del Vangelo”, era il terzo segreto di Fatima. E ancora “Qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c’era una grande croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della croce c’erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio”. La nuova interpretazione del terzo segreto di Fatima non contemplerebbe l’attentato a Papa Giovanni Paolo II, ma fa riferimento alla storia attuale, al massacro di centinaia di cristiani opera dei miliziani jihadisti dell’Isis e le minacce stesse al Pontefice e al Vaticano.
Terzo segreto di Fatima: l'Isis ucciderà Papa Francesco? Le rivelazioni dell'ultimo veggente, Bruno Cornacchiola, scrive l'1/4/2016 "Voce d’Italia. Bruno Cornacchiola, celebre per le sue profezie dovute a presunte rivelazioni ricevute dalla Madonna, è stato "rispolverato" in questi giorni dopo i terribili attentati di Bruxelles. Le apparizioni della Vergine della Rivelazione, avvenute secondo quanto raccontato da Cornacchiola nel luogo chiamato "Tre Fontane", non sono mai state riconosciute dalla Chiesa ma, nel 1956, papa Pio XII ha consentito la costruzione alle "Tre Fontane" di una cappella per il culto affidando la custodia ai "Francescani Minori Conventuali" per il servizio religioso. Nel 1997 papa Giovanni Paolo II ha approvato la denominazione del luogo come "Santa Maria del Terzo Millennio alle Tre Fontane". Bruno Cornacchiola, morto nel 2001, dichiarò di aver fatto durante tutta la sua vita strani sogni, di aver avuto visioni profetiche e di aver ricevuto rivelazioni dalla Madonna al punto da predire la tragedia di Superga (1949) la guerra del Kippur (1973), il rapimento di Aldo Moro (1978) l'attentato a Giovanni Paolo II (1981), il disastro di Cernobyl' (1986) e la caduta delle torri gemelle (2001). Venendo ai giorni nostri, nel terzo segreto di Fatima, Lucia dos Santos, la monaca portoghese nota per essere stata una dei tre "pastorelli" che avrebbero assistito alle apparizioni di Fatima, aveva raccontato che un vescovo vestito di bianco, sarebbe stato ucciso da un gruppo di soldati che gli sparavano vari colpi di arma da fuoco e frecce e, secondo i credenti, la sua profezia non aveva nulla a che vedere con l'attentato a Giovanni Paolo II. Anche Cornacchiola, nel 1999, dichiarò che la Madonna lo aveva avvisato che "dalla parte di Oriente, un popolo forte, ma lontano da Dio, avrebbe sferrato un attacco tremendo spezzando cose sante e sacre". La Madonna avrebbe anche preannunciato che San Pietro si sarebbe riempito di sangue e che molti fedeli, molti sacerdoti e molte suore sarebbero morti squartati. La Chiesa si sarebbe ridotta a un masso di rovine". Sempre la Vergine avrebbe annunciato anche la morte del Pontefice. E' vero che tanti altri profeti, tra i quali Nostradamus o San Malachia, hanno lasciato indicazioni su fatti futuri che secondo gli scettici sono così vaghi che potrebbero riferirsi a qualunque evento ma le profezie di Cornacchiola sono state sempre talmente precise che è difficile catalogarle come semplici coincidenze. Il rischio di un attacco dell’ISIS a Roma è concreto, così come lo è anche in altre città d’Italia e del mondo ma questo non significa che la profezia di Cornacchiola debba essere letta come l' avviso di qualcosa che sicuramente succederà.
Baba Vanga, la profezia nerissima: Obama ultimo presidente. Cosa vuol dire, scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Secondo Baba Vanga, la mistica bulgara morta nel 1996 dopo 50 anni dedicati alla chiaroveggenza, Barack Obama sarebbe stato l'ultimo presidente degli Stati Uniti d'America: "Il 44° presidente degli Stati Uniti sarà afroamericano e sarà l'ultimo della loro storia". Cosa voleva dire la veggente? Che Donald Trump sarà un dittatore? Che sarà un fantoccio di Putin? O forse che durerà troppo poco? Difficile interpretare in questo momento le sue previsioni. Di certo Baba Vanga ha previsto molti eventi che poi si sono avverati come lo tsunami del 2004, l'attentato dell'11 settembre in America, il conflitto in Siria, il disastro di Chernobyl. Per il 2016 ha previsto poi la fine dell'Europa (Brexit?) e un'invasione dell'Europa da parte degli estremisti musulmani (la serie di attentati terroristici islamici in Francia e Germania). Per gli anni a venire, Baba Vanga ha previsto: 2018 la Cina diventerà una potenza mondiale, scioglimenti ghiacciai nel 2045, tra il 2170 e il 2256 una colonia su Marte vorrà rendersi indipendente dalla Terra; avremo una capsula del tempo entro il 2340, dal 4674 l'umanità e gli alieni saranno un unico popolo. L'Universo finirà nel 5079.
Nostradamus aveva previsto tutto: "Donald Trump presidente, poi la fine", scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Nostradamus, il veggente che ha anticipato nelle sue quartine la rivoluzione francese, Hitler, la bomba atomica e gli attentati dell'11 settembre, aveva previsto anche le vittoria di Donald Trump. Secondo i sostenitori dell'attendibilità delle visioni di Nostradamus, nella Prima centuria (Quartina 40) c'è scritto che il "false trumpet" (Trump, appunto) da presidente degli Stati Uniti "farà sì che Bisanzio (per molti la Grecia, Paese-chiave nella rotta dei migranti, ndr) cambi le sue leggi". Nella Quartina 57 si legge: sempre il false trumpet "provocherà grande discordia. Un accordo si spezzerà" e, con riferimento al "volto ricoperto di latte e miele giace a terra", molti hanno pensato a Israele che, secondo la Bibbia (Numeri 13, 27-29) e la Torah ebraica, è il "Paese dove scorre il latte e il miele". E ancora, la Quartina 50: "la Repubblica della grande città", intesa come Stati Uniti d'America, sarà portata "by trumpet" a impegnarsi in" costose operazioni militari. E se ne pentirà (the city will repent).
La profezia dei Simpson nel 2000: "Donald Trump sarà presidente degli Stati Uniti d'America". Donald Trump presidente degli Stati Uniti? Nel 2000 i Simpson lo avevano predetto. Nell'episodio intitolato "Bart to the Future", il maggiore dei fratelli Simpson ha l'opportunità di dare un'occhiata alla sua vita da adulto. Scopre di essere un perdente, come il padre, mentre la sorella Lisa è diventata la prima presidente Usa donna. "Come sapete, abbiamo ereditato una bella crisi di bilancio dal presidente Trump", si sente nella scena successiva.
HEZBOLLAH. I GUERRIERI DI DIO.
«I guerrieri di Dio», il libro che spiega «Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria», scrive Viola Longo sabato 4 marzo 2017 su "Il Secolo D’Italia". Organizzazione terroristica o baluardo contro l’Isis? Partito politico o gruppo armato che si sostituisce all’esercito regolare? Movimento a vocazione sociale o Stato nello Stato, fino a diventare un anti-Stato? Cos’è Hezbollah, il “Partito di Dio”, che dal Libano ha allargato la propria sfera di influenza all’intero Medio Oriente? Nei suoi trent’anni di vita il movimento, che dà rappresentanza all’Islam sciita, è stato indicato in ognuno di questi modi. Senza che davvero, in Occidente, se ne cogliessero a fondo la natura e la missione. Ora un libro ci invita a conoscere Hezbollah e, insieme, a scoprire qualcosa in più dell’Islam religioso, politico e culturale, anche per capire quale ruolo abbia nella lotta al terrorismo.
Un libro racconta “I guerrieri di Dio”. I Guerrieri di Dio. Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria, edito da Mursia, è un libro scritto a quattro mani dal reporter e fotografo Fabio Polese, classe 1984, e dall’autore di saggi, Stefano Fabei, classe 1960. Ne è venuto fuori un approfondimento che unisce prospettiva storica e attualità, analisi e cronaca, lettura locale e visione geopolitica. Anche con l’ausilio delle immagini: il volume ha un inserto fotografico, frutto dei numerosi viaggi di Polese in Libano. «Pur essendoci diverse pubblicazioni che parlano di Hezbollah – ha spiegato il fotoreporter in una intervista – abbiamo pensato che fare un volume a quattro mani, sfruttando le conoscenze specifiche di ognuno di noi, ovvero quelle di uno storico e quelle di un giornalista fotoreporter andato più volte in Libano, avremmo potuto realizzare qualcosa di diverso − e forse meno di parte − rispetto a quello che era già stato scritto».
Hezbollah oltre la consueta narrazione. Ma non è solo colpa dell’Occidente “distratto” se Hezbollah resta una realtà da comprendere ancora a fondo. «In numerosi casi Hezbollah presenta a osservatori e analisti solo ciò che di se stesso, per la propria causa, ritiene utile», si legge nell’introduzione del libro I Guerrieri di Dio, che si propone proprio lo sforzo di andare oltre questa narrazione per restituire uno sguardo a tutto tondo sul Partito di Dio. «Per comprenderne la complessa storia, questo saggio – si legge nella presentazione del libro – parte dal contesto libanese e mediorientale in cui il Partito di Dio è nato e cresciuto, accompagnando il lettore nella conoscenza degli uomini, delle idee, delle azioni politiche e delle campagne militari di un soggetto che ha fatto del pragmatismo e della segretezza uno dei punti di forza».
Hezbollah tra luci ed ombre, scrive il 9 marzo 2017 Matteo Carnialetto su “Gli Occhi della Guerra”. C’è una frase, pronunciata da un amico libanese a Beirut, che porto con me: “In Occidente non riuscite proprio a capire cosa sta accadendo qui. In Siria e in Libano”. Parole tremendamente vere. Che mi sono piovute addosso come macigni. Non basta – ed era questo il senso delle parole dell’amico libanese – leggere di Medio Oriente. Bisogna andarci, in Medio Oriente. Bisogna incontrare chi vive là, chi ha deciso di stare da una parte o dall’altra della barricata. Oppure chi ha deciso di stare in disparte, cercando solamente un po’ di quieto vivere mentre gli eserciti di una nazione o dell’altra si danno il cambio. E poi bisogna provare a raccontare tutto con onestà, come ha scritto Robert Fisk in Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra: “Immagino che il giornalismo sia questo, o almeno dovrebbe essere questo: osservare ed essere testimoni della Storia e poi, malgrado i pericoli, i limiti e le nostre umane imperfezioni, riportarla il più onestamente possibile”. E mi sembra che questo abbiano fatto Stefano Fabei e Fabio Polese con I guerrieri di Dio. Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria (Mursia, 2017). Un libro corposo – quasi 400 pagine – che ripercorre la storia, completa, onesta e obiettiva, di questo organismo politico-militare. Tutto, come è giusto che sia, ruota attorno alle travagliate vicende del Libano, dalla sua fondazione, passando per l’occupazione siriana e le guerre eterne con Israele. In queste pagine c’è tutto Hezbollah: c’è il partito politico, ci sono le strutture assistenziali (gli ospedali, per esempio, e le moltissime scuole) e pure quelle militari. Ma ci sono pure i media. Il Partito di Dio, infatti, è stato uno dei primi gruppi mediorientali a comprendere l’importanza della tv e dei giornali, tanto da aprirne di suoi. C’è la storia, ma c’è anche la cronaca dei giorni nostri. Hassan Nasrallah, e quindi Hezbollah, che decide che il Partito si deve schierare al fianco di Bashar Al Assad in Siria (aprile 2013). Innanzitutto perché la rivoluzione ha preso fin da subito una brutta piega ed è stata sequestrata dagli uomini col fucile, ovvero le frange più estremiste dei sunniti. E poi per difendere la minoranza sciita e, secondo la visione di Hezbollah, il mondo intero dal terrorismo di matrice islamista. La storia del Partito di Dio è fatta di luci e ombre. C’è chi lo accusa di aver istigato Israele a radere al suolo il Libano nel 2006 e chi, invece, ha nei suoi confronti una fede incrollabile che spinge al martirio. Queste luci e ombre hanno un’intensità visiva nelle foto che Polese ha scattato durante i suoi reportage e che ha deciso di inserire nel libro. Luci e ombre che non sono solamente di Hezbollah. Ma che si riflettono anche sulla storia del Libano. Una nazione martoriata e testarda. Ma anche coraggiosa e carica di speranza. Si sarebbe potuto scrivere un altro (per non dire l’ennesimo) libro di storia. Ma I guerrieri di Dio non è un libro di storia (anche se al suo interno ne troverete parecchia). È un libro che sembra un reportage perché è fatto di incontri, di fotografie, di scarpe consumate sui marciapiedi di Beirut oppure sulla terra della Bekaa. È un libro che sa di sangue e di martirio. O, più semplicemente, un libro che val la pena di leggere.
Hezbollah e la guerra in Siria, scrive Giancarlo Elia Valori l'08 marzo 2017 su "Bergamo News". La guerra in Siria contro gli alauiti di Assad e il suo stato post-baathista inizia con la rivolta popolare, non molto numerosa, peraltro, del Marzo-Aprile 2011. Manifestazioni di massa, nelle storiche aree sunnite di Hama e Homs, alle quali le organizzazioni filogovernative rispondono con rallies in favore di Bashar el Assad e del suo regime. È il canovaccio delle primavere arabe: rivolta civile, nonviolenta e di massa, alla quale il regime non può non reagire con violenza, il che genera successivamente una radicalizzazione nella quale si inserisce la “legione straniera” del jihad. Questo deve avvenire dopo che il vecchio Raìs se ne è andato e dopo che le organizzazioni internazionali certifichino che si tratta di una “lotta democratica”. La caduta di Gheddafi è stata innescata da una piccola rivolta, a Bengazi, dei familiari di alcuni carcerati. Successivamente, sono arrivati i militanti libici della “Lega dei Diritti dell’Uomo”, di cui prima non vi era traccia, e poco tempo dopo arriva un sottomarino della Royale, la marina militare francese, che porta armi e addestratori. In Piazza Tahrir, al Cairo, sempre nel 2011, manifestava anche la sorella di Al Zawahiri, il capo di Al Qaeda, mentre il servizio d’ordine delle manifestazioni, più o meno spontanee, era fornito dalla frazione armata dei Fratelli Musulmani. Uno dei testi consigliati da parte dell’Ikhwan, della Fratellanza Musulmana, allora, era proprio quello sulla “Politica della lotta nonviolenta” di Gene Sharp, fondatore della Albert Einstein Institution, un vero e proprio manuale per mettere in atto una sovversione non militare e nonviolenta. Testo e tecnica che avevamo già trovato nelle tecniche della rete OTPOR in Serbia, gruppo di opposizione al vecchio regime di Milosevic. OTPOR era formato da ragazzi addestrati nella Rappresentanza USA di Budapest. Dopo la crisi del regime siriano derivante dalle manifestazioni del 2011, infatti, vengono tolti i fili spinati dai confini sensibili e cominciano ad arrivare jihadisti sunniti dalla Giordania e dalla Turchia verso la Siria, elementi che si concentrano subito sul confine tra Siria e Libano, o meglio tra Al Qusayr e la regione di Ghouta, per chiudere immediatamente in una morsa Damasco. È bene ricordare, peraltro, che Bashar el Assad, anche prima di arrivare al potere, era il diretto titolare del dossier libanese e, quindi, dei rapporti stretti e diretti tra il regime siriano e Hezbollah. Il quadro cambia con il bombardamento della sede dei servizi segreti siriani a Rawda Square il 18 Luglio 2012, incidente nel quale periscono il ministro della difesa di Damasco, poi Asef Shawkat, cugino di Bashar e vice-ministro della Difesa, Hassan Turkmani, il vice-presidente della Repubblica e infine il capo dei Servizi Hafez Makhlouf. Non si sa ancora se si sia trattato di un terrorista suicida o di una rete di esplosivi fatta detonare a distanza. Saranno esplicitamente citati, come “fratelli” e “martiri”, dal capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, nel suo discorso del 25 maggio 2013 che rende noto il pieno sostegno militare e operativo del gruppo sciita libanese a favore di Assad. Hezbollah era già intervenuto, con le sue “armate ombra”, nella prima fase degli scontri tra l’Esercito Arabo Siriano del leader alawita e le forze sunnite e jihadiste, ma solo sulla stretta linea del confine tra Siria e Libano. Si costituisce quindi, e con le armi, l’ “asse della resistenza” tra Iran, Hezbollah e Siria degli Assad, un “asse” che la propaganda di Damasco e quella sciita libanese diffondevano da anni. La linea di Teheran, Damasco e Hezbollah si caratterizzava di contro ad un progetto sunnita ma, più esplicitamente saudita, di prendere la Siria, emarginare gli alawiti sulla sola costa mediterranea e, poi, arrivare ad uno scontro o a una regionalizzazione dell’Iran. I primi slogan dei manifestanti pro-Assad, nel 2011, erano soprattutto contro il sovrano saudita e, talvolta, contro quello giordano. Certamente, oggi, la presenza di Hezbollah nel conflitto si è siriano si è rivelata determinante per la sconfitta delle varie sigle del jihad sunnita e dell’Esercito Libero Siriano, nato da una scissione delle Forze Armate di Assad, sempre nel 2011 e, successivamente, strumento di proiezione della forza turca, soprattutto nel Nord della Siria. Le perdite del “partito di Dio” libanese dovrebbero essere di almeno 1500 militari, mentre Israele non ha ancora deciso come muoversi, a parte la difesa delle alture del Golan, nel quadrante siriano, attendendo che i suoi vari nemici si consumino tra di loro. Con una sola eccezione, esplicitata nel giugno 2013 proprio da Netanyahu: occorre valutare e reagire alla nuova e inquietante presenza nel quadrante siriano di Hezbollah. E all’ “asse della resistenza” tra Iran, Siria e “partito di Dio” libanese occorre poi aggiungere anche Hamas nella Striscia di Gaza, che ha ripreso le sue relazioni ufficiali con l’Iran nel luglio 2016; con Teheran che fornisce aiuto economico e sostegno militare mentre, come affermava in quei giorni l’ufficio politico di Hamas, “l’Arabia Saudita ha fatto svanire le nostre proposte”. È da notare che Hamas, braccio politico-militare della Fratellanza Musulmana sunnita, aveva preso le difese, nella guerra yemenita, del presidente Mansour Hadi contro gli Houthi, sciiti seguaci del Settimo e Ultimo Imam, sostenuti dall’Iran. Lo Yemen è chiaramente la testa di ponte per il controllo dell’Arabia Saudita e, inoltre, dell’accesso al Golfo Persico ma anche, indirettamente, di quello al Canale di Suez. È strano, peraltro, come la dipendenza della UE dal commercio internazionale non abbia fatto pensare, ai decisori europei, che chi controlla quell’area tiene tra le sue mani la giugulare del commercio marittimo di tutta la penisola eurasiatica. Ma, ormai, la cultura e la sensibilità strategica, nei decisori europei, è pari a zero. La presenza del “partito di Dio” in Siria, inoltre, permette una ampia dislocazione delle forze e una sorta di “colonizzazione” della Siria da parte dell’Iran, in cambio di un forte appoggio di Teheran a Hezbollah proprio all’interno del Libano. Hezbollah diventa egemone in Libano, e quindi può diventare una sorta di “armata del Medio Oriente” per tutto l’universo sciita che gravita intorno a Teheran. Tra l’Iran e il Libano, grazie al “Partito di Dio” sciita, è possibile creare, e già oggi questo sta accadendo, una serie di “vuoti demografici” tra la Siria e l’Iraq proprio verso il Libano. I poli di questa nuova demografia sciita iraniana sono le aree di Kefraya e Fua, da dove i residenti, in maggioranza sciiti, sono stati diretti verso la zona di Damasco Ovest, a maggioranza sunnita, mentre quest’ultima popolazione prenderà posto, se gli accordi internazionali sulle “Quattro città” valgono ancora, a Kefraya e Fuah, nelle zone lasciate libere dagli sciiti. L’Iran vuole dunque piena continuità con il Libano, e per questo ha intenzione di fare un vero e proprio scambio di popolazione tra il Nord e il Sud della Siria. Il che implica anche un controllo sciita del confine turco-siriano e, quindi, della NATO. Hezbollah, inoltre, si insedierà a Madaya e a Zabadani, le città che ha contribuito a difendere dai “takfiri” (apostati sunniti) e dai “terroristi”, per usare la terminologia della propaganda sciita libanese. A Daraa 300 famiglie sciite iraqene si già insediate nelle zone lasciate libere dalle forze sunnite dopo il “cessate il fuoco” dello scorso Settembre. È intuitivo pensare a cosa ciò significhi per la sicurezza dello stato ebraico. Una tenaglia tra Nord e Sud, tra il confine con il Libano meridionale dominato dal “partito di Dio” e il sud, con Hamas che viene armato e addestrato da Teheran, è uno dei peggiori scenari possibili per Gerusalemme. Solo un rapporto nuovo con l’Egitto e con la Giordania potrebbe creare un contrappeso strategico a questa minaccia. Gli USA, per bocca del Presidente Trump, oggi non vogliono necessariamente una Siria senza Assad, dato che “spetta al popolo siriano scegliere” e che comunque, dice il Presidente repubblicano, “Assad è meglio dei jihadisti”. Il Presidente siriano, peraltro, risponde alle avances di Trump ipotizzando che “Siria e Stati Uniti possano essere alleati naturali”. Assad vuole, detto più esplicitamente, far parte della nuova alleanza “contro il terrorismo” nella regione, ma il problema è che Washington non accetterà mai una continuità strategica da Teheran ai templi romani di Baalbek sulla costa libanese, né accetterà mai una chiusura strategica nei confronti di Israele. Una buona possibilità di risolvere la questione risiede nella presenza russa nell’area. Mosca ha tutto l’interesse a sostenere lo stato ebraico e una eguale necessità di rimanere a controllare Damasco, per evitare una pressione iraniana sulle sue basi militari a Tartus e il controllo delle sue linee di comunicazione interne al territorio siriano. Trump, certamente, non vuole l’Iran tra i piedi nella futura “lega antiterrorismo” del Medio Oriente; e certamente non vuole avere a che fare con Ansar Allah dei ribelli Houthi in Yemen, con la Divisione Fatemyoun delle Guardie della Rivoluzione iraniana, formata in Afghanistan da sciiti che hanno combattuto in Siria, con la brigata Zaynaboyoun degli oltre mille sciiti pakistani, e naturalmente con Hezbollah. La “autostrada sciita” va, nei progetti delle Guardie della Rivoluzione di Teheran, dall’Iran all’Iraq fino all’interno della Siria, entra a nord di Aleppo e arriva ad ovest della costa del Mediterraneo, per volgersi poi verso sud dentro il Libano fino al confine del Paese dei Cedri con Israele, a Naquora-Maron el Ras. La tensione tra Mosca e Teheran, che potrebbe favorire una nuova presenza degli USA nell’area, è già, comunque, visibile. Vladimir Putin vuole chiaramente che Hezbollah se ne vada presto da tutto il territorio siriano. L’Iran, ovviamente, non ha alcun interesse a premere sul “partito di Dio” per farlo ritornare nei ranghi libanesi, Hezbollah è essenziale al controllo di tutta la “autostrada sciita” sopra delineata. Peraltro, Bashar el Assad è troppo esperto per non capire che consegnare buona parte del suo Paese agli iraniani e agli sciiti libanesi lo mette politicamente con le spalle al muro e lo priva di un sostegno essenziale per la sua libertà di manovra con Teheran, quello della Federazione Russa. Il Congresso USA e sei paesi del Consiglio di Sicurezza del Golfo richiedono poi l’implementazione del suaccennato “Accordo delle Quattro Città”, Madaya, Al Fuah, Kafariya e Zabadani, le abbiamo già notate sopra, città “punite” sia dalle forze sciite che da quelle jihadiste sunnite. L’Accordo, contemporaneo al cessate il fuoco di Astana. Prevede che vengano evacuati i malati e le altre persone a rischio e possano arrivare medicinali e cibo ai residenti. Ma, come è prevedibile, svuotare una città vuol dire conquistarla. Peraltro, il modo migliore, come è stato affermato al Congresso USA, per debilitare Hezbollah è quello di bloccare le spedizioni di armi iraniane che arrivano, attraverso la Siria, in Libano. Un grosso blocco sunnita nell’area centrale della Siria eviterebbe la continuità strategica tra Hezbollah e Guardie della Rivoluzione iraniana e consentirebbe quindi allo stesso Bashar el Assad di governare un territorio sufficientemente grande per avere un potere credibile nella regione.
IL COMUNISMO E L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO: LE PROFEZIE.
NOSTRADAMUS: INVASIONE ISLAMICA DELL’EUROPA? Scrive Giuseppe Merlino. Riportiamo alcune quartine della Profezia di Nostradamus che si riferiscono ad una futura invasione islamica dell’Europa.
Centuria V – quartina 55: De la felice Arabe contrade naistra puissant de loy Mahométique, vexer l’Espaigne, conquister la Grenade, et plus par mer à la gent Lygustique.
Dalla felice nazione Araba nascerà potente la Legge Maomettana opprimerà la Spagna, conquisterà Grenada e più per mare alla gente Lygustique. (Lyguistique viene interpretato come “della Lingadoca”, regione francese sul Mar Mediterraneo, o come “della Liguria”)
Centuria I – quartina 18: Par la discorde negligence Gauloise, Sera passage à Mahommet ouuert: De sang trempé la terre e mer Senoyse Le port Phocen de voiles e nefs couvert.
Per la discorde negligenza Francese sarà aperto passaggio a Maometto: di sangue intriso la terra ed il mar Senoyse il porto di Marsiglia di vele e navi coperto.
Centuria I – quartina 9: De l’Orient viendrà le couer Punique Fascer Hadrie et les hoirs Romulides Accompagnè de la classe Lybique Temple Melites et proches Isles vuides.
Dall’Oriente verrà il Cuore Punico. Che ingannerà l’Adria e gli eredi di Romolo. Accompagnata dalla Flotta Libica. Tremare Malta e isole vicine vuotate.
Centuria II – quartina 29: L’Oriental sortira de son siege Passer les monts Apennin voir la Gaule Traspercer le ciel, les eaux et neige Et un chacun frappara de sa gaule
L’Orientale uscirà dalla sua sede, Passerà i monti Appennini e vedrà la Gallia: Attraverserà il cielo, le acque e le nevi, Ed ognuno colpirà con la sua verga.
Centuria III – 27: Prince Lybique puissant en Occident Francois d’Arabe viendra tant enflammer Scavant aux letters sera condescendent La langue Arabe en Francois translater
II Principe Libico iniquo potente in Occidente. II Franco d’Arabia verrà tanto infiammare. Sapiente in Lettere sarà condiscendente. La Lingua Araba in Francese tradurre.
Centuria V – quartina 25: Le Price Arabe, Mars, Sol, Venus, Lyon, Regne d’Eglise par mer succubera: Devers la Perse bien pred d’un million Bisance, Egypte, ver. sepr. invadera.
Il principe Arabo Marte Sole, Venere, Leone. Regno d’Inglese per mare soccomberà: Verso la Persia ben presso d’un milione, Bisanzio, Egitto ver. serp. invaderà.
Terza Guerra Mondiale: Nostradamus ci sta indovinando, scrive anonimo su “Noi toscani il 06/01/2011 Terza Guerra Mondiale: Nostradamus ci sta indovinando. Dal libro “Nostradamus - Le profezie”, di Carlo Patrian, ristampa del 1993 (1a edizione 1978), che ho ripreso in mano ieri sera dopo tanto tempo, ho raccolto tutte le interpretazioni dei diversi esegeti sulle profezie relative alla Terza Guerra Mondiale. Rileggere quelle che avevo sottolineato più di un anno fa e che non avevo più considerato, oggi mi ha molto impressionato. Provenienti da diverse quartine le profezie sono state raggruppate per tema, e numerate di conseguenza. Ho evitato di mettere a fianco di ognuna il nome dell'esegeta, in quanto ho ritenuto più importanti le coincidenze; quando con termini diversi viene espresso lo stesso concetto, significa che sono interpretazioni concordi, presenti in centurie diverse, di esegeti diversi. Da queste interpretazioni emergono sicuramente visioni che riflettono quella che è la situazione di oggi, e potenzialmente quella futura. Il piano di riscontro che dovremmo usare nella lettura di queste profezie, oltre a quello generale della crisi internazionale, è quello della volontà dell'estremismo islamico di islamizzare l'Occidente, la corsa all'atomica dell'Iran, la volontà di conquistare Roma, la volontà di distruggere Israele, la volontà di creare una superpotenza islamica, la guerra agli infedeli, l'incapacità dell'Europa di capire chi è e cosa fare, la crisi della religione Cristiana, la tendenza a favorire a tutti i costi l'Islam rinunciando alle nostre tradizioni, l'impossibilità continua di riuscire ad ottenere la pace perché uno dei due contendenti non la vuole, le due incognite Cina e Russia che continuano a porre veto alle risoluzioni dell'ONU contro l'Iran, l'incognita Turchia, che sono tutte realtà di cui oggi nessuno sembra accorgersi e preoccuparsi.
Oggi la Francia toglie i crocefissi dalle scuole, l'Italia inizia ad abolire S. Lucia dalle scuole e i canti di Natale, 'Islam' è sulla bocca di tutti e dappertutto. Secondo gli analisti, l'utilizzo delle armi di distruzione di massa, nucleari batteriologiche o chimiche, contro qualche città importante occidentale non è in dubbio, è solo in dubbio quando. Circa due mesi fa i servizi segreti russi sostenevano che l'Iran avrebbe avuto l'atomica entro 2 anni (io penso entro pochi mesi). A mio avviso quindi, superando la banalità del preconcetto del credere o non credere a priori, le coincidenze sono troppe, e c'è troppo oggi in ballo per non tenerle in considerazione, o almeno a monito. Ricordo, sono interpretazioni di profezie (di 500 anni fa), prese da una ristampa del 1993 (1a edizione 1978). Sono state raggruppate per tema, ma rimane un tema che è impossibile scindere dagli altri perché coinvolge tutto ed è sempre presente: invasione/attacco dell'Occidente da parte dell'Islam, causa della Terza Guerra Mondiale. Concausa, la sottovalutazione dell'Islam da parte dell'Europa, cioè quello che stiamo facendo oggi. Nota importante: parlando di invasione islamica, non è detto che si debba intendere per forza, da subito, come invasione armata. Perché l'invasione non-armata, oggi è già in corso, come l'affiancamento ideologico all'Islam.
TERZA GUERRA MONDIALE SECONDO NOSTRADAMUS: Iran determinante il conflitto. Nostradamus aveva previsto che l'Iran sarebbe stato la causa scatenante il conflitto mondiale terzo.
1) L'Iran quale eventuale nazione scatenante il Terzo Conflitto Mondiale andrebbe visto collegato a due quartine importanti: Nell'arabico golfo la grande flotta affonderà;
2) Fuoco ardente nel cielo... presso il Rodano (... carestia, spada...) La Persia (Iran) ad occupar la Macedonia tornerà. Sembra predire un conflitto nucleare, mentre l'Iran, divenuto presumibilmente satellite della Russia invasa dall'Afghanistan, invaderà i Balcani. (il futuro dei Balcani, è in Europa, dice oggi Prodi). Ricordando la grande difficoltà di datazione delle profezie, uno degli esegeti ha localizzato (il terzo conflitto mondiale) oltre l'anno 2000. Bin Laden, Ahmadinejad, oppure deve ancora arrivare qualcuno?
3) Un personaggio islamico apparirà per conquistare la Terra e sterminare gli infedeli. (...) un futuro personaggio ermetico che, dopo aver conseguito l'Autorealizzazione (...) si recherà in Asia conquistando popoli e nazioni.
4) Futura venuta di un messia (del male) (...) che apparirà in Asia secondo i princìpi del grande maestro Ermete Trismegisto; i suoi poteri, la sua azione, la sua ideologia conquisteranno tutti i governi dell'Oriente. 11 Settembre?
5) Dopo l'era del vapore e dell'elettricità ve ne sarà un'altra con un'energia rivoluzionaria, prima però dei proiettili aerei colpiranno l'umanità.
6) Un Re del terrore verrà con mezzi aerei dallo spazio esterno, da Marte (dio della guerra), che può anche essere simbolo di un conflitto. (...) La venuta dal cielo autorizza a pensare all'uso di aerei o di missili terrestri.
7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà. Scartato, solstizio invernale è a Dicembre. Comunisti al potere in Italia, invasione dell'Europa e dell'Italia da parte dei musulmani, pericolo di morte per il Papa. Russia, Cina, errore della Francia, Italia, Inghilterra, Germania, USA, Israele, il pericolo della Turchia, il Grande Impero Arabo, Italia.
8) Caos e anarchia negli stati mediterranei.
9) In Italia vi saranno comunisti o filo-arabi al potere. E' la realtà di oggi.
10) Futuro conflitto: acclamazione per le vittorie dell'impero islamico che invade l'Europa, resistenze al Ticino, a Milano e Genova, verrà chiesto aiuto al gran Monarca.
11) Il comunismo al potere controllerà il sud, incontrando opposizione al nord, soccorsi verranno chiesti al gran Re.
12) Il comunismo al Governo a Roma, il nord in opposizione chiederà l'intervento di una grande potenza o di un gran Re.
13) I Romani sconfitti da armate turche chiederanno soccorsi a città del Nord che si rivolgeranno ad un gran Monarca.
14) In Italia ci sarà un dittatore che il veggente cita come l'uomo da capelli neri e ricciuti. (Prodi, o D'Alema?)
15) A Roma governerà un capo seguace delle vecchie filosofie inglesi.
16) In Italia lotte di comunisti.
17) Guerra civile scoppierà in Italia.
18) Si avrà la creazione di un grande Impero Europeo. In questo caso sarà necessaria conseguenza di quello che è l'opposto oggi, un'Europa frammentata e indecisa sul da farsi.
19) Guerre coloniali in Africa. E anche qui, ci sono tutti i presupposti.
20) Prime invasioni islamiche nell'Adriatico e in Europa.
21) L'attacco all'Occidente non avverrà solo attraverso la Siberia, ma anche dall'Oriente e dal Mediterraneo.
22) In due quartine diverse Nostradamus parla di invasioni russo-musulmane durante il conflitto, sulle quali concordano molti esegeti.
23) Gravi pericoli di morte per il Pontefice mentre sarà in mare in un periodo di lotte e persecuzioni religiose.
24) Il Pontefice morirà per un attentato.
25) Anche il Papa sarà in grave pericolo per l'aggressione araba. Il Signore del Cristianesimo andrà in esilio, quando gli eserciti arabi si avvicineranno a Roma.
26) Nostradamus parla anche di guerra batterica.
27) Guerra fratricida atlantica.
28) Secondo Nostradamus, ci sarà una pericolosa tensione tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Tale tensione sfocerà in una guerra fratricida atlantica e costituirà un disastro nazionale per la Francia che non prenderà sul serio l'aggressione araba.
13) I Romani sconfitti da armate turche chiederanno soccorsi a città del Nord che si rivolgeranno ad un gran Monarca.
29) La Turchia cadrà in mano agli arabi.
30) La Turchia attaccata.
31) Gravi conflitti nella zona russo-turca.
32) Al governo di Parigi ci sarà un partito filocomunista.
33) La Francia andrà incontro ad un suicidio nazionale aprendo le porte all'Islam. E' quello che sta facendo, sta anche abolendo i crocifissi. Stesso errore che sta facendo l'Italia.
34) La Francia non solo non farà una piega per l'aggressione araba nel Mediterraneo, ma anzi amerà alla follia tutto ciò che avrà a che fare con la cosa araba.
35) Un condottiero arabo di Libia indurrà i francesi a studiare l'arabo.
36) La Francia sarà attaccata dagli arabi in due punti.
37) Parigi sarà distrutta da un attacco atomico.
38) L'Inghilterra subirà gravi sconfitte ai confini dell'Unione Araba (Mediterraneo).
39) Il Grande Impero Arabo riunito si estenderà dall'Oceano Atlantico fino al Golfo Persico.
40) Nostradamus vede nello stato di Israele un punto nevralgico pericoloso nel vicino Oriente.
41) Lo stato di Israele percorrerà un lungo calvario.
42) Cento milioni di arabi costituiranno un pericolo non solo per Israele ma anche per l'Europa meridionale. I grandi dell'Asia e dell'Africa stringeranno un'alleanza contro l'Europa.
43) Gli arabi con l'aiuto dei cinesi conquisteranno l'Europa meridionale. Se non si riferisse a conquista armata, potrebbe essere economica e culturale, che è quella che si prospetta oggi.
44) I cinesi faranno tornare a loro vantaggio il nazionalismo e il fanatismo arabo, ad annienteranno la cultura cristiana europea (...) Quello che si prospetta oggi.
45) La Cina, inimicatasi con la Russia e con gli USA, userà la bomba atomica in una guerra contro gli USA.
46) Il cielo sarà percorso dai luminosi tracciati dei missili.
47) Esplosioni atomiche negli USA.
48) New York distrutta da missili termonucleari.
49) Un prodigioso fuoco celeste distruggerà la Città Nuova. (New York)
7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà.
50) Un cataclisma di fuoco distruggerà la più grande e moderna città del mondo.
51) La città distrutta è individuata a 45° di latitudine. Tra queste c'è anche New York.
52) Gli attaccanti, sconfitti, lanceranno testate atomiche su città portuali americane ed inglesi.
7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà.
53) Gli USA scacceranno i cinesi dal grande oceano con armi atomiche ancora più potenti.
54) Nemico distrutto da bombe atomiche e carestia.
55) Le forze asiatiche saranno vinte dopo 7 presidenti USA.
56) Il Re di Francia porterà la pace nel mondo.
57) Il re di Europa intraprenderà un'ultima crociata contro gli arabi per risolvere con l'aiuto di truppe le divergenze israeliano-arabe. Tali truppe saranno formate con soldati della Germania unita. La Germania che avrà questo ruolo importante nella risoluzione del conflitto, a questo punto si rifarà dell'Olocausto perché aiuterà Israele?
58) Dopodiché ci sarà la pace per 1000 anni. Diverse profezie concordano su comunisti al potere in Italia. Asia e Africa, assolutamente prevedibile, stringono un'alleanza contro l'Europa. La Francia fa l'errore madornale di fare entrare l'Islam nella sua società. Lo sta facendo. 20 profezie, tra tutti gli esegeti, parlano di invasione araba dell'Europa (Italia compresa), dell'Occidente. Si parla anche di invasione cinese. I cinesi (oppure nordcoreani?) approfitteranno di questa invasione per attaccare gli USA. Etc.
«Nel 2043 Roma capitale del Califfato Isis», la profezia della veggente dei Balcani, scrive Ida Artiaco il Martedì 8 Dicembre 2015 su "Il Messaggero". «Nel 2016 si inasprirà la guerra dell’Occidente contro il mondo islamico cominciata con la primavera araba. La fine si avrà soltanto nel 2043, quando verrà istituito un nuovo califfato che avrà Roma come suo epicentro». A parlare non è Nostradamus, ma una anziana donna non vedente di origine bulgara, dal nome Baba Vanga, venuta a mancare nel 1996 a 85 anni dopo oltre 50 dedicati alla chiaroveggenza. Le sue parole non farebbero così paura se non si considerasse che nella sua vita abbia predetto una serie di eventi, tragicamente verificatisi qualche anno dopo la sua morte. Primi tra tutti, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, che sconvolsero l’America e tutti i suoi alleati, e lo tsunami del 2004. Ripercorrendo tutte le profezie della donna, da molti conosciuta come la “Nostradamus dei Balcani”, ci si accorge che il suo margine di errore è piuttosto ridotto, circa il 15%. Baba Vanga, nata a Strumica, attuale Macedonia, nel 1911 da una famiglia di origini poverissime, perse la vista, secondo quanto riportato dai tabloid locali, dopo essere stata colpita da un tornado a soli 12 anni. Ben presto ebbe le prime apparizioni: si diffuse la credenza che la donna riuscisse a leggere nel pensiero e a prevedere il futuro. Addirittura i leader comunisti del Paese chiesero il suo aiuto paranormale per organizzare la loro agenda politica. Tra gli altri eventi da lei predetti ci sarebbero anche la tragedia del sottomarino Kursk, avvenuto nel 2000, l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, sottolineando che sarebbe stato afroamericano e l’ultimo della storia, e la Primavera araba. Proprio da questi ultimi eventi, Baba Vanga avrebbe avvertito l’Europa di correre ai ripari contro la furia islamica, che stravolgerà il Vecchio Continente così come lo abbiamo conosciuto finora e ne sterminerà le popolazioni. Fino a che, come riportato dal sito News.co.au, nel 2043 l’economia europea sarà soggetta alla legge di un nuovo califfato che sorgerà a Roma. Addirittura, nel 2066 la Capitale italiana, sotto il nemico musulmano, sarà bombardata dagli Usa con un’arma climatica.
LA VEGGENTE: "IL 2016 VEDRÀ LA FINE DELL'EUROPA. NEL 2043 ROMA CAPITALE DEL CALIFFATO". La notizia riportata da News.co.au, scrive Martedì 8 Dicembre 2015 Enrico Chillè su "Leggo". Il 2016 potrebbe essere l'anno della fine dell'Europa come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi. Gli euroscettici, però, non si affrettino ad esultare. Secondo le profezie di Baba Vanga, che a 19 anni dalla morte è ancora considerata la 'Nostradamus dei Balcani', il prossimo anno dovrebbe segnare l'inizio dell'occupazione del nostro continente da parte delle milizie jihadiste. Ripercorrendo tutte le profezie della sensitiva bulgara, ci si accorge che il margine d'errore è piuttosto ridotto (circa il 15%), e che rispetto ai 'colleghi' più illustri c'è anche un'esatta identificazione temporale degli avvenimenti. Baba Vanga, al secolo Vangelia Pandeva Dimitrova, nacque a Strumica (odierna Macedonia) nel 1911 da una famiglia poverissima, e a 12 anni avrebbe perso la vista dopo essere stata colpita da un tornado. Non potendo permettersi le cure necessarie, la donna rimase cieca per tutta la vita e avrebbe iniziato ad avere le prima visioni nei giorni seguenti. Secondo i suoi seguaci, Baba Vanga era in grado di leggere nel pensiero e di prevedere il futuro e la sua fama fu tale che anche i leader comunisti in Bulgari si servirono di lei per organizzare la loro agenda politica. In molti casi, le profezie di Baba Vanga si sono parzialmente avverate. Ecco cosa aveva previsto la sensitiva bulgara, anno per anno:
- Il riscaldamento globale e lo tsunami del 2004 (predetto negli anni '50): "Le regioni fredde diventeranno calde e i vulcani si sveglieranno. Un'onda gigantesca colpirà una grande costa e le città, gli edifici e le persone, saranno completamente sommersi dalle acque. Tutto si scioglierà come il ghiaccio";
- L'11 settembre (predetto nel 1989): "Orrore, orrore! La fratellanza americana cadrà dopo essere attaccata da uccelli d'acciaio. I lupi ululeranno nel cespuglio e scorrerà sangue innocente";
- La tragedia del sottomarino Kursk nel 2000 (predetta nel 1980): "Alla fine del secolo, nell'agosto 1999 o 2000, Kursk sarà sommersa dalle acque e tutto il mondo piangerà per lei".
- L'elezione di Obama: "Il 44° presidente degli Stati Uniti sarà afroamericano e sarà l'ultimo della loro storia".
- La Primavera Araba: "Ci sarà una grande guerra islamica, che inizierà nel 2010 e diventerà mondiale. In Siria gli arabi utilizzeranno armi chimiche contro gli europei". Quasi tutto è ovviamente relativo. Dobbiamo ancora attendere per sapere se davvero Barack Obama sarà l'ultimo uomo alla Casa Bianca, ma il resto della profezia è incredibilmente preciso. Quando invece Baba Vanga parlò di Kursk, tutti pensarono alla città russa che diede il nome al sottomarino, affondato poi nell'agosto del 2000, come previsto dalla sensitiva. Sull'11 settembre, poi, le interpretazioni appaiono più o meno forzate, da fratellanza ad indicare le Torri Gemelle agli uccelli d'acciaio per gli aerei, passando per quel cespuglio che tradotto in inglese diventa Bush. Per non parlare, poi, delle profezie che non si sono mai avverate, come quella, piuttosto nota, dell'uccisione dei quattro maggiori leader mondiali nel 2009. Veniamo ora alle profezie future. Partendo dalla Primavera Araba, la veggente prevedeva che da lì sarebbe iniziata una nuova guerra mondiale: "Nel 2016 l'Europa sarà occupata dai musulmani e cesserà di esistere come la conosciamo. L'invasione durerà lunghi anni, sterminando le popolazioni e lasciando il continente vuoto".
Se credete a Baba Vanga e vi sentite già parecchio allarmati, evitate di proseguire con la lettura delle altre profezie, tutte perfettamente datate (e alcune, come lo scioglimento dei ghiacciai, già in corso):
- 2023: l'orbita della terra cambierà.
- 2025: la popolazione dell'Europa toccherà lo zero.
- 2028: l'uomo arriverà su Venere, alla ricerca di possibili nuove risorse.
- 2033: i poli si scioglieranno e aumenterà notevolmente il livello delle acque.
- 2043: l'Europa diventerà un Califfato e la nuova capitale sarà Roma. L'economia mondiale sarà soggetta alla legge islamica.
- 2066: l'America utilizzerà un'arma capace di cambiare il clima per riprendere il controllo dell'Europa e della cristianità.
- 2076: il comunismo dominerà in tutto il mondo.
- 2084: la natura rinasce (ci sono molti dubbi e vaghe interpretazioni su questa affermazione, nda).
- 2100: la Terra sarà illuminata 24 ore al giorno grazie al sole artificiale progettato dall'uomo (sono in corso studi per realizzarlo grazie alla fusione nucleare).
- 2130: grazie all'aiuto degli alieni, le civiltà potranno vivere anche sott'acqua.
- 2170: siccità globale.
- 2187: due eruzioni vulcaniche distruttive bloccate in tempo.
- 2201: le temperature globali si abbassano in seguito al rallentamento dei processi termonucleari nel sole.
- 2262: tutti i pianeti cambieranno leggermente orbita e Marte sarà a rischio collisione con una cometa.
- 2354: grave siccità dovuta a un incidente nel sole artificiale.
- 2480: collisione tra due soli artificiali, torna la notte sulla Terra.
- 3005: una guerra su Marte provocherà il cambio di orbita.
- 3010: una cometa colpirà la Luna e la Terra sarà circondata da ceneri e frammenti rocciosi.
- 3797: fine della vita sulla Terra, ma l'uomo avrà già raggiunto nuovi sistemi solari per sopravvivere. Finisce così la lista completa delle profezie di Baba Vanga, riportata da News.co.au. Le profezie passate si sono in parte avverate, e gli avvenimenti degli ultimi due anni potrebbero in minima parte gettare i presupposti su quelle del futuro prossimo. Ma non allarmiamoci, perché tutto appare fantasioso e improbabile. Soprattutto il ritorno del comunismo: noi italiani, si sa, moriremo democristiani...
Falce, sesso libero e martello: così l'Urss distrusse la famiglia. Comuni, divorzio facile e mercificazione del corpo della donna. Così i rivoluzionari stravolsero la società russa, scrive Rino Cammilleri, Martedì 25/10/2016, su "Il Giornale". L'anno prossimo cadrà il centenario delle apparizioni di Fatima, nelle quali la Madonna aveva profetizzato l'avvento e le conseguenze - del comunismo in Russia (il golpe leninista avvenne di lì a poche settimane). Per l'occasione si è svolto in settembre a Fatima un congresso mariologico internazionale in cui, tra l'altro, è stato presentato il libro Fatima misteries. Mary's message to the modern age (I misteri di Fatima. Il messaggio di Maria per l'epoca moderna), di due polacchi, Grzegorz Gorny e Janusz Rosikon, uscito negli Stati Uniti per Ignatius Press, la prestigiosa editrice dei gesuiti. Il primo è un produttore cinematografico e televisivo, il secondo è un famoso fotogiornalista. Il libro è curioso perché è strutturato come una specie di anti-Decalogo, nel quale si dimostra, punto per punto, come il comunismo ha contraddetto, scientemente e in pieno, tutti i Dieci Comandamenti della religione ebraico-cristiana, costruendo una vera e propria religione atea, un dio artificiale anch'esso onnipotente e onniveggente, il cui unico attributo (volutamente) mancante è la misericordia. Particolarmente (e tristemente) significativo, per l'attuale contesto di guerra alla famiglia, è il punto riguardante il Sesto Comandamento («Non fornicare», col suo omologo «Non desiderare la donna altrui»). La cosa parte da lontano, perché fin dal Manifesto di Marx-Engels si sapeva che cosa pensavano i comunisti della famiglia, istituzione «borghese» quant'altre mai. Il documento uscì a Londra semiclandestino nel 1848 e fece il suo outing alla Comune di Parigi nel 1871. E nel 1904 Lenin proclamò senza mezzi termini che condizione per la vittoria del socialismo era la liberazione della sessualità dalle catene della famiglia. L'anno dopo, il proclama fu messo per iscritto al III Congresso del Partito socialdemocratico russo. Ci pensò la minoranza bolscevica, che affidò a Trotszkij il compito di sviluppare una nuova teoria dei rapporti sessuali, giacché il matrimonio era uno strumento di «sfruttamento» delle donne e la famiglia un istituto «capitalista». Nel 1917, preso il potere, i bolscevichi introdussero, dopo neanche tre mesi, due decreti, uno «Sullo scioglimento del matrimonio» e l'altro «Sulla registrazione del matrimonio civile e i figli». Con essi cadeva ogni differenza tra convivenze e nozze. Per divorziare bastava un avviso per posta all'autorità - non al coniuge! - previo pagamento di tre rubli. Aleksandra Kollontaj, primo commissario per le questioni sociali, lanciò nel contempo la campagna «L'amore è come un bicchier d'acqua», intendendo che copulare equivaleva a dissetarsi: se hai sete, che fai? bevi, e senza tante storie e fronzoli. Quasi subito nelle principali città vennero istituiti i Commissariati del Libero Amore. Questi non solo incoraggiavano a darci dentro, ma punivano a frustate (con la famosa nagajka) le donne che rifiutavano di concedersi agli uomini indicati dal Commissariato. A Saratov si arrivò al punto di obbligare tutte le cittadine dai diciassette ai trent'anni, anche sposate, a darsi ai cittadini su semplice richiesta. Ogni lavoratore era tenuto a versare il due per cento del suo guadagno a un fondo apposito per vedersi garantito il sesso trisettimanale con chi voleva (donne, però). Il nudismo venne incentivato e i parchi si riempirono di gente d'ogni età e sesso intenta a prendere il sole, quando c'era, coperta dal solo cappello. Le carceri, naturalmente, furono il luogo privilegiato per gli esperimenti. Nel 1924 il famigerato Dzerzinskij, capo della Ceka, fece ammassare nelle prigioni di Bolszewo un migliaio di condannati minorenni tra i dodici e i diciotto anni per avviarli al sesso di gruppo. Per ovviare al diffuso analfabetismo venne ideato un «alfabeto erotico» (ovviamente porno) ideato dal pittore Sergeij Mierkurow e insegnato anche tramite i cinegiornali. La sostituzione della «famiglia tradizionale» con la «comune komsomolsk» (una dozzina di componenti) fu proposta (e imposta) da Grigorij Batkis, direttore del moscovita Istituto Sociale e autore del libro La rivoluzione sessuale. Tale rivoluzione, però, già nel 1922 aveva creato ben sette milioni di meninhos de rua, figli di nessuno che vagavano per le strade bolsceviche. Non solo. Nel 1926 la regressione demografica era divenuta così allarmante che Stalin si vide costretto a revocare ogni sprone alla promiscuità sessuale. Figli alla Patria. Possibilmente con padre e madre certi e certificati. Anche l'Uomo Nuovo, ahimè, doveva fare i conti col Vecchio.
Ecco perché i comunisti vogliono l’islamizzazione del mondo.
Bigami d'Italia Sono 20mila, fuorilegge e mai puniti. Ecco come è possibile vivere con due mogli aggirando le regole. La sfida degli imam: "Il problema è solo vostro", scrive Nino Materi, Lunedì 16/11/2015, su "Il Giornale". «La storia d'amore» di Fatima, 32 anni, egiziana, inizia con un matrimonio in una moschea italiana piena di fiori. E finisce a Monza in un garage pieno di immondizia. È qui che suo marito Hammed, 50 anni, egiziano, l'aveva scaricata come un sacco di spazzatura. È qui che i carabinieri l'hanno trovata con i suoi tre figli piccoli, anche loro ammassati nel box. La denuncia contro di lui non è scattata per le condizioni in cui faceva vivere donna e figli, ma perché la sua prima moglie (sposata civilmente ma da cui era separato) l'ha accusato di stalking. Fatima era diventata la seconda famiglia di Hammed, poligamo praticante. Fedele al Corano e alla Sharia che gli consente di avere fino a 4 donne. Mogli di riserva, mogli di scorta. Come Fatima. Non riconosciuta dalla legge italiana. Quindi senza nessun diritto. La vicenda riflette un fenomeno - il concubinaggio - che in Italia sta crescendo in maniera esponenziale sull'onda dell'arrivo massiccio della popolazione musulmana. Un impatto cui lo Stato italiano mostra di non essere adeguato sotto il profilo legislativo. La nostra giurisprudenza, in tema di normativa del concubinaggio, ne è una prova clamorosa. Come conferma il giudice Dembele Diarra, un'autorità in materia di poligamia, ex vicepresidente della Corte penale internazionale: «In Italia è possibile essere poligami di fatto senza violare formalmente la legge, anche se essa sanziona il reato di bigamia». L'alto magistrato ha recentemente presieduto un summit fra esperti di diritto di famiglia di sette Paesi (Turchia, Italia, Francia, Mali, Bulgaria, Israele, Senegal). Le parole più sferzanti l'alto magistrato le ha riservate proprio al nostro Paese, dove «le donne sono vittime di questa gravissima forma di violenza che si chiama poligamia». Il motivo? «La vostra legge non è chiara e finisce col legittimare i matrimoni religiosi all'interno delle moschee: riti celebrati da imam privi di scrupoli che non richiedono nessun tipo di certificazione civile». Una procedura contra legem che Ali Abu Shwaima, ex imam della moschea di Segrate, «poligamo praticante» (con due mogli e sette figli), non ha difficoltà a confermare: «Personalmente ho celebrato decine di matrimoni religiosi. Non mi sento assolutamente in colpa. Il problema è solo di voi italiani. La legge è infatti dalla nostra parte. Non solo la Corte Costituzionale ha abrogato l'articolo 560, quello che puniva il concubinato. Ma non si configura nemmeno il reato previsto dall'articolo (...)(...) 556, quello sulla bigamia, considerato che il secondo matrimonio è un semplice matrimonio religioso, senza alcun effetto civile». Dacia Valent, da ex deputato del Pd al Parlamento italiano, presentò un esposto alla Procura di Milano, accusando Ali Abu Shwaima di bigamia. L'esposto fu archiviato. Ancora più tagliente il giudizio di Mohamed Baha' el-Din Ghrewati, ex presidente della Casa della cultura islamica di Milano: «La società che non permette la poligamia è incivile e noi musulmani proponiamo la poligamia come rimedio al fallimento della società italiana». Secondo una ricerca condotta dall'Associazione donne marocchine in Italia, presieduta dall'ex parlamentare del Pdl, Suad Sbai, in Italia i bigami sono circa 20mila (non esistono statistiche ufficiali ma solo stime di riferimento), di cui la metà tra Lombardia e Veneto. Ma come si è arrivati a questo dato? Le moschee che in Italia celebrano matrimoni religiosi hanno un «albo» dove l'imam annota lo status dello sposo, il quale nel 90% dei casi risulta già coniugato civilmente con una donna musulmana (o italiana di fede cristiana oppure italiana convertita all'Islam). A queste celebrazioni bisogna aggiungere i cosiddetti «orfi», vale a dire i matrimoni a tempo, spesso stipulati in consolati o ambasciate compiacenti. Si tratta di un istituto previsto dalla legge islamica: un'unione suggellata da un patto tra marito e moglie, alla presenza del notaio e di due testimoni. I mariti arabi sposati in Italia tornano al loro Paese di origine per contrarre matrimoni a tempo con donne locali che spesso non sanno che il marito è già sposato. Non drammatizza il problema il professor Stefano Allievi, uno dei massimi esperti dell'islam italiano: «Fare un calcolo è impossibile, ma credo che la poligamia nel nostro Paese rappresenti un fenomeno irrilevante: riguarda poche famiglie, all'interno delle quali spesso la presenza di più mogli non crea alcun problema, perché è normale nella cultura di provenienza o perché è accettata anche da donne italiane convertite». Di tenore ben diverso però la denuncia di Suad Sbai: «In nome di un distorto concetto di integrazione e accoglienza l'Italia finisce col far finta di non vedere la piaga della poligamia che rende schiave migliaia di donne, sottoponendole a ogni tipo di vessazione. Una realtà tanto più paradossale considerato che la poligamia è contrastata da decenni in Tunisia, Turchia, Egitto; annullata dal nuovo codice della famiglia marocchino e severamente regolamentata in molti altri Paesi del mondo arabo». Negli ultimi 4 anni sono state un centinaio le sentenze di condanna emesse da tribunali italiani nei confronti di uomini (per lo più originari da Paesi arabi) «rei» (ma solo formalmente) di concubinaggio: le pene inflitte sono state infatti comminate non per il reato di poligamia ma per violenze. In altre parole in Italia, per finire in galera «bisogna» almeno picchiare (o uccidere) una delle mogli dell'harem.Il nostro codice penale, sul tema, è contraddittorio: «Considera la poligamia reato, ma non la persegue come fuorilegge - spiega l'avvocato Michelle Gruosso, esperto di diritto di famiglia -. Motivo? Se solo il primo dei suoi matrimoni è registrato civilmente nel nostro Paese e gli altri sono solo effetto di cerimonie religiose all'interno delle moschee italiane, tutto diventa regolare». Ma anche se entrambi i matrimoni fossero stati registrati civilmente non ci sarebbe troppa differenza: nel 2003 il tribunale di Bologna riconobbe a due figli dello stesso padre il diritto di far arrivare in Italia le rispettive madri, prima e seconda moglie dell'uomo in questione. In questo caso, argomentò il giudice, «il reato non sussiste, essendo entrambe le nozze state contratte in un Paese che le consente». Una sentenza che ha fatto giurisprudenza, finendo col legittimare una pratica che comincia a essere proibita perfino in molti Stati dell'islam moderato. «Indubbiamente ci troviamo di fronte a un problema che finora il diritto europeo non è riuscito a risolvere - sostiene Roberta Aluffi, docente di Diritto islamico all'università di Torino -; la poligamia è contraria al nostro concetto di uguaglianza, ma è vero anche che occorre rispettare una donna che ha contratto matrimonio secondo la religione e la legge del suo Paese e che non può essere spogliata di ogni diritto una volta arrivata qui». Il Corano stabilisce che un uomo possa avere fino a quattro mogli, ma la condizione imprescindibile è che riservi a tutte lo stesso trattamento, in termini di tempo, attenzioni e denaro. «Formalmente - sottolinea l'avvocato Aluffi - già il fatto che lo Stato italiano riconosca solo a una delle spose il titolo di moglie ufficiale non permette di rispettare il principio dell'uguaglianza».
CHI "GESTISCE "I POPOLI DEL MONDO? LE RELIGIONI? L'ISLAM O IL CRISTIANESIMO? ALLAH O JAHVE', CHIAMATO GEOVA? MAOMETTO O GESU'? O FORSE SATANA? Scritto da Nicola Scipione 29 Marzo 2016. Belle domande. Alle quali nessuno, almeno finora, ha saputo, o voluto, dare risposte concrete dimostrabili e credibili. La conferma, in merito, ci sembra la stiano dando tutte le proposte con cui si dice di fermare la "falsa migrazione" in Europa con azioni di guerra, e ciò senza neanche ipotizzare, ad esempio, la possibilità di bloccare il mercato mondiale degli strumenti bellici venduti a chi organizza e controlla gli "invasori". Noi proveremo a rispondere, cercando di suscitare possibili riflessioni, con opportune ricerche sugli interrogativi del titolo. Ma ciò, ovviamente, senza voler nulla togliere all' idea o alla convinzione di chi ritiene che sia attiva nel pianeta Terra l'azione di un creatore unico universale non conoscibile. Col prossimo intervento, però, proporremo altre domande. A nostro avviso, comunque, il mondo non ha bisogno di chi crede di poter "comandare", o "reagire", con violenza reciproca, ma solo di chi sa proporre e coordinare la conoscenza e la riflessione sul senso della vita nel pianeta Terra, da parte delle diverse popolazioni mondiali, e del conseguente rispetto reciproco fra gli umani. Si tratta, insomma, di un problema "culturale" che, però, non pare susciti molti consensi per motivazioni tutte soggettive. Il problema, inoltre, non può riguardare solo il nostro mondo perché nello sconfinato universo ci saranno sicuramente migliaia di altri pianeti abitati con gli stessi problemi.
COMINCIAMO DALLE RELIGIONI.
Premessa. Per evitare ogni possibile interpretazione personalistica su quanto diremo in seguito ci appare doveroso precisare ulteriormente che questo 1° intervento non è finalizzato ad esprimere la nostra personale scelta di una possibile o ipotetica soluzione della problematica che sta quasi sconvolgendo la vita di tutti gli abitanti terrestri. Lo scopo è solo quello di promuovere conoscenza e riflessione proprio sul senso della vita che, almeno per quanto ci appare, non suscita molta attenzione. Non è compito facile; non solo dal punto di vista concettuale, ma anche per la difficoltà di utilizzare le possibili "fonti" culturali, mistificate e mistificanti, della conoscenza necessaria. La nostra indagine ha incontrato interpretazioni spesso in contrasto fra loro ed incoerenti. Speriamo di essere riusciti a compilare una sintesi sufficiente a far riflettere. Chi volesse collaborare a tal fine sarà ben accetto.
Le religioni utili.
Nel mondo i 7 miliardi di abitanti si dividono in 30.547 religioni, dottrine, scuole filosofiche, credenze, sette, culti tribali, che si distinguono in due settori:
a) quelle Rivelate dai Profeti e organizzate con Leggi e Dogmi: il Cristianesimo, l'Islamismo, e l'Ebraismo;
b) quelle Naturali che adottano comportamenti etico-sociali di senso comune, cioè senza Leggi, Dogmi e norme scritte da rispettare comunque.
Nel nostro caso quelle che interessano sono il Cristianesimo e l'Islamismo, le quali, rispettivamente, sono state considerate rivelate da Cristo e da Maometto, come profeti, cioè incaricati da Dio a rappresentarlo sulla Terra.
Non parliamo, per questa occasione, dell'Ebraismo, che ha per Profeta Mosè, ma che si distingue dalle prime due per il rispetto dei principi fissati con un 'altra Bibbia chiamata Torah. Tutte e tre, comunque, hanno, due elementi in comune:
-- 1) l'impossibilità dell'uomo, o la sua insufficienza o incapacità a risolvere tutti i problemi della sua vita materiale e/o di pensiero; In tali casi non gli resta che la speranza di affidarsi ad un'entità superiore, cioè, Dio o altre entità sconosciute, a cui poter chiedere aiuto. La conferma l'ha data anche Papa Ratzinger nell' Enciclica "Spe salvi", sostenendo, con apparente paradosso, che la Fede è proprio l'effetto di tale speranza.
-- 2) il monoteismo, cioè l'adorazione di un solo Dio, a cui tutti si affidano. C'è, però, anche chi, come il filosofo Feuerbach, ha sostenuto, con una battuta, che "non è Dio che ha creato l'uomo, ma l'uomo che ha creato Dio" affidandogli compito e potere di risolvere i suoi problemi. Con ciò scaricandosi delle sue responsabilità naturali.
Lo scienziato A. Einstein non è da meno: " Per me, la parola Dio non è niente di più che un’espressione e un prodotto dell’umana debolezza, e la Bibbia è una collezione di onorevoli ma primitive leggende, che a dire il vero sono piuttosto infantili. " Al contrario, però, non si può negare che molti contenuti e suggerimenti del "testo sacro" sono tuttora validi e utilizzabili per l vita sociale dell'umanità, basta leggere i proverbi della Bibbia. Dopo questa estrema sintesi , finalizzata a suscitare attenzione e riflessione, torniamo al titolo per dire che Cristianesimo e Islamismo , pur se in apparenza , potrebbero avere finalità culturale , ma non concreta, di pensare a "dominare" anche buona parte del pianeta, non hanno, però, a nostro avviso, i connotati pratici di "divinità" per aspirare a tale dominio ordinato da un qualunque Allah al quale potrebbe bastare uno schioccar di dita per regolamentare non solo la Terra , ma tutto l' universo. Ha ragione, dunque, chi dice che ciò che sta accadendo in medio oriente e in Europa non sia una guerra di religione. Il motivo deve essere un altro. Anche perché, come vedremo, le due religioni sono divise da un'enorme contraddizione: il Dio islamico è lo stesso del Dio cristiano, il quale avrebbe rinnegato Cristo per affidarsi a Maometto. Però mentre Allah ordina violenze ed uccisioni di chi non lo rispetta, il Dio Geova cristiano chiede tutto l'opposto. Allora chi dei due comanda di più? Nessuno lo sa. Neanche un ignoto pensatore ne dà la spiegazione dicendo che i due Creatori sono: - Due cose una sola origine. Differisce in nome, la sua identità è mistero. Mistero di tutti i misteri, la porta di tutti gli arcani. - Diventa chiaro come da questa condizione potrebbe venire il dubbio che nessuna delle azioni dell'uomo sulla Terra sia controllata, e/o gestita, da un ipotetico potere divino; tutte cioè, sarebbero, solo frutto della sua personale capacità di pensiero e di intelligenza insita nella natura umana, di cui, però, non si conosce l'origine concreta di provenienza. Ma la cronaca non condivide. Magdi Cristiano Allam, (giornalista di origine islamica italianizzato) sintetizza così, su il Giornale, il suo commento agli attentati di Bruxelles. "Guerra prescritta da Allah e Maometto"" " È una guerra scatenata da un terrorismo islamico che attua letteralmente e integralmente ciò che Allah prescrive nel Corano e ciò che ha detto e ha fatto Maometto"…... "È ora di riscattarci. Cominciamo ad acquisire e a diffondere informazione corretta. Cominciamo a contrastare una cultura e una classe politica che favoriscono l'islamizzazione… demografica e l'infiltrazione del terrorismo islamico in Europa". E poi conclude che la maggioranza dei clandestini che arrivano dalla Libia e dalla Turchia sono islamici che applicano il Corano. C'è, dunque, il timore che il Dio cristiano abbia "adottato" Maometto 7 secoli dopo Cristo? Insomma, anche Magdi sembra credere all' esistenza concreta di Allah e Maometto di cui la storia non ufficiale dice che prima di essere nominato profeta da Allah pare sia stato un poco di buono con numerosi delitti, oltre a "gestire" insieme mogli e concubine. In merito, però, non abbiamo trovato documenti attendibili. Perciò, come si dice a battuta: ""qui lo dico e qui lo nego". Purtroppo alla reazione bellica contro chi sta emigrando verso occidente, sembra che non manchi il sostegno "politico" dell'Onu, dell'Unione Europea e della Chiesa, nonché sul fatto che si dovrebbero spalancare le nostre frontiere. Condividono l'accoglienza Il Presidente Juncker, Papa Francesco, il Presidente Mattarella, e pure Emma Bonino. Ma, ancora purtroppo, non sono soli. Il Presidente Renzi, invece, pare sia indeciso a pronunciarsi. Questa "accoglienza" , però, alla fine, potrebbe confermare, appunto, che non si tratta di una guerra di religione. A tal punto, dunque, ci sembra opportuno e necessario sintetizzare la differenza fra i comandamenti delle due religioni.
LA CRISTIANITA' E L' ISLAM.
Partiamo dalla volgarizzazione semplificatrice dei 10 comandamenti della religione cristiana. Io sono il Signore Dio tuo:
1. Non avrai altro Dio fuori di me.
2. Non nominare il nome di Dio invano.
3. Ricordati di santificare le feste *.
4. Onora il padre e la madre.
5. Non uccidere.
6. Non commettere atti impuri.
7. Non rubare.
8. Non dire falsa testimonianza.
9. Non desiderare la donna d'altri.
10. Non desiderare la roba d'altri.
* Nota sul terzo comandamento: [- La Bibbia non dice "le feste", ma "il giorno del riposo", "il settimo", ossia la nostra domenica -]
Dall' Esodo 20:2-17: Leggiamo ora i dieci comandamenti (con spiegazioni) secondo la sacra bibbia, Parola di Dio.
- 1) "Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me.
- 2) Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
- 3) Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano; perché il Signore non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.
- 4) Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Dio tuo.
- 5) Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà.
- 6) Non uccidere.
- 7) Non commettere adulterio.
- 8) Non rubare.
- 9) Non attestare il falso contro il tuo prossimo.
- 10) Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo.
I "pilastri" degli islamici e i comandamenti dell'isis.
I musulmani fondano la propria vita su cinque pilastri:
1. - la testimonianza della propria fede: vi è un solo Dio, Allah, e Muhammad (Maometto) è il suo messaggero e profeta.
2. - la preghiera: ogni giorno ve ne sono cinque.
3. - le offerte: bisogna donare ai poveri, in quanto tutto ci è stato dato da Allah.
4. - il digiuno: tutti i musulmani devono digiunare durante il Ramadan, il nono mese del calendario islamico.
5. - Hajj : il pellegrinaggio alla Mecca, da fare almeno una volta nella vita, durante il dodicesimo mese del calendario islamico.
Questi, invece, i comandamenti della jihad (guerra santa). L’Isis ha diffuso via Twitter i dieci comandamenti delterrore, che devono essere seguiti dai suoi seguaci per combattere la jihad e imporre la parola di Allah sul mondo. Ma l’elenco è stato già rimosso, così come il profilo che l’ha diffuso. Il decimo comandamento dell’Isis spiega il compito finale dei sostenitori dell’organizzazione: la diffusione della religione islamica come interpretata da al-Baghdadi.(scuola coranica): Tutto il mondo andrà istruito in questo modo, e per evidenziare questa missione il decimo comandamento è diffuso con un’immagine che ritrae i miliziani in mezzo ai bambi (film per ragazzi con cartoni animati di Disnej).
- 1. Dare aiuto perché la parola di Allah domini il mondo. - Questo primo comandamento è stato diffuso con la bandiera nera dell’Isis, per affermare come il califfato sia il vero interprete del messaggio del Profeta Maometto.
- 2. Respingere l’attacco di tutti coloro che aggrediscono i musulmani.
- 3. Fare paura agli infedeli, umiliandoli.
- 4. Allontanare gli idolatri e i deviazionisti dalla comunità dei musulmani.
- 5. Smascherare gli ipocriti.
- 6. Liberarci tutti dai peccati.
- 7. Diventare martiri per amore di Allah.
- 8. Unire la comunità dei musulmani nell’unicità di Allah - Nell’ottavo comandamento l’Isis proclama di essere l’unica rappresentante della volontà di Allah, per guidare incontrastata il mondo islamico.
- 9. Offrire prodotti e servizi di cui i musulmani hanno.
- 10. Diffondere con saggezza e ragione la via di Allah.
A noi non sembra difficile definire impossibile la finalità del decimo comandamento. Comunque, chi vivrà vedrà. Comparazione Corano / Bibbia.
- Jihad per il Regno di Allah: La Jihad è la "guerra santa" contro gli infedeli. L'Islam ha come scopo la conquista territoriale per instaurare un governo islamico con la sharia (legge coranica).
- Gli infedeli: Il Corano esorta a diffidare degli infedeli (compresi ebrei e cristiani) e a ucciderli. Sure 5:54; 47:4; 9:29,123,216.
Gli infedeli e i nemici (secondo la Bibbia). Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi perseguitano. Esodo 23:3-4; Matteo 5:44. Luca 6:27,35; Romani 12:14; 1 Pietro 3:9.
Il concetto di Dio.
Nell' islam: Per un musulmano, Allah è l’Onnipotente, il Creatore e il Sostenitore dell'universo, niente è simile a Lui e nessuno è paragonabile a Lui. Il Profeta Maometto interrogato in merito ha risposto: In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso “Egli Allah è Unico, Allah è l'Assoluto. Non ha generato, non è stato generato, e nessuno è eguale a Lui”. [Corano 112:1-4].
Nel Cristianesimo. Il racconto della rivelazione a Mosè del Nome proprio di Dio si trova in Esodo 3, 13-15: “Allora Mosè disse a Dio: "Ecco, io vado dai figli di Israele e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi! Ma se essi mi domandano qual è il suo nome, che cosa risponderò?". Dio disse a Mosè: "Sono Colui che sono". E aggiunse: "Ai figli di Israele dirai: "Io-Sono", mi ha mandato a voi". Dio disse ancora a Mosè: "Ai figli di Israele parlerai così: "Jahvè", Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome in eterno, questo è il mio ricordo per sempre"”.
La funzione tentatrice di Satana. Sia il Cristianesimo che l' Islam concordano che si tratta di un angelo ribelle a Dio spedito dalla "sede celeste" sulla Terra dove, come entità maligna, in collaborazione con altre entità demoniache, starebbe combattendo Dio e la sua funzione creando nel mondo disagi, disgrazie , malattie , sconvolgimenti tellurici, e quant 'altro di brutto si sta verificando da parecchi anni comprese le migrazioni attuali che appaiono prive di motivazioni credibili , ma ricche di ignoranza e irrazionalità umana. In merito intervengono anche i "testimoni di Geova" i quali sulla base di quanto si legge nella Bibbia (rivelazione 12.12) Satana, nel tempo che stiamo vivendo, starebbe sfogando la sua rabbia perché sa che dopo l'ultima profezia sarà eliminato da Dio Geova per sempre. In tal senso sono d’accordo anche due autorevoli giornalisti di problematiche religiose Paolo Brosio e Antonio Socci secondo i quali nel 2017 scadrebbe il secolo concesso all' azione terrestre di Satana, dopo di che scatterebbe l'Apocalisse con la distruzione quasi totale degli abitanti in Terra, come sarebbe stato annunciato nella seconda parte del terzo segreto di Fatima. Mentre Padre Dolindo Ruotolo, "Servo di Dio" candidato alla santità, ha scritto che Satana ha per fine di screditare Dio e di far apparire come una fresca e deliziosa spensieratezza la vita del mondo, e come un'oppressione la vita dello spirito.
Segreti di Fatima. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I Segreti di Fatima sono, secondo la Chiesa cattolica, tre messaggi rivelati dalla Madonna a tre pastorelli nel corso di alcune apparizioni iniziate il 13 maggio 1917a Fátima in Portogallo. I pastorelli erano i bambini Lucia dos Santos di 10 anni, Francisco Marto di 9 anni e Giacinta Marto di 7 anni. Bisogna precisare che, nonostante si parli sempre di tre segreti, il Segreto di Fatima è considerato dai credenti un'unica rivelazione, divisa in tre parti. Secondo la dottrina cattolica questo fenomeno appartiene alla categoria delle rivelazioni private. La storia dei Segreti di Fatima inizia il 13 luglio 1917, quando i tre bambini riferirono di aver incontrato per la terza volta la Madonna. Nel 1919 morì Francisco, seguito da sua sorella Giacinta, nel 1920, a causa della spagnola, cosicché Lucia divenne l'unica testimone vivente. Nel 1941, a 24 anni dalle apparizioni, suor Lucia, su invito del vescovo monsignor Josè Alves Correia de Silva, scrisse che l'unico segreto che le era stato rivelato il 13 luglio di 24 anni prima, era in realtà diviso in tre parti, di cui la terza non poteva essere ancora svelata. Di conseguenza Lucia comunicò al vescovo solo le prime due parti del segreto, che furono rese pubbliche da Pio XII nel 1942, in occasione della consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria. La terza parte del segreto venne poi scritta da suor Lucia il 3 gennaio 1944, per essere poi affidata in busta chiusa al vescovo di Leiria, che la consegnò a Pio XII. Il terzo segreto avrebbe dovuto essere letto e rivelato solo dopo il 1960, ma Giovanni XXIII, che lo lesse nell'agosto del 1959, ritenne opportuno non rivelarlo; la stessa decisione fu presa da Paolo VI, che lesse il testo nel 1965. Giovanni Paolo II, il 13 maggio 2000, in occasione della beatificazione di Giacinta e Francisco, annunciò di volerne divulgare il contenuto. I tre segreti sarebbero un unico messaggio, diviso in tre parti. Riguardo al primo, suor Lucia scrive che la Madonna mostrò ai tre pastorelli: «...un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco, i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana che fluttuavano nell'incendio[...]. I demoni si riconoscevano dalle forme orribili e ributtanti di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti e neri. Questa visione durò un momento. E grazie alla nostra buona Madre del Cielo, che prima ci aveva prevenuti con la promessa di portarci in Cielo (nella prima apparizione), altrimenti credo che saremmo morti di spavento e di terrore.» In pratica, la prima parte del segreto parla della visione dell'inferno. Suor Lucia, scrive di "un grande mare di fuoco, con demoni e anime", citando le parole della Madonna: «Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace. La guerra sta per finire; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace.» Suor Lucia disse di riconoscere il "grande segno" nella straordinaria aurora boreale che illuminò il cielo nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1938 (dalle 20:45 all'1:15, con brevi intervalli), inoltre identificò il secondo conflitto mondiale con quello annunciato nella visione, descrivendolo come «Una guerra atea, contro la fede, contro Dio, contro il popolo di Dio. Una guerra che voleva sterminare il giudaismo da dove provenivano Gesù Cristo, la Madonna e gli Apostoli che ci hanno trasmesso la parola di Dio e il dono della fede, della speranza e della carità, popolo eletto da Dio, scelto fin dal principio: "la salvezza viene dai giudei"» In effetti la Seconda Guerra Mondiale scoppiò (1º settembre 1939) durante il pontificato di papa Pio XII, essendo il suo predecessore Pio XI, nominato nella profezia, morto il 10 febbraio 1939. Inoltre la profezia fu rivelata da suor Lucia nel 1941, dopo l'inizio del conflitto stesso. Ma suor Lucia affermò che la Seconda Guerra Mondiale era iniziata, in realtà, durante il regno di Pio XI, con l'annessione dell'Austria. Il terzo segreto venne scritto separatamente da suor Lucia, nella lettera consegnata nel 1944 al vescovo di Leiria: « Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l'Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa, che è Dio, ("qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti") un vescovo vestito di bianco, ("abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre") insieme a vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c'era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo, con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce, venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c'erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio. » Il terzo segreto, rivelato solo nel 2000, secondo l'allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, si riferirebbe alla Penitenza e al sacrificio dei martiri della Chiesa. Suor Lucia avrebbe ricevuto, dopo il 1917, altre rivelazioni. Nel suo scritto "Memorie di Suor Lucia", lei stessa rivela i dettagli, ricevuti il 13 giugno 1929: "Poi la Madonna mi disse: «È arrivato il momento in cui Dio chiede che il Santo Padre faccia, in unione con tutti i Vescovi del Mondo, la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato, promettendo di salvarla con questo mezzo. Sono tante le anime che la giustizia di Dio condanna per i peccati commessi contro di Me, che vengo a chiedere riparazione: sacrificati per questa intenzione e prega». Informai di tutto il confessore, che mi ordinò di scrivere ciò che la Madonna voleva che si facesse." Suor Lucia rivela anche che successivamente, ma la data non è specificata e non sappiamo se ciò sarebbe avvenuto giorni o anni dopo, la Madonna le avrebbe detto lamentandosi: «Non hanno voluto soddisfare la Mia richiesta! Come il re di Francia, si pentiranno e la faranno, ma sarà tardi. La Russia avrà già sparso i suoi errori per il mondo, provocando guerre e persecuzioni alla Chiesa: il Santo Padre avrà molto da soffrire». Nel 1963 la rivista tedesca Neues Europa pubblicò una versione del testo in cui erano presenti riferimenti ad una guerra nucleare su vasta scala e ad una grave crisi della Chiesa cattolica. L'editore della rivista, Louis Emrich, disse di avere avuto il testo da un esponente della diplomazia; secondo la fonte, papa Giovanni XXIII avrebbe incaricato il cardinale Alfredo Ottaviani di preparare un estratto del testo originale per inviarlo ai vertici delle grandi potenze mondiali allo scopo di scongiurare lo scoppio di una nuova guerra mondiale. Il testo dell'articolo, ripreso da altri giornali, ebbe una grande diffusione e in riferimento alla presunta fonte fu definito "versione diplomatica". Diversi studiosi hanno messo in rilievo numerose incongruenze riguardanti la struttura e il contenuto del testo, arrivando alla conclusione che si trattava di un falso. Nessun commento ufficiale sul testo divulgato da Neues Europa venne effettuato dalla Santa Sede, tuttavia una smentita indiretta giunse dal cardinale Ottaviani, che nel 1967 affermò che non aveva senso discutere dei contenuti del Terzo segreto di Fatima poiché nessuna parte di questo era stata rivelata. Alcuni studiosi delle apparizioni di Fatima, fra cui il sacerdote Padre Nicholas Gruner, il giornalista italiano Antonio Socci e l'avvocato americano Christopher A. Ferrara, sostengono la tesi che non tutto del Terzo segreto di Fatima sia stato ancora rivelato. In particolare ritengono che dopo la frase di suor Lucia, contenuta nella sua quarta memoria: "In Portogallo, si conserverà sempre il dogma della fede", ci debba essere dell'altro. Il terzo segreto è infatti una visione, e così come la Madonna spiega nella seconda parte del segreto la visione contenuta nella prima parte, analogamente ritengono che debba esistere una quarta parte che spiega la visione contenuta nel terzo segreto. Inoltre il movimento fatimita, guidato da Padre N. Gruner, sostiene fermamente che la consacrazione della Russia richiesta dalla Madonna a suor Lucia non sia stata compiuta nei termini e nei modi richiesti, e quindi sarebbe ancora da fare. Papa Paolo VI, chiudendo la III Sessione del Concilio Vaticano II, il 21 novembre 1964, “affidò il genere umano” al Cuore Immacolato di Maria, nella stessa cerimonia in cui, applaudito in piedi dai Padri Conciliari, proclamò la Madonna “Mater Ecclesiae” (cfr. Insegnamenti di Paolo VI, vol. II, 1964, p. 678). Giovanni Paolo II fece due consacrazioni del mondo al Cuore Immacolato di Maria, una a Fatima, il 13 maggio 1982, e l'altra a Roma, il 25 marzo 1984. Nel villaggio di Hrushiw (Grushew, o Gruscevo), in Ucraina, il 12 maggio 1914 (il 13 maggio ricorre l'apparizione di Fatima) la Vergine sarebbe apparsa a 22 contadini per un giorno, profetizzando che l'Ucraina avrebbe perso la sovranità e che per otto decenni ci sarebbero state sofferenze e persecuzioni, al termine delle quali la cristianità avrebbe trionfato e l'Ucraina sarebbe tornata libera; predicendo inoltre che lo scoppio della guerra mondiale era imminente e che la Russia sarebbe diventata un paese senza Dio. Il 26 aprile 1987 sarebbe avvenuta, in una cappella sconsacrata dal 1957, l'apparizione della Madonna a Maria Kyzyn, visibile per un mese ai pellegrini che giungevano al villaggio al ritmo di 80.000 al giorno. Nella apparizioni alla Kyzin, la Madonna invita la Russia a convertirsi al cristianesimo, senza accennare a una mancata consacrazione papale della Russia al Cuore di Maria. "È per tramite vostro e del sangue dei martiri che avverrà la conversione della Russia. Pentitevi e amatevi gli uni e gli altri. Stanno per arrivare i tempi che sono stati preannunciati come quelli della fine del tempo; guardate la desolazione che circonda il mondo: i peccati, l'accidia, il genocidio...Se per la Russia non c'è ritorno al cristianesimo, ci sarà una terza guerra mondiale e il mondo intero si troverà davanti alla rovina".
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE. IL MESSAGGIO DI FATIMA. PRESENTAZIONE. Pubblicato su “Vatican.va”. Nel passaggio dal secondo al terzo millennio il Papa Giovanni Paolo II ha deciso di rendere pubblico il testo della terza parte del «segreto di Fatima». Dopo gli eventi drammatici e crudeli del secolo XX°, uno dei più cruciali della storia dell'uomo, culminato con l'attentato cruento al «dolce Cristo in terra», si apre dunque un velo su di una realtà che fa storia e che la interpreta in profondità, secondo una dimensione spirituale a cui la mentalità odierna, spesso venata di razionalismo, è refrattaria. Apparizioni e segni soprannaturali punteggiano la storia, entrano nel vivo delle vicende umane e accompagnano il cammino del mondo, sorprendendo credenti e non credenti. Queste manifestazioni, che non possono contraddire il contenuto della fede, devono convergere verso l'oggetto centrale dell'annuncio di Cristo: l'amore del Padre che suscita negli uomini la conversione e dona la grazia per abbandonarsi a Lui con devozione filiale. Tale è anche il messaggio di Fatima che, con l'accorato appello alla conversione e alla penitenza, sospinge in realtà al cuore del Vangelo. Fatima è senza dubbio la più profetica delle apparizioni moderne. La prima e la seconda parte del «segreto» — che vengono pubblicate nell'ordine per completezza di documentazione — riguardano anzitutto la spaventosa visione dell'inferno, la devozione al Cuore Immacolato di Maria, la seconda guerra mondiale, e poi la previsione dei danni immani che la Russia, nella sua defezione dalla fede cristiana e nell'adesione al totalitarismo comunista, avrebbe recato all'umanità. Nessuno nel 1917 avrebbe potuto immaginare tutto questo: i tre pastorinhos di Fatima vedono, ascoltano, memorizzano, e Lucia, la testimone sopravvissuta, nel momento in cui riceve il comando del Vescovo di Leiria e il permesso di Nostra Signora, mette per iscritto. Per quanto riguarda la descrizione delle prime due parti del «segreto», peraltro già pubblicato e perciò conosciuto, è stato scelto il testo scritto da Suor Lucia nella terza memoria del 31 agosto 1941; nella quarta memoria dell'8 dicembre 1941 vi aggiunge poi qualche annotazione. La terza parte del «segreto» fu scritta «per ordine di Sua Eccellenza il Vescovo di Leiria e della Santissima Madre...» il 3 gennaio 1944. Esiste un solo manoscritto, che viene qui riprodotto fotostaticamente. La busta sigillata fu custodita dapprima dal Vescovo di Leiria. Per meglio tutelare il «segreto», la busta fu consegnata il 4 aprile 1957 all'Archivio Segreto del Sant'Uffizio. Suor Lucia fu avvertita di ciò dal Vescovo di Leiria. Secondo appunti d'Archivio, d'accordo con l'Em.mo Card. Alfredo Ottaviani, il 17 agosto 1959 il Commissario del Sant'Uffizio, Padre Pierre Paul Philippe, O.P., portò a Giovanni XXIII la busta contenente la terza parte del «segreto di Fatima». Sua Santità «dopo talune esitazioni» disse: «Aspettiamo. Pregherò. Le farò sapere ciò che ho deciso». In realtà Papa Giovanni XXIII decise di rinviare la busta sigillata al Sant'Uffizio e di non rivelare la terza parte del «segreto». Paolo VI lesse il contenuto con il Sostituto Sua Ecc.za Mons. Angelo Dell'Acqua, il 27 marzo 1965, e rinviò la busta all'Archivio del Sant'Uffizio, con la decisione di non pubblicare il testo. Giovanni Paolo II, da parte sua, ha richiesto la busta contenente la terza parte del «segreto» dopo l'attentato del 13 maggio 1981. Sua Eminenza il Card. Franjo Seper, Prefetto della Congregazione, consegnò a Sua Ecc.za Mons. Eduardo Martinez Somalo, Sostituto della Segreteria di Stato, il 18 luglio 1981, due buste: – una bianca, con il testo originale di Suor Lucia in lingua portoghese; – un'altra color arancione, con la traduzione del «segreto» in lingua italiana. L'11 agosto seguente Mons. Martinez ha restituito le due buste all'Archivio del Sant'Uffizio. Come è noto Papa Giovanni Paolo II pensò subito alla consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria e compose egli stesso una preghiera per quello che definì «Atto di affidamento» da celebrarsi nella Basilica di Santa Maria Maggiore il 7 giugno 1981, solennità di Pentecoste, giorno scelto per ricordare il 1600° anniversario del primo Concilio Costantinopolitano, e il 1550° anniversario del Concilio di Efeso. Essendo il Papa forzatamente assente venne trasmessa la sua allocuzione registrata. Riportiamo il testo che si riferisce esattamente all'atto di affidamento: « O Madre degli uomini e dei popoli, Tu conosci tutte le loro sofferenze e le loro speranze, Tu senti maternamente tutte le lotte tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre che scuotono il mondo, accogli il nostro grido rivolto nello Spirito Santo direttamente al Tuo cuore ed abbraccia con l'amore della Madre e della Serva del Signore coloro che questo abbraccio più aspettano, e insieme coloro il cui affidamento Tu pure attendi in modo particolare. Prendi sotto la Tua protezione materna l'intera famiglia umana che, con affettuoso trasporto, a Te, o Madre, noi affidiamo. S'avvicini per tutti il tempo della pace e della libertà, il tempo della verità, della giustizia e della speranza». Ma il Santo Padre, per rispondere più pienamente alle domande di «Nostra Signora» volle esplicitare durante l'Anno Santo della Redenzione l'atto di affidamento del 7 giugno 1981, ripetuto a Fatima il 13 maggio 1982. Nel ricordo del Fiat pronunciato da Maria al momento dell'Annunciazione, il 25 marzo 1984 in piazza San Pietro, in unione spirituale con tutti i Vescovi del mondo, precedentemente « convocati », il Papa affida al Cuore Immacolato di Maria gli uomini e i popoli, con accenti che rievocano le accorate parole pronunciate nel 1981: « E perciò, o Madre degli uomini e dei popoli, Tu che conosci tutte le loro sofferenze e le loro speranze, Tu che senti maternamente tutte le lotte tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, che scuotono il mondo contemporaneo, accogli il nostro grido che, mossi dallo Spirito Santo, rivolgiamo direttamente al Tuo Cuore: abbraccia con amore di Madre e di Serva del Signore, questo nostro mondo umano, che Ti affidiamo e consacriamo, pieni di inquietudine per la sorte terrena ed eterna degli uomini e dei popoli. In modo speciale Ti affidiamo e consacriamo quegli uomini e quelle nazioni, che di questo affidamento e di questa consacrazione hanno particolarmente bisogno. “Sotto la Tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio”! Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova!» Poi il Papa continua con maggiore forza e concretezza di riferimenti, quasi commentando il Messaggio di Fatima nei suoi tristi avveramenti: «Ecco, trovandoci davanti a Te, Madre di Cristo, dinanzi al Tuo Cuore Immacolato, desideriamo, insieme con tutta la Chiesa, unirci alla consacrazione che, per amore nostro, il Figlio Tuo ha fatto di se stesso al Padre: “Per loro — egli ha detto — io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità” (Gv 17, 19). Vogliamo unirci al nostro Redentore in questa consacrazione per il mondo e per gli uomini, la quale, nel suo Cuore divino, ha la potenza di ottenere il perdono e di procurare la riparazione. La potenza di questa consacrazione dura per tutti i tempi ed abbraccia tutti gli uomini, i popoli e le nazioni, e supera ogni male, che lo spirito delle tenebre è capace di ridestare nel cuore dell'uomo e nella sua storia e che, di fatto, ha ridestato nei nostri tempi. Oh, quanto profondamente sentiamo il bisogno di consacrazione per l'umanità e per il mondo: per il nostro mondo contemporaneo, in unione con Cristo stesso! L'opera redentrice di Cristo, infatti, deve essere partecipata dal mondo per mezzo della Chiesa. Lo manifesta il presente Anno della Redenzione: il Giubileo straordinario di tutta la Chiesa.
Sii benedetta, in questo Anno Santo, sopra ogni creatura Tu, Serva del Signore, che nel modo più pieno obbedisti alla Divina chiamata!
Sii salutata Tu, che sei interamente unita alla consacrazione redentrice del Tuo Figlio!
Madre della Chiesa! Illumina il Popolo di Dio sulle vie della fede, della speranza e della carità! Illumina specialmente i popoli di cui Tu aspetti la nostra consacrazione e il nostro affidamento. Aiutaci a vivere nella verità della consacrazione di Cristo per l'intera famiglia umana del mondo contemporaneo.
AffidandoTi, o Madre, il mondo, tutti gli uomini e tutti i popoli, Ti affidiamo anche la stessa consacrazione del mondo, mettendola nel Tuo Cuore materno.
Oh, Cuore Immacolato! Aiutaci a vincere la minaccia del male, che così facilmente si radica nei cuori degli uomini d'oggi e che nei suoi effetti incommensurabili già grava sulla vita presente e sembra chiudere le vie verso il futuro!
Dalla fame e dalla guerra, liberaci!
Dalla guerra nucleare, da un'autodistruzione incalcolabile, da ogni genere di guerra, liberaci!
Dai peccati contro la vita dell'uomo sin dai suoi albori, liberaci!
Dall'odio e dall'avvilimento della dignità dei figli di Dio, liberaci!
Da ogni genere di ingiustizia nella vita sociale, nazionale e internazionale, liberaci!
Dalla facilità di calpestare i comandamenti di Dio, liberaci!
Dal tentativo di offuscare nei cuori umani la verità stessa di Dio, liberaci!
Dallo smarrimento della coscienza del bene e del male, liberaci!
Dai peccati contro lo Spirito Santo, liberaci! liberaci!
Accogli, o Madre di Cristo, questo grido carico della sofferenza di tutti gli uomini! Carico della sofferenza di intere società!
Aiutaci con la potenza dello Spirito Santo a vincere ogni peccato: il peccato dell'uomo e il “peccato del mondo”, il peccato in ogni sua manifestazione.
Si riveli, ancora una volta, nella storia del mondo l'infinita potenza salvifica della Redenzione: potenza dell'Amore misericordioso! Che esso arresti il male! Trasformi le coscienze! Nel Tuo Cuore Immacolato si sveli per tutti la luce della Speranza! ».
Suor Lucia confermò personalmente che tale atto solenne e universale di consacrazione corrispondeva a quanto voleva Nostra Signora (« Sim, està feita, tal como Nossa Senhora a pediu, desde o dia 25 de Março de 1984 »: « Sì, è stata fatta, così come Nostra Signora l'aveva chiesto, il 25 marzo 1984 »: lettera dell'8 novembre 1989). Ogni discussione perciò ed ogni ulteriore petizione sono senza fondamento. Nella documentazione che viene offerta si aggiungono ai manoscritti di Suor Lucia quattro altri testi:
1) la lettera del Santo Padre a Suor Lucia in data 19 aprile 2000;
2) una descrizione del colloquio avuto con Suor Lucia in data 27 aprile 2000;
3) la comunicazione letta per incarico del Santo Padre, a Fatima il 13 maggio c.a. da Sua Eminenza il Card. Angelo Sodano, Segretario di Stato;
4) il commento teologico di Sua Eminenza il Card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un'indicazione per l'interpretazione della terza parte del «segreto» era già stata offerta da Suor Lucia in una lettera al Santo Padre del 12 maggio 1982. In essa dice: «La terza parte del segreto si riferisce alle parole di Nostra Signora: “Se no [la Russia] spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte” (13-VII-1917). La terza parte del segreto è una rivelazione simbolica, che si riferisce a questa parte del Messaggio, condizionato dal fatto se accettiamo o no ciò che il Messaggio stesso ci chiede: “Se accetteranno le mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, ecc.”. Dal momento che non abbiamo tenuto conto di questo appello del Messaggio, verifichiamo che esso si è compiuto, la Russia ha invaso il mondo con i suoi errori. E se non constatiamo ancora la consumazione completa del finale di questa profezia, vediamo che vi siamo incamminati a poco a poco a larghi passi. Se non rinunciamo al cammino di peccato, di odio, di vendetta, di ingiustizia violando i diritti della persona umana, di immoralità e di violenza, ecc. E non diciamo che è Dio che così ci castiga; al contrario sono gli uomini che da se stessi si preparano il castigo. Dio premurosamente ci avverte e chiama al buon cammino, rispettando la libertà che ci ha dato; perciò gli uomini sono responsabili». La decisione del Santo Padre Giovanni Paolo II di rendere pubblica la terza parte del «segreto» di Fatima chiude un tratto di storia, segnata da tragiche volontà umane di potenza e di iniquità, ma permeata dall'amore misericordioso di Dio e dalla premurosa vigilanza della Madre di Gesù e della Chiesa. Azione di Dio, Signore della storia, e corresponsabilità dell'uomo, nella sua drammatica e feconda libertà, sono i due perni sui quali si costruisce la storia dell'umanità. La Madonna apparsa a Fatima ci richiama a questi valori dimenticati, a questo avvenire dell'uomo in Dio, di cui siamo parte attiva e responsabile. Tarcisio Bertone, SDB Arcivescovo emerito di Vercelli Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede
IL «SEGRETO» DI FATIMA PRIMA E SECONDA PARTE DEL « SEGRETO » NELLA REDAZIONE FATTANE DA SUOR LUCIA NELLA « TERZA MEMORIA » DEL 31 AGOSTO 1941, DESTINATA AL VESCOVO DI LEIRIA-FATIMA (testo originale) (traduzione). Dovrò, perciò parlare un po' del segreto e rispondere al primo punto interrogativo. Cos'è il segreto. Mi pare di poterlo dire, perché dal Cielo ne ho già il permesso. I rappresentanti di Dio in terra mi hanno pure autorizzata, varie volte in varie lettere, una delle quali credo sia conservata dall'Ecc. V. Rev.ma, quella del P. Giuseppe Bernardo Gonçalves, nella quale mi ordina di scrivere al Santo Padre. Uno dei punti che mi indica, è la rivelazione del segreto. Qualcosa ho detto, ma per non allungare troppo quello scritto, che doveva essere breve, mi limitai all'indispensabile lasciando a Dio l'opportunità d'un momento più favorevole. Ho già esposto nel secondo scritto, il dubbio che mi tormentò dal 13 giugno al 13 luglio, e che in quest'apparizione svanì. Bene. Il segreto consta di tre cose distinte, due delle quali sto per rivelare. La prima dunque, fu la visione dell'inferno. La Madonna ci mostrò un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco, i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana che fluttuavano nell'incendio, portate dalle fiamme che uscivano da loro stesse insieme a nuvole di fumo, cadendo da tutte le parti simili al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione che mettevano orrore e facevano tremare dalla paura. I demoni si riconoscevano dalle forme orribili e ributtanti di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti e neri. Questa visione durò un momento. E grazie alla nostra buona Madre del Cielo, che prima ci aveva prevenuti con la promessa di portarci in Cielo (nella prima apparizione), altrimenti credo che saremmo morti di spavento e di terrore. In seguito alzammo gli occhi alla Madonna che ci disse con bontà e tristezza: — Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace. La guerra sta per finire; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace.
TERZA PARTE DEL «SEGRETO» (testo originale) (traduzione). «J.M.J. La terza parte del segreto rivelato il 13 luglio 1917 nella Cova di Iria-Fatima. Scrivo in atto di obbedienza a Voi mio Dio, che me lo comandate per mezzo di sua Ecc.za Rev.ma il Signor Vescovo di Leiria e della Vostra e mia Santissima Madre. Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l'Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c'era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c'erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio. Tuy-3-1-1944».
INTERPRETAZIONE DEL «SEGRETO» LETTERA DI GIOVANNI PAOLO II A SUOR LUCIA (testo originale). (Traduzione). Reverenda Suor Maria Lucia. Convento di Coimbra. Nel tripudio delle feste pasquali Le porgo l'augurio di Gesù Risorto ai discepoli: «La pace sia con te!». Sarò lieto di poterLa incontrare nell'atteso giorno della beatificazione di Francesco e Giacinta che, a Dio piacendo proclamerò il 13 maggio p.v. Siccome però in quel giorno non ci sarà il tempo per un colloquio, ma solo per un breve saluto, ho incaricato appositamente di venire a parlare con Lei Sua Eccellenza Monsignor Tarcisio Bertone, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. È la Congregazione che collabora più strettamente col Papa per la difesa della vera fede cattolica, e che ha conservato, come Lei sa, dal 1957, la Sua lettera manoscritta contenente la terza parte del segreto rivelato il 13 luglio 1917 nella Cova di Iria, Fatima. Monsignor Bertone, accompagnato dal Vescovo di Leiria, Sua Eccellenza Monsignor Serafim de Sousa Ferreira e Silva, viene a mio nome per fare qualche domanda sull'interpretazione della «terza parte del segreto». Reverenda Suor Maria Lucia, parli pure apertamente e sinceramente a Monsignor Bertone, che riferirà direttamente a me le Sue risposte. Prego ardentemente la Madre del Risorto per Lei, per la Comunità di Coimbra e per tutta la Chiesa. Maria, Madre dell'Umanità pellegrina, ci tenga sempre stretti a Gesù, Suo Figlio diletto e nostro Fratello, Signore della vita e della gloria. Con una speciale benedizione apostolica. GIOVANNI PAOLO II. Vaticano, 19 aprile 2000.
COLLOQUIO AVUTO CON SUOR MARIA LUCIA DE JESUS E DO CORAÇÃO IMACULADO. L'appuntamento di Suor Lucia con Sua Ecc.za Mons. Tarcisio Bertone, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, incaricato dal Santo Padre, e Sua Ecc.za Mons. Serafim de Sousa Ferreira e Silva, Vescovo di Leiria-Fatima, è avvenuto giovedì 27 aprile u.s., nel Carmelo di Santa Teresa di Coimbra. Suor Lucia era lucida e serena; era molto contenta dell'andata a Fatima del Santo Padre per la Beatificazione di Francesco e Giacinta, da lei tanto attesa. Il Vescovo di Leiria-Fatima lesse la lettera autografa del Santo Padre che spiegava i motivi della visita. Suor Lucia se ne sentì onorata e la rilesse personalmente contemplandola nelle proprie mani. Si disse disposta a rispondere francamente a tutte le domande. A questo punto Sua Ecc.za Mons. Tarcisio Bertone le presenta le due buste: quella esterna e quella con dentro la lettera contenente la terza parte del «segreto» di Fatima ed essa dice subito, toccandola con le dita: «è la mia carta», e poi leggendola: «è la mia scrittura». Con l'aiuto del Vescovo di Leiria-Fatima, viene letto e interpretato il testo originale, che è in lingua portoghese. Suor Lucia condivide l'interpretazione secondo cui la terza parte del «segreto» consiste in una visione profetica, paragonabile a quelle della storia sacra. Essa ribadisce la sua convinzione che la visione di Fatima riguarda soprattutto la lotta del comunismo ateo contro la Chiesa e i cristiani, e descrive l'immane sofferenza delle vittime della fede nel XX° secolo. Alla domanda: «Il personaggio principale della visione è il Papa?», Suor Lucia risponde subito di sì e ricorda che i tre pastorelli erano molto addolorati della sofferenza del Papa e Giacinta ripeteva: «Coitadinho do Santo Padre, tenho muita pena dos pecadores!» («Poverino il Santo Padre, ho molta pena per i peccatori!»). Suor Lucia continua: «Noi non sapevamo il nome del Papa, la Signora non ci ha detto il nome del Papa, non sapevamo se era Benedetto XV o Pio XII o Paolo VI o Giovanni Paolo II, però era il Papa che soffriva e faceva soffrire anche noi». Quanto al passo concernente il Vescovo vestito di bianco, cioè il Santo Padre — come subito percepirono i pastorelli durante la «visione» — che è colpito a morte e cade per terra, Suor Lucia condivide pienamente l'affermazione del Papa: «fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte» (Giovanni Paolo II, Meditazione dal Policlinico Gemelli ai Vescovi Italiani, 13 maggio 1994). Poiché Suor Lucia, prima di consegnare all'allora Vescovo di Leiria-Fatima la busta sigillata contenente la terza parte del «segreto», aveva scritto sulla busta esterna che poteva essere aperta solo dopo il 1960, o dal Patriarca di Lisbona o dal Vescovo di Leiria, Sua Ecc.za Mons. Bertone le domanda: «perché la scadenza del 1960? È stata la Madonna ad indicare quella data?». Suor Lucia risponde: «Non è stata la Signora, ma sono stata io a mettere la data del 1960 perché secondo la mia intuizione, prima del 1960 non si sarebbe capito, si sarebbe capito solo dopo. Ora si può capire meglio. Io ho scritto ciò che ho visto, non spetta a me l'interpretazione, ma al Papa». Infine viene menzionato il manoscritto non pubblicato che Suor Lucia ha preparato come risposta a tante lettere di devoti della Madonna e di pellegrini. L'opera reca il titolo «Os apelos da Mensagen de Fatima» e raccoglie pensieri e riflessioni che esprimono i suoi sentimenti e la sua limpida e semplice spiritualità, in chiave catechistica e parenetica. Le è stato chiesto se era contenta che fosse pubblicato, ed ha risposto: «Se il Santo Padre è d'accordo, io sono contenta, altrimenti obbedisco a ciò che decide il Santo Padre». Suor Lucia desidera sottoporre il testo all'approvazione dell'Autorità ecclesiastica, e nutre la speranza di contribuire con il suo scritto a guidare gli uomini e le donne di buona volontà nel cammino che conduce a Dio, termine ultimo di ogni umana attesa. Il colloquio si conclude con uno scambio di rosari: a Suor Lucia viene consegnato quello donato dal Santo Padre, ed ella, a sua volta, consegna alcuni rosari da lei personalmente confezionati. La benedizione impartita a nome del Santo Padre chiude l'incontro.
COMUNICAZIONE DI SUA EMINENZA IL CARD. ANGELO SODANO SEGRETARIO DI STATO DI SUA SANTITÀ. Al termine della solenne Concelebrazione Eucaristica presieduta da Giovanni Paolo II a Fatima, il Cardinale Angelo Sodano, Segretario di Stato, ha pronunciato in portoghese le parole che qui riportiamo nella traduzione italiana. Fratelli e sorelle nel Signore! Al termine di questa solenne celebrazione, sento il dovere di porgere al nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II gli auguri più cordiali di tutti i presenti per il Suo prossimo 80° compleanno, ringraziandolo per il Suo prezioso ministero pastorale per il bene di tutta la Santa Chiesa di Dio, formuliamo i voti più cordiali di tutta la Chiesa. Nella solenne circostanza della Sua venuta a Fatima, il Sommo Pontefice mi ha incaricato di darvi un annuncio. Come è noto, scopo della Sua venuta a Fatima è stata la beatificazione dei due pastorinhos. Egli tuttavia vuole attribuire a questo Suo pellegrinaggio anche il valore di un rinnovato gesto di gratitudine verso la Madonna per la protezione a Lui accordata durante questi anni di pontificato. È una protezione che sembra toccare anche la cosiddetta terza parte del «segreto » di Fatima. Tale testo costituisce una visione profetica paragonabile a quelle della Sacra Scrittura, che non descrivono in senso fotografico i dettagli degli avvenimenti futuri, ma sintetizzano e condensano su un medesimo sfondo fatti che si distendono nel tempo in una successione e in una durata non precisate. Di conseguenza la chiave di lettura del testo non può che essere di carattere simbolico. La visione di Fatima riguarda soprattutto la lotta dei sistemi atei contro la Chiesa e i cristiani e descrive l'immane sofferenza dei testimoni della fede dell'ultimo secolo del secondo millennio. È una interminabile Via Crucis guidata dai Papi del ventesimo secolo. Secondo l'interpretazione dei pastorinhos, interpretazione confermata anche recentemente da Suor Lucia, il «Vescovo vestito di bianco» che prega per tutti i fedeli è il Papa. Anch'Egli, camminando faticosamente verso la Croce tra i cadaveri dei martirizzati (vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e numerosi laici) cade a terra come morto, sotto i colpi di arma da fuoco. Dopo l'attentato del 13 maggio 1981, a Sua Santità apparve chiaro che era stata «una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola», permettendo al «Papa agonizzante» di fermarsi «sulla soglia della morte» (Giovanni Paolo II, Meditazione con i Vescovi italiani dal Policlinico Gemelli, in: Insegnamenti, vol. XVII1, 1994, p. 1061). In occasione di un passaggio da Roma dell'allora Vescovo di Leiria-Fatima, il Papa decise di consegnargli la pallottola, che era rimasta nella jeep dopo l'attentato, perché fosse custodita nel Santuario. Per iniziativa del Vescovo essa fu poi incastonata nella corona della statua della Madonna di Fatima. I successivi avvenimenti del 1989 hanno portato, sia in Unione Sovietica che in numerosi Paesi dell'Est, alla caduta del regime comunista che propugnava l'ateismo. Anche per questo il Sommo Pontefice ringrazia dal profondo del cuore la Vergine Santissima. Tuttavia, in altre parti del mondo gli attacchi contro la Chiesa e i cristiani, con il peso di sofferenza che portano con sé, non sono purtroppo cessati. Anche se le vicende a cui fa riferimento la terza parte del «segreto» di Fatima sembrano ormai appartenere al passato, la chiamata della Madonna alla conversione e alla penitenza, pronunciata all'inizio del ventesimo secolo, conserva ancora oggi una sua stimolante attualità. «La Signora del messaggio sembra leggere con una singolare perspicacia i segni dei tempi, i segni del nostro tempo... L'insistente invito di Maria Santissima alla penitenza non è che la manifestazione della sua sollecitudine materna per le sorti della famiglia umana, bisognosa di conversione e di perdono» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato 1997, n. 1, in: Insegnamenti, vol. XIX2, 1996, p. 561). Per consentire ai fedeli di meglio recepire il messaggio della Vergine di Fatima, il Papa ha affidato alla Congregazione per la Dottrina della Fede il compito di rendere pubblica la terza parte del «segreto», dopo averne preparato un opportuno commento. Fratelli e sorelle, ringraziamo la Madonna di Fatima della sua protezione. Alla sua materna intercessione affidiamo la Chiesa del Terzo Millennio. Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genetrix! Intercede pro Ecclesia. Intercede pro Papa nostro Ioanne Paulo II. Amen. Fatima, 13 maggio 2000.
COMMENTO TEOLOGICO. Chi legge con attenzione il testo del cosiddetto terzo «segreto» di Fatima, che dopo lungo tempo per disposizione del Santo Padre viene qui pubblicato nella sua interezza, resterà presumibilmente deluso o meravigliato dopo tutte le speculazioni che sono state fatte. Nessun grande mistero viene svelato; il velo del futuro non viene squarciato. Vediamo la Chiesa dei martiri del secolo ora trascorso rappresentata mediante una scena descritta con un linguaggio simbolico di difficile decifrazione. È questo ciò che la Madre del Signore voleva comunicare alla cristianità, all'umanità in un tempo di grandi problemi e angustie? Ci è di aiuto all'inizio del nuovo millennio? Ovvero sono forse solamente proiezioni del mondo interiore di bambini, cresciuti in un ambiente di profonda pietà, ma allo stesso tempo sconvolti dalle bufere che minacciavano il loro tempo? Come dobbiamo intendere la visione, che cosa pensarne? Rivelazione pubblica e rivelazioni private – il loro luogo teologico. Prima di intraprendere un tentativo di interpretazione, le cui linee essenziali si possono trovare nella comunicazione che il Cardinale Sodano ha pronunciato il 13 maggio di quest'anno alla fine della celebrazione eucaristica presieduta dal Santo Padre a Fatima, sono necessarie alcune chiarificazioni di fondo circa il modo in cui, secondo la dottrina della Chiesa, devono essere compresi all'interno della vita di fede fenomeni come quello di Fatima. L'insegnamento della Chiesa distingue fra la «rivelazione pubblica» e le «rivelazioni private». Fra le due realtà vi è una differenza non solo di grado ma di essenza. Il termine «rivelazione pubblica» designa l'azione rivelativa di Dio destinata a tutta quanta l'umanità, che ha trovato la sua espressione letteraria nelle due parti della Bibbia: l'Antico ed il Nuovo Testamento. Si chiama «rivelazione», perché in essa Dio si è dato a conoscere progressivamente agli uomini, fino al punto di divenire egli stesso uomo, per attirare a sé e a sé riunire tutto quanto il mondo per mezzo del Figlio incarnato Gesù Cristo. Non si tratta quindi di comunicazioni intellettuali, ma di un processo vitale, nel quale Dio si avvicina all'uomo; in questo processo poi naturalmente si manifestano anche contenuti che interessano l'intelletto e la comprensione del mistero di Dio. Il processo riguarda l'uomo tutto intero e così anche la ragione, ma non solo essa. Poiché Dio è uno solo, anche la storia, che egli vive con l'umanità, è unica, vale per tutti i tempi ed ha trovato il suo compimento con la vita, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. In Cristo Dio ha detto tutto, cioè se stesso, e pertanto la rivelazione si è conclusa con la realizzazione del mistero di Cristo, che ha trovato espressione nel Nuovo Testamento. Il Catechismo della Chiesa Cattolica cita, per spiegare questa definitività e completezza della rivelazione, un testo di San Giovanni della Croce: «Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola... Infatti quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, l'ha detto tutto nel suo Figlio... Perciò chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità» (CCC 65, S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II, 22). Il fatto che l'unica rivelazione di Dio rivolta a tutti i popoli è conclusa con Cristo e con la testimonianza a lui resa nei libri del Nuovo Testamento vincola la Chiesa all'evento unico della storia sacra e alla parola della Bibbia, che garantisce e interpreta questo evento, ma non significa che la Chiesa ora potrebbe guardare solo al passato e sarebbe così condannata ad una sterile ripetizione. Il CCC dice al riguardo: « ...anche se la Rivelazione è compiuta, non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli » (n. 66). I due aspetti del vincolo con l'unicità dell'evento e del progresso nella sua comprensione sono molto bene illustrati nei discorsi d'addio del Signore, quando egli congedandosi dice ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé... Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà» (Gv 16, 12-14). Da una parte, lo Spirito fa da guida e così dischiude una conoscenza, per portare il peso della quale prima mancava il presupposto — è questa l'ampiezza e la profondità mai conclusa della fede cristiana. Dall'altra parte, questo guidare è un «prendere» dal tesoro di Gesù Cristo stesso, la cui profondità inesauribile si manifesta in questa conduzione ad opera dello Spirito. Il Catechismo cita al riguardo una profonda parola di Papa Gregorio Magno: «Le parole divine crescono insieme con chi le legge» (CCC 94, S. Gregorio, in Ez 1, 7, 8). Il Concilio Vaticano II indica tre vie essenziali, in cui si realizza la guida dello Spirito Santo nella Chiesa e quindi la «crescita della Parola»: essa si compie per mezzo della meditazione e dello studio dei fedeli, per mezzo della profonda intelligenza, che deriva dall'esperienza spirituale e per mezzo della predicazione di coloro «i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità» (Dei Verbum, 8). In questo contesto diviene ora possibile intendere correttamente il concetto di «rivelazione privata», che si riferisce a tutte le visioni e rivelazioni che si verificano dopo la conclusione del Nuovo Testamento; quindi è la categoria, all'interno della quale dobbiamo collocare il messaggio di Fatima. Ascoltiamo ancora al riguardo innanzitutto il CCC: «Lungo i secoli ci sono state delle rivelazioni chiamate “private”, alcune delle quali sono state riconosciute dall'autorità della Chiesa... Il loro ruolo non è quello... di “completare” la Rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica» (n. 67). Vengono chiarite due cose:
1. L'autorità delle rivelazioni private è essenzialmente diversa dall'unica rivelazione pubblica: questa esige la nostra fede; in essa infatti per mezzo di parole umane e della mediazione della comunità vivente della Chiesa Dio stesso parla a noi. La fede in Dio e nella sua Parola si distingue da ogni altra fede, fiducia, opinione umana. La certezza che Dio parla mi dà la sicurezza che incontro la verità stessa e così una certezza, che non può verificarsi in nessuna forma umana di conoscenza. È la certezza, sulla quale edifico la mia vita e alla quale mi affido morendo.
2. La rivelazione privata è un aiuto per questa fede, e si manifesta come credibile proprio perché mi rimanda all'unica rivelazione pubblica. Il Cardinale Prospero Lambertini, futuro Papa Benedetto XIV, dice al riguardo nel suo trattato classico, divenuto poi normativo sulle beatificazioni e canonizzazioni: «Un assentimento di fede cattolica non è dovuto a rivelazioni approvate in tal modo; non è neppure possibile. Queste rivelazioni domandano piuttosto un assentimento di fede umana conforme alle regole della prudenza, che ce le presenta come probabili e piamente credibili». Il teologo fiammingo E. Dhanis, eminente conoscitore di questa materia, afferma sinteticamente che l'approvazione ecclesiale di una rivelazione privata contiene tre elementi: il messaggio relativo non contiene nulla che contrasta la fede ed i buoni costumi; è lecito renderlo pubblico, ed i fedeli sono autorizzati a dare ad esso in forma prudente la loro adesione (E. Dhanis, Sguardo su Fatima e bilancio di una discussione, in: La Civiltà Cattolica 104, 1953 II. 392-406, in particolare 397). Un tale messaggio può essere un valido aiuto per comprendere e vivere meglio il Vangelo nell'ora attuale; perciò non lo si deve trascurare. È un aiuto, che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso.
Il criterio per la verità ed il valore di una rivelazione privata è pertanto il suo orientamento a Cristo stesso. Quando essa ci allontana da lui, quando essa si rende autonoma o addirittura si fa passare come un altro e migliore disegno di salvezza, più importante del Vangelo, allora essa non viene certamente dallo Spirito Santo, che ci guida all'interno del Vangelo e non fuori di esso. Ciò non esclude che una rivelazione privata ponga nuovi accenti, faccia emergere nuove forme di pietà o ne approfondisca e ne estenda di antiche. Ma in tutto questo deve comunque trattarsi di un nutrimento della fede, della speranza e della carità, che sono per tutti la via permanente della salvezza. Possiamo aggiungere che le rivelazioni private sovente provengono innanzitutto dalla pietà popolare e su di essa si riflettono, le danno nuovi impulsi e dischiudono per essa nuove forme. Ciò non esclude che esse abbiano effetti anche nella stessa liturgia, come ad esempio mostrano le feste del Corpus Domini e del Sacro Cuore di Gesù. Da un certo punto di vista nella relazione fra liturgia e pietà popolare si delinea la relazione fra Rivelazione e rivelazioni private: la liturgia è il criterio, essa è la forma vitale della Chiesa nel suo insieme nutrita direttamente dal Vangelo. La religiosità popolare significa che la fede mette radici nel cuore dei singoli popoli, così che essa viene introdotta nel mondo della quotidianità. La religiosità popolare è la prima e fondamentale forma di «inculturazione» della fede, che si deve continuamente lasciare orientare e guidare dalle indicazioni della liturgia, ma che a sua volta feconda la fede a partire dal cuore. Siamo così già passati dalle precisazioni piuttosto negative, che erano innanzitutto necessarie, alla determinazione positiva delle rivelazioni private: come si possono classificare in modo corretto a partire dalla Scrittura? Qual è la loro categoria teologica? La più antica lettera di San Paolo che ci è stata conservata, forse il più antico scritto in assoluto del Nuovo Testamento, la prima lettera ai Tessalonicesi, mi sembra offrire un'indicazione. L'apostolo qui dice: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (5, 19-21). In ogni tempo è dato alla Chiesa il carisma della profezia, che deve essere esaminato, ma che anche non può essere disprezzato. Al riguardo occorre tener presente che la profezia nel senso della Bibbia non significa predire il futuro, ma spiegare la volontà di Dio per il presente e quindi mostrare la retta via verso il futuro. Colui che predice l'avvenire viene incontro alla curiosità della ragione, che desidera squarciare il velo del futuro; il profeta viene incontro alla cecità della volontà e del pensiero e chiarisce la volontà di Dio come esigenza ed indicazione per il presente. L'importanza della predizione del futuro in questo caso è secondaria. Essenziale è l'attualizzazione dell'unica rivelazione, che mi riguarda profondamente: la parola profetica è avvertimento o anche consolazione o entrambe insieme. In questo senso si può collegare il carisma della profezia con la categoria dei «segni del tempo», che è stata rimessa in luce dal Vaticano II: « ...Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? » (Lc 12, 56). Per «segni del tempo» in questa parola di Gesù si deve intendere il suo proprio cammino, egli stesso. Interpretare i segni del tempo alla luce della fede significa riconoscere la presenza di Cristo in ogni tempo. Nelle rivelazioni private riconosciute dalla Chiesa — quindi anche in Fatima — si tratta di questo: aiutarci a comprendere i segni del tempo ed a trovare per essi la giusta risposta nella fede.
La struttura antropologica delle rivelazioni private. Dopo che con queste riflessioni abbiamo cercato di determinare il luogo teologico delle rivelazioni private, prima di impegnarci in un'interpretazione del messaggio di Fatima, dobbiamo ancora brevemente cercare di chiarire un poco il loro carattere antropologico (psicologico). L'antropologia teologica distingue in questo ambito tre forme di percezione o «visione»: la visione con i sensi, quindi la percezione esterna corporea, la percezione interiore e la visione spirituale (visio sensibilis - imaginativa - intellectualis). È chiaro che nelle visioni di Lourdes, Fatima, ecc. non si tratta della normale percezione esterna dei sensi: le immagini e le figure, che vengono vedute, non si trovano esteriormente nello spazio, come vi si trovano ad esempio un albero o una casa. Ciò è del tutto evidente, ad esempio, per quanto riguarda la visione dell'inferno (descritta nella prima parte del «segreto» di Fatima) o anche la visione descritta nella terza parte del «segreto», ma si può dimostrare molto facilmente anche per le altre visioni, soprattutto perché non tutti i presenti le vedevano, ma di fatto solo i «veggenti». Così pure è evidente che non si tratta di una «visione» intellettuale senza immagini, come essa si trova negli alti gradi della mistica. Quindi si tratta della categoria di mezzo, la percezione interiore, che certamente ha per il veggente una forza di presenza, che per lui equivale alla manifestazione esterna sensibile. Vedere interiormente non significa che si tratta di fantasia, che sarebbe solo un'espressione dell'immaginazione soggettiva. Piuttosto significa che l'anima viene sfiorata dal tocco di qualcosa di reale anche se sovrasensibile e viene resa capace di vedere il non sensibile, il non visibile ai sensi — una visione con i «sensi interni». Si tratta di veri «oggetti», che toccano l'anima, sebbene essi non appartengano al nostro abituale mondo sensibile. Per questo si esige una vigilanza interiore del cuore, che per lo più non c'è motivo della forte pressione delle realtà esterne e delle immagini e pensieri che riempiono l'anima. La persona viene condotta al di là della pura esteriorità e dimensioni più profonde della realtà la toccano, le si rendono visibili. Forse si può così comprendere perché proprio i bambini siano i destinatari preferiti di tali apparizioni: l'anima è ancora poco alterata, la sua capacità interiore di percezione è ancora poco deteriorata. «Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai ricevuto lode», risponde Gesù con una frase del Salmo 8 (v. 3) alla critica dei Sommi Sacerdoti e degli anziani, che trovavano inopportuno il grido di osanna dei bambini (Mt 21, 16). La «visione interiore» non è fantasia, ma una vera e propria maniera di verificare, abbiamo detto. Ma comporta anche limitazioni. Già nella visione esteriore è sempre coinvolto anche il fattore soggettivo: non vediamo l'oggetto puro, ma esso giunge a noi attraverso il filtro dei nostri sensi, che devono compiere un processo di traduzione. Ciò è ancora più evidente nella visione interiore, soprattutto allorché si tratta di realtà, che oltrepassano in se stesse il nostro orizzonte. Il soggetto, il veggente, è coinvolto in modo ancora più forte. Egli vede con le sue possibilità concrete, con le modalità a lui accessibili di rappresentazione e di conoscenza. Nella visione interiore si tratta in modo ancora più ampio che in quella esteriore di un processo di traduzione, così che il soggetto è essenzialmente compartecipe del formarsi, come immagine, di ciò che appare. L'immagine può arrivare solo secondo le sue misure e le sue possibilità. Tali visioni pertanto non sono mai semplici «fotografie» dell'aldilà, ma portano in sé anche le possibilità ed i limiti del soggetto che percepisce. Ciò lo si può mostrare in tutte le grandi visioni dei santi; naturalmente vale anche per le visioni dei bambini di Fatima. Le immagini da essi delineate non sono affatto semplice espressione della loro fantasia, ma frutto di una reale percezione di origine superiore ed interiore, ma non sono neppure da immaginare come se per un attimo il velo dell'aldilà venisse tolto ed il cielo nella sua pura essenzialità apparisse, così come un giorno noi speriamo di vederlo nella definitiva unione con Dio. Le immagini sono piuttosto, per così dire, una sintesi dell'impulso proveniente dall'Alto e delle possibilità per questo disponibili del soggetto che percepisce, cioè dei bambini. Per questo motivo il linguaggio immaginifico di queste visioni è un linguaggio simbolico. Il Cardinal Sodano dice al riguardo: « ... non descrivono in senso fotografico i dettagli degli avvenimenti futuri, ma sintetizzano e condensano su un medesimo sfondo fatti che si distendono nel tempo in una successione e in una durata non precisate ». Questo addensamento di tempi e spazi in un'unica immagine è tipica per tali visioni, che per lo più possono essere decifrate solo a posteriori. Non ogni elemento visivo deve, al riguardo, avere un concreto senso storico. Conta la visione come insieme, e a partire dall'insieme delle immagini devono essere compresi i particolari. Quale sia il centro di un'immagine, si svela ultimamente a partire da ciò che è il centro della «profezia» cristiana in assoluto: il centro è là dove la visione diviene appello e guida verso la volontà di Dio.
Un tentativo di interpretazione del «segreto» di Fatima. La prima e la seconda parte del «segreto» di Fatima sono già state discusse così ampiamente dalla letteratura relativa, che non devono qui essere illustrate ancora una volta. Vorrei solo brevemente richiamare l'attenzione sul punto più significativo. I bambini hanno sperimentato per la durata di un terribile attimo una visione dell'inferno. Hanno veduto la caduta delle «anime dei poveri peccatori». Ed ora viene loro detto perché sono stati esposti a questo istante: per «salvarle» — per mostrare una via di salvezza. Viene in mente la frase della prima lettera di Pietro: «meta della vostra fede è la salvezza delle anime» (1, 9). Come via a questo scopo viene indicato — in modo sorprendente per persone provenienti dall'ambito culturale anglosassone e tedesco —: la devozione al Cuore Immacolato di Maria. Per capire questo può bastare qui una breve indicazione. «Cuore» significa nel linguaggio della Bibbia il centro dell'esistenza umana, la confluenza di ragione, volontà, temperamento e sensibilità, in cui la persona trova la sua unità ed il suo orientamento interiore. Il «cuore immacolato» è secondo Mt 5, 8 un cuore, che a partire da Dio è giunto ad una perfetta unità interiore e pertanto «vede Dio». «Devozione» al Cuore Immacolato di Maria pertanto è avvicinarsi a questo atteggiamento del cuore, nel quale il fiat — «sia fatta la tua volontà» — diviene il centro informante di tutta quanta l'esistenza. Se qualcuno volesse obiettare che non dovremmo però frapporre un essere umano fra noi e Cristo, allora si dovrebbe ricordare che Paolo non ha timore di dire alle sue comunità: imitatemi (1 Cor 4, 16; Fil 3, 17; 1 Tess 1, 6; 2 Tess 3, 7.9). Nell'apostolo esse possono verificare concretamente che cosa significa seguire Cristo. Da chi però noi potremmo in ogni tempo imparare meglio se non dalla Madre del Signore? Arriviamo così finalmente alla terza parte del «segreto» di Fatima qui per la prima volta pubblicato integralmente. Come emerge dalla documentazione precedente, l'interpretazione, che il Cardinale Sodano ha offerto nel suo testo del 13 maggio, è stata dapprima presentata personalmente a Suor Lucia. Suor Lucia al riguardo ha innanzitutto osservato che ad essa era stata data la visione, ma non la sua interpretazione. L'interpretazione, diceva, non compete al veggente, ma alla Chiesa. Essa però dopo la lettura del testo ha detto che questa interpretazione corrispondeva a quanto essa aveva sperimentato e che essa da parte sua riconosceva questa interpretazione come corretta. In quanto segue quindi si potrà solo cercare di dare un fondamento in maniera approfondita a questa interpretazione a partire dai criteri finora sviluppati. Come parola chiave della prima e della seconda parte del «segreto» abbiamo scoperto quella di «salvare le anime», così la parola chiave di questo «segreto» è il triplice grido: «Penitenza, Penitenza, Penitenza!». Ci ritorna alla mente l'inizio del Vangelo: «paenitemini et credite evangelio» (Mc 1, 15). Comprendere i segni del tempo significa: comprendere l'urgenza della penitenza - della conversione - della fede. Questa è la risposta giusta al momento storico, che è caratterizzato da grandi pericoli, i quali verranno delineati nelle immagini successive. Mi permetto di inserire qui un ricordo personale; in un colloquio con me Suor Lucia mi ha detto che le appariva sempre più chiaramente come lo scopo di tutte quante le apparizioni sia stato quello di far crescere sempre più nella fede, nella speranza e nella carità — tutto il resto intendeva solo portare a questo. Esaminiamo ora un poco più da vicino le singole immagini. L'angelo con la spada di fuoco a sinistra della Madre di Dio ricorda analoghe immagini dell'Apocalisse. Esso rappresenta la minaccia del giudizio, che incombe sul mondo. La prospettiva che il mondo potrebbe essere incenerito in un mare di fiamme, oggi non appare assolutamente più come pura fantasia: l'uomo stesso ha preparato con le sue invenzioni la spada di fuoco. La visione mostra poi la forza che si contrappone al potere della distruzione — lo splendore della Madre di Dio, e, proveniente in un certo modo da questo, l'appello alla penitenza. In tal modo viene sottolineata l'importanza della libertà dell'uomo: il futuro non è affatto determinato in modo immutabile, e l'immagine, che i bambini videro, non è affatto un film anticipato del futuro, del quale nulla potrebbe più essere cambiato. Tutta quanta la visione avviene in realtà solo per richiamare sullo scenario la libertà e per volgerla in una direzione positiva. Il senso della visione non è quindi quello di mostrare un film sul futuro irrimediabilmente fissato. Il suo senso è esattamente il contrario, quello di mobilitare le forze del cambiamento in bene. Perciò sono totalmente fuorvianti quelle spiegazioni fatalistiche del «segreto», che ad esempio dicono che l'attentatore del 13 maggio 1981 sarebbe stato in definitiva uno strumento del piano divino guidato dalla Provvidenza e che pertanto non avrebbe potuto agire liberamente, o altre idee simili che circolano. La visione parla piuttosto di pericoli e della via per salvarsi da essi. Le frasi seguenti del testo mostrano ancora una volta molto chiaramente il carattere simbolico della visione: Dio rimane l'incommensurabile e la luce che supera ogni nostra visione. Le persone umane appaiono come in uno specchio. Dobbiamo tenere continuamente presente questa limitazione interna della visione, i cui confini vengono qui visivamente indicati. Il futuro si mostra solo «come in uno specchio, in maniera confusa» (cfr 1 Cor 13, 12). Prendiamo ora in considerazione le singole immagini, che seguono nel testo del «segreto». Il luogo dell'azione viene descritto con tre simboli: una ripida montagna, una grande città mezza in rovina e finalmente una grande croce di tronchi grezzi. Montagna e città simboleggiano il luogo della storia umana: la storia come faticosa ascesa verso l'alto, la storia come luogo dell'umana creatività e convivenza, ma allo stesso tempo come luogo delle distruzioni, nelle quali l'uomo annienta l'opera del suo proprio lavoro. La città può essere luogo di comunione e di progresso, ma anche luogo del pericolo e della minaccia più estrema. Sulla montagna sta la croce — meta e punto di orientamento della storia. Nella croce la distruzione è trasformata in salvezza; si erge come segno della miseria della storia e come promessa per essa. Appaiono poi qui delle persone umane: il vescovo vestito di bianco («abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre»), altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e finalmente uomini e donne di tutte le classi e gli strati sociali. Il Papa sembra precedere gli altri, tremando e soffrendo per tutti gli orrori, che lo circondano. Non solo le case della città giacciono mezze in rovina — il suo cammino passa in mezzo ai cadaveri dei morti. La via della Chiesa viene così descritta come una Via Crucis, come un cammino in un tempo di violenza, di distruzioni e di persecuzioni. Si può trovare raffigurata in questa immagine la storia di un intero secolo. Come i luoghi della terra sono sinteticamente raffigurati nelle due immagini della montagna e della città e sono orientati alla croce, così anche i tempi sono presentati in modo contratto: nella visione noi possiamo riconoscere il secolo trascorso come secolo dei martiri, come secolo delle sofferenze e delle persecuzioni della Chiesa, come il secolo delle guerre mondiali e di molte guerre locali, che ne hanno riempito tutta la seconda metà ed hanno fatto sperimentare nuove forme di crudeltà. Nello «specchio» di questa visione vediamo passare i testimoni della fede di decenni. Al riguardo sembra opportuno menzionare una frase della lettera che Suor Lucia scrisse al Santo Padre il 12 maggio 1982: «la terza parte del “segreto” si riferisce alle parole di Nostra Signora: “Se no (la Russia) spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte”». Nella Via Crucis di un secolo la figura del Papa ha un ruolo speciale. Nel suo faticoso salire sulla montagna possiamo senza dubbio trovare richiamati insieme diversi Papi, che cominciando da Pio X fino all'attuale Papa hanno condiviso le sofferenze di questo secolo e si sono sforzati di procedere in mezzo ad esse sulla via che porta alla croce. Nella visione anche il Papa viene ucciso sulla strada dei martiri. Non doveva il Santo Padre, quando dopo l'attentato del 13 maggio 1981 si fece portare il testo della terza parte del «segreto», riconoscervi il suo proprio destino? Egli era stato molto vicino alla frontiera della morte ed egli stesso ha spiegato la sua salvezza con le seguenti parole: « ...fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte » (13 maggio 1994). Che qui una «mano materna» abbia deviato la pallottola mortale, mostra solo ancora una volta che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze, che possono influire nella storia e che alla fine la preghiera è più forte dei proiettili, la fede più potente delle divisioni. La conclusione del «segreto» ricorda immagini, che Lucia può avere visto in libri di pietà ed il cui contenuto deriva da antiche intuizioni di fede. È una visione consolante, che vuole rendere permeabile alla potenza risanatrice di Dio una storia di sangue e lacrime. Angeli raccolgono sotto i bracci della croce il sangue dei martiri e irrigano così le anime, che si avvicinano a Dio. Il sangue di Cristo ed il sangue dei martiri vengono qui considerati insieme: il sangue dei martiri scorre dalle braccia della croce. Il loro martirio si compie in solidarietà con la passione di Cristo, diventa una cosa sola con essa. Essi completano a favore del corpo di Cristo, ciò che ancora manca alle sue sofferenze (cfr Col 1, 24). La loro vita è divenuta essa stessa eucaristia, inserita nel mistero del chicco di grano che muore e diventa fecondo. Il sangue dei martiri è seme di cristiani, ha detto Tertulliano. Come dalla morte di Cristo, dal suo costato aperto, è nata la Chiesa, così la morte dei testimoni è feconda per la vita futura della Chiesa. La visione della terza parte del «segreto», così angustiante al suo inizio, si conclude quindi con una immagine di speranza: nessuna sofferenza è vana, e proprio una Chiesa sofferente, una Chiesa dei martiri, diviene segno indicatore per la ricerca di Dio da parte dell'uomo. Nelle amorose mani di Dio non sono accolti soltanto i sofferenti come Lazzaro, che trovò la grande consolazione e misteriosamente rappresenta Cristo, che volle divenire per noi il povero Lazzaro; vi è qualcosa di più: dalla sofferenza dei testimoni deriva una forza di purificazione e di rinnovamento, perché essa è attualizzazione della stessa sofferenza di Cristo e trasmette nel presente la sua efficacia salvifica. Siamo così giunti ad un'ultima domanda: Che cosa significa nel suo insieme (nelle sue tre parti) il «segreto» di Fatima? Che cosa dice a noi? Innanzitutto dobbiamo affermare con il Cardinale Sodano: « ...le vicende a cui fa riferimento la terza parte del « segreto » di Fatima sembrano ormai appartenere al passato ». Nella misura in cui singoli eventi vengono rappresentati, essi ormai appartengono al passato. Chi aveva atteso eccitanti rivelazioni apocalittiche sulla fine del mondo o sul futuro corso della storia, deve rimanere deluso. Fatima non ci offre tali appagamenti della nostra curiosità, come del resto in generale la fede cristiana non vuole e non può essere pastura per la nostra curiosità. Ciò che rimane l'abbiamo visto subito all'inizio delle nostre riflessioni sul testo del «segreto»: l'esortazione alla preghiera come via per la «salvezza delle anime» e nello stesso senso il richiamo alla penitenza e alla conversione. Vorrei alla fine riprendere ancora un'altra parola chiave del «segreto» divenuta giustamente famosa: «il Mio Cuore Immacolato trionferà». Che cosa significa? Il Cuore aperto a Dio, purificato dalla contemplazione di Dio è più forte dei fucili e delle armi di ogni specie. Il fiatdi Maria, la parola del suo cuore, ha cambiato la storia del mondo, perché essa ha introdotto in questo mondo il Salvatore — perché grazie a questo «Sì» Dio poteva diventare uomo nel nostro spazio e tale ora rimane per sempre. Il maligno ha potere in questo mondo, lo vediamo e lo sperimentiamo continuamente; egli ha potere, perché la nostra libertà si lascia continuamente distogliere da Dio. Ma da quando Dio stesso ha un cuore umano ed ha così rivolto la libertà dell'uomo verso il bene, verso Dio, la libertà per il male non ha più l'ultima parola. Da allora vale la parola: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo » (Gv 16, 33). Il messaggio di Fatima ci invita ad affidarci a questa promessa. Joseph Card. Ratzinger Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Fatima: profezia realizzata. E’ singolare constatare come spesso quando si parla di Fatima si tenda a glissare sul famoso "Segreto", quasi come se fosse una questione irrilevante o comunque secondaria rispetto ad altri aspetti più prettamente teologici e devozionali (che pure hanno la loro indubbia importanza). Spesso notiamo con rammarico come anche i più attenti studiosi di queste apparizioni tendano a trascurare i tanti nessi tra certi eventi storici del secolo trascorso e le profezie contenute nel "Segreto", alcune delle quali hanno dimostrato ampiamente - alla luce dei dati storici oggi a nostra disposizione - di essersi realizzate, parola per parola. Proprio nel realizzarsi del Segreto c’è un’ulteriore inconfutabile dimostrazione non solo dell’autenticità di queste apparizioni, ma anche dell’importanza di questo genere di interventi straordinari della Madonna nel mondo. Mettere maggiormente in luce queste "inspiegabili concordanze" costituisce forse la medicina più efficace:
1) contro quella mentalità agnostica e indifferentista tanto diffusa al giorno d’oggi (le opere potenti di Dio rafforzano la fede in Cristo e incoraggiano a perseverare in essa);
2) contro i tentativi di sminuire la figura di Maria e il suo ruolo di Madre della Chiesa e principale avvocata e mediatrice presso Dio, una Verità che oggi - purtroppo - sono in tanti a mettere in discussione, perfino all’interno della Chiesa.
Fatima - per chi avesse qualche dubbio in proposito - ci dimostra in maniera inequivocabile che Dio per salvare il mondo si serve - soprattutto nel nostro tempo - di Sua Madre che a questo fine opera nella Chiesa Cattolica e attraverso la Chiesa Cattolica, a dimostrazione che - in tempo di indifferentismo e relativismo galoppante - questa e solo questa è la Chiesa voluta da Cristo per custodire la pienezza della Verità Rivelata. Maria Santissima appare per aprirci gli occhi sul "mistero di iniquità" che pervade la nostra epoca; appare per salvarci dal naufragio nel mare tempestoso dei mali apocalittici del nostro tempo. Bisogna dire che, ancor prima del Segreto, già altre profezie della Madonna si erano realizzate durante le apparizioni del 1917. Già nei dialoghi con i veggenti (durante le apparizioni del 13 luglio e del 13 settembre 1917) la Vergine, per provare la verità della sua presenza a Fatima, promise che nel mese di ottobre di quello stesso anno avrebbe fatto "un miracolo che tutti potranno vedere bene per credere". Il 13 ottobre effettivamente la Madonna operò il prodigio delle trasformazioni cromatiche e dei movimenti del sole ("miracolo del sole"). Questo prodigio, che fu notato in una zona tanto più vasta del luogo delle apparizioni, non può essere spiegato come un fenomeno di suggestione collettiva, per altro eccezionalmente difficile da prodursi nelle migliaia di persone - dalle 50.000 alle 70.000 - presenti alla Cova da Iria. Abbiamo parlato in precedenza di "mali apocalittici" del nostro tempo. Difficile non scorgere in questo grande miracolo un chiaro riferimento al libro dell’Apocalisse di Giovanni, riferimento che lo stesso Giovanni Paolo II parve mettere in evidenza durante la cerimonia di beatificazione di Francesco e Giacinta (13 maggio 2000). Il Santo Padre fece riferimento per ben due volte al capitolo 12° dell'Apocalisse, prima citando il versetto 1: "Per disegno divino, è venuta dal Cielo su questa terra, alla ricerca dei piccoli privilegiati dal Padre, «una Donna vestita di sole» (Ap 12,1)". L'autrice del "miracolo del sole" di Fatima era stata la Madonna, cioè la "Donna vestita di sole" (la Chiesa tradizionalmente vede nella "Donna vestita di sole" dell'Apocalisse la Madre di Dio). Si noti anche che la prima parte di quel versetto dice: "Nel cielo apparve poi un segno grandioso..."; qui l’analogia con il miracolo di Fatima è davvero straordinaria! Poi il Papa menzionò il versetto 4: "Il messaggio di Fatima è un appello alla conversione, che mette in guardia l’umanità affinché non faccia il gioco del «drago», il quale con la «coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra» (Ap 12,4)" [cfr. Omelia di Giovanni Paolo II nella Messa di beatificazione di Francesco e Giacinta, del 13.5.2000]. E qui il Santo Padre sembra attualizzare al nostro presente l'azione del "drago" dell'Apocalisse (Satana); e questo deve servirci da monito, perché il nostro cedere alle tante lusinghe che Satana propone al mondo di oggi, potrebbe avere tragiche conseguenze per tutti noi, non solo nell'eternità (non dimentichiamo la visione dell'inferno data ai tre veggenti) ma anche su questa terra: quelle stesse tribolazioni e flagelli che San Giovanni descrive con drammatico realismo nelle sue visioni profetiche. Ma c’è anche un’altra profezia realizzata. La Madonna nell’apparizione del 13 ottobre aveva detto: "La guerra finirà e i soldati torneranno presto alle loro case", e questo effettivamente accadde dopo breve tempo. Ormai praticamente tutto il messaggio profetico di Fatima sembra essersi realizzato fin nei minimi particolari, tranne forse per la terza parte del "Segreto" in cui si parla della morte del Santo Padre (vedremo più avanti in che senso questo aspetto non sembrerebbe essersi realizzato completamente) e soprattutto per quanto riguarda l’avvento del "periodo di pace" che la Madonna ha promesso al mondo. Vediamo quindi di capire i risvolti profetici di questo Segreto mettendoli in relazione con i dati storici che oggi abbiamo a disposizione.
La prima parte del "Segreto" di Fatima. La prima parte del segreto è la visione dell'inferno come esito ultimo ed eterno del peccato, una verità che nel XX secolo sarebbe stata progressivamente messa in discussione persino all’interno della Chiesa, da parte di certe correnti teologiche emergenti di stampo modernista.
Nella seconda parte del segreto la Madonna aveva spiegato ai veggenti: "Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato". E il 13 agosto aveva detto: "Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori. Badate che molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi si sacrifichi e preghi per loro". La seconda parte del "Segreto" di Fatima. "La guerra sta per finire [la Prima Guerra Mondiale; N.d.R.]; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre": questo appello della Madre di Dio purtroppo rimase inascoltato e quindi un’altra guerra ebbe inizio - proprio come lei aveva preannunciato - durante il Pontificato di Pio XI: la Seconda Guerra Mondiale.
Suor Lucia Dos Santos. Suor Lucia credette di riconoscere quel "grande segno", la "luce sconosciuta" di cui si parla nel Segreto, nella straordinaria aurora di colore rosso che illuminò il cielo in tutto l’emisfero settentrionale nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1938 (dalle 20.45 all’1.15). La "luce" sembrava provocata da un enorme incendio - come di una foresta che bruciava in lontananza - che illuminò nella notte i cieli della Scandinavia, del Nord Europa, Nord Africa e Nord America. Di fronte alle numerose chiamate di persone allarmate dal fenomeno, le autorità si affrettarono a rassicurare che si trattava di una semplice aurora boreale. Ma quell’evento così impressionante nella sua inusitata imponenza, era qualcosa di più di un semplice fenomeno naturale, era presagio dei tragici avvenimenti che tutto il continente europeo e il mondo intero si apprestavano a vivere. Il secondo conflitto mondiale ebbe inizio appena due mesi più tardi quando, il 12 marzo 1938, Hitler invase l’Austria. La guerra durò 7 anni e quando finì, nel 1945, circa 50 milioni di persone vi avevano perso la vita. Fra queste, 6 milioni di ebrei e altri 5 milioni di persone erano morte per la fame, le torture o bruciate nei forni crematori nei campi di concentramento nazisti. Se poi si sommano a questi morti anche quelli di Lenin e Stalin nelle varie guerre e persecuzioni politico-religiose in Russia, si possono calcolare circa 100-150 milioni di vittime, solo nella prima metà del XX secolo. A fronte di tali cifre non fa meraviglia che Dio abbia inviato Sua Madre a Fatima per avvertire l’umanità e cercare così di salvarla dai drammatici eventi che stavano per infiammare il mondo. Ma la Madonna - come vedremo più avanti - era venuta a Fatima soprattutto per salvare il mondo da un altro e più grande male del nostro secolo: l’offensiva planetaria del comunismo. "la Russia...spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati": gli "errori" che la Russia avrebbe sparso nel mondo non erano altro che il comunismo, che di lì a poco dalla Russia sarebbe dilagato in tutto il mondo causando persecuzioni ai cristiani e insanguinando molte nazioni. I Bolscevichi (comunisti) presero il potere in Russia il 7 novembre 1917 dopo la cosiddetta "Rivoluzione di Ottobre" iniziata il 25 ottobre 1917 (cioè pochi giorni dopo la fine delle apparizioni di Fatima). Alla fine della Seconda Guerra Mondiale (fra il 1945 e il ‘49) il comunismo si era ormai instaurato in Albania, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Ungheria, Germania Orientale, Polonia, mentre Lettonia, Estonia e Lituania erano state direttamente annesse dall’Unione Sovietica nel 1940. Le forze sovietiche avevano occupato tutti questi paesi tranne la Jugoslavia dove Josip Tito riuscì in qualche modo a mantenere il controllo della regione. Le persecuzioni alla Chiesa in questo paese iniziarono non appena Tito andò al potere. Centinaia di membri del clero vennero uccisi o deportati nei campi di lavoro, fra questi anche vescovi cattolici e ortodossi. Vi furono per tanti anni pesanti persecuzioni anche in Cecoslovacchia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Polonia e un po’ in tutti i paesi del blocco sovietico. Le persecuzioni contro i cristiani causarono nei primi decenni del regime comunista più martiri che in tutti i secoli precedenti messi assieme. Solo nella Chiesa Ortodossa russa fra gli anni ‘20 e ‘30, circa 50.000 persone fra preti e monaci morirono martiri per essersi rifiutate di rinnegare la loro fede. Si stima che il numero di membri del clero e di religiosi di tutte le confessioni cristiane martirizzati dai comunisti si aggiri attorno a 140.000. Solo Lenin, nell’arco di 5 anni pare che abbia fatto uccidere non meno di 1200 sacerdoti e 28 vescovi. Stalin già nel 1930 aveva chiuso metà delle chiese di Mosca e tutti i monasteri dell’Ucraina. Un gran numero di icone religiose venne fatto bruciare. Venne soppressa la Domenica e gli operai venivano costretti a firmare una dichiarazione di apostasia e di odio contro Dio, senza la quale non ottenevano le tessere con cui venivano assegnati cibo, vestiti e alloggio. Nel periodo delle purghe staliniane (1934-39) milioni di persone morirono nei gulag sovietici. Si stima che fra il 1935 e il ‘41 più di 19 milioni di persone siano state arrestate da Stalin. Meno della metà di questi venne passata per le armi subito, il resto morì nei gulag della Siberia. Regimi più o meno comunisti esistono ancora oggi in Cina, Corea del Nord, Laos, Vietnam e a Cuba. La Cina cadde in mano ai comunisti nel 1949, dopo che i precedenti governanti furono mandati in esilio nell'isola di Taiwan. In Cina molti milioni di persone che si erano opposte all'affermarsi del comunismo furono uccise. Il Vietnam del Nord cadde nel 1954; più tardi anche il Sud cadde in mano ai comunisti, dopo che gli Stati Uniti avevano lasciato il paese nel 1975. La Corea del Nord divenne uno stato comunista il 1 maggio 1948 in seguito all'occupazione sovietica. Il 25 giugno 1950, forze comuniste nordcoreane violarono il confine con la Corea del Sud, dando così inizio alla guerra di Corea (1950-1953). Cuba cadde sotto il dominio comunista quando Fidel Castro assunse il controllo del governo il 1 gennaio 1959. Nel 1961, dopo che Cuba fu ufficialmente dichiarata uno stato socialista, 350 scuole cattoliche vennero nazionalizzate. 136 sacerdoti furono espulsi e la Chiesa da allora è stata sottoposta a severe restrizioni e molte persone hanno cessato la pratica della fede cattolica. All'inizio del 1960 si stimava che 900 milioni di persone, più di 1/3 della popolazione mondiale, fossero dominate da regimi comunisti. "il Santo Padre avrà molto da soffrire": sebbene la Madonna non indichi qui a quale Papa specificamente si riferisca, generalmente si tende a ritenere che questo pontefice sia Giovanni Paolo II. Egli è considerato ormai il "Papa di Fatima", sia per via dell’attentato del 1981 sia per il suo contributo determinante alla caduta del Comunismo e alla dissoluzione dell’Urss. Ma parallelamente, in questa profezia si possono intravedere anche le sofferenze morali di tutti i pontefici che nel secolo scorso si sono dovuti misurare con i tanti attacchi feroci che Satana ha sferrato alla Chiesa, e - possiamo ragionevolmente prevedere - anche le sofferenze dei papi a venire, almeno fino a quando il "periodo di pace" non si sarà compiuto. Giovanni Paolo II ha compiuto una personale Via Crucis, cominciata da quell'attentato del 13 maggio 1981 (era l’anniversario della prima apparizione della Madonna a Fatima) in cui il turco Mehmet Ali Agca gli sparò in piazza San Pietro. Ali Agca, secondo varie indagini compiute dai magistrati italiani, sarebbe stato ingaggiato dai servizi segreti bulgari per conto dell’Unione Sovietica con il compito di uccidere Giovanni Paolo II; un Papa troppo scomodo e pericoloso, che bisognava fermare ad ogni costo. Troppo imprevedibili (potenzialmente destabilizzanti per il regime comunista) potevano essere gli effetti del suo pontificato, non solo per la sua patria (la Polonia) ma per l’intero blocco sovietico. Alle 17,17 di quel 13 maggio, mentre Giovanni Paolo II salutava la folla sulla sua jeep bianca, baciando bambini e stringendo mani, il giovane Agca ad una decina di metri da lui, estraeva una pistola e faceva fuoco. Colpito dalle pallottole, Giovanni Paolo II con l'abito pontificale macchiato di sangue, si accasciava sulla vettura che partiva di corsa per raggiungere il più vicino ospedale. I proiettili centrarono il bersaglio, perforando l'addome e ferendo il Pontefice ad una mano, ma non lo uccisero. Wojtyla, qualche tempo più tardi, disse che quel giorno a salvarlo fu l'aiuto celeste della Madonna di Fatima che con la sua mano invisibile aveva deviato la traiettoria del proiettile. In effetti, i medici del Policlinico Gemelli che lo curarono si sono sempre interrogati sull'anomalo tragitto della pallottola: un millimetro più in là e il Papa sarebbe stato colpito mortalmente agli organi vitali. Al Gemelli il Papa rimase in convalescenza per ben cinque mesi. Il proiettile sparato da Ali Agca, per volere di Wojtyla è stato incastonato nella corona tempestata di pietre preziose della statua della Vergine di Fatima. Ali Agca in seguito rivelerà in un’intervista un’altra coincidenza impressionante: la suora che arrestò la sua fuga quel 13 maggio si chiamava suor Lucia, proprio come l'unica superstite dei tre pastorelli cui esattamente 64 anni prima era apparsa la Madonna a Fatima. E’ da notare che sempre nel 1981, esattamente un mese dopo l'attentato al "Papa di Fatima", sono iniziate le apparizioni di Medjugorje - un paesino della Bosnia Erzegovina, allora ancora sotto il regime comunista jugoslavo. Le apparizioni di Medjugorje vengono oggi considerate dagli esperti in qualche modo come la continuazione di quelle di Fatima. La stessa Vergine in un messaggio del ‘91 ha spiegato che a Medjugorje intendeva compiere quello che aveva iniziato a Fatima. Ma questo del 1981 non fu l’unico attentato alla vita del Santo Padre. Il 12 maggio 1982 vi fu un altro tentativo di assassinare Giovanni Paolo II, un uomo a Fatima cercò di accoltellarlo, ma venne neutralizzato dalle forze di sicurezza prima che potesse portare a termine il suo piano. Durante una sua visita nelle Filippine, nel corso della giornata mondiale della gioventù del 1995, alcuni terroristi islamici organizzarono un altro attentato al Santo Padre, senza però riuscire nei loro intenti. Uno degli arrestati disse che dietro al gruppo c'erano varie organizzazioni ed un "miliardario saudita" (Al-Qaeda?). Ma si può dire che tutto il suo pontificato fu un vero calvario di sofferenza per i tanti problemi di salute che il Papa dovette patire fin dai primi anni. Il 15 luglio 1992 (11 anni dopo il primo ricovero) venne sottoposto ad un intervento chirurgico per l’asportazione di un voluminoso tumore benigno. Nell'occasione Giovanni Paolo II subì anche un intervento alla cistifellea, per la presenza di "alcuni calcoli". Ma per anni circolò la voce, infondata, di un tumore maligno. L'11 novembre 1993, durante un'udienza Giovanni Paolo II inciampò e cadde. Ricoverato al Gemelli subì la riduzione di una lussazione alla spalla destra. Il 29 aprile 1994 fu nuovamente ricoverato; era scivolato in bagno e si era fratturato un femore. Con un intervento chirurgico venne sostituita la testa del femore con una protesi. L'8 ottobre 1996 venne operato di appendicite. Nel frattempo si facevano sempre più evidenti i sintomi del Parkinson. I primi accenni della malattia avevano cominciato a manifestarsi già dal 1992 e col passare degli anni divennero rapidamente sempre più gravi e invalidanti: la mano sinistra cominciò a tremare, la muscolatura facciale si irrigidiva ed assumeva la maschera tipica del morbo. Con il passare del tempo apparirono sintomi secondari, come difficoltà nel pronunciare le parole, problemi respiratori ed un atteggiamento esitante. Con gli anni il Papa aveva avuto anche un significativo calo dell'udito, tanto che, in gran segreto, gli fu applicato un piccolissimo apparecchio prima all'orecchio destro, poi ad entrambi. Ad aggravare gli effetti menomanti del progredire del Parkinson si aggiunsero i dolori per l’intervento al femore e le conseguenze di un'artrosi che dal febbraio 2002 lo colpì al ginocchio destro. Pian piano per il Papa diventava sempre più difficile muoversi e camminare. Il 1 febbraio 2005 Giovanni Paolo II fu ricoverato d'urgenza per "una laringo-tracheite acuta con episodi di laringospasmo", esiti di un’influenza che lo aveva colpito qualche giorno prima. Il 24 febbraio 2005 vi fu un nuovo ricovero, sempre per motivi respiratori. Questa volta gli venne praticata una tracheotomia, un intervento che incise drasticamente sulla capacità del Papa di parlare. Alla fine di marzo vi fu poi l'aggravamento definitivo delle sue condizioni che ebbe per esito il decesso, avvenuto il 2 aprile 2005 alle ore 21.37. Questa vita così densa di tribolazioni e sofferenze, ricorda in qualche misura quella di certi mistici a cui il Signore ha affidato il compito di essere anime vittime per l’umanità. All’età di 84 anni si spegneva il papa che aveva guidato la Chiesa per oltre 26 anni (uno dei pontificati più lunghi della storia) con mirabile saggezza e santità, vigoroso impegno e ispirato magistero, e che aveva giocato un ruolo chiave nella caduta del comunismo in Europa. Appena pochi giorni prima (il 13 febbraio) era morta anche Suor Lucia, una coincidenza che pare quasi un suggello del (definitivo?) compimento di quel misterioso disegno divino iniziato nel 1917 a Fatima. Un’altra singolare coincidenza legata a Fatima è che il Papa si spense nel primo sabato del mese, il che ricorda la pia pratica dei "Primi 5 Sabati" chiesta a Suor Lucia dalla Vergine di Fatima il 10 dicembre 1925, quando le apparve nella casa delle Suore Dorotee a Pontevedra, in Spagna. Ma c'è anche un'altra coincidenza legata al giorno in cui Giovanni Paolo II è morto che, sebbene non collegata direttamente a Fatima, è davvero straordinaria e merita di essere menzionata. Egli rese l'anima a Dio nelle prime ore della festa della Divina Misericordia (dopo i Vespri del sabato), festa e che è stata introdotta da lui stesso nel 2000. Per l’istituzione della festa, che si celebra nella prima domenica dopo la Pasqua, il Santo Padre trasse ispirazione dalle rivelazioni di suor Faustina Kowalska, una mistica polacca a cui egli fin dalla giovinezza fu particolarmente devoto. Tra l’altro fu proprio Papa Wojtyla a promuovere la causa di beatificazione di suor Faustina e sempre lui nell'Anno Santo del 2000 l’ha proclamata santa. "Verrò a chiedere la consacrazione della Russia": la Madonna mantenne questa promessa il 13 giugno 1929, quando apparve a Suor Lucia nella cappella del suo convento. Così Suor Lucia riferisce le parole di Maria SS.: "La Madonna mi disse: "Il momento è venuto in cui Dio chiede al Santo Padre [a quel tempo era papa Pio XI; si noti che la Madonna nel "Segreto" del 1917 aveva annunciato che proprio durante il pontificato di questo papa ci sarebbe stata una grande guerra, peggiore della Prima Guerra Mondiale, se le sue richieste non fossero state accolte; N.d.R.], in unione con tutti i vescovi del mondo, di consacrare la Russia al mio Cuore Immacolato, promettendo così di salvarla in questo modo. Ci sono così tante anime che sono condannate dalla giustizia di Dio per i peccati commessi contro di me, che sono venuta a chiedere riparazione: fai sacrifici per questa intenzione e prega". Ma Pio XI non fece la consacrazione al Cuore Immacolato che la Madonna aveva chiesto. La consacrazione fu fatta invece da Pio XII in due occasioni, nel 1942 e nel 1952, ma non come la Madonna l’aveva richiesta. Anche Papa Wojtyla fece (nel 1982 e nel 1983) due consacrazioni, ritenute però da suor Lucia "invalide". "Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà": durante un solenne pellegrinaggio a Fatima, il 13 maggio 1982 per ringraziare la Vergine di avergli salvato la vita esattamente un anno prima, Giovanni Paolo II consacrò il mondo al Cuore Immacolato di Maria, con una "speciale menzione" al popolo russo. Il Santo Padre rinnovò questo atto di offerta e consacrazione in altre tre occasioni: il 16 ottobre 1983, il 25 marzo 1984 e infine l’8 dicembre 1985 (lo stesso anno in cui Gorbaciov andò al potere). Suor Lucia Dos Santos confermò la validità della consacrazione del 1984: "la consacrazione desiderata da Nostra Signora è stata fatta nel 1984, ed è stata accetta al Cielo" (cfr. Incontro di Mons. Tarcisio Bertone con Suor Lucia, "L'Osservatore Romano", 21.12.2001). Quel 25 marzo del 1984 Giovanni Paolo II compiva - in comunione con tutti i vescovi del mondo - l’Atto di affidamento a Maria del mondo, pronunciando queste parole: "Ci troviamo uniti con tutti i Pastori della Chiesa, in un particolare vincolo, costituendo un corpo e un collegio, così come per volontà di Cristo gli Apostoli costituivano un corpo e un collegio con Pietro. Nel vincolo di tale unità, pronunziamo le parole del presente Atto, in cui desideriamo racchiudere, ancora una volta, le speranze e le angosce della Chiesa per il mondo contemporaneo" (Atto di affidamento alla Madonna, del 25-3-1984, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VII, pp. 774-775). A questo punto si può dire che il tempo dell’Unione Sovietica era ormai contato: per il regime comunista iniziò quasi subito un rapido declino. Nel 1984 l’Unione Sovietica era già da tempo in una situazione di grave crisi economica e non era più in grado di sostenere la corsa agli armamenti con gli Stati Uniti. Gli storici dicono che il Cremino mise per la prima volta, in maniera ufficiale, all’ordine del giorno la possibilità di un attacco di sorpresa agli USA, perché l’idea era che attaccando per primi si poteva vincere. Quello fu certamente il momento di maggior pericolo per il mondo. In un’intervista inedita a Suor Lucia, resa pubblica nella trasmissione di Raidue "Excalibur" il 31 febbraio 2003, tra le tante cose suor Lucia parlò della Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria compiuta da Giovanni Paolo II in unione con tutti i vescovi del mondo, del pericolo costituito dal materialismo edonista che sta invadendo il pianeta, e tornò a parlare del rischio, scongiurato dal crollo dell’impero comunista, "di guerre atomiche come non ce ne erano mai state prima e che potevano distruggere l’umanità". Già in precedenza Suor Lucia aveva usato, in una lettera pubblicata all’indomani della caduta del muro di Berlino (cfr. mensile "30 Giorni", marzo 1990), parole inquietanti: "Quanto accade all’Est è dovuto ad una azione di Dio nel mondo per liberarlo dal pericolo di una guerra atomica che potrebbe distruggerlo". In molti si sono chiesti il perché di questi ripetuti, allarmanti accenni a guerre atomiche da parte di suor Lucia, dato che la Madonna, durante le apparizioni di Fatima, non ne ha mai fatto cenno. Forse la risposta sta tra le righe di un’intervista rilasciata ad Excalibur dal vescovo di Fatima, che ipotizzava che suor Lucia potesse aver avuto, oltre alle celebri apparizioni di Fatima, altre rivelazioni da parte della Vergine; rivelazioni di cui, ancora, nessuno è a conoscenza. La primavera del 1984 segnava l’inizio di un periodo davvero catastrofico per l’Urss. Il 13 maggio 1984 (ancora un anniversario delle apparizioni di Fatima) saltava in aria l'arsenale di Severomorsk sul mare del nord. Con questa esplosione la speranza di vittoria sovietica in un conflitto nucleare - dato per imminente - veniva vanificata. Senza quell’apparato missilistico che controllava l‘Atlantico, l’Urss non aveva più alcuna speranza di prevalere sugli avversari. Per questo ogni opzione militare fu abbandonata. La notte del 26 aprile 1986, esplodeva il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl. Era il più grave disastro ambientale della storia dell'umanità che avrebbe causato in quei mesi e negli anni successivi la morte di migliaia di persone (secondo l’Onu circa 7000). Venne rilasciata nell’atmosfera una quantità di radiazioni superiore a quella di tutti gli esperimenti nucleari messi assieme mai condotti nel mondo. Quello stesso anno, in ottobre, un sommergibile russo affondò nell’Atlantico, trascinando con sé due reattori nucleari e 32 testate nucleari. Tre anni dopo, il 7 aprile 1989, 42 marinai sovietici morirono nel naufragio di un sottomarino nucleare nel Mar di Norvegia dopo lo scatenarsi di un terribile incendio causato da un'esplosione. A bordo del sommergibile c’erano due siluri muniti di cariche nucleari. Intanto in Romania, il 22 dicembre 1989, il dittatore comunista Nicolae Ceausescu e sua moglie, dopo essere stati contestati dalla folla durante un incontro a Bucarest, fuggivano precipitosamente in elicottero. Saranno arrestati il 25 dicembre (giorno di Natale!), sottoposti a processo sommario e poi messi a morte. La velocità con cui si svilupparono gli eventi nel Paese alla fine del dicembre 1989 fu a dir poco sorprendente, tanto che tutti gli osservatori politici, sia in occidente che in oriente, ne rimasero sgomenti. Dopo il 1984 anche il clima politico in Russia cambiò radicalmente. L'11 marzo 1985 (ad un anno dalla consacrazione al Cuore Immacolato fatta da Giovanni Paolo II), Mikhail Gorbaciov veniva eletto Segretario Generale del Comitato Centrale del Partito Comunista. La sua politica di riforme avvierà numerosi processi di cambiamento che grazie alla Glasnost ("apertura"), alla Perestroika ("ristrutturazione") e all'Uskorenie ("accelerazione" dello sviluppo economico), porteranno alla fine della Guerra Fredda, arrestando la corsa agli armamenti ed eliminando il rischio di un conflitto nucleare. L'11 ottobre 1986, infatti, Gorbaciov ed il presidente statunitense Ronald Reagan si incontravano a Reykjavik (in Islanda) per discutere la riduzione degli arsenali nucleari installati in Europa. Tutto ciò condurrà, nel 1987 alla firma del trattato di non proliferazione nucleare. Fallita la politica di riforma di Mikhail Gorbaciov e crollati i regimi satellite europei, nel 1991 un tentativo fallito di golpe mandò in pensione il vecchio establishment sovietico. L'Unione Sovietica cessava di esistere l’8 dicembre 1991 (festa dell’Immacolata Concezione!), quando i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia ne annunciavano formalmente la dissoluzione. In seguito alla dissoluzione dell'URSS nascerà la Comunità di stati indipendenti (CSI). Il 25 dicembre 1991 - giorno di Natale in Occidente - Mikhail Gorbaciov rassegnava le dimissioni da presidente dell’URSS. La bandiera rossa che per molti decenni aveva svettato sul Kremlino venne ammainata definitivamente e sostituita dalla bandiera nazionale russa. Il comunismo sovietico era stato sconfitto! Si noti che esattamente quattro mesi prima, il 25 agosto 1991, in un messaggio dato ai veggenti di Medjugorje la Madonna aveva detto: "vi invito, cari figli, a pregare e digiunare ancora più fortemente. Vi invito alla rinuncia durante nove giorni, affinché con il vostro aiuto sia realizzato tutto quello che voglio realizzare attraverso i segreti che ho iniziato a Fatima. Vi invito, cari figli, a comprendere l'importanza della mia venuta e la serietà della situazione". La storia aveva dimostrato che la Madonna aveva mantenuto la promessa fatta nel 1917: alla fine con la consacrazione della Russia al Suo Cuore Immacolato era riuscita, senza il minimo spargimento di sangue, ad ottenere la liberazione della Russia (assieme agli altri Stati dell’Urss) dal giogo comunista che l’aveva tirannicamente oppressa per ben 70 anni. "In Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede": la Repubblica massonica che aveva governato il Portogallo dal 1910 cadde in maniera repentina (inspiegabilmente) nel 1926. Il Paese iberico, dapprima anticlericale e massonico, divenne sempre più devoto alla Vergine e il 13 maggio 1931 i Vescovi portoghesi consacrarono al Cuore Immacolato la loro Nazione, rinnovando poi la consacrazione nel 1938 e nel 1946. Grazie al Cuore Immacolato di Maria, il Portogallo fu miracolosamente preservato dall’instaurazione di un regime comunista o comunque alleato ai comunisti, come invece accadde alla vicina Spagna, e venne risparmiato dalla Seconda Guerra Mondiale. Ad oggi il Portogallo rimane una delle nazioni dove la Fede cattolica è più sentita. Dopo la sconfitta della Massoneria, il Portogallo recuperò una buona stabilità economica e politica e vi fu un periodo di vera e propria rinascita del cattolicesimo: a milioni si convertirono e vi fu in questo Paese uno straordinario rifiorire delle vocazioni sacerdotali e di istituti religiosi. Il Portogallo mantenne la Fede, proprio come la Madonna aveva promesso a Fatima. Ma da questa profezia possiamo trarre anche un’altra considerazione: se la Madonna fa speciale menzione del fatto che in Portogallo "si conserverà il dogma della fede" questo vuol dire implicitamente che tale dogma in altre parti del mondo sarebbe stato rifiutato. E in effetti questo è quanto è accaduto progressivamente in tutto il corso del XX secolo; un secolo che ha visto l’affermarsi prepotente di una cultura relativista che nega l’esistenza di verità assolute e si oppone ad ogni Verità di Fede che la Chiesa propone a credere. Questa tendenza è stata denunciata in numerosissime occasioni dalla Chiesa. Anche Papa Benedetto XVI ha stigmatizzato questa mentalità ormai dominante. Lunedì 18 aprile 2005 (quando era ancora cardinale), presiedendo la Messa per l’elezione del successore di Giovanni Paolo II, diceva: "Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo ad un vago misticismo religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e così via". In questa situazione "avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare «qua e là da qualsiasi vento di dottrina», appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni".
Ratzinger in quell’occasione parlò di una "dittatura del relativismo", "che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie".
La terza parte del "Segreto" di Fatima. Rappresentazione del "Terzo Segreto". Il cosiddetto "Terzo Segreto", che papa Wojtyla ha voluto che venisse rivelato nel 2000, secondo l’interpretazione ufficiale della Santa Sede riguardava le persecuzioni del XX secolo alla Chiesa e al Santo Padre. Il Cardinale Ratzinger nel suo commento teologico al messaggio di Fatima, a questo proposito scriveva che nel "Segreto" la via della Chiesa viene descritta come "una Via Crucis, come un cammino in un tempo di violenza, di distruzioni e di persecuzioni. Si può trovare raffigurata in questa immagine la storia di un intero secolo [...] nella visione noi possiamo riconoscere il secolo trascorso come secolo dei martiri, come secolo delle sofferenze e delle persecuzioni della Chiesa, come il secolo delle guerre mondiali e di molte guerre locali, che ne hanno riempito tutta la seconda metà ed hanno fatto sperimentare nuove forme di crudeltà. Nello «specchio» di questa visione vediamo passare i testimoni della fede di decenni". In questa terza parte del Segreto si parla in particolare di un "Vescovo vestito di Bianco" che Suor Lucia ritenne essere il Santo Padre. In questa figura di vescovo vestito di bianco, Ratzinger vi vede tutti i papi che hanno occupato il Soglio di Pietro nel corso del XX secolo, fino a Giovanni Paolo II che rischiò di morire nell’attentato del 1981: "Nel suo faticoso salire sulla montagna possiamo senza dubbio trovare richiamati insieme diversi Papi, che cominciando da Pio X fino all'attuale Papa hanno condiviso le sofferenze di questo secolo e si sono sforzati di procedere in mezzo ad esse sulla via che porta alla croce. Nella visione anche il Papa viene ucciso sulla strada dei martiri. Non doveva il Santo Padre, quando dopo l'attentato del 13 maggio 1981 si fece portare il testo della terza parte del Segreto, riconoscervi il suo proprio destino?". Ma se è vero che il "Terzo Segreto" riguarda i martiri cristiani e i pontefici del XX secolo, non possiamo tuttavia escludere che l’arco temporale che esso abbraccia non sia limitato solo al secolo scorso. Fu lo stesso Ratzinger, ormai Papa Benedetto XVI, a sostenere la possibilità che esso abbracci anche il presente e il futuro, quando proprio a Fatima affermò: "Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa", nel segreto "oltre questa grande visione della sofferenza del Papa, che possiamo in prima istanza riferire a Papa Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano" (Fatima, 11 maggio 2010). Non dobbiamo per altro dimenticare che dalle rivelazioni di diversi mistici del passato e del presente appare chiaro che prima dell’Era di Pace (che come abbiamo visto è stata profetizzata anche a Fatima ["...sarà concesso al mondo un periodo di pace"] e che - è evidente - non si è ancora realizzata) dovrebbero esserci altre e ben più gravi persecuzioni alla Chiesa, e in alcune di queste rivelazioni si afferma persino che ci sarà in futuro un papa che, in esilio, verrà assassinato. Considerando queste rivelazioni emerge quindi la possibilità che la terza parte del "Segreto" non si sia ancora compiuta in maniera definitiva e completa: la morte del "Vescovo vestito di Bianco" potrebbe anche riguardare un futuro pontefice e alcune delle persecuzioni a "Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni" vedute da Suor Lucia nella sua visione potrebbero essere ancora di là da venire. In ogni caso Fatima - come abbiamo visto - ci insegna che abbiamo nella Madre del Signore il più potente degli intercessori, per cui il futuro non deve crearci preoccupazioni. Abbiamo visto come la Madonna, subito dopo la consacrazione della Russia al Suo Cuore Immacolato, sia intervenuta prontamente ed efficacemente per liberare quella nazione dal giogo del comunismo. Facendo tesoro delle lezioni della storia, ora siamo ben consapevoli di quanto sia importante non disattendere gli appelli e gli ammonimenti che Maria Santissima ci invia; e quella di Fatima è una lezione che andrebbe applicata anche alle tante apparizioni mariane del nostro presente, fatto salvo il dovere di un prudente discernimento personale dei singoli casi, anche alla luce del Magistero della Chiesa (tenendo debitamente conto di eventuali pronunciamenti dei vescovi o della Santa Sede). Bisogna sempre accogliere con gratitudine e filiale abbandono gli inviti della Madonna e mettere in pratica con sollecitudine i consigli e le indicazioni che ci da’, per non incorrere in errori le cui conseguenze questa volta potrebbero essere davvero tragiche per tutta l’umanità. Fede e preghiera sono gli unici veri rimedi all’indolenza dei nostri dubbi e dei nostri timori verso gli appelli di Maria e l’unica difesa alle innumerevoli insidie sataniche del nostro tempo. Ratzinger - sempre nel commento al messaggio di Fatima - a questo proposito scrive: "Che qui una «mano materna» abbia deviato la pallottola mortale [diretta a Giovanni Paolo II; N.d.R.], mostra solo ancora una volta che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze, che possono influire nella storia e che alla fine la preghiera è più forte dei proiettili, la fede più potente delle divisioni".
A cura di Profezie per il Terzo Millennio. Gli Errori dell’Ecumenismo. La seguente è una trascrizione, riveduta e corretta, di un discorso dato da Padre Paul Kramer, B.Ph., S.T.B., M.Div., S.T.L. (Cand.). Gesù, avvicinatosi, disse loro: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. (Matt. 28:18-20) Nostro Signore Gesù Cristo non misurava le Sue parole. Il testo qui sopra, tratto dal Vangelo secondo Matteo, le parole che provengono dalla bocca del Nostro Divino Salvatore, incolpano il Concilio Vaticano Secondo di errore contro la Fede Cattolica. E’ quello che, dopotutto, è contenuto nel Terzo Segreto di Fatima, come disse il Cardinale Ciappi: “Nel Terzo Segreto (di Fatima), viene predetto, tra le altre cose, che la grande apostasia nella Chiesa comincerà dal suo vertice.” Sappiamo dalle profezie di San Francesco d’Assisi, predetta centinaia di anni fa, che vi sarà un Anti-Papa. Egli sarà un eretico. Non possiederà la Fede Cattolica. E cercherà di distruggere la Chiesa, riformandola con una nuova riforma. In pratica, la rivolta contro la legge di Dio ha avuto il suo inizio quando il Concilio ha proclamato l’errore dell’Ecumenismo. Ora vi saranno alcuni cosiddetti conservatori che si affretteranno ad obiettare, dicendo: “come puoi dire una cosa del genere? Dopo tutto, tutti i Concili Ecumenici sono infallibili, e così il Concilio non può sbagliarsi, non può insegnare un errore.” Io rispondo a quella domanda con un’altra: “Quale chiesa ha mai insegnato una cosa del genere?” Non certo quella Cattolica Romana. Il Wandererlo insegna, ma di certo nessun Papa l’ha mai fatto. Se guardiamo il Catechismo di Baltimora, vi leggeremo sopra che un Concilio è infallibile, ma esso non dice che il Concilio è infallibile in un suo qualsiasi pronunciamento. Cosa rende infallibile un Concilio? E’ il crisma dell’infallibilità. E la Chiesa insegna che possiamo verificare quando tale crisma viene esercitato. E’ esercitato quando la Chiesa definisce. Vi sono tre modi con cui la Chiesa definisce infallibilmente.
Il primo e più chiaro pronunciamento è quando il Papa, insieme ai vescovi radunati in un Concilio Ecumenico, definiscono solennemente e infallibilmente che un insegnamento è stato divinamente rivelato.
Il secondo avviene quando un Papa, da solo, pronuncia ex cathedra delle definizioni di Fede o di morale, esercitando il crisma dell’infallibilità, e pertanto non può essere in errore. Il Concilio può fare tutti gli errori di questo mondo quando non sta definendo, ma quando i Padri del Concilio, insieme con il Papa, pronunciano solennemente una definizione in termini di Fede o di morale, il Concilio non può errare. In questo senso va quindi interpretato il Catechismo riguardo all’infallibilità di un Concilio Ecumenico. Ecco come la Chiesa considera l’infallibilità, malgrado i neo-conservatori1 o i post-Conciliari2 possano pensare altrimenti.
Il terzo criterio di infallibilità nella Chiesa è il Magistero universale della Chiesa, il Magistero universale e ordinario, quando il Papa, insieme a tutti i vescovi Cattolici del mondo, nei loro insegnamenti ordinari, insegnano definitivamente che una dottrina va creduta; che una dottrina è stata divinamente rivelata.
Sono i neo-conservatori che guardano tutti gli errori del Vaticano II e dicono: “ebbene, non può essere un errore, perché è insegnato dal Concilio.” Sono sulla cattiva strada, perché non è l’insegnamento della Chiesa che qualsiasi pronunciamento di un Concilio sia da considerarsi infallibile. Ma è ciò che un Concilio definisce solennemente insieme al Papa ad esserlo: quest’ultimo è sicuramente infallibile. Essi obietteranno: “ma questi sono problemi dottrinali, importanti e seri problemi dottrinali. E’ il Papa insieme a tutti i vescovi del mondo che stanno insegnando tali argomenti, pertanto devono essere infallibili.” La risposta è “No! Non è infallibile. Non si tratta del Magistero universale e ordinario. Non è definitivo.”
Un Concilio è infallibile quando definisce. Quando il Concilio non definisce, il Concilio non è infallibile, e pertanto non è il Magistero universale e ordinario della Chiesa che sta parlando. Il Magistero universale e ordinario della Chiesa consiste in tutti i vescovi, di tutte le parti del mondo, che insegnano nelle loro diocesi – definitivamente – riguardo a materie di Fede e morale, insieme al Papa nella sua diocesi nei suoi insegnamenti ordinari – definitivamente – riguardo a materie di fede e morale. Ecco cosa viene chiamato infallibile Magistero universale e ordinario della Chiesa.
I vescovi ed il Papa che parlano in materia di dottrina in un Concilio Ecumenico non sono il Magistero universale e ordinario della Chiesa, e non sono infallibili – solo quando definiscono. E’ in questo contesto che possiamo chiaramente affermare che il Concilio Vaticano Secondo ha proclamato degli errori. Esso non ha assolutamente cercato di definire, non nel senso tecnico di una definizione dogmatica, nei modi di un solenne pronunciamento dello straordinario, infallibile Magistero della Chiesa. Anche nel senso ordinario del termine “definizione”, essi non hanno definito i propri termini.
Il Vaticano II non ha Definito l’Ecumenismo. Nel documento riguardante l’ecumenismo, si suppone che la Chiesa abbia proclamato l’ecumenismo. Ora, è una cosa piuttosto curiosa il fatto che nel proclamare l’ecumenismo, il Concilio non abbia chiaramente affermato cosa esattamente sia quest’ecumenismo. Hanno usato solo frasi descrittive, ma non hanno detto esattamente cosa fosse. Ebbene, gli esperti del Concilio – coloro che erano stati nominati espressamente quali esperti del Concilio, iperiti3– ovvero coloro che erano responsabili della stesura dei documenti, della loro correzione e revisioni; essi fecero in modo che il termine ecumenismo non venisse definito. Perché se avessero definito tale termine, almeno il 90% dei vescovi presenti al Concilio Vaticano II avrebbero urlato: “Questa è un eresia! Deve essere rifiutata. Non possiamo proclamare questa cosa, è un errore. E’ contro la Fede Cattolica, è eresia”.
Spieghiamo i motivi degli Eretici Modernisti. Pertanto, i periti Modernisti, sapevano che la battaglia si sarebbe persa istantaneamente se avessero osato definire i propri termini. Quindi lasciarono i termini indefiniti, e la loro scusa per non aver definito quelle cose fu: “dopo tutto, è un Concilio Pastorale. Non siamo qui per definire la dottrina, quindi non siamo qui per essere filosofici nella nostra definizione delle cose, questo è un Concilio pastorale. E quindi rinunciamo al compito di definire.” Ovviamente quella era la scusa. Il motivo reale dei liberali, ovvero più precisamente dei Modernisti, era che essi non osarono definire i propri termini perché sarebbero risultato smascherati per gli eretici che erano, e gli eretici che sono. L’ecumenismo è diametralmente opposto alla Fede Cattolica. Ed è chiaramente evidente quando si esamina cosa realmente sia. Papa Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Ut Unam Sint, si riferiva all’ecumenismo come avente orine nelle cosiddette Chiese della riforma: le chiese riformate, le chiese riformanti – in una sola parola: i Protestanti.
L’Ecumenismo è un’Eresia Protestante. Giovanni Paolo II riconosce che l’ecumenismo è un’invenzione Protestante. E’ questa cosa Protestante che ha invaso la Chiesa. Il Protestantesimo è un’eresia, e l’ecumenismo è una delle eresie del Protestantesimo. L’ecclesiologia del Protestantesimo è l’ecclesiologia dell’ecumenismo. L’ecclesiologia dell’ecumenismo è l’ecclesiologia dell’allora Cardinale Ratzinger, è l’ecclesiologia di Hans Küng e di tutti i modernisti. L’uomo in carica dell’ecumenismo nella Chiesa odierna è il Cardinale Walter Kasper, un’ecumenista; la sua ecclesiologia è Protestante. Ricordo quando visitai la Chiesa di San Tommaso a New York, di una bellezza tradizionale – contrariamente alla ristrutturata Cattedrale di San Patrizio in fondo alla strada, con il suo tavolo da banchetti posto dinanzi ai fedeli. Alla Chiesa di San Tommaso l’altare è orientato correttamente, ivi il cosiddetto sacerdote prega per incontrare il Signore, e la gente con lui. E c’è il messale, nell’epistilio dell’altare. Ci crediate o no, quella è una Chiesa anglicana Episcopale che sembra tanto Cattolica. Ho udito una volta la storia di una signora che ha passato i mesi estivi a New York, e che aveva l’abitudine di andare in quella chiesa (fosse San Tommaso o San Bartolomeo ora non ricordo con esattezza). A San Bartolomeo puoi vedere i confessionali, e l’altare situato nello stesso modo di San Tommaso, sembrano così tradizionali, così Cattolici. E dopo sette anni, ella scoprì che stava andando ad una chiesa anglicana. Pensava che fosse Cattolica Romana. Cosa l’aveva attratta in quelle chiese? Erano più Cattoliche delle sue parrocchie Romane. Non parlo di parrocchie Cattoliche, parlo di parrocchie ecumenico romane, parrocchie Protestanti Romane, parrocchie ecumeniche, dove non c’è più un altare oramai, ma piuttosto un tavolo da banchetto. E non ci sono più i bei confessionali di legno, come a San Bartolomeo, bensì una stanza di riconciliazione.
Come i Protestanti definiscono la Chiesa. C’è stata una nuova riforma nella Chiesa Cattolica, ed essa trae la propria ecclesiologia da quella chiesa che sembra Cattolica, ma non lo è. Mentre ero a San Tommaso, ho preso un opuscolo ed ho esaminato la presentazione della dottrina Anglicana, dove viene chiaramente affermato che non siamo religioni differenti, ma che siamo tutti parte di un’unica Chiesa Cristiana. Siamo differenti denominazioni dell’unica Chiesa Cristiana, sia che ci chiamiamo Romani, Cattolici, Ortodossi, Evangelici, Anglicani o Santi Rocchettari, per quanto possa importare. Qualunque sia la definizione, sono solo denominazioni di una stessa unica Chiesa Cristiana. Tutti professano la loro fede in Gesù Cristo, tutti fanno parte di un’unica chiesa universale. Questo è ecumenismo. Questa è l’ecclesiologia dell’ecumenismo. Questa è l’eresia dell’ecumenismo, diametralmente opposta all’insegnamento ed alla tradizione originali della Chiesa Cattolica, creata dal Signore, proclamata dagli Apostoli e salvaguardata dai Padri, come insegna Sant’Attanasio.
Qual è il Dogma Cattolico della Chiesa di Cristo. L’insegnamento Cattolico riguardo alla Chiesa Cattolica Romana è quello per cui Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, fondò l’Unica Santa Cattolica ed Apostolica Chiesa che durerà fino alla fine dei tempi. Tutte le altre religioni sono false, non piacciono a Dio e a meno che una persona non abbandoni le false chiese per unirsi alla Chiesa Cattolica Romana (che include i Riti Orientali della Chiesa Cattolica) e perseveri nella Fede Cattolica fino alla morte, egli non potrà salvare la propria anima. “Al di fuori della Chiesa non v’è salvezza” è un dogma definito solennemente per tre volte dai papi Cattolici. E’ riassunta nella fraseologia semplice e diretta usata da Gesù Cristo, Nostro Signore e Salvatore. “In quel tempo, Gesù disse ai Suoi discepoli: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matt. 28:18-20). Da notare quante volte Egli usi la parola “tutto”. Oggi è diventata una parola sporca, viene definito esclusivismo. “Come osi affermare che questa sia l’unica vera Chiesa e le altre religioni siano false?” C’è un unico Dio, ed Egli ha rivelato solo tramite la verità divina. C’è solo un’unica rivelazione divina, e si trova nell’unica Chiesa che Egli ha fondato. Come possono gli Indù o i Santi rocchettari possedere qualche aspetto in comune con la Fede Cattolica? E ogni chiesa differente, ogni diversa religione ha dottrine in conflitto tra loro. Essi insegnano cose differenti che sono opposte e contraddittorie, come il bianco col nero. Come possono dire realmente che “sono tutte la stessa cosa”?
Non il Dialogo, ma la Conversione. Nostro Signore Gesù Cristo ha detto: “Mi è stato dato tutto il potere”. Tutto il potere, non solo quello di parlare ai Cattolici. “Mi è stato dato tutto il potere… Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni… insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato.” Egli non ha invocato tutto il suo potere per mandarci la fuori semplicemente a dialogare con le altre religioni, ed a vivere in armonia perpetua ed in pace con i movimenti, per esempio, che non cercano altro che di distruggerci. Non tutti di loro desiderano quest’ultima cosa, ma quando il clero Islamico va sui minareti e proclama la guerra santa, la Jihad, allora anche i più miti tra i Mussulmani si avvieranno alla guerra.
L’Islam è contro la Fede Cattolica. L’empio libro del Corano afferma che tutti imushrik, ovvero gli infedeli, i bestemmiatori, gli idolatri, sono coloro che credono che l’Unico Dio sia in Tre Persone. Quando morì Santa Cecilia, martirizzata da un colpo mortale, in una mano aveva un dito alzato, nell’altre ne aveva tre. Tre Persone in un unico Dio: ella stava professando la Santissima Trinità nel momento del suo martirio. Si era rifiutata di praticare il paganesimo. E’ questo il vero dialogo ecumenico. Proclamare infallibilmente gli articoli della Fede e la fondazione di tutti i dogma e tutta la divina verità è il mistero impenetrabile della Santissima Trinità. L’Islam dice che coloro che professano il proprio credo nella Santissima Trinità sono idolatri; infedeli; sono mushrik.
L’Islam converte per mezzo della Spada. Cosa insegna il Corano riguardo all’idolatra, al bestemmiatore, all’infedele, almushrik? L’insegnamento di Maometto nel Corano è quello di uccidere il mushrik.
L’Islam vuole che tutti gli Uomini diventino Mussulmani. La Madonna di Fatima ha detto: “i buoni saranno martirizzati”. Sono i martiri coloro i quali, contrariamente allo spirito del dialogo ecumenico, rifiutano di lasciarsi spaventare dalla minaccia della spada. “Devi abbracciare l’Islam” dicono i mussulmani. Anche in un piccolo centro del New England, c’è un “centro” informativo Islamico, una parola che nasconde il fatto che c’è, in realtà, una moschea in città. E quando un sacerdote Cattolico ha visitato la moschea, gli è stato detto dal chierico islamico che “doveva convertirsi all’Islam”. Il Sacerdote ha detto: “No, no, non puoi dirmi questa cosa. Sono un sacerdote Cattolico, io credo in Gesù Cristo.” Il Mussulmano gli ha detto: “tutto il Nord America deve abbracciare l’Islam; esso sarà una terra islamica.” “Tutto” è la parola usata da Nostro Signore Gesù Cristo.
L’Ecumenismo è Impossibile. Si può affermare che vi è sempre un modo per far ragionare la gente e per provare a vivere insieme, pacificamente, anche se si hanno credi differenti l’uno dall’altro. Ma questa è la cosa che dobbiamo capire riguardo all’ecumenismo: le varie confessioni, di per se, sono in conflitto l’una con l’altra; sono inconciliabili. E quindi ci dovremmo chiedere in che direzione va l’ecumenismo e qual è lo scopo che cerca di ottenere? Se uno è un Massone, o un Comunista, allora capirà esattamente cosa vuole ottenere l’ecumenismo. E’ li per compiere qualcosa, ed in particolare per raggiungere gli scopi dei Massoni, dei Comunisti, che includono l’ideale ateo e anti-Cristiano di un Unico Governo Mondiale, di un'Unica Religione Mondiale, di un’Unica Tirannia Mondiale per schiavizzare tutta l’umanità. Ma in un contesto Cattolico, cosa può realizzare esattamente l’ecumenismo? Può realizzare qualcosa di Cattolico? Assolutamente no. E’ diametralmente opposto al Cattolicesimo. Esso cerca, all’interno del contesto Cattolico, di conciliare l’inconciliabile. Maometto dice: “converti il mondo all’Islam, e chiunque non abbracci l’Islam, sia tagliata la sua testa. Uccidi il mushrik!”
I Cattolici si Convertono per mezzo della Grazia e delle Missioni. Gesù Cristo ha detto: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. E’ questo compito che dobbiamo realizzare. I Mussulmani usano la spada, e la impugneranno, ma non otterranno nient’altro che spargimento di sangue. Ma essi non conquisteranno il mondo per l’Islam. Il mondo è pieno di infedeli e di idolatri. Coloro che possiedono la Fede Cattolica riconoscono questo fatto. Ma contrariamente all’Islam, noi non cominceremo ad usare i nostri mitra o le nostre spade, correndo a riempire di piombo chiunque non sia d’accordo con la nostra fede.
Gli Angeli ci difendono. Quando Attila Re degli Unni stava per distruggere Roma, Papa San Leone si incontrò con lui. Aveva 12 sacerdoti con lui, mentre Attila aveva tutto il suo esercito. Attila irrise il Papa: “dov’è il tuo esercito” e Papa Leone indicò i cieli, e li Attila vide un grande esercito di angeli. Fuggì terrorizzato, ed il suo esercito con lui. Scapparono in preda al terrore.
L’Islam è un flagello; è in lotta fino alla morte con la Cristianità, con la Fede Cattolica. E’ stato ispirato dal diavolo con lo scopo di portare la guerra contro la fede di Gesù Cristo. Maometto disse: “Dio invierà cinquemila angeli per dare la vittoria all’Islam, quindi non temete, procedete verso la battaglia.”
La Terza Guerra Mondiale con l’Islam è stata profetizzata. Sappiamo dal Terzo Segreto di Fatima, lo sappiamo dalle tante apparizioni della Madonna, è rivelato che vi sarà una Terza Guerra Mondiale. Sarà una guerra che scoppierà da Oriente verso l’Occidente, all’improvviso. E vi sarà una grande invasione dei Mussulmani in Europa, i quali compiranno numerosi atti di terrorismo in Europa, in Nord America ed in Asia: ovunque si trovino i Mussulmani. Sarà una Jihad coordinata in tutto il mondo. E tutti loro, con sfrontatezza, attaccheranno tutti coloro che chiamano mushriks, per ucciderne quanti più potranno.
Il Signore difende la Cristianità, se essa pregherà abbastanza. I Mussulmani non hanno capito che la promessa di Maometto è un falso. Non sono ancora arrivati alla conclusione, non hanno ancora fatto la connessione. I Saraceni vennero cacciati dall’Europa. I Mori vennero scacciati dalla Penisola Iberica. I Turchi attaccarono Malta all’inizio della loro guerra di conquista per rendere l’Europa un continente Mussulmano. Novanta navi piene di guerrieri Turchi vennero sconfitte da un esercito di 1500 monaci combattenti dell’ordine di San Giovanni, con l’aiuto di qualche nativo Maltese. Infine i Turchi erano pronti per attaccare di nuovo. Il capo dei Turchi, Solimano il Magnifico, ebbe dei ripensamenti, malgrado la vasta superiorità militare delle sue forze. Egli disse: “temo più le preghiere di Papa Pio V che tutte le navi da guerra di Venezia.” Ed aveva una buona ragione per temere le preghiere di Papa Pio V, perché quest’ultimo proclamò una Crociata. Crociata è per i Mussulmani la più sporca delle parole umane. Essi non capirono ancora la lezione, ed assediarono Vienna con un grande esercito. Superavano di numero le forze Cristiane in maniera così enorme, che non vi era possibilità, da un punto di vista terreno, di poterli sconfiggere. I Mussulmani vennero messi in rossa e fuggirono. Non ebbero neanche il tempo di prendere il loro caffé e di portarlo con se. Gli europei si godettero il bottino di guerra, ed è così che il caffé divenne così popolare in Europa. I Turchi erano stati sconfitti ancora una volta. In qualche modo, i cinquemila angeli promessi da Maometto non si erano visti al loro fianco. Da quale parte si sarebbero schierati? Ebbene, Papa San Leone indicò il Cielo e quell’esercito di Angeli divenne visibile. Allo stesso modo, durante la riconquista della Spagna quando i Mori vennero sconfitti in un luogo chiamato Covadunga. Venne eretto un santuario in memoria di quella grande battaglia che dette inizio alla riconquista, cacciando fuori i Mussulmani, rimandandoli nelle terre Arabe da cui provenivano. Un angelo fu visto venire dal Cielo in groppa ad un cavallo, ed egli aveva una grande sciabola tra le mani. E quest’angelo impugnò la spada e tagliò la testa dei Mori.
Il Trionfo della Madonna di Fatima su tutti gli infedeli. Gli angeli scendono dal Cielo, ma lo fanno per dare la vittoria ai Cristiani, non ai Mussulmani. Il giorno verrà, ed è stato detto dalla Madonna In persona a Suor Elena Aiello, che gli Arabi si convertiranno alla Fede Cattolica. La Russia si convertirà alla Fede Cattolica; lo sappiamo perché la Madonna di Fatima ha verificato le Sue promesse con il tremendo Miracolo del Sole. Un miracolo che avrebbe potuto essere unicamente opera di Dio; un miracolo che rafforza e ci ricorda le promesse dateci proprio dal Nostro Salvatore Divino. Ed è questo il motivo per cui non dobbiamo temere: gli angeli del Cielo verranno ancora e distruggeranno i senza Dio. Essi distruggeranno tutto ciò che è impuro e profano. Non è da Cristiani agitare l’arma della infedele Jihad, ma piuttosto rispondere ad essa per mezzo di una Santa Crociata. E l’ausilio degli angeli, degli eserciti angelici, è con i discepoli ed i seguaci di Cristo. E deve essere così, perché la promessa di Nostro Signore non ha una data di scadenza: “Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
PAPA FRANCESCO, LA TERZA GUERRA MONDIALE E IL QUARTO SEGRETO DI FATIMA: SIAMO AGLI ULTIMI TEMPI? Parole forti quelle del Pontefice, secondo il quale “siamo nella Terza guerra mondiale, ma a pezzi”. Si può sintetizzare così la visione del Papa davanti al precipitare della situazione irachena e del conflitto in Terrasanta. Proponiamo una riflessione di Antonio Socci, giornalista d'inchiesta su “fatti ecclesiastici”, secondo il quale esisterebbe una quarta parte dei Segreti di Fatima non ancora svelata e che farebbe riferimento ai tempi che stiamo vivendo. Che siano veramente gli ultimi? C’è una novità nel giallo del “terzo segreto di Fatima”, una profezia che attraversa tutto il Novecento e sembra proiettata alla sua realizzazione finale. La novità è contenuta in una pubblicazione ufficiale del Carmelo di Coimbra, quello dove è vissuta ed è morta (nel 2005) suor Lucia dos Santos, l’ultima veggente. S’intitola “Un caminho sob o olhar de Maria” ed è una biografia di suor Lucia, scritta dalle consorelle, con dei preziosi documenti inediti della stessa veggente. Prima di vederli bisogna ricordare bene qual è la storia di Fatima. La storia di un secolo. Nel divampare della Grande Guerra, il 13 maggio 1917 la Madonna appare, nel villaggio portoghese, a tre pastorelli. I giornali laici irridono i “creduloni” sfidando la Vergine a dare un segno pubblico della sua presenza. Lei preannuncia ai tre bimbi che darà il segno e nell’ultima apparizione, quella del 13 ottobre, 70 mila persona accorse alla Cova de Iria assistono terrorizzati al vorticare del sole nel cielo. Un fenomeno che l’indomani sarà riferito sui giornali (pure anticlericali). Nell’apparizione del 13 luglio la Madonna aveva affidato ai bambini un messaggio per il mondo intero. Era la grande profezia sui decenni successivi se l’umanità non fosse tornata a Dio. In effetti si realizzò tutto: la rivoluzione bolscevica in Russia, la diffusione del comunismo nel mondo, le sanguinose persecuzioni contro la Chiesa e infine la seconda tragica guerra mondiale. C’era poi una terza parte di quel segreto che si doveva rivelare – disse la Madonna – nel 1960. Arrivata quella data Giovanni XXIII secretò tutto perché terribile era il suo contenuto. Provocò così una ridda di ipotesi. Nel 2000 Giovanni Paolo II rese noto il testo del terzo segreto che contiene la famosa visione del “vescovo vestito di bianco”, con il Papa che attraversa una città distrutta, i tanti cadaveri e poi il martirio del Santo Padre, di vescovi, preti e fedeli. Da molti elementi si poteva intuire che non era tutto. Anche io, come altri autori, nel 2006 pubblicai un libro, “Il quarto segreto di Fatima”, dove mostravo che mancava la parte, scritta e inviata successivamente, con le parole della Madonna che spiegavano la visione medesima. Lo stesso segretario di Giovanni XXIII, monsignor Capovilla, che aveva vissuto tutto in prima persona, in una conversazione con Solideo Paolini accennò proprio all’esistenza di quel misterioso “allegato”. Da parte ecclesiastica si è ufficialmente smentito che esista e che vi siano profezie che riguardano i tempi odierni. Ma una clamorosa conferma implicita arrivò dallo stesso Benedetto XVI che durante un improvviso pellegrinaggio a Fatima, il 13 maggio 2010, affermò: “Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa”. Aggiunse: “sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano… e quindi sono sofferenze della Chiesa che si annunciano”. Ma quali profezie potrebbero trovarsi in quel testo? Fanno riflettere queste due frasi del Papa pronunciate in quel discorso a Fatima: “L’uomo ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce ad interromperlo”. E poi: “La fede in ampie regioni della terra, rischia di spegnersi come una fiamma che non viene più alimentata”. Dalle parole di papa Benedetto s’intuì dunque che c’è davvero dell’altro in quel Terzo Segreto ed è drammatico per il mondo e per la Chiesa. Proprio a quella visita del papa è forse dovuta l’uscita di questo libro che fa filtrare un altro pezzetto di verità. Il volume infatti attinge alle lettere di suor Lucia e al Diario inedito intitolato “Il mio cammino”. Impressionante, fra gli inediti, è il racconto di come suor Lucia superò il terrore che le impediva di scrivere il Terzo Segreto. Verso le 16 del 3 gennaio 1944, nella cappella del convento, davanti al tabernacolo, Lucia chiese a Gesù di farle conoscere la sua volontà: “sento allora che una mano amica, affettuosa e materna mi tocca la spalla”. E’ “la Madre del Cielo” che le dice: “stai in pace e scrivi quello che ti comandano, non però quello che ti è stato dato di comprendere del suo significato”, intendendo alludere al significato della visione che la Vergine stessa le aveva rivelato. Subito dopo – dice suor Lucia – “ho sentito lo spirito inondato da un mistero di luce che è Dio e in Lui ho visto e udito: la punta della lancia come fiamma che si stacca, tocca l’asse della terra ed essa trema: montagne, città, paesi e villaggi con i loro abitanti sono sepolti. Il mare, i fiumi e le nubi escono dai limiti, traboccano, inondano e trascinano con sé in un turbine, case e persone in un numero che non si può contare, è la purificazione del mondo dal peccato nel quale sta immerso. L’odio, l’ambizione, provocano la guerra distruttrice. Dopo ho sentito nel palpitare accelerato del cuore e nel mio spirito una voce leggera che diceva: “nel tempo, una sola fede, un solo battesimo, una sola Chiesa, Santa, Cattolica, Apostolica. Nell’eternità il Cielo!”. Questa parola Cielo riempì il mio cuore di pace e felicità, in tal modo che, quasi senza rendermi conto, continuai a ripetermi per molto tempo: il cielo, il cielo!”. Così le viene data la forza per scrivere il Terzo Segreto. L’inedito che ho appena citato è un documento molto interessante, dove gli addetti ai lavori trovano facilmente conferma alla ricostruzione storica per cui il Terzo segreto è composto di due parti: una, la visione, fu scritta e inviata prima, mentre l’altra – quella che nelle parole della Madonna è “il significato” della visione stessa – fu scritta e inviata successivamente. E’ il famoso e misterioso “allegato” a cui accennò Capovilla. E’ il testo, tuttora non pubblicato, dove presumibilmente sta la parte che più spaventava suor Lucia. La stessa parte che spaventò Giovanni XXIII (ma anche, prima di lui, Pio XII) e che Roncalli decise di non rendere nota perché – a suo avviso – poteva essere solo un pensiero di suor Lucia e non avere origine soprannaturale. E’ una parte così esplosiva che si continua tuttora, ufficialmente a negarne l’esistenza. E l’apertura di Benedetto XVI nel 2010, che ha portato anche alla pubblicazione di questo volume, oggi si è richiusa. Chi tace…Lo dimostra quanto è accaduto a Solideo Paolini, il maggiore studioso italiano di Fatima che, viste le pagine di questo libro che gli ho inviato, ha scritto al Carmelo di Coimbra chiedendo di poter consultare le due opere inedite menzionate nel volume, ritenendo che lì vi siano ulteriori dettagli sulla parte secretata. La lettera è arrivata a destinazione (ne fa fede la ricevuta), ma non ha avuto risposta. Paolini allora ha scritto di nuovo entrando nel merito e chiedendo se suor Lucia ha mai messo nero su bianco quel “significato della visione” che dall’Alto le era stato dato di comprendere e che quel 3 gennaio evitò di annotare su suggerimento della Madonna: “nelle opere che vi avevo chiesto di consultare c’è nessun riferimento a ‘qualcosa di più’ a riguardo del Segreto di Fatima, a tutt’oggi testualmente inedito?”. La lettera risulta pervenuta il 6 giugno. Ma anch’essa non ha avuto risposta. Eppure sarebbe stato semplice rispondere di no. Evidentemente la risposta era “sì”, ma non si può dare, perché sarebbe esplosiva. Così tacciono. Tuttavia la visione che ho appena citato rimanda ai due elementi che presumibilmente sono contenuti nel testo inedito del Segreto: la profezia di un’immane sciagura per il mondo e una grande apostasia e crisi della Chiesa. Una prova apocalittica al termine della quale – disse la Madonna stessa a Fatima – “il mio Cuore Immacolato trionferà”. A questo sperato “trionfo” fece riferimento nel 2010 Benedetto XVI: “Possano questi sette anni che ci separano dal centenario delle Apparizioni (2017) affrettare il preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità”. Significa che oggi, 18 agosto 2014, siamo già entrati nella spaventosa prova? In effetti se si guarda la cronaca…Antonio Socci
E se fosse Bergoglio il Papa del terzo segreto di Fatima? Scrive Francesco Antonio Grana il 31 marzo 2016 su "Il Fatto Quotidiano". E se fosse Bergoglio il Papa del terzo segreto di Fatima? Se quel “vescovo vestito di bianco” che viene “ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce”, secondo il racconto dell’ultima veggente suor Lucia dos Santos, fosse Francesco? A riaprire il caso sono le presunte apparizioni mariane che avrebbe ricevuto a Roma, dal 1947 fino alla sua morte avvenuta nel 2001, Bruno Cornacchiola. Nel volume Il veggente (Salani) Saverio Gaeta, caporedattore dei settimanali della San Paolo Famiglia cristiana e Credere, ripercorre per la prima volta in modo sistematico queste rivelazioni. E tra le profezie che la Madonna avrebbe svelato a Cornacchiola molte riguardano proprio l’assassinio di un Papa. “Sogni, sempre sogni, – scrive nel 1975 il presunto veggente – è un periodo di tempo che non faccio altro che sognare il Papa che fugge: non Paolo VI, ma un altro. Lo aiuto e il mondo salta in aria; sangue, molto sangue, che sembra melma e molti restano presi come se fosse pece, restano attaccati. Molti sacerdoti e suore in piazza San Pietro squartati”. Anche Cornacchiola racconta di aver visto la stessa profezia che i tre pastorelli di Fatima, i beati Giacinta e Francisco Marto, oltre a suor Lucia, videro nel 1917. “Il Papa, – annota il presunto veggente – colpito gravemente, cade. Subito, coloro che stanno insieme con lui corrono ad aiutarlo e lo rialzano. Il Papa è colpito la seconda volta, cade di nuovo e muore. Un grido di vittoria e di gioia risuona tra i nemici; sulle loro navi si scorge un indicibile tripudio. Senonché, appena morto il Pontefice, un altro Papa sottentra al suo posto. I piloti radunati lo hanno eletto così subitamente, che la notizia della morte del Papa giunge colla notizia dell’elezione del successore. Gli avversari incominciano a perdersi di coraggio”. Il 19 giugno 1982, quindi un anno dopo l’attentato a san Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981, Cornacchiola annota ancora: “Non vorrei essere preso per iettatore, né per indovino, ma questa notte di nuovo sogno: mi trovo a San Pietro proprio davanti alla Basilica, si attendeva il Papa, la gente attorno gridava: Eccolo, eccolo!. Mi presento davanti a lui, la scorta mi allontana, un grido, il Papa è a terra intriso di sangue, non mi fanno avvicinare, piango, mi sveglio e prego molto per lui”. Il 1° marzo 1983 Cornacchiola scrive: “Quello che mi hai fatto vedere, o Signore, sangue in quantità sopra il bianco vestito del Papa, fa’ che non si avveri”. E il 7 febbraio 1986 aggiunge: “Mentre il Papa stava celebrando la messa, si sente una grande confusione e voci che si elevano minacciose, avanzano verso l’altare, la polizia incomincia a sparare, grida, fuggi fuggi, il Papa viene colpito, il sangue arrossa l’abito talare bianco e si sente gridare: ‘È morto! È morto’”. I contenuti di queste profezie sono già presenti nel primo messaggio che la Madonna avrebbe affidato a Cornacchiola nel 1947: “La Chiesa sarà lasciata vedova, ecco il drappo talare funebre, sarà lasciata in balia del mondo”. Nel 1970 il presunto veggente annota ancora: “Un sogno mi ha tenuto in apprensione tutta la notte. Il Papa circondato da cardinali e vescovi che gridano verso di lui dicendogli parole rivoluzionarie: ‘Non vogliamo vivere una vita imposta, ma liberi e praticare la religione a nostro piacere e sistema locale’. Il Papa gridava piangendo: ‘No, non è possibile sostituire con culti pagani il culto di Cristo, la Chiesa ha lottato molto per abbattere l’ateismo e l’idolatria’. Il Papa viene preso e scaraventato dentro un pozzo”. Quando durante il Grande Giubileo del 2000 Wojtyla decise di rendere pubblico il terzo segreto di Fatima dichiarò di aver letto in esso l’attentato subito per mano di Agca. Ma voci autorevoli all’interno della Chiesa cattolica hanno successivamente sostenuto che la profezia rivelata dalla Madonna ai tre pastorelli non si è esaurita con quanto avvenuto a san Giovanni Paolo II. A iniziare da Benedetto XVI che nel 2010 proprio in Portogallo davanti al luogo delle apparizioni disse: “Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa”. E con i giornalisti sul volo papale spiegò: “Oltre questa grande visione della sofferenza del Papa, che possiamo in prima istanza riferire a Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano”. A fare eco alle parole di Ratzinger è stato il cardinale portoghese José Saraiva Martins, amico di suor Lucia e a lungo prefetto della Congregazione per le cause dei santi. Il porporato ha spiegato che “il terzo segreto di Fatima è stato rivelato tutto, ma ciò non toglie che può darsi che succeda ancora che sparino a un Papa come si legge nel testo dell’ultima veggente”. Nelle profezie riportate da Cornacchiola c’è molto altro: dalla tragedia di Superga in cui persero la vita tutti gli uomini del Grande Torino, all’elezione del beato Paolo VI avvenuta nel 1963, alla guerra dello Yom Kippur nel 1973, al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro nel 1978, dall’attentato a san Giovanni Paolo II nel 1981 all’esplosione del reattore della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986, fino alla caduta delle Torri Gemelli nel 2001. Ma ci sono anche rivelazioni che riguardano la piaga della pedofilia del clero e il terrorismo di matrice islamica. Profezie, però, alle quali la Chiesa, almeno fino a oggi, non ha dato molto credito.
L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO.
Perché Renzi è contro l'Unesco su Gerusalemme. A tre giorni dal voto che nega i legami fra la storia dell'ebraismo e i luoghi sacri, il presidente del Consiglio ha definito "allucinante" la vicenda e ha ordinato un'inversione di rotta della nostra diplomazia, scrive il 21 ottobre 2016 Panorama. Secondo Mattero Renzi la risoluzione dell'Unesco sui luoghi santi di Gerusalemme è una vicenda allucinante. "Occupied Palestine", il titolo del documento, secondo Israele nega i profondi legami storici fra i luoghi santi di Gerusalemme e l'ebraismo. La risoluzione era stata approvata dall'executive board dell'Unesco martedì 18 ottobre, sollevando proteste e rabbia in Israele e fra gli ebrei di tutto il mondo. Difficile che il voto del consiglio Unesco possa avere un impatto concreto sull'uso dei luoghi sacri a Gerusalemme, anche se ha un fortissimo valore simbolico che si sta traducendo in numerose schermaglie diplomatiche. Del resto da parecchi anni Israele vede nelle misure dell'Unesco una sorta di esemplificazione di un pregiudizio anti-israeliano dell'Onu, dove Israele e i paesi che lo sostengono sono sempre in minoranza rispetto ai paesi arabi e a il loro alleati. Nel 2011 la Palestina è stata ammessa come membro dell'Unesco. L'Italia si è astenuta sulla risoluzione. E oggi, a tre giorni dal voto, Matteo Renzi è ritornato sulla questione, correggendo pesantemente il tiro e definendo "incomprensibile, inaccettabile e sbagliato" l'utilizzo nel testo della sola definizione araba per il sito che i musulmani chiamano "Spianata delle Moschee", mentre per gli israeliani è il "Monte del Tempio", comprendente, tra l'altro, il Muro del Pianto. In Israele hanno gradito la presa di posizione di Renzi: "Ringraziamo e ci felicitiamo con il governo italiano per questa importante dichiarazione", ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nahshon. Sul quotidiano Haaretz fonti governative che hanno voluto mantenersi anonime hanno inoltre elogiato "la comprensione da parte di Renzi della verità storica, e del tentativo che è stato fatto di eliminare una parte della storia del giudaismo e della cristianità a Gerusalemme". Il premier italiano non si è peraltro fermato alle critiche nello specifico ma, alludendo al mancato voto contrario dell'Italia espresso invece da altri Stati occidentali e comunitari (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Paesi Bassi, Lituania ed Estonia) ha adombrato anche un nuovo atteggiamento generale sulla questione mediorientale. Al momento di decidere "la Farnesina e il governo sono andati in automatico", ha spiegato nel corso della conferenza stampa tenuta a Bruxelles al termine del vertice Ue. Si tratta di "una posizione che abbiamo preso per tanti anni", però "questo non vuol dire che non sia arrivato il momento di cambiare", ha sottolineato. "Non può esistere un giudizio come quello che è stato dato". Renzi ha quindi reso noto di aver impartito direttive al personale diplomatico affinché "intervenga" e chiarisca meglio che cosa se ne pensa a Roma. Lui stesso intende discuterne di persona con il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. E "se su questo c'è bisogno di rompere l'unità europea, si rompe", ha tagliato corto. Soddisfatta di tali puntualizzazioni si è subito detta la Comunità Ebraica italiana, che aveva manifestato il proprio sconcerto per l'astensione italiana. Anche se l'agenzia Onu ormai ha adottato il documento, peraltro con un numero di pareri positivi inferiore a quello delle astensioni (24 a 26 rispettivamente), il fronte dei sostenitori mostra più di un cedimento: il Messico vorrebbe addirittura che si tenesse un'altra votazione mentre il Brasile, pur confermandosi favorevole, non ha nascosto delusione per il contenuto e lo stile del testo definitivo, e per l'avvenire ha escluso di appoggiarne altri simili. La risoluzione Unesco indica, tra l'altro, Israele come "un potere occupante", condanna "le crescenti aggressioni di Israele, in particolare degli estremisti di destra", disapprova "le restrizioni imposte da Israele all'accesso ai luoghi sacri", si rammarica "per il rifiuto di Israele di concedere i visti agli esperti dell'Unesco", si duole "per i danni causati dalle Forze armate israeliane", deplora il progetto israeliano di costruire due linee tranviarie nella città vecchia di Gerusalemme e un "visitor center" a sud della Spianata. La risoluzione riafferma altresì che la porta di Mughrabi è "parte integrante della moschea Al Aqsa e della Spianata delle Moschee", che le tombe dei patriarchi a Hebron e quella di Rachele a Betlemme sono "parte integrante della Palestina". L'Unesco, infine, deplora "con forza il blocco israeliano della striscia di Gaza e l'intollerabile numero di vittime tra i bambini palestinesi".
L'Unesco ratifica la vergogna. "Il Muro del Pianto è arabo". Confermato a maggioranza l'antistorico voto di giovedì scorso. E l'Italia contribuisce astenendosi, scrive Fiamma Nirenstein, Mercoledì 19/10/2016, su "Il Giornale". È un bagno di realtà il voto di ieri all'Unesco, in cui si è stabilito che secondo la maggioranza del mondo gli asini volano, che Roma non è mai stata la sede del papato, ovvero che la luna è fatta di formaggio, cioè che Gerusalemme è un sito solo musulmano e in particolare lo è il monte del Tempio col Muro del Pianto, chiamato nella risoluzione votata solo «complesso della Moschea»: la risoluzione, purtroppo reale, che è stata votata ci dice infatti che le decisioni e le opinioni espresse dall'Onu e dai suoi succedanei su Israele sono pura menzogna, veleno distillato sui principi stessi della conoscenza, negazionismo pari a quello della negazione della Shoah, distruzionismo pari a quello dell'Isis su Palmira. Da questo momento dunque, per chi ha un cervello, forse ci sarà più attenzione a non bersi senza discutere le mille risoluzioni contro Israele dell'Assemblea dell'Onu, del Consiglio di Sicurezza, del Consiglio per i Diritti Umani. La maggioranza che vota è sempre la stessa; gli stessi sono i Paesi occidentali che non sanno dire di no a un'assurdità come quella che ieri è stata statuita. Ma che cosa può avere portato la Russia e la Cina a votare per l'arabizzazione di Gerusalemme se non la fame di potere e l'interesse? Che cosa ha condotto l'Italia, che ospita a Roma l'arco di Tito con i bassorilievi degli ebrei in catene con la Menorah, prova provata della loro appartenenza a Gerusalemme; che cosa ha spinto la Grecia, che mai vorrebbe veder discussa la sua eredità storica, ad astenersi? Ma tant'è: 24 nazioni spudorate, per la maggior parte islamiche, hanno votato a favore; 26 pusillanimi fra cui l'Italia si sono astenute; 6 coraggiose hanno votato contro, Stati Uniti, Gran Bretagna, Lituania, Olanda, Germania, Estonia. Si cerca qualche consolazione nell'idea che oggi il voto è meno unanime di quello che sarebbe stato in passato. Ma è poca roba. Le polemiche che lo hanno accompagnato vedono il gesto notevole dell'ambasciatore del Messico Andres Roemer che ha lasciato la sala e ha tentato di cambiare il voto negativo del suo Paese, ed è stato poi licenziato; il tentativo del presidente tedesco del direttivo Michael Worbs che ha espresso opposizione e ha tentato di posporre il voto e poi è stato costretto a autosospendersi; e infine il capo dell'Unesco Irina Bokova, che si era espressa contro e che ha ricevuto quindi minacce di morte e il rafforzamento della scorta. È un paradigma indispensabile: la violenza accompagna sempre il furioso odio antisraeliano e anticristiano. Le minacce di morte vengono insieme alla difesa di Israele e dei cristiani. Gesù Cristo è l'icona perfetta della storia ebraica a Gerusalemme: era ebreo, anche lui non c'è mai stato per l'Unesco? O ha salito lo scalone del Tempio di Erode e ha predicato ai mercanti? Flavio Giuseppe ha descritto minuto per minuto la presa di Gerusalemme da parte dei Romani, nei secoli fino a Beniamino di Tudela, Mark Twain, Winston Churchill, chi non ha testimoniato l'amore totale del suo popolo per quel luogo? Persino Giuseppe Verdi l'aveva ben capito, come si canta in «Va' pensiero». L'aggressione dell'Unesco non è nuova, esso è sempre stato uno dei corpi più estremisti e corrotti delle Nazioni Unite. Ma stavolta la sua funzione può essere utile. Questo è di prima categoria: si tratta della distruzione culturale di un pilastro della storia, quello della fondazione delle religioni monoteiste. L'attacco agli ebrei ha sempre avuto il segno della distruzione del Mondo Occidentale, della guerra, del terrorismo. Non c'è nulla di strano nel fatto che i Paesi occidentali si siano astenuti nella buona parte: si sono sempre girati dall'altra parte di fronte all'odio degli ebrei accompagnata dalla denigrazione di Israele.
Gerusalemme, l'Unesco fa il bis. "Ebrei e cristiani non c'entrano". Dopo il Muro del pianto, mercoledì si vota un'altra folle risoluzione. L'Italia non partecipa ma può farsi sentire, scrive Fiamma Nirenstein, Lunedì 24/10/2016, su "Il Giornale". Una volta portato a casa il bel risultato antisemita del Comitato Esecutivo dell'Unesco, adesso, a una sola settimana di distanza, mercoledì, avanti l'World Heritage Commitee dello stesso organismo per rafforzare la menzogna si va a votare di nuovo la risoluzione più «allucinante» (parola di Matteo Renzi) che ci sia: quella per cui ebrei e cristiani non hanno nulla a che fare con Gerusalemme, e col suo patrimonio culturale e archeologico. «Come se si affermasse che il sole crea il buio», ha detto Netanyahu. La luce che accende l'Unesco è di nuovo psichedelica: solo i musulmani, secondo il board e adesso secondo il comitato, potranno vantarne l'eredità culturale e quindi gestirne anche, ovviamente, l'aspetto istituzionale e statale. Perché per l'Unesco la Palestina è uno stato: l'ha votato, primo nel mondo, nell'ottobre del 2011 per poi, indovinate, passare l'anno successivo alla consegna al nuovo membro dell'Unesco del... Se cercavate di indovinare di quale sito ebraico si tratta dobbiamo disilludervi. Non di un'eredità ebraica si tratta, ma della Chiesa della Natività di Betlemme, quella della mangiatoia e del bue e l'asinello. La portavoce dell'Autorità palestinese Hanan Ashrawi dichiarò subito che si trattava di un'affermazione della sovranità palestinese. Ed è appunto questo il punto. Tutte queste mosse tendono a un'affermazione politica che non ha niente a che fare con la cultura, ma solo con la politica che prevede la criminalizzazione e la negazione di ogni diritto del popolo ebraico alla sua terra. Una strategia programmata che prevede una guerra diplomatica mortale, sin dai tempi di Arafat. Adesso, mercoledì, la nuova risoluzione non metterà alla prova l'Italia perché il comitato che vota è formato da 21 stati di cui l'Italia non fa parte. Ed è sicuro, se si guarda la lista, che non ci saranno neppure quelle consolazioni che aveva sottolineato l'ambasciatore israeliano all'Unesco, Carmel Shama-Hacohen per la precedente deliberazione: il Monte del Tempio viene chiamato nella nuova risoluzione col nome musulmano e basta «Al Aqsa Mosque e Al Haram al Sharif», e definito «un luogo santo musulmano di preghiera». Almeno la settimana scorsa nel testo c'era un passaggio (periferico) che parlava dell'«importanza della Città Vecchia di Gerusalemme per le tre religioni monoteiste». Adesso questo passaggio è sparito. Il Messico e il Brasile che si sono anch'esse pentite di aver votato «si», oltre all'Italia, astenuta, non sono membri del comitato. Netanyahu che dopo la decisione di Renzi gli ha telefonato per esprimergli apprezzamento, ha aggiunto che se i Palestinesi continuano a scegliere questo «pericoloso sentiero, cioè una jihad diplomatica contro il popolo ebraico, si dovranno accorgere che le sorprese dell'ultima settimana da parte del Messico e dell'Italia non sono che l'inizio». In effetti, tutto il palcoscenico approntato dall'Unesco è una finzione, che nasconde ormai una crescente impazienza fra gli antichi sostenitori di Abu Mazen perché l'ideologia palestinese che loda il terrorismo e non lascia posto alla trattativa. Sia l'Egitto che l'Arabia Saudita che i Paesi del Golfo, per non parlare della Cina e dell'India, partigiani della causa palestinese tout court, stanno rivedendo il rapporto con Israele in nome della comune guerra contro l'islamismo e il terrore e per lo sviluppo tecnologico e economico. L'Unesco vuole rimanere la casamatta della scelta di distruggere lo Stato Ebraico che somiglia molto, però, a una tecnica suicida. Commentando la posizione di Renzi, Netanyahu ha anche detto che «il cambiamento delle istituzioni dell'Onu prenderà qualche anno ma ecco i primi segni di un cambiamento molto benvenuto». Sarebbe bello se l'Italia, pronunciandosi sulla prossima seduta di mercoledì, invitasse i colleghi a una nuova presa di posizione.
Siamo assuefatti all'islamizzazione del nostro mondo. In Italia ci stiamo assuefacendo all'islamizzazione assumendo il comportamento di chi sceglie di suicidarsi inalando un gas letale a piccole dosi, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 21/08/2016, su "Il Giornale". Il fatto che il governo, la Chiesa, la sinistra, le femministe, più in generale i cultori del relativismo che è la fede egemone condivisa trasversalmente nell'Europa che fu cristiana, convergano sulla legittimazione del burkini, una gabbia di stoffa che imprigiona il corpo delle donne musulmane che fanno il bagno al mare o in piscina, significa che in Italia ci stiamo assuefacendo all'islamizzazione assumendo il comportamento di chi sceglie di suicidarsi inalando un gas letale a piccole dosi, assimilandolo al punto da poterlo tollerare il più a lungo possibile, fino all'ineluttabile morte che proprio perché voluta ci immortalerà con il sorriso sulle labbra. Abbiamo rapidamente legittimato il velo islamico semplice, perché tutto sommato anche le nostre nonne lo indossavano. Poi abbiamo legittimato il velo islamico integrale con una circolare del ministero dell'Interno del 2005, nonostante violi in modo flagrante l'articolo 5 della legge 152 del 1975. In parallelo abbiamo legittimato l'islam come religione, nonostante non sia considerato una religione «ugualmente libera davanti alla legge», non ottemperando all'articolo 8 della Costituzione che esige sia la stipula di un'intesa con lo Stato sia che il proprio statuto non contrasti con l'ordinamento giuridico italiano. Ciononostante abbiamo legittimato la proliferazione sul territorio italiano delle moschee, delle scuole coraniche, di macellerie e alimentari halal, di associazioni ed enti assistenziali islamici, di «comunità islamiche». Il nostro vero problema è che siamo a tal punto fragili dentro che solo quando siamo costretti alla dolorosa conta dei nostri morti colpiti dalla ferocia del terrorismo islamico, scopriamo l'onestà intellettuale di guardare in faccia alla realtà dell'islam e riscattiamo il coraggio umano di denunciarne l'intrinseca violenza, a cominciare dalla riduzione della donna a schiava sessuale («Le vostre spose per voi sono come un campo. Venite pure al vostro campo come volete». Corano - 2, 223). È il caso della Francia, il Paese più colpito dalla ferocia islamica, il cui capo di governo Manuel Valls ha correttamente detto che «il burkini è la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato tra l'altro sull'asservimento della donna. Dietro il burkini c'è l'idea che per natura le donne sarebbero impudiche, impure, che dovrebbero dunque essere completamente coperte. Di fronte alle provocazioni la Repubblica deve difendersi». Ebbene nell'Italia disinvolta che è stata finora risparmiata dalle stragi che hanno insanguinato la Francia solo perché consentiamo ai terroristi islamici di entrare senza documenti, senza essere identificati e li ospitiamo gratuitamente, il ministro dell'Interno Alfano ha legittimato il burkini sia perché formalmente non violerebbe la legge sia soprattutto perché vietarlo sarebbe una provocazione che potrebbe «attirare reazioni violente». Possibile che mentre per la Francia la provocazione è indossare il burkini, per l'Italia sarebbe il vietarlo? D'accordo con Alfano è la Chiesa, che attraverso il vescovo Nunzio Galantino, segretario della Conferenza episcopale italiana, ha tagliato corto: «Trovo paradossale che ci allarmi una donna troppo vestita mentre sta facendo il bagno al mare». Ed è così che stiamo inalando man mano il gas letale dell'islam con cui ci stiamo suicidando. Non abbiamo capito che il velo semplice, il velo integrale, l'islam, le moschee, il burkini, l'auto-invasione di clandestini islamici, il terrorismo islamico autoctono ed endogeno, sono tappe della crescente islamizzazione. Con le loro divise, le loro fortezze, i loro giovanotti nel pieno della fertilità maschile, le loro donne che sbarcano incinte, con i loro «martiri» che aspirano a conquistare le 72 vergini massacrandoci in quanto «miscredenti», occupano spazi fisici, spirituali, giuridici, demografici, politici e finanziari. È solo questione di tempo prima che ci sottomettano del tutto all'islam. A meno che non ci svegliamo dal sonno della ragione, riscattiamo la certezza e l'orgoglio di chi siamo, ritroviamo il coraggio di combattere per vincere la guerra scatenata dall'islam.
Ci siamo arresi all'islamizzazione. Da sabato in edicola con il Giornale, a 8,60 euro più il costo del quotidiano, il volume Islam. Siamo in guerra, scrive Magdi Cristiano Allam, Venerdì 18/09/2015, su "Il Giornale". Nel mio nuovo libro Islam. Siamo in guerra (da domani in edicola con Il Giornale e in libreria), evidenzio come in parallelo al Jihad, la guerra santa islamica, scatenata dal terrorismo islamico dei tagliagole, che ci sottomettono con la paura di essere decapitati, e dei taglialingue, che ci conquistano imponendoci la legittimazione dell'islam, del Corano e delle moschee, l'arma vincente della strategia di islamizzazione dell'Europa è l'invasione demografica. Su circa 500 milioni di abitanti dei 29 Paesi membri dell'Unione Europea, solo il 16 per cento, pari a 80 milioni di abitanti, hanno meno di 30 anni. Viceversa su circa 500 milioni di abitanti della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo, sommando le popolazioni dei 22 Stati arabofoni più quelle della Turchia e dell'Iran, ben il 70 per cento ha meno di 30 anni, pari a 350 milioni di abitanti. Quando si mettono su un piatto della bilancia 80 milioni di giovani europei, cristiani in crisi d'identità con una consistente minoranza musulmana, e sull'altro 350 milioni di giovani mediorientali, al 99 per cento musulmani, convinti che l'islam è l'unica «vera religione» che deve affermarsi ovunque nel mondo, il risultato indubbio è che gli europei sono destinati ad essere sopraffatti demograficamente e colonizzati ideologicamente dagli islamici. A un certo punto i musulmani non avranno più bisogno di farci la guerra o ricorrere al terrorismo. Potranno sottometterci all'islam limitandosi ad osservare le regole formali della nostra democrazia, che premia il soggetto politico più organizzato e influente, in grado di condizionare e di accaparrare il consenso della maggioranza, astenendosi dall'entrare nel merito dei contenuti delle ideologie e delle religioni, soprattutto dell'islam. Già nel 1974 il presidente algerino Boumedienne previde che l'Europa sarà conquistata con il «ventre delle nostre donne». Nel 2006 il leader libico Gheddafi disse che «50 milioni di musulmani in Europa la trasformeranno in un continente musulmano in pochi decenni». Ebbene sconvolge che, a fronte dell'evidenza della conquista demografica da parte degli islamici che costituiscono la stragrande maggioranza dei clandestini che ci invadono a partire dalla Libia e dalla Turchia, l'Onu, l'Unione Europea, l'Italia e la Chiesa concordano sul fatto che dobbiamo spalancare incondizionatamente le nostre frontiere. Il presidente della Commissione Europea Juncker il 9 settembre ha detto: «Gli europei devono prendersi carico di queste persone, abbracciarli e accoglierli». Papa Francesco il 14 settembre ha esaltato questa invasione: «Gli immigrati ci aiutano a tener viva la nonna Europa». Il capo dello Stato Mattarella il 16 settembre ha qualificato l'invasione come «un fenomeno epocale (…) che richiede una gestione comune dell'Unione». Emma Bonino l'8 settembre ha chiarito: «L'Europa vive un calo demografico importantissimo, per il 2050, cioè domani, avrà bisogno di 50 milioni di immigrati per sostenere il proprio sistema di welfare e pensionistico». Di fatto stiamo subendo la strategia di genocidio eugenetico profetizzata dal conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi (1894 - 1972), sulla cui lapide ha voluto essere tramandato come il «Pioniere degli Stati Uniti d'Europa»: «L'uomo del lontano futuro sarà un meticcio. Le razze e le caste di oggi saranno vittime del crescente superamento di spazio, tempo e pregiudizio. La razza del futuro, negroide-eurasiatica, simile in aspetto a quella dell'Egitto antico, rimpiazzerà la molteplicità dei popoli con una molteplicità di personalità». Ecco perché è fondamentale conoscere la verità di ciò che sta accadendo dentro e fuori di casa nostra. Soprattutto è vitale essere consapevoli che siamo in guerra, che o combattiamo per vincere o saremo sottomessi dall'islam.
Musulmani fanatici e moderati: il fine è lo stesso, l’islamizzazione del mondo, su Italians del Corriere della Sera del 29 novembre 2015. "Caro Severgnini, mi permetta di dissentire dalle riflessioni contenute nel suo “La tentazione di una guerra sbagliata”. L’America di Bush (destra) reagì ad un attacco terroristico esterno che fece 3mila morti; la Francia di Hollande (sinistra) sta reagendo in modo identico ad un attacco interno che ha fatto 130 morti e ha rivelato lo spaventoso livello organizzativo dei fanatici assassini di casa nostra, l’Europa. Bush fece l’errore di non pensare al “dopo Saddam Hussein”, un dittatore “gassatore” ben più crudele di Assad. Europa ed America insieme, ispirati dall’ingenuo pacifismo di Obama, hanno fatto l’errore di applaudire alle Primavere Arabe contro dittatori laici per aprire la strada a nuovi dittatori ispirati dal Corano. Hanno fatto l’errore (Francia per prima) di assassinare Gheddafi senza pensare al “dopo Gheddafi”. Insieme stanno facendo l’errore di imbarcare la nuova Turchia musulmana di Erdogan (più pericoloso di Assad) nella guerra contro l’Isis… Per farla breve abbiamo e stiamo sbagliando tutto. Viene allora da chiedersi se l’Islam, quello terroristico e quello “moderato”, possa essere affrontato in modo intelligente e razionale. Io credo di no, e mi allineo sulle posizioni di chi sostiene (come il “Corriere”, però a giorni alterni) che Oriana Fallaci aveva perfettamente ragione. Lei dice che, “esasperata”, Oriana commise l’errore di non dividere gli islamisti assassini dai musulmani pacifici. Nient’affatto: conosceva benissimo l’Islam, e aveva capito che assassini e pacifici avrebbero trovato un punto di contatto e di intesa indipendentemente dagli errori dell’Occidente commessi nell’affrontare i problemi dell’Islam, inclusa la guerra tra Sciiti e Sunniti con milioni di morti. Lei e altri pensate che dobbiamo evitare una saldatura tra assassini e moderati. Ma non volete vedere che la saldatura già esiste. Da sempre. Ed è scritta nel Corano. Qualunque sia il modo di interpretarlo. Perchè il fine è lo stesso: l’islamizzazione pacifica o violenta del mondo. Giuseppe Maselli.
Egitto. Nasser disse che i Fratelli Mussulmani volevano imporre il velo e ciò sembrò una cosa comica. Nell'Egitto laico del 1953 il presidente Gamal Abd el-Nasser si faceva beffa del movimento islamista dei Fratelli Musulmani e si ironizzava sulla possibilità che le donne potessero essere obbligate a portare il velo. Eppure...
L'islamizzazione del mondo si compie grazie alle donne. Giovedì 25 agosto 2016. Fonte: Islamicamentando. Nell’Egitto laico del 1953 il presidente Gamal Abd el-Nasser si prendeva gioco del movimento islamista dei Fratelli Musulmani e ironizzava sulla possibilità che le donne potessero essere obbligate a portare il velo. È il 1953 quando il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser pronuncia questo discorso davanti ad una platea numerosa. Nasser, che governò l’Egitto dal 1956 al 1970, racconta il suo incontro con il consigliere generale dei Fratelli Musulmani, al quale aveva chiesto quali fossero le sue richieste. Nel video si vede che la richiesta di «imporre il velo a tutte le donne» da parte dei Fratelli Musulmani provoca grandi risate e battute da parte di tutti i presenti. Questo video ci deve far riflettere, perché ci fa capire che il più grosso errore che si possa fare con l’islam e le organizzazioni che si impegnano per diffonderlo è quello della sottovalutazione. Un tale divertimento di fronte alla proposta di obbligare le donne a portare il velo ci fa capire che in quegli anni, in Egitto (come in molte altre parti del mondo), l’Islam non veniva percepito come una vera minaccia, giacché le regole della sharia sembravano lontane dai costumi della società. Eppure, la storia ce lo dimostra, le cose sono andate come non ci si aspettava. La “guerra del velo” é da sempre uno dei principali punti programmatici dell'“Islam politico”. Come ebbero a dire i Fratelli Musulmani: “La nostra marcia per il governo è iniziata quando abbiamo fatto velare le nostre colleghe all’università”. Nei paesi dove oggi la maggior parte delle donne indossano lo chador, il niqab o addirittura il burqa, fino a vent’anni fa, per parecchio tempo, questo tipo di abbigliamento era una cosa rara, mentre invece l’abbigliamento occidentale era il più comune. Tutti i casi di stravolgimento della cultura dominante in favore dell’Islam ci rimandano alla strategia dell’ “islamizzazione silenziosa”. La prima fase di questo tipo di islamizzazione (necessaria là dove la jihad armata non è praticabile) passa attraverso la sottomissione della donna, con le buone (in maniera subdola) o con le cattive (attraverso la legge o con la violenza). Ovviamente, non c’è islamizzazione della donna se non c’è la sua sottomissione, e non c’è sottomissione se non c’è il velo. In uno Stato a maggioranza musulmana, obbligare le donne a coprirsi (come vuole qualsiasi musulmano praticante) è molto più semplice, perché nel tempo è possibile sfiancare la loro volontà, annullandone la personalità, e così convincerle che quella sia davvero la cosa giusta. Il motivo per cui l’islamizzazione della donna è una priorità è semplice: le donne sono le principali educatrici dei bambini, quindi se loro sono buone musulmane anche i bambini lo saranno. Se loro sono sottomesse all’uomo, anche i bambini saranno timorati di Allah. Se molti bambini cresceranno timorati di Allah una volta adulti si avrà una ummah (comunità musulmana) forte e numerosa, la quale potrà applicare la sharia. É per questo motivo che gli uomini musulmani sono terrorizzati dall’idea che le “loro” donne possano avere contatti con il “mondo esterno” senza un mahram (accompagnatore obbligatorio) sempre al loro fianco per tenerle sott’occhio: sanno benissimo che se le donne abbracciano i valori di libertà ed emancipazione occidentali la loro società si indebolisce.
GERUSALEMME CAPITALE DI ISRAELE.
Gerusalemme: storia della città contesa. La capitale universale delle tre religioni monoteiste, dalla proclamazione dello Stato di Israele all'annuncio dell'arrivo dell'ambasciata americana, scrive il 6 dicembre 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama. Gerusalemme è l’ombelico del mondo, luogo santo per le tre più grandi religioni monoteiste: ebraismo, cattolicesimo e islamismo. Su una collina, lontana dal mare e senza fiumi che l’attraversano, la città è da sempre contesa sia per il suo valore simbolico religioso sia per le derive politiche che l'hanno messa al centro di uno scontro tra culture e civiltà.
La città sacra. È sacra per gli ebrei, in quanto patria ebraica dove si trova il Tempio Santo e capitale del Regno di Giuda oltre che d’Israele. È sacra per i cristiani perché sarebbe qui che Cristo ha vissuto ed è risorto. È sacra per i musulmani che credono che qui sia avvenuta l'ascesa al cielo del profeta Maometto. Ironia della sorte, uno dei significati del nome "Gerusalemme" è “città della pace” ma da decenni rappresenta uno dei punti chiave del conflitto fra Israele e Palestina. "Gerusalemme è la capitale di Israele, non vi sono est e ovest", hanno detto recentemente anche i ministri dello Sport Miri Regev, e del Turismo, Yariv Levin, quando è scoppiato il caso diplomatico all'annuncio del Giro d'Italia sul cui materiale tecnico è stata posta la dicitura "Gerusalemme Ovest". E ora la tensione rischia di raggiungere un nuovo apice di scontri con la decisione di Donald Trump (dal 2018) di spostare proprio a Gerusalemme l’ambasciata americana, un atto che non fa altro che destabilizzare l'intero Medio Oriente.
La storia dal 1947. Riconosciuta dall’Onu al termine della seconda guerra mondiale come città indipendente di una regione divisa in due stati (Israele e Palestina) nel 1949, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ne proclamò l'internazionalizzazione sotto il controllo dell'ONU per favorire la convivenza di cristiani, musulmani ed ebrei. La componente ebraica pre-israeliana accettò il piano generale di partizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, mentre la componente araba palestinese e il resto del mondo arabo e islamico lo respinsero. Entrambe le parti non erano tuttavia disposte in alcun modo a rinunciare alla Città Santa, dunque tutte le forze, ebraiche e arabe la occuparono, le prime a ovest le seconde a est. Gli accordi (con il diritto degli ebrei di poter andare al Muro del Pianto e al cimitero ebraico sul monte degli ulivi) non vengono però rispettati: i giordani di fatto non permettono agli israeliani l’accesso nella loro zona e fanno scempio del cimitero sul Monte degli ulivi usando le 60 mila pietre tombali per costituire strade e altre opere urbanistiche. Di rimbalzo, Israele trasferisce i ministeri e la Knesset (il parlamento) a Gerusalemme, dichiarando nel 1950 la città capitale dello Stato ebraico. La mossa non viene però riconosciuta in ambito internazionale: sia gli americani che gli inglesi non spostano le loro ambasciate da Tel Aviv. Fino a oggi.
La guerra dei Sei Giorni. Il 5 giugno 1967 gli Stati vicini attaccarono nuovamente Israele. L’apice della guerra dei Sei Giorni (combattuta contro una coalizione di paesi arabi) viene toccato quando al termine le truppe israeliane vincitrici occupano la parte orientale di Gerusalemme aprendo l’accesso agli ebrei al Muro del Pianto, e dando la garanzia a credenti di fede cristiana e mussulmana di poter comunque accedere ai luoghi di culto. Poi nel tentativo di non scatenare la rabbia del mondo islamico, a seguito dell'annessione del settore orientale, viene deciso di lasciare l’amministrazione della Spianata delle moschee in mano ai capi spirituali mussulmani. Inoltre vengono rimosse le barriere di separazione tra le due parti della città in modo da creare un’unica Gerusalemme e nel quartiere medievale Mughrabi, nella Città Vecchia, viene realizzata una grande piazza di fronte al Muro occidentale a scapito di oltre cento abitazioni palestinesi. Sempre nel 1967 la città si estende ampliando i suoi confini da 38 km quadrati a 108. Le Nazioni Unite intervengono, chiedono a Israele di conformarsi alle risoluzioni adottate con lo smantellamento degli insediamenti, ma Israele il 30 luglio 1980 risponde politicamente e la Knesset proclama Gerusalemme capitale indivisa dello Stato di Israele. Negli anni sono stati espropriati altri ettari dai vicini villaggi arabi per la costruzione di appartamenti per le famiglie ebree e ad oggi Gerusalemme controlla anche la zona Est a maggioranza araba, oltre che la città vecchia.
Vaticano, Papa Francesco contro Donald Trump e Israele: "Gerusalemme, capitale di due Stati", scrive il 26 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Nel corso della benedizione di Natale, Papa Francesco ha parlato anche di Gerusalemme, la capitale contesa e la città in cui Donald Trump ha deciso di spostare l'ambasciata statunitense, facendo insorgere il mondo arabo. Il Pontefice, di fatto, chiede al presidente degli Stati Uniti e a Israele una posizione più moderata sulla vicenda: "Vediamo Gesù nei bambini del Medio Oriente, che continuano a soffrire per l’acuirsi delle tensioni tra Israeliani e Palestinesi. In questo giorno di festa – ha rimarcato – invochiamo dal Signore la pace per Gerusalemme e per tutta la Terra Santa; preghiamo perché tra le parti prevalga la volontà di riprendere il dialogo e si possa finalmente giungere a una soluzione negoziata che consenta la pacifica coesistenza di due Stati all'interno di confini concordati tra loro e internazionalmente riconosciuti. Il Signore sostenga anche lo sforzo di quanti nella Comunità internazionale sono animati dalla buona volontà di aiutare quella martoriata terra a trovare, nonostante i gravi ostacoli, la concordia, la giustizia e la sicurezza che da lungo tempo attende".
Gerusalemme, il Natale in Terra Santa segnato dalla decisione di Trump, scrive il 25 Dicembre 2017 "Il Tempo”. A Betlemme e a Gaza cerimonie religiose limitate a Natale, in segno di protesta contro il riconoscimento di Gerusalemme come Capitale di Israele da parte del presidente Usa Donald Trump. E mentre la politica e il maltempo lasciavano vuota piazza Manger a Betlemme, che invece negli anni precedenti era stata piena di turisti, il premier israeliano Benjamin Netanyahu faceva gli auguri ai cristiani scrivendo sulla sua pagina Facebook: "Buon Natale da Gerusalemme, capitale di Israele". "La dichiarazione di Trump su Gerusalemme ha rovinato lo spirito natalizio", ha dichiarato a Efe Ramon Kawa, palestinese di Gerusalemme in visita a Betlemme. "Io sono venuto ugualmente a festeggiare a Betlemme, ma ogni volta ci sono sempre meno cristiani su questa terra. E sappiamo che Israele farà quello che vuole mentre l'Europa sta solo a guardare", ha dichiarato ancora Kawa. I rappresentanti religiosi e politici di Betlemme e Gaza hanno cancellato oggi tutte le celebrazioni di Natale non religiose in segno di protesta contro la posizione di Trump. "Abbiamo scelto di limitare le celebrazioni di Natale ai riti religiosi, come dimostrazione di opposizione e ira, ma anche in segno di solidarietà con le vittime morte nelle recenti proteste", ha spiegato il sindaco di Betlemme, Anton Salman. E così pure a Gaza, dove la piccola comunità cristiana ha mantenuto per quest'anno un profilo natalizio basso. Il controverso annuncio di Trump dello scorso 6 dicembre ha scatenato proteste e scontri, alla frontiera di Gaza con Israele nonché in diversi punti della Cisgiordania, compresa Betlemme, e a Gerusalemme Est. Domenica pomeriggio migliaia di persone si sono raccolte nella piazza Manger di Betlemme per la celebrazione di Natale e per assistere all'ingresso in città dell'amministratore apostolico di Gerusalemme e del più grande rappresentante della Chiesa cattolica in Terra Santa, l'arcivescovo Pierbattista Pizzaballa. Oltre alle luci di Natale, al grande albero di Natale e ai canti natalizi, però, nella piazza spiccava un grande cartello sul quale si leggeva: "Gerusalemme sarà sempre la capitale eterna della Palestina".
Gerusalemme, il tweet di Trump con «le bugie di Clinton, Bush e Obama», scrive il 9 dicembre 2017 "Il Secolo XIX". Su Twitter, prima della giornata di scontri che hanno provocato 2 vittime e oltre 700 feriti, il presidente americano, Donald Trump, ha difeso la sua scelta di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, scrivendo che «ho mantenuto la mia promessa elettorale, gli altri (presidenti, ndr) non lo hanno fatto». Il “cinguettio” è accompagnato da un video in cui compaiono vari ex presidenti degli Stati Uniti, come Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama, che affermano che «Gerusalemme è la capitale di Israele»; infine Trump, che lo ha poi dichiarato ufficialmente. In effetti, i rapporti fra gli Stati Uniti e Israele dominano da anni la politica americana, tanto che la questione mediorientale e il “nodo” di Gerusalemme sono stati protagonisti diretti o meno delle campagne elettorali statunitensi sia da parte democratica sia da parte repubblicana. Bill Clinton e George W. Bush si erano impegnati fermamente a portare l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme: nessuno dei due è però riuscito a farlo; una volta entrati alla Casa Bianca hanno preferito mantenere lo status quo, probabilmente al fine di evitare ulteriori tensioni e di far naufragare gli sforzi per la pace. Di seguito, l’elenco dei presidenti americani che si sono occupati della questione.
Harry Truman. Riconobbe lo stato di Israele e disse: «In un’area instabile come il Medio Oriente, è importante per la sicurezza del nostro paese e del mondo che ci sia un sistema democratico su cui possiamo contare. Il nuovo Stato ebraico può essere questo. Ritengo che possa avere un grandioso futuro davanti a sé non solo come un altro Stato sovrano, ma come uno stato che rappresenta i grandi ideali della nostra civilizzazione».
Bill Clinton. Dopo avere detto che «mi sono ammazzato per dare ai palestinesi uno Stato», ad Arafat disse dopo il vertice di Camp David e il rifiuto dell’accordo con Israele che «è tutta colpa tua. Sono un fallimento, tu mi hai reso un fallimento».
George W. Bush. Nel gennaio 2008, durante una visita in Israele, disse: «Sono consapevole che Gerusalemme è un problema serio. Tutte e due le parti hanno preoccupazioni politiche e religiose. Mi rendo conto che trovare una soluzione su Gerusalemme è la sfida più difficile sulla strada per la pace, ma questa è la strada che abbiamo scelto di seguire».
Barack Obama. Queste, infine, le parole del predecessore di Trump: «La pace è possibile. Trattative saranno necessarie, e ci sono pochi dubbi sul fatto che devono portare a due Stati per due popoli. Ci saranno differenze su come arrivare a questo risultato, e scelte dure da fare. Gli Stati arabi devono adattarsi a un mondo che è cambiato: ora è il momento per il mondo arabo di fare un passo avanti per normalizzare le relazioni con Israele».
ISRAELE: BENE TRUMP, ITALIA NON PERVENUTA, scrive Federico Cartelli (Fondazione FareFuturo) il 19 dicembre 2017 su "L’Opinione". Il 29 novembre 2012 l’Onu, mediante la risoluzione 67/19 adottata dall’Assemblea generale con 138 sì, 9 no e 41 astenuti, ha cambiato lo status della Palestina da “entità non statuale” a “Paese osservatore permanente non membro”, equivalente in sostanza a quello dello Stato della Città del Vaticano. Allora, sia gli Stati Uniti che Israele espressero un voto contrario, e il segretario di Stato Hillary Clinton usò parole particolarmente dure: “La risoluzione non sancisce la nascita dello Stato palestinese ed è controproducente per il principio di due popoli e due Stati”. Il 17 dicembre 2014 il Parlamento europeo ha approvato a grande maggioranza – 498 favorevoli, 88 contrari, 111 astenuti – una risoluzione che “sostiene il riconoscimento in linea di principio dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace che occorre far avanzare”. Il 2 maggio 2017 l’Unesco ha approvato – 20 favorevoli, 10 contrari e 23 astenuti – una risoluzione che definisce Israele “potenza occupante” e che nega i legami fra l’ebraismo e la Città vecchia di Gerusalemme. Con un’ulteriore risoluzione del 7 luglio 2017 – approvata con 12 voti favorevoli, 3 contrari e 6 astenuti – l’Unesco riconosce la Tomba dei Patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania, come “sito palestinese” del Patrimonio Mondiale: la Città vecchia di Hebron e la Tomba dei Patriarchi diventano “siti palestinesi” e si evidenzia “il loro essere in pericolo”. Veniamo ai giorni nostri. Il 23 ottobre 1995, il Congresso degli Stati Uniti approva una legge che prevede lo spostamento dell’Ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. L’atto prevede una clausola in base alla quale il presidente può rinviare l’attuazione della legge ogni sei mesi per ragioni di sicurezza nazionale. Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno firmato questa deroga ogni sei mesi. Donald Trump, il primo giugno scorso, ha seguito l’esempio dei suoi predecessori, ma ha recentemente annunciato – qui il discorso integrale in italiano – di voler prendere un’altra strada. “Ho stabilito che è tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele. […] Israele è una nazione sovrana con il diritto, come ogni altra nazione sovrana, di determinare la propria capitale. Riconoscere questo come un fatto è una condizione necessaria per raggiungere la pace. […] Voglio anche chiarire un punto: questa decisione non intende in alcun modo riflettere un allontanamento dal nostro forte impegno per facilitare un accordo di pace duraturo. Vogliamo un accordo che sia molto importante per gli israeliani e molto per i palestinesi. […] Gli Stati Uniti potrebbero sostenere una soluzione a due Stati se concordata da entrambe le parti”. Apriti cielo. Nell’epoca delle fake news, i fake media si sono messi subito al lavoro: e hanno mostrato, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che la politica dei due pesi e due misure verso Israele va ancora di moda, sia sulla carta stampata che in politica internazionale. E allora ecco che Trump viene dipinto come un pazzo che condurrà il mondo alla terza guerra mondiale, come un incendiario che vuole destabilizzare il Medio Oriente. Tuttavia quando l’Onu, l’Unesco e altre organizzazioni internazionali prendevano metaforicamente a ceffoni Israele con le loro risoluzioni provocatorie, nessuno considerava tali atti destabilizzanti per il Medio Oriente: cento risoluzioni pro-Palestina meritano a priori scroscianti applausi, mentre un atto pro-Israele è un irreparabile danno alla pace e un’offesa da lavare con una nuova intifada. Trump, con la sua storica decisione, ha voluto cambiare marcia ad una politica estera americana ormai da tempo ammuffita nei confronti di Israele – senza tuttavia rinunciare all’impegno di lavorare per il dialogo – e ha stanato l’ipocrisia della comunità internazionale, preoccupata solo di non turbare la suscettibilità palestinese e dei Paesi arabi fingendo che vi sia un fantomatico “processo di pace” da salvaguardare. Il mantra “due popoli due Stati”, che ora viene rilanciato da tutte le cancellerie europee, in questi anni è stato solo una mera – e comoda – dichiarazione d’intenti, e di certo la decisione di Trump non mette in pericolo alcun accordo epocale dietro l’angolo. E l’Italia? Non pervenuta. Il nostro ministro degli Esteri è troppo impegnato nell’annunciare urbi et orbi la sua volontà di non ricandidarsi – una notizia che senza dubbio lascerà sgomente le diplomazie europee – per occuparsi di Gerusalemme. Nella scacchiera medio-orientale così come a Bruxelles, l’Italia gioca ormai solo di rimessa, abituata alla mediocrità. Priva di ogni ruolo nel Mediterraneo, balbuziente con l’Unione Europea, guardiamo da spettatori Francia, Turchia, Germania, Russia tessere le fila dei propri interessi.
Gerusalemme capitale, cosa dice la risoluzione Onu. 128 Paesi, tra cui l'Italia, bocciano la mossa di Trump di spostare l'ambasciata nella Città santa. Ecco il contenuto del testo e le reazioni, scrive il 22 dicembre 2017 Panorama. La decisione spiazzante di Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendola capitale di Israele, ha strascichi di fuoco. Come prevedibile, l'Assemblea generale dell'Onu ha approvato a larghissima maggioranza la risoluzione presentata da Yemen e Turchia che condanna la mossa statunitense. Con reazione dura degli Stati Uniti (che tuonano: "ricorderemo questo voto") e di Israele ("questo voto finirà nel secchio della spazzatura della storia"). Ecco cosa dice la risoluzione dell'Onu contro Gerusalemme capitale di Israele.
Chi ha votato pro e contro la risoluzione. Sono stati 128 i voti favorevoli alla risoluzione che rifiuta la decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele. Tra questi anche il voto dell'Italia, al fianco dei 25 Paesi dell'Unione europea, tra cui Francia, Germania e Regno Unito. Non manca ovviamente il sì della Turchia, con Erdogan postosi a paladino della causa palestinese. Sono 9 i contrari (Israele, Usa, Guatemala, Honduras, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau, Togo), 35 gli astenuti (tra cui Argentina, Australia, Benin, Butan, Bosnia-Erzegovina, Canada, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Messico, Paraguay, Polonia, Romania, Sud Sudan). 21 nazioni erano assenti.
Cosa dice la risoluzione Onu. La risoluzione Onu sprona l'amministrazione Trump a ritornare sui suoi passi e chiede "che tutti gli Stati rispettino le risoluzioni del Consiglio di sicurezza a proposito della Città santa di Gerusalemme e non riconoscano alcuna azione o misura contraria a esse". Specifica che lo status della città "deve essere risolto con negoziati" tra israeliani e palestinesi e che qualsiasi decisione che miri ad alterarlo "non ha effetto legale, è nulla e deve essere annullata". Lo status di Gerusalemme è uno dei nodi cruciali che mina da sempre l'accordo di pace tra israeliani e palestinesi. La comunità internazionale non riconosce la sovranità di Israele su tutta la città.
Cosa minacciano gli Usa e cosa replicano i palestinesi. Gli Stati Uniti ruggiscono contro la risoluzione Onu. Nikki Haley, l'ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite, ha definito "irresponsabile" il voto. In un tweet ha ringraziato i Paesi che hanno votato contro, che sono in quantità maggiore del previsto. Evidentemente hanno avuto effetto le minacce statunitensi. Proprio la Haley nel dibattito pre-voto aveva tuonato: "Questo voto renderà diverso il modo in cui gli Stati Uniti guarderanno alle Nazioni unite e guarderemo ai Paesi che ci mancheranno di rispetto". Con lo stesso piglio, ovviamente, il premier israeliano Benjamin Netanyahu: "Israele rigetta del tutto questa risoluzione assurda. Gerusalemme è la nostra capitale e sempre lo sarà". Ringrazia inoltre Trump e "l'alto numero di Paesi che non hanno votato a favore". Sul fronte opposto scoppia la gioia palestinese: "È una vittoria per la Palestina", dice Nabil Abu Rdainah, portavoce del presidente Mahmoud Abbas. "Continueremo il nostro sforzo alle Nazioni unite e in tutti i forum internazionali per mettere fine a quest'occupazione e per creare il nostro Stato palestinese con Gerusalemme Est come sua capitale".
Ecco un “settore” dove l'Italia è sempre tra i primi. Non disperatevi per le classifiche sulla libertà di stampa e la qualità della vita. C'è una classifica in cui primeggiamo. Indizio: il voto dell'Onu contro Gerusalemme capitale, scrive Andrea Marcenaro su “Il Foglio" il 23 Dicembre 2017. Adesso basta, su, piantiamola, finiamola lì di stracciarci le vesti e di farci prendere dalla depressione tutte le volte che un saggetto, un documentino stilato chissà come, e da chissà chi, ci piazza al 136° posto per la libertà di stampa, all’82° per qualità della vita, o al 242°, quando va bene, per raccolta differenziata, cacche dei cani per strada, uso del ventaglio cinese o consumo di riso bislungo. Scemenze, dai. Ieri per esempio, mentre Hamas chiamava i palestinesi a “tre giorni di collera”, manco se il resto dell’anno caldeggiasse il giardinaggio; mentre Khamenei, dall’Iran, minacciava per l’ennesima volta il massacro degli ebrei; e mentre Papa Ciccio attaccava il governo con la stella di Davide nominando, come al solito, la Terra Santa e mai Israele; mentre tutto questo andava in onda, si stava dicendo, il nostro governo aveva appena vinto all’Onu votando la mozione contro Gerusalemme capitale di Israele appunto. A dimostrazione che, come stronzi, stiamo lì coi primissimi. Buon Natale.
Vi spiego perché l’Italia ha sbagliato all’Onu a votare contro Trump. Parla Germano Dottori, scrive Marco Orioles il 22 dicembre 2017 su "Formiche.net". Germano Dottori, docente di Studi Strategici alla Luiss e consulente scientifico di Limes, non è sorpreso dall’esito del voto all’Assemblea Generale Onu su Donald Trump e Gerusalemme. Che considera, in ogni caso, “totalmente ininfluente”, diversamente dalle minacce di The Donald ai Paesi non allineati al nuovo corso americano. Un nuovo corso che trova il nostro Paese in posizione di sostanziale dissenso, come dimostrato dal voto italiano in Assemblea Generale, sintonizzato con la linea di appoggio all’Islam politico che Dottori attribuisce al nostro governo e che egli reputa problematico. L’America ha infatti scelto di stare con Riad e il Cairo, e se non cambiamo rotta, suggerisce Dottori, rischiamo di rimanere fuori dai giochi. Una posizione “miope e rischiosa”, quella dell’Italia, ancora sotto choc per il trionfo di Trump alle urne, nonostante sia passato oltre un anno. Votare a New York la risoluzione scritta da Turchia e Yemen per contrastare Trump è la dimostrazione come, a Roma, non si sia ancora capito che la partita è cambiata.
Prof. Dottori, l’Assemblea Generale dell’Onu ha votato a grande maggioranza la risoluzione che sconfessa la dichiarazione con cui Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. La sua valutazione?
«Sarebbe stato sorprendente un risultato diverso. I numeri che abbiamo registrato sono gli stessi che si sono constatati ogni qual volta questioni sensibili concernenti i rapporti tra Israele e i Paesi arabi sono stati sottoposti all’attenzione dell’Assemblea Generale. Quindi non mi meraviglio, se non del grande interesse che ha suscitato questo pronunciamento, a tutti gli effetti totalmente ininfluente. L’Assemblea non è il Consiglio di Sicurezza. E il presunto isolamento dell’America ricorda tanto quello dell’Europa di cui parlava un tempo il Times di Londra quando la Manica era in tempesta. Paradossalmente, la vera conseguenza sono le possibili ritorsioni minacciate da Nikki Haley, che l’Amministrazione Trump potrebbe decidere di varare nei confronti degli Stati che hanno deluso le sue aspettative».
L’Europa ha reagito compatta alla decisione di Trump, condannandola. È un riflesso condizionato?
«Non mi sembra che l’Unione Europea abbia votato compatta. Ha votato compattamente contro gli Stati Uniti solo quella parte dell’Europa che si sente più vicina alla Germania. L’Europa del Trimarium ha in gran parte optato per l’astensione, come credo avremmo dovuto fare noi. Ma a quanto pare, l’attuale Governo del nostro paese rimane aderente ad una linea antagonista, quella che guarda con simpatia a quell’Islam Politico che invece Stati Uniti, o almeno la Casa Bianca, Russia e Cina intendono in qualche modo debellare».
Come spiega il voto di ieri dell’Italia, più quello con cui al Consiglio di Sicurezza ha appoggiato la risoluzione di censura della dichiarazione di Trump?
«Le chiavi di lettura sono molteplici. L’Italia di Paolo Gentiloni è con la Germania e in Medio Oriente è tuttora molto vicina ad Iran, Turchia e Qatar, mentre gli Stati Uniti sono con Riyadh, Gerusalemme e l’Egitto. Certo, ci sono stati tentativi recenti da parte italiana di avviare un riequilibrio, cercando interlocuzioni con l’Arabia Saudita. Ma la situazione è chiara: siamo con l’altro raggruppamento. D’altra parte, c’è un’evidente nostalgia del grosso del sistema politico italiano, che cerca ancora l’appoggio dell’America liberal malgrado sia attualmente all’opposizione. E’ una politica a mio avviso miope e rischiosa. Prima si adotta un atteggiamento più realistico e meglio sarà. Perché Trump è un’opportunità soprattutto in termini di recupero della nostra sovranità nazionale. Ne abbiamo da poco avuta una prova: la sortita dell’ex Vice-presidente Joe Biden, che ha addebitato alle fake news di origine russa l’esito del referendum del 4 dicembre. Trump invece rimane silente, malgrado in Italia non manchino coloro che lo apprezzano e magari gradirebbero anche un suo endorsement. Per gli uni, la sovranità nazionale può e deve essere calpestata se l’affermazione di certi valori lo esige. Per il Presidente in carica, invece, non si tocca. Il suo è un approccio che mi piace molto e giudico preferibile».
L’annuncio di Trump è stato secondo lei dettato da interessi elettorali, o c’è altro dietro?
«Condivido la ricostruzione degli eventi fatta dal New York Times, peraltro con l’intento di provocare imbarazzo in Arabia Saudita e forse di contribuire al sabotaggio del piano al quale americani e sauditi lavoravano da molti mesi. Nelle intenzioni di Trump, la pace tra israeliani e palestinesi l’avrebbe dovuta negoziare il nuovo uomo forte di Riyadh, Mohammed bin Salman, assumendo a traguardo una variante del vecchio piano concepito a suo tempo da re Abdallah, secondo la quale Gerusalemme avrebbe dovuto essere divisa, attribuendo lo status di capitale della Repubblica palestinese futura ad un sobborgo orientale della Città santa, un posto che si chiama Abu Dis e si trova al di là della famosa barriera eretta da Israele per proteggersi dalle infiltrazioni terroristiche. Bin Salman però non ce l’ha fatta, perché Abu Mazen ha avuto paura che l’accettazione del progetto saudita ne potesse compromettere la sopravvivenza politica, probabilmente con qualche ragione. Trump è entrato quindi nella partita per sparigliare le carte e forzare la mano ai palestinesi. I risultati sono per ora incerti, ma non necessariamente così foschi come vengono dipinti. Guardiamo ai fatti: ci sono state proteste, di cui vediamo però sempre immagini in campo corto, chissà come mai. Ma chi le anima? Sono per lo più le forze sconfitte dal tramonto delle Primavere Arabe ora alla disperata ricerca di una rivincita. Alla fine però, stringi stringi, il vertice della vecchia Conferenza islamica ad Ankara si è concluso con una dichiarazione che indica Gerusalemme Est quale capitale del futuro Stato palestinese. Praticamente, ora si discute di una partizione e dei relativi confini, argomento nel quale Trump non a caso non è entrato. Ditemi voi chi se ne è accorto».
La stampa ha descritto un mondo arabo infiammato dopo l’annuncio di Trump, eppure la reazione è stata contenuta. Come mai?
«Mi sembra sia ovvio. A cercare una rivincita non è solo l’Islam Politico della Fratellanza Musulmana, strumento della politica regionale di potenza della Turchia e dello stesso Qatar, ora allineati all’Iran, ma anche tutti coloro che negli Stati Uniti avversano la nuova Amministrazione, contro la quale il grosso dei media continua la guerra senza quartiere iniziata ai tempi del Trump candidato. In effetti, ormai si congiungono due urti trasversali: a quello che contrappone sostenitori e nemici dell’Islam Politico si è aggiunta la guerra civile light che imperversa negli Stati Uniti. I liberal sono con la Fratellanza Musulmana e la Repubblica islamica iraniana, che vantano radici comuni, mentre Trump sta tentando con Putin e Mohamed bin Salman di restaurare l’ordine, prima di alleggerire l’impronta americana nel mondo».
Quanto pesano gli sviluppi della guerra in Siria sugli eventi odierni?
«Mi paiono al momento marginali, ma ci sono degli elementi da tenere sottocchio. La guerra civile si va concludendo con la vittoria di Bashar al-Assad. Molto più dell’intervento dei Pasdaran e dell’Hezbollah, a determinarla è stata l’azione russa che ha costretto la Turchia ad abbandonare la mischia. Lo Stato Islamico, infatti, è morto quando Ankara si è riconciliata con Mosca e ha chiuso le sue frontiere, tagliando i flussi di ogni genere che permettevano a Daesh di alimentare il proprio sforzo. Non è però pensabile che la Russia abbia combattuto per regalare la Siria all’Iran. Io penso invece che Mosca si sia riavvicinata notevolmente all’Arabia Saudita e che Trump si attenda dai russi un contributo al contenimento delle aspirazioni regionali iraniane. Si tratta di un esercizio difficile per Putin, ma ineludibile: il futuro della Russia dipende molto dalle scelte in materia di petrolio fatte dalla monarchia saudita. Sono convinto che tra la Casa Bianca e il Cremlino ci sia un accordo di fondo sul destino dell’area. E forse anche sul prezzo del greggio».
Quante probabilità ha il piano di pace di Trump di decollare, dopo la presa di posizione su Gerusalemme?
«Le stesse di prima, se non qualcuna di più. Tutto dipende dai rapporti relativi di forza che si stabiliranno tra sostenitori e nemici dell’Islam Politico. Anche Abu Mazen probabilmente capirà che la propria posizione intransigente implicherà fatalmente il ridimensionamento del ruolo di Fatah rispetto a quello di Hamas. Siamo sinceri: nessuno ha mai creduto che Israele potesse rinunciare a Gerusalemme o che intenda in qualche momento futuro accettare il diritto dei profughi palestinesi al ritorno. Si tratta di materie non negoziabili. Io trovo incoraggiante che il mondo musulmano abbia reso noto che accetta la partizione della Città Santa. Tutto è capire quanto debba esser grande Gerusalemme Est. Sui tracciati e sui chilometri quadrati si può trattare».
Potranno mai convivere israeliani e palestinesi in quel fazzoletto di terra?
«Mi sembra decisamente improbabile, almeno in un unico Stato. Uno dei miei maestri, Enrico Jacchia, osservava acutamente che libero amore e velo islamico non sono tra loro molto compatibili: una metafora brillante e pertinente, che rende bene l’idea della complessità della sfida. Ed è altrettanto vero che due verità assolute non possono convivere nello stesso pezzo di terra, come sosteneva anni fa Carlo Jean, di cui pure sono stato l’allievo. Va poi tenuto conto del fatto che la coesistenza all’interno di un unico Stato comporterebbe in un arco di tempo ragionevolmente breve la trasformazione demografica di Israele in una direzione ostile agli ebrei. È per questo motivo che tanto Rabin quanto Sharon, non a caso due militari, hanno in passato ceduto territori. Non erano dei compassionevoli samaritani. Per Israele è essenziale che i palestinesi vengano separati e, possibilmente, riuniti in uno Stato edificato in modo tale che non possa mai porsi nelle condizioni di rappresentare una minaccia alla sicurezza israeliana».
Perché sono d’accordo con Trump sull’ambasciata Usa a Gerusalemme. Parla Fiamma Nirestein, scrive Francesco Bechis il 6 dicembre 2017 su "Formiche.net". Trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme, capitale di Israele, è il giusto riconoscimento dello status quo. E’ questa la lettura della giornalista e scrittrice Fiamma Nirestein che in questa conversazione con Formiche.net ha commentato l’annuncio del presidente americano Donald Trump e la conseguente quasi unanime condanna delle cancellerie internazionali. Una decisone – quella dell’inquilino della Casa Bianca – che si teme possa innescare nuove tensioni in un Medio Oriente già lacerato da guerre e conflitti etnici e religiosi.
Fiamma Nirestein, è giusto che l’ambasciata americana sia trasferita a Gerusalemme?
«Gerusalemme è la capitale di Israele dal 1950. Questo ha portato benefici alle tre religioni ospitate: mai nella storia i luoghi delle tre religioni erano stati accessibili a tutti e gestiti ciascuno dalla sua comunità di riferimento. La Knesset e tutte le istituzioni sono a Gerusalemme, e anche al loro interno c’è una presenza araba. Non è un caso che i cittadini arabo-palestinesi di Gerusalemme, quando vengono interrogati dai sondaggi, rispandono sempre di voler rimanere nella parte ebraica della città. Da 3000 anni gli ebrei vivono a Gerusalemme, non sono andati via nemmeno nei momenti di persecuzione. Gli ebrei pregano rivolti verso Gerusalemme, e quando si sposano rompono un bicchiere dicendo: “Se ti dimentico Gerusalemme, così mi dimentichi la mia mano destra”».
La decisione di Trump non rischia di interrompere le trattative per la pace in Palestina?
«Venti anni di trattativa non hanno portato da nessuna parte, solo al terrorismo palestinese, e ad una insopportabile delegittimazione degli ebrei, iniziata fin dai tempi dell’alleanza fra Adolf Hitler e Amin al-Husseini e che ancora oggi non è finita. Nella Umma islamica il popolo ebraico non ci deve essere, il fine ultimo dei palestinesi è far sparire gli israeliani. Trump ora ha intravisto una possibilità di cambiamento, in un momento in cui il mondo sunnita è molto preoccupato dalla presenza iraniana e di Hezbollah in Siria. La sua decisione parte semplicemente da un principio di realtà: Gerusalemme è già la capitale israeliana».
Già nel 1995, con la presidenza di Bill Clinton, il Congresso americano aveva passato una risoluzione per spostare l’ambasciata a Gerusalemme. Perché in più di venti anni non è stato fatto nulla?
«Perché i palestinesi non lo hanno mai accettato. Sia Ehud Barak che Ehud Olmert avevano promesso una parte di Gerusalemme ai palestinesi, ma a loro non è mai sembrato abbastanza».
Cosa ne sarà del processo di pace?
«Non è mai esistito un processo di pace: per questo si sta cercando un’altra via. Inoltre gli israeliani non potrebbero mai accettare un processo di pace basato sugli accordi del 1967, sarebbe una condanna a morte. Dopo che Israele ha sgomberato Gaza, da quei confini, tracciati dopo una guerra di aggressione contro gli israeliani, i palestinesi hanno iniziato a sparare missili all’impazzata contro Gerusalemme. Se fossero ristabiliti quei confini si immagini cosa succederebbe all’aeroporto di Ben Gurion di Tel Aviv, gli aerei in decollo o in atterraggio potrebbero essere colpiti dai missili palestinesi».
La miccia accesa da Trump rischia di accendere la polveriera mediorentale in un momento di grave instabilità. Non si poteva trovare un tempismo migliore?
«Il Medio Oriente è la regione più instabile e imprevedibile al mondo. Domani Israele si può trovare di fronte a un assalto blindato del mondo arabo, ma non cambia nulla su Gerusalemme. Questa è la capitale dello Stato di Israele, lo è stata fino ad ora e lo sarà domani. I palestinesi continueranno a governare i loro luoghi sacri, i cristiani custodiranno il santo sepolcro, i medici palestinesi cureranno negli ospedali israeliani e gli arabi continueranno a sedere nella Knesset».
La preoccupa la risposta del presidente turco Erdogan, che ha minacciato di tagliare qualsiasi rapporto con Tel Aviv?
«Erdogan è un nemico ontologico di Israele. Per lui si tratta di un affare di famiglia, d’altronde l’Impero Ottomano era il padrone di Gerusalemme. C’è una gelosia storica, dovuta alla mal riposta convinzione di essere un sovrano. In più Erdogan è il capo della fratellanza musulmana, da sempre il suo fanatismo antisemita è legato a questo ruolo».
Gran parte dell’Unione Europea ha preso posizione contro la scelta del presidente americano. Si aspettava una reazione diversa?
«Mi domando se i leader europei non potessero essere più intelligenti questa volta, invece di ripetere la solita canzoncina dei confini del 1967. Sono delusa in particolare da Emmanuel Macron, ma non sono sorpresa: ormai la comune condanna di Israele è l’unico momento di unità di un’Europa sempre più divisa».
Il Papa nell’udienza di mercoledì ha chiesto di rispettare lo status quo concordato dall’Onu.
«Lo status quo non verrà toccato, perché al momento Gerusalemme è la capitale di Israele. Mi spiace che ci sia stata una chiamata fra Papa Francesco e Abu Mazen. Avrei preferito che Abu Mazen manifestasse per altre vie le sue richieste ad Israele, cercando una mediazione, invece che continuare ad accusare gli israeliani di aver occupato la città».
Video: la verità su Gerusalemme. In 4 minuti, alcune semplici realtà di fatto che mondo arabo, Onu e gran parte dei mass-media preferiscono ignorare, scrive Danny Ayalon su "Israele .net" il 4 dicembre 2017. Alcuni sostengono che Gerusalemme è una città occupata. Ammettono che una volta era la capitale del popolo ebraico, ma sostengono che perse quel titolo circa duemila anni fa dopo che venne distrutta e i suoi abitanti ebrei vennero esiliati. E dicono che nel 1967 gli ebrei sono ricomparsi e hanno catturato Gerusalemme dal popolo palestinese. Dunque, se è così, perché il presidente Donald Trump vuole spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme? Ma ecco la verità su Gerusalemme e il popolo ebraico. Gerusalemme fu la capitale del regno ebraico fondato da re David tremila anni fa. Suo figlio, re Salomone, vi edificò il primo Tempio nel luogo dove, secondo la tradizione, mille anni prima aveva avuto luogo il “sacrificio di Isacco”. I Babilonesi distrussero il Tempio e esiliarono gli ebrei, ma gli ebrei ben preso vi fecero ritorno. Cinquecento anni dopo, i Romani distrussero il secondo Tempio. Questo pose fine al legame ebraico con Gerusalemme? La risposta è un chiaro e netto no. Nei duemila anni che seguirono, vari imperi arrivarono e se ne andarono: conquistarono, colonizzarono e occuparono Gerusalemme senza mai farne la loro capitale, mentre gli ebrei, la popolazione autoctona di Gerusalemme, continuò a vivere e tornare a Gerusalemme nonostante i pericoli e le sofferenze che ciò comportava. Più di mille anni fa lo scrittore arabo Muqadassi lamentava che gli ebrei costituivano la maggioranza della popolazione di Gerusalemme. Gli ebrei continuarono a essere la maggioranza anche in tempi moderni, come documentato dal British Council nel 1864. Inoltre, Gerusalemme è sempre stata il centro della vita ebraica anche per coloro che vivevano molto lontano, ai quattro angoli della Terra. Specifici rituali e giorni di digiuno esprimono il lutto per la distruzione della città, e le preghiere quotidiane esprimono la speranza di un completo ritorno. Nell’islam, una religione istituita solo 1.400 anni fa, Gerusalemme non è mai stata santa come La Mecca e Medina. In effetti, Gerusalemme non è nemmeno menzionata nel Corano, contro le 669 volte in cui è citata nella Bibbia ebraica. Persino sul Monte del Tempio i musulmani, quando pregano, girano le spalle a Gerusalemme e si volgono verso La Mecca. Mentre la direzione della preghiera per gli ebrei, che siano in America, in Russia, in Iraq o in Iran, è sempre stata Gerusalemme: forza unificante, cuore e anima del popolo ebraico. Dunque, cosa accadde veramente nel 1967? Innanzitutto non c’era nessuna entità palestinese. Nel 1948 la Giordania aveva conquistato la parte orientale di Gerusalemme dividendo la città, e aveva espulso gli ebrei, distrutto le loro case, sinagoghe e cimiteri. Gerusalemme ovest era stata ristabilita come capitale d’Israele, mentre la capitale della Giordania rimase Amman. Poi, nel 1967, in una guerra d’autodifesa, lo stato ebraico liberò e riunificò la sua storica capitale. Cosa è accaduto da allora? Israele ha fatto di Gerusalemme una città vibrante e una casa per tutte le nazioni, istituendo la libertà di culto per tutte le persone e le religioni. Dunque, come mai il presidente Donald Trump vuole spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme? La vera domanda è: perché ci è voluto così tanto tempo?
Gerusalemme è sempre stata la capitale di Israele. Parla l'ambasciatore israeliano in Italia: l'annuncio del trasferimento dell'ambasciata Usa è un atto audace, ma non innovativo, scrive il 24 dicembre 2017 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". "Non c'è alcuna road map per dichiarare Gerusalemme capitale. Gerusalemme è la capitale". Ofer Sachs, l'ambasciatore israeliano in Italia, non si nasconde dietro frasi di circostanza per chiarire la posizione di Israele sul tema. "Donald Trump ha fatto una mossa molto coraggiosa, ma non innovativa. Non c'è niente che non fosse già sul tavolo. Di fatto, gli Stati Uniti furono i primi a riconoscere Israele alcuni minuti dopo la dichiarazione della nascita dello Stato (nel 1948, ndr). E, in poche settimane, Gerusalemme era già capitale".
Il presidente Trump è apertamente schierato dalla vostra parte.
«Trump ha solo riconosciuto la realtà, ma non ha negato i diritti dei palestinesi: niente che possa pregiudicare le trattative. Con il suo approccio pragmatico, sta facendo qualcosa di nuovo. Parla con tutti i leader della regione. Sta applicando il principio di Einstein, secondo cui se vuoi risolvere un problema non puoi usare lo stesso approccio all'infinito, perché il risultato sarà sempre uguale. Devi introdurre qualcos'altro. E quel qualcosa oggi è Gerusalemme».
Cosa accadrà adesso?
«Di fatto niente. L'ambasciata statunitense non si sposterà prima di qualche anno. Ma l'approccio differente è già di per sé una boccata d'aria. Speriamo che quest'aria giunga anche in Palestina e in Libano, allontanando le grida di Hamas e di Hezbollah. La popolazione palestinese sa che non ha senso un nuovo ciclo di violenze. Come sa perfettamente che, quando è il momento di dialogare, gli americani sono i veri interlocutori. Non è un caso che entrambi gli accordi di pace siano stati firmati a pochi passi dalla Casa Bianca. Noi, d'altra parte, non potremo contare per sempre sulla tecnologia militare per tenere lontani i razzi che continuano a piovere sulle nostre case. Se dovesse succedere ancora, non saremo più in grado di trattenere la nostra potenza militare».
L'Europa in generale, e Federica Mogherini in particolare, sono molto critici nei vostri confronti.
«C'è una fortissima relazione con l'Europa, ma abbiamo un'idea e un approccio totalmente differenti sull'accordo di pace. Non giudico Mogherini, ma il suo punto di vista sul conflitto israelo-palestinese è sbagliato. Non porta niente di nuovo al dialogo, né per creare incentivi per i palestinesi, né per modificare il loro costante rifiuto ai negoziati».
L'Arabia Saudita, invece, è sempre più vicina. Merito di Mohammed bin Salman?
«Il tempo ci dirà chi è davvero il principe ereditario. Di certo, grazie a lui qualche passo è stato fatto per avvicinare l'Arabia Saudita all'Occidente e per considerare Israele un partner. Quanto al rapporto con l'Iran, il conflitto tra sunniti e sciiti è così vecchio e profondo che non c'è modo di risolverlo a breve. Nessuno dei due vuole la guerra, ma non esiterebbero in caso venisse varcata una linea rossa».
Potrebbe essere la Palestina quella linea?
«I palestinesi hanno la loro linea rossa. L'hanno tracciata ancor prima di iniziare i negoziati. Di conseguenza, oggi non abbiamo alcuna trattativa diretta con loro. Abbiamo molti affari in comune, ma niente che riguardi un accordo di pace. Discutiamo di economia, sanità, energia, ma sfortunatamente non di politica. Netanyahu è stato chiaro su questo: siamo pronti a trattare in ogni momento, però senza precondizioni. Partire dal presupposto che i confini devono essere quelli antecedenti al 1967, ad esempio, non è un gioco corretto. La via migliore per uscire dallo stallo è sedersi a un tavolo e eliminare uno dopo l'altro gli ostacoli. Tutto è negoziabile».
Su cosa verterebbe il negoziato?
«La radicalizzazione a Gaza e la stabilità relativa della West Bank hanno anche radici economiche. Perciò ogni accordo futuro dovrà contenere al suo interno incentivi di questo genere. Industrie, accesso al mercato, accordi commerciali, ma anche istruzione. Tutto ciò che possa creare un'economia chiara e stabile. A patto però che il denaro non finisca alle famiglie dei terroristi come ricompensa per gli atti criminali dei loro parenti contro di noi. Questo è un messaggio assolutamente negativo. Senza dubbio, la sfida di Gaza è più complicata».
Questo articolo è uscito su Panorama del 21 dicembre 2017, con il titolo: "Gerusalemme mai stata loro".
I FALSI DELLA STORIA.
Medioevo: miti ed errori contenuti nei libri di liceo, scrive Vittorio Nigrelli l’8 maggio 2014. La prima lezione di Storia medievale del professor Giuseppe Sergi, all’Università di Torino, è scioccante. Scoprire che la maggior parte delle conoscenze che si possiedono sul Medioevo è falsa è un colpo al cuore che non miete vittime solo grazie alla giovane età delle matricole. Il Medioevo è, in effetti, un contenitore di luoghi comuni talmente forti e radicati che nessuno si meraviglia se, in un articolo di giornale, si legge che il potere nel Medioevo era trasmesso tramite un’investitura feudale, o che il 31 dicembre 999 il mondo era terrorizzato e sùbito dopo la mancata apocalisse s’ebbe una sfolgorante crescita dovuta alla rinnovata fiducia nel futuro. Quando si parla di Medioevo, tornano alla mente parole come servi della gleba, vassalli, valvassini, valvassori, vescovo-conte, ius primae noctis, feudalesimo e altre ancora. Come dimostrato dai medievisti nel corso dell’ultimo secolo, queste parole indicano perlopiù ricostruzioni sbagliate, traslazioni temporali di fenomeni avvenuti in epoche diverse, o semplici bugie. Uno dei luoghi comuni più ferocemente confutati ma estremamente resistenti a qualunque dichiarazione da parte degli specialisti è lo ius primae noctis. Grazie a Braveheart di Mel Gibson, l’intero globo conosce l’odiosa regola secondo la quale il signore feudale aveva il diritto di «sostituire» il marito durante la prima notte di nozze. Le radicali smentite di Felix Liebrecht e Karl Schmidt, risalenti alla seconda metà dell’Ottocento (!), sembrano non avere risvegliato alcun interesse presso la cultura di massa. Lo ius primae noctis fu in realtà ideato da alcuni giuristi del Cinquecento. Costoro pensarono, studiando una forma di pagamento in moneta d’una tassa (il formariage) riguardante i matrimoni di persone di condizione non libera, che tale forma evoluta di pagamento costituisse l’esito d’una civilizzazione progressiva d’un’usanza ben più barbara e tremenda; un’usanza che tuttavia non è mai stata documentata. Una delle cause più frequenti d’errori è la «deformazione prospettica», reazione spontanea di chi non è specialista di fronte alla storia. Si guarda il passato come un paesaggio: gli elementi più vicini sono grandi e nitidi; quelli lontani, molto più piccoli e sfocati. Si finisce per guardare gli oggetti più grandi e assimilare a questi i più piccoli. Un esempio sono le convinzioni in fatto di dieta: se sulle tavole dei contadini della prima età moderna c’erano zuppe di cereali, è altrettanto vero che nell’Alto Medioevo il consumo di carne era diffusissimo. Un altro caso è quello dei castelli: difficile convincere le scolaresche in gita che i castelli tardo-medievali (quelli rimasti in piedi) sono molto diversi dai tipici villaggi fortificati in legno e pietra dei secoli precedenti. O, ancora, le famiglie — immaginate come grandi gruppi parentali organizzati su base patriarcale, simili a quelle ottocentesche — erano in realtà nucleari e molto più «vicine» a quelle d’oggi. La servitù della gleba è una categoria storiografica ottocentesca dall’enorme fortuna; tuttavia va decisamente ridimensionata. Rare attestazioni riguardanti adscriptus glebae hanno stuzzicato l’immaginazione dei primi studiosi d’epoca moderna. A parte pochi casi (ad esempio nelle campagne intorno a Bologna e Vercelli), la massa di contadini non è certamente ascrivibile alla categoria «servitù della gleba». Esistevano servi la cui libertà era limitata del tutto (e non solo legata alla terra), coloni liberi, piccoli allodieri (proprietari). Il fatto che alcuni di questi venissero perseguiti se abbandonavano i campi non era collegato a un qualche servaggio, bensì al mancato rispetto di contratti ventinovennali o vitalizi col proprietario della terra. Spesso al Medioevo è imposta l’etichetta d’età feudale. Nei libri del liceo, è facile trovare la famosa piramide vassallatica, ovverosia l’immagine che rende i medievisti comprensivi nei confronti degl’iconoclasti. Feudale è una parola di straordinario successo, molto più esotica, lontana e quindi affascinante di signoria. Marx usa questa parola per definire un tipo d’organizzazione fondiaria, un sistema di rapporti di produzione, una fase antecedente al capitalismo. Spesso sembra che feudale sia usato perfino come sinonimo di medievale. Eppure è difficile — o, meglio, impossibile — trovare alla base d’ogni frazionamento territoriale un’investitura di tipo feudale. Marc Bloch riuscì a definire con chiarezza i rapporti vassallatico-beneficiari, e il suo allievo Robert Boutruche compì un passo fondamentale: individuò la peculiare struttura di potere del Medioevo nei poteri signorili formatisi dal basso, e non delegati feudalmente dall’alto. Vi sono diverse ragioni per cui questi errori rimangono e non vengono spazzati via dalle pagine dei libri di liceo. Il primo ordine di motivi è la semplicità di comunicazione. È facile spiegare il magma di rapporti di potere e contratti tramite una delega tutta feudale del potere. È ancor più semplice parlare d’una sola Chiesa, potente e oppressiva, tralasciando il fatto che si può parlare di papato monarchico solo dopo il XII secolo e non prima, quando il papa era il vescovo di Roma in possesso tuttalpiù d’un primato d’onore in fatto di teologia. Il secondo ordine è quello della distanza: colpisce di più un Medioevo molto diverso dall’oggi, in cui signori crudeli deflorano novelle spose, in cui i contadini scambiano senza bisogno di moneta e l’economia è solo di sussistenza, in cui cavalieri affascinanti partono alla ricerca del Graal…In questa sede è possibile mostrare solo una parte dei luoghi comuni sul Medioevo. Per chi volesse approfondire il tema, esiste un ottimo nonché brevissimo libro: L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, di Giuseppe Sergi, edito da Donzelli. Centundici pagine di sano buonsenso storico.
Così il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza, scrive Antonio Giuliano il 10 luglio 2015 su "Avvenire”. «Mille anni vissuti dall’uomo senza che abbia espresso niente di bello? A chi si vuole darlo a credere?». Così Régine Pernoud già nella prima metà del Novecento attaccava la leggenda nera che da secoli squalifica il Medioevo. La storica francese fu tra le prime voci a firmare libri controcorrente (come Luce del Medioevo, ripubblicato da Gribaudi). Ma mai come in questo caso il pregiudizio è duro a morire. Basta oggi sbirciare la cronaca per riscontrare come 'medievale' sia tra gli aggettivi più gettonati per denigrare qualcuno. Per non parlare poi di certi manuali scolastici. Eppure un testo da poco tradotto anche in italiano La genesi della scienza di James Hannam (a cura di Maurizio Brunetti) smonta uno per uno i luoghi comuni più diffusi. Fisico, storico e filosofo della scienza a Cambridge, Hannam sfodera un volume poderoso e scorrevole, scritto con punte di ironia britannica. «Il Medioevo è stato un periodo di enormi progressi in ambito scientifico, tecnologico e culturale», scrive. I mille anni che vanno dalla caduta dell’impero romano (476) al 1500 sono stati decisivi in ogni campo. Ma soprattutto «il Medioevo ha posto le basi per la scienza moderna». In barba alla condanna illuminista, il fisico britannico ricorda come la Chiesa non abbia mai appoggiato l’idea che la Terra fosse piatta, né abbia mai bandito la dissezione umana o l’introduzione del numero zero. Hannam con sarcasmo non si stanca di ripetere: «I Pontefici non hanno vietato nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora tirate fuori come esempio di intransigenza clericale verso il progresso scientifico». Ma anzi la Chiesa cattolica, argomenta Hannam dati e fonti alla mano, è stata il principale sponsor della ricerca scientifica. L’ha fatto proprio in virtù di quell’approccio che distingue il cristianesimo dalle altre tradizioni culturali e religiose. Se la scintilla del progresso scientifico si accese nell’Europa cristiana medievale è proprio perché «attraverso la natura l’uomo poteva imparare qualcosa del suo Creatore», il quale era «coerente e non capriccioso». Del resto, fa notare l’autore, il termine 'scienziato' nacque nel 1833 alla British Association for the Advancement of Science: «Prima d’allora nessuno ne aveva avvertito la necessità. Solo nel secolo XIX la scienza era diventata una disciplina autonoma, separata dalla filosofia e dalla teologia». È venuto il momento di chiedersi se il vero 'Rinascimento' non sia stato nel XII secolo, quando ad esempio nacquero le università. Scoprire nella natura l’impronta del creatore fu poi anche il convincimento dei religiosissimi Copernico, Keplero, Newton e Galilei, il cui contrasto con le autorità ecclesiastiche, spiega Hannam, fu dettato più da motivi politici. La stessa rivoluzione scientifica del XVII secolo è fondata su scoperte dei secoli precedenti: la bussola, la carta, la stampa, la staffa, la polvere da sparo... Invenzioni provenienti dall’Estremo Oriente, ma gli europei le perfezionarono a livelli «incomparabilmente superiori». E gli occhiali, gli orologi meccanici, i mulini a vento, gli altiforni? «Obiettivi e apparecchiature fotografiche, quasi ogni tipo di macchinario, la stessa rivoluzione industriale devono tutto a inventori del Medioevo. Non conosciamo i loro nomi, ma non è un buon motivo per ignorare le loro conquiste».
Il rapporto Chilcot, bufera sull’invasione dell’Iraq. Una paese in guerra e un paese fuori controllo: questi i risultati della decisione presa da Blair e Bush nel 2003, scrive il 7 luglio 2016 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". Quella di ieri, mercoledì 6 luglio 2016, è stata una giornata difficile per la politica britannica e, in buona parte, anche per quella americana. Mentre Londra faceva la conta del numero di politici dimissionari dopo lo tsunami della Brexit, e mentre a Washington l’FBI scagionava dalle accuse sull’emailgate Hillary Clinton, sulla scena internazionale irrompevano le conclusioni del rapporto Chilcot, ovvero la commissione d'inchiesta britannica sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003. “Abbiamo concluso che la scelta del Regno Unito di partecipare all’invasione in Iraq è stata compiuta prima che fossero esaurite tutte le altre opzioni pacifiche per il disarmo. Abbiamo altresì concluso che la minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, rappresentata come una certezza, non era giustificata. Nonostante gli avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate e la preparazione del dopo Saddam è stata del tutto inadeguata”. Sono queste in sostanza le osservazioni di John Chilcot, l’uomo che presiede l’inchiesta sul ruolo britannico nell’invasione. Parole che verosimilmente scateneranno una serie di polemiche destinate ad ampliare il terremoto in corso nel mondo politico inglese e che hanno già fatto breccia nella campagna elettorale americana. Anche se il rapporto Chilcot - dopo sette anni di lavori, centinaia di testimonianze raccolte e 150mila documenti vagliati - ci racconta delle ovvietà, poiché evidentemente tutti hanno sotto gli occhi i risultati di cosa ha comportato, non può sfuggire l’importanza simbolica delle sue conclusioni. L’ufficialità del rapporto pone, infatti, una questione politica non da poco sia per il Regno Unito sia per la comunità internazionale, soprattutto per il verdetto schiacciante che condanna in toto l’attività dell’allora premier britannico Tony Blair, il quale “era stato avvertito” dell’inopportunità di entrare in guerra e nonostante ciò ha perseverato nel disastro, ma anche la decisione degli americani. Secondo gli storici, Blair agì in questo modo per non rovinare il buon rapporto tra il Regno Unito e gli Stati Uniti che si era cementato durante la presidenza Clinton e che rischiava di sgretolarsi con l’arrivo del nuovo presidente repubblicano. In questo senso, la commissione suggerisce che Blair avrebbe promesso a George W. Bush che lo avrebbe affiancato nell'impresa bellica “a ogni costo”, convinto di poter gestire il rapporto con l’inquilino della Casa Bianca. Mentre secondo il diretto interessato, che non ha perso tempo e ha risposto immediatamente alle accuse, il rapporto Chilcot per quanto lo riguarda afferma che non vi è stata “nessuna falsificazione o uso improprio dell’intelligence” e neanche “alcun inganno nei confronti del governo”, così come non è stato siglato “nessun patto segreto” tra lui e il presidente George W. Bush per l’entrata in guerra britannica. Nonostante la difesa di Tony Blair, però, il risultato non cambia. La parabola politica dell’ex premier inglese si conclude con una bocciatura storica non da poco da parte di un’inchiesta ufficiale. E non va meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il candidato repubblicano Donald Trump non ha perso tempo nel commentare alla sua maniera il caso: “Saddam Hussein era un cattivo ragazzo. Davvero cattivo. Ma sapete cosa? Ha fatto qualcosa di buono. Ha ucciso i terroristi”. E ha poi aggiunto: “Guardate cos’è diventato oggi l’Iraq, è l’Harvard del terrorismo”. Insomma, se a Londra ci si domanda come gestire il rapporto Chilcot e come assorbire l’impatto di questa inchiesta, in America la questione è già spostata in avanti. Il New York Times in un cupo editoriale si è sentito in dovere di citare le parole pronunciate poche settimane fa dal capo della CIA John Brennan il quale, commentando la forza dello Stato Islamico, si è spinto a dire: “Abbiamo ancora molta strada da fare prima di poter affermare che abbiamo fatto dei progressi significativi contro di loro”. Dunque, seguendo le osservazioni di Londra e Washington: la guerra per deporre Saddam Hussein fu un errore; la gestione del dopo-invasione ha generato il terrorismo; il terrorismo a sua volta ha prodotto il Califfato; il Califfato è vivo e vegeto e gli Stati Uniti non hanno idea di come fermarlo. Ma la cosa che più spaventa è l’ammissione che l’Occidente da quindici anni a questa parte ha sbagliato tutto sul Medio Oriente e ancora oggi non ha idea di come gestire il genio (del male) fuoriuscito dalla lampada. E, come insegna la fiaba de Le mille e una notte, una volta fuori è difficile ricacciarlo dentro. Il rapporto Chilcot incide sulla pietra il fatto che l’invasione dell’Iraq fu un vero fallimento e che le conseguenze negative di quella scelta sciagurata si stanno protraendo fino a oggi. Questo significa anche ufficializzare il de profundis per la politica occidentale nel Medio Oriente, e in Iraq in misura ancora maggiore, proprio mentre Baghdad è ostaggio del tritolo dello Stato Islamico. Infatti il Califfo Al Baghdadi, che con il Ramadan 2016 ha inaugurato una nuova strategia del terrore, ha deciso di incrementare le azioni suicide sulla capitale per costringere il governo sciita di Haider Al Abadi a far rientrare in città le truppe che oggi combattono l’ISIS a nord e che minacciano Mosul (ancora in mano allo Stato Islamico), per difendere dalle azioni dei kamikaze una capitale quasi fuori controllo. La sicurezza a Baghdad, infatti, non esiste più e anche se il Califfato non è arrivato mai a minacciare militarmente la città, ciò non significa che tenerla in ostaggio con le bombe non produca lo stesso risultato: quello di danneggiare il governo Al Abadi fino al punto da provocare una sua caduta. In questo, il Califfato potrebbe trovare un alleato inconsapevole nello sceicco Moqtad Al Sadr, il leader che a Baghdad comanda il gigantesco quartiere sciita di Sadr City (impenetrabile anche alle autorità irachene e già protagonista della resistenza all’invasione americana), che osteggia tanto i sunniti di Al Baghdadi quanto il governo sciita in carica, accusandolo di corruzione e di complicità con il terrorismo. Non più di due giorni fa, infatti, Al Sadr ha affermato: “Questi attentati non avranno fine, perché molti politici stanno capitalizzando sulle bombe” e ha poi aggiunto una frase che suona come una minaccia diretta all’attuale governo: “solo il popolo iracheno potrà mettere fine a questa corruzione”. Come a dire che, se Al Abadi non è in grado di proteggere la popolazione, qualcun altro presto dovrà farlo. In ogni caso, metaforicamente Baghdad è davvero la nuova Babilonia.
Così la guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Lo scenario. Dal rapporto della commissione chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l'invasione spezzò i fragili equilibri regionali, scrive Bernardo Valli il 7 luglio 2016 su “La Repubblica”. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l'invasione dell'Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per "crimine di guerra" a carico dell'inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l'autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per "l'aggressione militare basata su un falso pretesto". E ha parlato di "violazione della legge internazionale", da parte di un primo ministro laburista, quel era all'epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l'inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l'obbediente Tony Blair fosse il "barboncino". Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell'Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l'invasione di allora. La situazione era pronta per un'esplosione. È vero. La guerra nell'Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l'Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l'Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l'Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l'Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell'Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c'era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall'iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c'erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L'uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l'altro, quando era in guerra con l'Iran, un alleato obiettivo. L'irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L'ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c'erano gli americani, sia a Bassora dove c'erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L'esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un'amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L'impatto dell'intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l'Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L'intervento americano con l'appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d'accusa sul piano politico e morale, ma l'analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l'amico Blair hanno ignorato la Storia.
«Sarò con te, sempre». Scrive il 6 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. Tra le carte, fino ad oggi top secret, analizzate e rese pubbliche nel rapporto di Sir John Chilcot sulle responsabilità britanniche nella guerra in Iraq, ci sono anche alcune note che l’allora premier Tony Blair scrisse a George W. Bush. In una di queste, datata 28 luglio 2002 (otto mesi prima che il 20 marzo 2003 prendesse il via la guerra) Blair già promette appoggio incondizionato all’allora presidente Usa per l’invasione dell’Iraq. Il dossier Chilcot contiene vari messaggi tra Blair e Bush prima, durante e dopo il conflitto. In questa lettera, scritta a mano, l’ex premier si complimenta con il presidente Usa per un suo «brillante discorso» in merito alla necessità dell’intervento in Iraq. In tutto sono 29 le lettere inviate dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair all’ex presidente Usa George W. Bush e sono centinaia i documenti desecretati e pubblicati nel Rapporto Chilcot. Il rapporto tra i due leader è considerato cruciale nella decisione dell’invasione. Il rapporto Chilcot è un’inchiesta britannica portata avanti dalla commissione parlamentare presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot sulla guerra in Iraq. Istituita da Gordon Brown nel 2009, ha lo scopo di far chiarezza sulle circostanze che portarono il governo di Tony Blair a entrare in guerra assieme agli Stati Uniti contro Saddam Hussein Durante i lavori della commissione sono stati analizzati oltre 150.000 documenti e sono stati sentiti più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier Tony Blair. È suddiviso in 12 volumi e contiene 2,6 milioni di parole.
Iraq, come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse caduto? Dopo tredici anni e un’infinita serie di attentati e violenze, cinque domande provano a creare una realtà alternativa in cui il raìs sarebbe ancora al potere, scrive Michele Farina il 6 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. E se non avessero invaso l’Iraq? O se almeno avessero preparato meglio il dopo guerra? Per il rapporto Chilcot fu un intervento «sbagliato» e «le sue conseguenze perdurano ancora oggi». Tony Blair dice che senza quell’intervento il mondo sarebbe peggiore, meno sicuro. E che almeno adesso gli iracheni hanno una chance di libertà che sotto Saddam Hussein non avevano. La libertà di morire a centinaia, una sera d’estate del 2016, per l’esplosione di un camion bomba dell’Isis tra i negozi e i ristoranti di Bagdad affollati di famiglie e bambini? Khaddim al-Jaburi dice che, se incontrasse Blair oggi, «gli sputerebbe in faccia». Al Jaburi è l’uomo che buttò già la prima statua di Saddam alla caduta di Bagdad. Faceva il meccanico, riparava le moto del dittatore. Cadde in disgrazia, gli uccisero 15 familiari. Eppure oggi intervistato a Bagdad dalla Bbc dice che se potesse tornare indietro, sapendo quanto è successo in questi tredici anni, lui quella statua «la rimetterebbe in piedi». I curdi del nord e gli sciiti del Sud, per decenni vittime dichiarate del regime, hanno una prospettiva differente. Senza l’invasione del 2003 Saddam o chi per lui (Qusay, il figlio più astuto) gaserebbe ancora bambini e avversari? Avrebbe fatto un’altra guerra con l’Iran? E se la primavera araba nel 2011 avesse attecchito anche sulla riva al Tigri oggi l’Iraq sarebbe comunque preda — come lascia intendere Blair — di una sanguinosa guerra civile modello siriano? E il mondo sarebbe comunque alle prese con l’Isis e il suo terrorismo in franchising? Tornare indietro. Immaginare la storia provando a rimettere insieme i tasselli secondo un’altra combinazione, seguendo il cartello del «what if», cosa sarebbe successo se. Lo fa l’ex premier Blair e il meccanico al-Jaburi. E’ una tentazione che ognuno di noi sperimenta nel proprio piccolo, a ogni angolo. E se Pellè non avesse provocato Neuer? Più seriamente, pensando in grande: e se non avessero invaso l’Iraq? Un gioco distopico per romanzieri, un esercizio per provare a non sbagliare direzione in futuro.
1 Se avessero trovato le armi di distruzione di massa? Tutto a posteriori sarebbe stato giustificato. Bush e Blair candidati al Nobel per la pace?
2 Se Blair non si fosse legato al carro armato di Bush? L’America sarebbe andata da sola all’invasione. La Gran Bretagna non sarebbe stata meno sicura. Vedi Francia: nel 2003 con Chirac all’Eliseo disse no all’intervento armato in Iraq. Ma questo non le ha risparmiato le ferite degli attentati di Parigi.
3 Se la guerra fosse stata preparata meglio? Il rapporto Chilcot accusa Londra (e di riflesso Washington) di impreparazione e sottovalutazione. Anche da un punto di vista militare. Fin da subito gli stessi comandi alleati dissero (inascoltati) che servivano più soldati e più mezzi. Gli Usa rimasero con gli Humvees colabrodo che saltavano in aria sulle bombe improvvisate, gli inglesi al Sud giravano con i gipponi che i soldati chiamavano «bare mobili». Pensare che la Cia arrivò a Bagdad con casse di bandierine a stelle e strisce: da distribuire alla popolazione che si immaginava festante. Altro che resistenza. Gli Usa prospettavano un rapido «mordi e fuggi», o in alternativa qualcosa di simile alla serena occupazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale.
4 Se non avessero sciolto l’esercito iracheno? Una questione spinosa e complicata. Ma certo quella decisione presa dal governatore Usa Paul Bremer non favorì la riconciliazione nazionale. Anzi.
5 Se avessero aspettato l’Onu? Francia e Russia erano contro l’intervento armato. Di fronte alla paralisi diplomatica non c’era un attimo da perdere, sostiene Blair. Ma le prove di intelligence contro Saddam Hussein, come riafferma oggi la commissione Chilcot dovevano apparire gravemente insufficienti anche 13 anni fa. E allora, prendere tempo sarebbe stato saggio e non avrebbe necessariamente rafforzato Saddam. Questa era anche la posizione tedesca. Una linea di prudenza che, con scenario tutto diverso, Angela Merkel va applicando anche alla questione Brexit. La politica del «Schweigen»: calma e silenzio. Meglio che «shock and awe», colpisci e terrorizza (la tattica adottata nel primo giorno di attacco all’Iraq nel 2003). Il rapporto Chilcot (volendolo guardare attraverso il filtro della diplomazia comunitaria) per certi versi prova e allarga il solco tra Gran Bretagna ed Europa continentale. Un solco a geometrie variabili, considerando per esempio l’impazienza francese nell’attaccare la Libia di Gheddafi. Anche se i tedeschi mai l’ammetterebbero, l’attendismo di Berlino sulla Brexit (aspettiamo l’estate) può ricordare il nostro adda passà ‘a nuttata. Molto italiano, e anche molto iracheno: il sentimento di un popolo che, 13 anni dopo la sua liberazione, si ritrova a rimpiangere l’orco Saddam.
LA MASSONERIA ED IL COMUNISMO PER L’ISLAMIZZAZIONE DELL’EUROPA.
Massoneria. Rivoluzioni e conquiste.
La Brexit come disegno ordito dalla massoneria.
L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Non voglio passare per un complottista, ma la saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per avere il primato d’imperio sulla civiltà e sui popoli e per debellare questa forza internazionale, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti contro le dinastie regnanti cristiane. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremistici e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della cristianità.
La sinistra nel mondo è soggiogata e manipolata da questo disegno di continua destabilizzazione dell’ordine mondiale, di fatto favorendo l’invasione dell’Europa, incitando il diritto ad emigrare.
“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.
Il monopoli o domino massonico destabilizzante continua il 23 giugno 2016. Il Regno Unito ha votato la sua uscita dall'Unione Europea. Ma la domanda è: Il Regno Unito ci è mai entrato nell'Unione Europea? E se lo ha fatto con quali intenzioni? Sia l’entrata che l’uscita dall’Unione Europea dell’Union Jack non è forse un tentativo di destabilizzare la normalizzazione dei rapporti tra gli Stati europei ed impedire la loro unificazione politica, economia e monetaria, oltre che ostacolare l’espandersi dei rapporti amichevoli con la Russia che è vista come antagonista degli Usa nell’egemonizzazione del mondo?
Dominato dall'orgoglio francese, ma anche perché non li considerava "europeizzabili", Charles de Gaulle non voleva gli inglesi nella comunità. Li sospettava di essere una quinta colonna degli Stati Uniti massoni.
"Leggo dello sconforto di Jacques Delors, ex presidente della Commissione: «Avremmo fatto meglio a lasciare fuori gli inglesi». Ero a Parigi nel 1966, quando si discuteva già se permettere o no l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. De Gaulle era contrarissimo, mentre la maggior parte degli altri partner europei erano favorevoli. In uno dei tanti discorsi che soleva tenere alla tv, De Gaulle fece questa profezia: «Fate entrare l’Inghilterra e l’Europa non sarà mai fatta». Può dirmi, alla luce di quanto sta accadendo, se «l’Europa delle Patrie» dallo stesso De Gaulle tanto auspicata, avrebbe intrapreso forse un cammino più rapido verso una vera Unione europea simile a quella degli Usa?" Domanda di Rocco Caiazza a Sergio Romano del 5 dicembre 2012 su “Il Corriere della Sera”. “Caro Caiazza, Non ricordo la frase da lei citata, ma sul problema dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità europea la posizione di De Gaulle fu sempre chiara ed esplicita. Era convinto che Londra sarebbe stata il «cavallo di Troia» dell’America nell’organizzazione europea e non esitò a boicottare i negoziati con una clamorosa conferenza stampa il 14 gennaio 1963.” Fu la risposta di Romano. In effetti, dal 1975, da quando cioè il Regno Unito attraverso un altro referendum convocato sulla permanenza nell'Ue ad appena tre anni dal suo ingresso ufficiale ha optato per il «sì» a Bruxelles, le relazioni tra Londra e il blocco comunitario non sono mai state idilliache, scrive Arianna Sgammotta su “L’Inkiesta” il 22 giugno 2016. Non soltanto. Oltremanica l'Unione europea è sempre stata o ignorata o accusata di tutto quello che non funzionava in patria. Non stupisce quindi che fino al 2008, agli anni precedenti la crisi economica e finanziaria, l'etichetta euroscettico fosse a uso e consumo dei britannici, quasi a porsi come un sinonimo del carattere nazionale. In trent'anni di convivenza difficile il Regno Unito ha ottenuto una serie di deroghe all'implementazione di vari regolamenti validi invece per tutti gli altri Stati membri. Questo grazie alla cosiddetta clausola dell'opt-out. Ma non basta, grazie alla leader di ferro, Margaret Tatcher, Londra gode di un deciso sconto sul contributo annuale al bilancio comunitario. All'origine della diatriba tra Regno Unito e resto delle capitali Ue, la visione stessa del progetto comunitario. Per Londra una mera area di libero scambio solo se per sé vantaggiosa, per i Paesi fondatori - tra cui l'Italia - le basi di un'unione politica, economica e monetaria. Tant’è che il Regno Unito non è nell’area Euro né nello spazio Schenghen.
Allora, anziché rammaricarci del risultato, perchè non brindiamo per la vittoria che gli europeisti continentali hanno ottenuto ed analizziamo le notizie ed i dati offerteci dai media con maggior approfondimento e distacco ideologico? Come chiederci: gli antieuropeisti come gli europeisti fallimentisti, che con il formalismo e la burocrazia minano le basi dell’Unione, sono mica massoni?»
Massoneria come entità sopranazionale e trasversale, comunque vincente, checchè ne dicano i soliti idioti che stanno sempre lì a commentare le ovvie verità nei miei scritti. Ecco perché a Strasburgo vediamo che il Parlamento Europeo vota per l’uscita immediata dalla UE del Regno Unito ed a votare contro troviamo il leader inglese che ha fomentato la Brexit e con lui hanno votato il Movimento 5 Stelle, ed i movimenti di Le Pen e Salvini.
L'altro volto della storia: l'attacco della massoneria alla civiltà cristiana, scrive Francesco Pio Meola. La nota di Giorgio Vitali. "L'articolo qui sotto, pur provenendo da ambienti del conservatorismo cattolico, è esemplare e assolutamente degno di essere preso in considerazione per le sue implicazioni storiche e politiche. In effetti, per chi vuole fare politica, queste conoscenze sono essenziali, nella misura in cui si riesce con facilità ad individuare le linee di condotta che motivano certi personaggi della politica e quanto di una qualsiasi iniziativa in campo politico nazionale o comunitario la componente "ideologica" primaria sia quella maggiormente determinante nei confronti di una quasi sempre poco probabile, necessità "contingente". Che a motivare i singoli "uomini politici" ad iniziative di grande respiro pubblico siano l'appartenenza a gruppi iniziatici con le loro credenze e le loro pratiche, è ampiamente dimostrato l'appartenenza di questi "politici" a particolari organizzazioni più o meno occulte. Ma il fatto che queste associazioni siano "occulte" non significa nulla, perchè anche gli Organismi, specie quelli internazionali e/o comunitari sono composti da individui selezionati sulla base dell'appartenenza a queste organizzazioni. Non solo, in un libro che consiglio vivamente, ("L'altra Europa", di Giorgio Galli e Paolo Rumor, ed. Hobby & Work, 2010, euro 16,50) si dimostra con documenti attendibili l'appartenenza a gruppi esoterici di varia natura dei cosiddetti "creatori dell'UE". In particolare il "cattolico" Maurice Schumann. Un altro particolare importante è costituito da Giorgio Galli, famoso politologo, anzi il primo vero politologo italiano, che per decenni ha fatto della politologia un elemento di analisi della realtà nazionale e geopolitica. Questo illustre professore universitario, già di area socialcomunista, giunto alla fine della carriera, ha maturato l'esigenza di approfondire gli aspetti "esoterici" dei rapporti politici sia nazionali che comunitari o internazionali. Ciò significa che, partendo con intelligenza dall'analisi di superficie degli avvenimenti, alla fine ha dovuto confrontarsi con una realtà ben più profonda di quanto la sua cultura d'impostazione materialiste e razionalista gli permettesse di "vedere". Nel suo intervento pubblicato nel libro sopra citato, trovandosi a trattare della "Storia", che è una componente essenziale della base culturale su cui si costruisce il comportamento delle èlites, egli scrive: «... La storia, come teoria del comportamento umano, comprende non solo la "decostruzione", ma anche la "costruzione" del mito». In altre parole, è la storia che costruisce il mito, perchè gli storici sono persone per lo più motivate dalla necessità di diffondere specifici "miti", come possiamo ben vedere in questi decenni post- secondo conflitto mondiale, caratterizzati dalla costruzione di miti dal nulla documentale. Infine è necessario ricordare che in un'opera recente, dedicata al movimento teosofico d'inizio novecento, scritta da Marco Pasi dell'Università di Amsterdam, ("Teosofia ed Antroposofia nell'Italia del primo novecento", in Annale 25 della Storia d'ItaliaEinaudi, dedicata all'Esoterismo) si dimostra quanto un movimento come quello citato, poco conosciuto e valutato fino ad oggi, ad esclusione dei seguaci dell'Antroposofia, che aumentano sempre a livello mondiale a fronte delle constatate conferme scientifiche e tecniche legate a quell'impostazione culturale, o dei lettori di "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo " di J. Evola (prima ed. Bocca, 1931), abbia invece permeato tutti gli aspetti della cultura italiana, dal Futurismo al Fiumanesimo, fino all'elaborazione della pedagogia montessoriana ed all'istituzione del corso universitario di Storia delle Religioni e dello Studio comparato di Storia delle Religioni voluto da Raffaele Pettazzoni che scrisse anche "Teosofia e Storia delle Religioni", per finire col noto Balbino Giuliano, ministro nel 1929, autore del famoso decreto sul "giuramento dei professori". Su questa capacità di una specifica cultura nell'influenzare il corso dei pensieri di una o più generazioni, creando anche èlites capaci di imporre la loro ideologia, sarà utile riprendere il dibattito." Giorgio Vitali.
La massoneria è una setta segreta le cui origini risalgono alle corporazioni medievali inglesi e tedesche dei liberi muratori (operativa). La Massoneria moderna (speculativa) s'ispira agli ideali razionalisti e illuministi di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Fu fondata a Londra il 24 giugno 1717 dal rifugiato ugonotto Thèophile Desaguliers e dal pastore anglicano James Anderson, i quali riassunsero i suoi principi nelle cosiddette Costituzioni. Essa trae origine anche e soprattutto da un patrimonio di scienze occulte che vanno dalla magia egizia e rinascimentale all'ebraismo cabalistico-talmudico, dal platonismo al Manicheismo, dalla tradizione Rosa Croce al vecchio paganesimo naturalista, dall'astrologia alla teosofia, dall'alchimia ad altre fisime minori. Contiene elementi delle vecchie eresie cristiane e si basa sulla fisica newtoniana. E'chiaro come questo concentrato di dottrine esoteriche non poteva che provocare la scomunica della Chiesa, che l'ha condannata per quasi ben 580 volte, detenendo il primato assoluto. L'insieme di tutte queste tradizioni trova unità nella Gnosi. Essa è una speciale conoscenza religiosa dalla quale per rivelazione, indipendentemente dalla fede e dalle opere, deriva la salvezza, ossia da una sorta di "illuminazione", riservata solo a pochi iniziati. Si noti come questa idea sia radicalmente contraria alla fede cattolica, la quale invece proclama che la salvezza è accessibile a tutti. La Gnosi pretende di concepire il reale come qualcosa di totalmente negativo, per cui viene, di conseguenza, la necessità di aspirare a una sorta di palingenesi, di trasformazione totale, da cui potrà realizzarsi un mondo completamente nuovo, e in cui potrà vivere un uomo completamente nuovo, contrassegnato da una perfetta autosufficienza (C. Gnerre). Il fenomeno gnostico è come un fiume carsico, ritornando improvvisamente in auge nelle varie epoche storiche. Pensiamo alle vecchie eresie cristiane, a quella catara soprattutto, la più pericolosa, al modernismo e a tutte le religioni diverse dalla cattolica o ortodossa, Islam e Giudaismo compresi. Lo gnosticismo sostiene l'opposizione tra lo spirito (il bene) e la materia (il male). Gli gnostici sostengono che un Dio buono non può aver creato un mondo così malvagio, quindi la sua creazione è da disprezzare, mentre il principio del male, Satana, sarebbe il dio buono, il serpente che sedusse Eva e che indusse al peccato Adamo. Da qui la leggenda massonica di Adamo come "primo iniziato", e come lui sono considerati Gesù, S. Giovanni Battista (la Massoneria è nata il 24 giugno), Mosè, Maometto, Buddha, S. Francesco, Lutero, ecc . Per quanto riguarda Cristo e il Battista basta pensare alle folli elucubrazioni gnostiche del "Codice da Vinci" del seguace New Age Dan Brown, mentre S. Francesco oggi è considerato un profeta pacifista ed ecologista. Furono invece influenzati dalla gnosi Lutero, Buddha e Maometto. Mons. Leone Meurin, un sacerdote francese del XIX sec, per tutti questi motivi nella sua opera "La Frammassoneria sinagoga di Satana", considerava la Gnosi il culto di Lucifero, l'angelo decaduto portatore di luce, l'illuminato, il più grande iniziato. In molti testi esoterici Lucifero è accostato a Prometeo, la figura mitologica ribelle a Zeus che voleva donare il fuoco agli uomini, a Dioniso, dio dell'orgia e del divertimento sfrenato, al buddha, inteso come l'individuo iniziato ("buddha" significa appunto "l'illuminato"). I massoni usano chiamarsi tra loro "fratelli"; si distinguono in vari gradi, tra i quali gli apprendisti, i compagni, i maestri, i sublimi cavalieri eletti, i grandi maestri architetti, ecc. Si raccolgono in logge presiedute da un venerabile; più logge associate costituiscono una gran loggia, presieduta da un gran maestro, mentre nell'ambito di uno Stato tutte le logge dipendono da un grande oriente. La Massoneria venera un dio impersonale (il "Dio orologiaio" degli illuministi) chiamato Grande Architetto dell'Universo o Essere Supremo. Essa ha vari riti e obbedienze. Tra i riti più importanti ricordiamo quello scozzese, inglese, nazionale spagnolo, egizio (detto anche di Menfi e Misraim), simbolico italiano, swedemborghiano, noachita, ecc. Il più importante è quello scozzese, che si rifà all'esoterismo templare e ha 33°, tra cui i più alti sono quelli dal 18° in poi. Quando si parla di templarismo in massoneria in realtà viene ripresa una tradizione in parte errata, scorretta e diffamatoria. L'obbedienza più importante al mondo è quella che fa capo alla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, detta anche "Sancti Quatuor Coronati", che ha per gran maestro il duca di Kent (attualmente è il principe Edoardo Windsor). Per le sue posizioni deiste, non riconosce la maggiore obbedienza francese, il Grande Oriente di Francia, che è violentemente antireligiosa e ammette anche gli atei. Le massonerie scandinave hanno una particolarità: riconoscono come gran maestro il re dei loro rispettivi stati; ad esempio in Svezia è l'attuale re Carlo Gustavo XVI. Esistono anche massonerie esclusive come la Prince Hall negli USA che ammette solo personalità afroamericane, di cui ne fa parte il presidente americano Barack Obama, oppure la B'nai B'rith, riservata ai soli ebrei. Caratteristiche fondamentali delle logge sono la segretezza e l'esclusione delle donne, anche se ci sono obbedienze rigorosamente femminili o addirittura miste come la Gran Loggia d'Italia di piazza del Gesù. L'Inghilterra di inizio '700 era vista dalla nobiltà liberale europea un faro di civiltà, soprattutto per il suo ordinamento monarchico-costituzionale. Le caste aristocratiche illuminate anglofile erano ambiziose e gelose delle prerogative tradizionali dei re e volevano limitarle. Si studiavano i principi costituzionali britannici con l'ansia di esportare gli ideali illuministi. La nobiltà europea era affascinata dal costituzionalismo, dal deismo, dalla tolleranza religiosa e dal liberismo economico. Insieme a tutte queste suggestioni provenienti da oltre Manica, cominciò a diffondersi la massoneria, dapprima in Olanda, Francia, Germania (Hannover) e poi negli altri paesi europei, tra cui l'Italia; il primo libero muratore italiano fu il medico beneventano Antonio Cocchi, iniziato a Firenze nel 1732 alla loggia detta "degli Inglesi". In Francia uno degli esponenti dell'aristocrazia anglofila fu il barone Charles de Montesquieu, grande teorico del liberalismo e del costituzionalismo, uno dei padri riconosciuti dell'Illuminismo. La Massoneria francese cominciò quasi subito a rivendicare una certa autonomia, ispirandosi all'esoterismo templare e dandosi un'impostazione di tipo cavalleresca; raccoglieva gli esponenti nobili e alto-borghesi riformatori che si fecero portavoce di quel clima culturale che portò alla stagione dell'enciclopedismo illuminista che ha avuto per protagonisti Diderot, D'Alembert e Voltaire. La critica enciclopedista attaccava la società di Ancièn Règime, la Chiesa Cattolica, vista come fonte di oscurantismo, pregiudizi e superstizione, i privilegi nobiliari che causavano diseguaglianze, la storia passata, considerata inutile e piena di errori; esaltava invece il pensiero scientista, la libertà in tutte le sue forme, l'uguaglianza sociale, il progresso in tutti i campi, la fratellanza tra gli esseri umani e il potere illimitato della ragione, identificata come strumento infallibile di indagine della realtà. Lo spirito corrosivo dei liberi pensatori, impregnato di razionalismo e di scetticismo antireligioso, provocò nel 1738 la scomunica da parte della Chiesa, con la bolla di papa Benedetto XIV. In quegli anni la Massoneria prendeva sempre più, soprattutto in Francia, una piega politica radicale e antidispotica; in Inghilterra si tenne invece favorevole al mantenimento dell'ordine costituzionale, appoggiando il partito liberale whig. Intanto però le logge si diffusero anche nelle colonie americane. Nel 1751 fu pubblicato quel feroce manifesto anticristiano che fu l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert, diretta emanazione delle logge che preparò una forte ostilità nei confronti della tradizione e del cattolicesimo. Un altro illuminista franco-svizzero, Rousseau, teorizzò la "democrazia totalitaria", ossia il rovesciamento violento dell'ordine costituito in favore di un governo popolare, in cui la moltitudine avrebbe delegato il potere a propri rappresentanti in grado di interpretare "la volontà generale", in pratica la prefigurazione del Terrore giacobino della Rivoluzione francese. Nel periodo pre-rivoluzionario furono pubblicati migliaia di libri, pamphlet, riviste, giornali, tutti tesi a screditare e a diffamare la Corona di Francia e la Chiesa cattolica. Il 1776 fu l'anno dell'indipendenza delle 13 colonie americane dalla madrepatria inglese; i capi del movimento anticoloniale da George Washington a Thomas Jefferson, da Benjamin Franklin a John Adams, erano tutti massoni. Il marchese francese di La Fayette, che era un "fratello" e aveva combattuto a loro fianco, sperava che un giorno anche in Francia si potesse lottare per gli ideali rivoluzionari. La Massoneria francese nel frattempo infiltrava suoi uomini nelle istituzioni ecclesiastiche e a corte: il banchiere ginevrino Jacques Necker, ministro delle finanze di Luigi XVI, il cugino del re, il duca Filippo d'Orléans, detto in seguito anche Philippe Egalitè, per il suo acceso fervore rivoluzionario, Jacques Roux, soprannominato il "curato rosso", e l'abate Sieyès. Obiettivo principale era disintegrare il sistema dal di dentro. L'anno stesso della Rivoluzione americana, il 1° maggio 1776 fu fondata a Ingolstadt, grazie all'appoggio finanziario dei banchieri Rothschild, la società segreta cospiratoria degli "Illuminati di Baviera". Il capo di questa potente e pericolosa organizzazione era un ex gesuita discendente da una ricca famiglia di ebrei convertiti, Adam Weisshaupt. Feroce anticattolico, era seguace dell'Illuminismo ateo e materialista ma allo stesso tempo coinvolto nell'occulto, in particolare della tradizione rosacrociana e templare. L'obiettivo della setta era distruggere le monarchie cattoliche o comunque cristiane e il papato, al fine di instaurare una "repubblica universale". Il disegno dei Rothschild era conquistare tutte le nazioni e assoggettarle al potere delle banche e della finanza, nonché stampare privatamente le monete nazionali (signoraggio). Il loro patrimonio era stimabile di gran lunga superiore alla ricchezza dello stesso re di Francia; erano la famiglia più potente dell'epoca. I congiurati di Weisshaupt entrarono nella massoneria ufficiale. Lo storico Alan Stang attesta che nel 1788 tutte le 266 logge del Grande Oriente di Francia erano sotto il controllo degli Illuminati; il gran maestro era diventato Filippo di Orleans. L'ossessione degli Illuminati era vendicare la condanna a morte dell'ultimo gran maestro templare Jacques De Molay (di cui si dicevano continuatori), fatto giustiziare da re Filippo IV il Bello di Francia il 13 ottobre 1314; il loro progetto era sterminare la "razza dei Capeti", i Capetingi. Prima e durante la Rivoluzione, i massoni si riunivano intorno alla tomba di De Molay per celebrare rituali esoterici e giuramenti di vendetta. Il boia che giustiziò materialmente il 21 gennaio 1793 Luigi XVI era un discendente dell'ultimo gran maestro dell'Ordine del Tempio. Con questo orrendo delitto i giacobini dell'Illuminato di Baviera Maximilien Robespierre scatenarono una feroce persecuzione contro i loro nemici, i controrivoluzionari, accanendosi in particolar modo proprio contro quel popolo di cui tanto si facevano paladini, che invece voleva rimanere fedele ai Borbone e alla Chiesa. La persecuzione antireligiosa era cominciata in maniera più blanda già dopo il 14 luglio 1789, ma con il Terrore giacobino raggiunse vette molto più alte. Beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli "immortali" principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè. Da non dimenticare l'orribile genocidio della Vandea (130.000 morti), che disgustò perfino Babeuf e Napoleone, ma di cui nessuno parla. Questa regione doveva diventare, nelle parole del generale giacobino Westerman, un "cimitero nazionale". Il furore spietato e distruttivo contro la Vandea si spiegava perché era la regione più religiosa e lealista della Francia. P. Augustine Barruel scrisse chiaramente in una sua opera che gli Illuminati avevano complottato contro il Trono e l'Altare. Erano membri della setta Robespierre, il duca di Orléans, Necker, La Fayette, Barnave, il duca di Rouchefoucault, Mirabeau, Fauchet, Clootz e Talleyrand, e appartenevano al Grande Oriente di Francia tutti i principali capi rivoluzionari: Sieyès, Saint-Just, Marat, Danton, Desmoulins, Hèbert (l'ideatore della "scristianizzazione") e Brissot. La scristianizzazione portata avanti da Hèbert, accanitamente antireligiosa, non trovò l'appoggio di Robespierre, che sostenne e impose il culto dell'Essere Supremo e della Dea Ragione. Il capo giacobino sperava in tal modo di rendere "popolari" i principi massonici. All'Ente Supremo, equivalente del Gadu, fu conferito come simbolo un grande e robusto albero, una quercia, che alla fine rappresenta la Natura; notiamo bene che questo simbolo pagano era lo stesso che campeggiava sullo stemma del Pds di Achille Occhetto, che nel 1991 aveva appena abbandonato il vecchio nome di Pci. Alla Dea Ragione fu data l'immagine di una donna con il petto scoperto dove spunta l'occhio onniveggente, altro simbolo cabalistico ed esoterico. Che la Rivoluzione francese fosse influenzata dalla massoneria è dimostrato da più parti: basta controllare il frontespizio dell'Enciclopedia e le fedeli riproduzioni della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, dove le allegorie massoniche sono evidentissime. La reazione del 9 Termidoro che portò alla ghigliottina Robespierre e i suoi seguaci il 27 luglio 1794, segnò l'ascesa al potere dei gruppi borghesi liberal-moderati. Intanto le frange più estremiste si organizzavano, e un triumvirato ultragiacobino composto da Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Silvain Marèchal, tutti e tre massoni, diede vita alla Congiura degli Eguali del marzo-maggio 1797. La cospirazione fu soffocata nel sangue e Babeuf condannato a morte. Buonarroti e Marèchal continuarono nel segreto la loro attività rivoluzionaria, fornendo insieme a Jakob Kats, un patrimonio politico di rilevante importanza, perché questi gruppi proto comunistici furono gli antesignani diretti del socialismo marxista. L'ascesa di Napoleone Bonaparte segnò l'inizio della conquista massonica dell'Europa. L'esercito francese disseminava logge in tutti i territori occupati, Italia compresa. Il 20 giugno 1805 nacque a Milano il Grande Oriente d'Italia, la più grande obbedienza della penisola, però non riconosciuta dalla Loggia Madre di Londra. In quel periodo nacque anche la Carboneria, una metamorfosi rurale della Massoneria, che ebbe come gran protettore il cugino di Napoleone, Gioacchino Murat, "re" di Napoli e delle Due Sicilie. Scopo delle società segrete italiane era "liberare" l'Italia dai vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. Possiamo scorgere l'azione della Massoneria dietro tutte le rivoluzioni in Europa e in America del 1820-21, 1825, 1830-31 e del 1848. Il Risorgimento italiano, guidato dal massone Cavour e aiutato dai "fratelli" Mazzini, Garibaldi, Manin, D'Azeglio e tanti altri, portò alla "indipendenza" italiana nel 1861. Lo Stato Pontificio fu conquistato solo il 20 settembre 1870 con la breccia di Porta Pia per opera dei bersaglieri dell'esercito sabaudo, nonostante l'eroica resistenza di papa Pio IX, spesso ingiustamente accusato dalla storiografia progressista come un anti-italiano. Anzi, esisteva un progetto dello stesso pontefice volto ad unificare in maniera federativa gli Stati italiani, onde evitare il pericolo di una rivoluzione laicista e anticlericale. Fatto sta che dal 1870 al 1929 il papa è stato prigioniero in Vaticano e che dal 1861 al 1922 il Regno d'Italia è stato governato da un regime oligarchico e liberal-massonico, nonostante il patto Gentiloni-Giolitti del 1913. Dalle società segrete socialiste francesi che avevano dato vita alla congiura di Babeuf emigrate in Germania, nacque nel 1834 la Lega dei Proscritti. Questi gruppi cospiratori discendevano in linea diretta dagli Illuminati di Weisshaupt. Nel 1836 ci fu una scissione all'interno dei Proscritti; nasceva così la Lega degli Uomini Giusti. Nel 1840 circa, entrarono a far parte di questo gruppo Kiessel Mordechai Levi, alias Karl Marx e Friederich Engels, i padri del comunismo. Marx, secondo la notizia riportata sulla rivista massonica italiana "Hiram" il 1° maggio 1990, fu iniziato alla loggia "Apollo" di Colonia. Nel 1847 gli Illuminati inglesi affidarono ai due filosofi il compito di rielaborare i principi di Weisshaupt e Babeuf in forma nuova e scientifica, mentre i fondi necessari per la pubblicazione del "Manifesto Comunista" del 1848 provennero da Clinton Roosevelt e Horace Greely (avo di Hjalmar Schact, ministro dell'economia del Terzo Reich), entrambi membri della loggia "Columbia", fondata a New York dagli Illuminati bavaresi. Le agitazioni rivoluzionarie fomentate da comunisti, socialisti, anarchici e radical-democratici sfociarono nella Comune di Parigi del 1871, un violento rivolgimento politico indirizzato contro il governo del conservatore Adolphe Thiers. La rivolta fu domata in poche settimane. A cavallo tra l' '800 e il '900 i principali governi europei e americani erano anticlericali, soprattutto la Francia e l'Italia, egemonizzati da partiti liberal-moderati, progressisti e radical-socialisti. Durante la cosiddetta "belle èpoque" (1900-1914) le logge studiavano come disfarsi dei governi autocratici che ancora resistevano dopo le ondate rivoluzionarie ottocentesche; gli obiettivi da abbattere erano l'Impero Austro-Ungarico, la Germania del Kaiser, la Russia zarista (sconvolta da attentati e moti fino a prima del 1914), ma anche la Turchia Ottomana. L'odio di grembiulini e rivoluzionari era concentrato soprattutto contro gli Asburgo d'Austria, visti come eredi dei Carolingi e del Sacro Romano Impero Germanico, fondatore dell'Europa cristiana. L'Impero asburgico era multietnico e si volevano strumentalizzare le rivendicazioni per l'indipendenza di alcune nazionalità: i serbi ortodossi alleati della Russia, i cechi, gli slovacchi, ma anche l'élite ebraica che mal sopportava essere governata da una dinastia cattolica. Gli ebrei sostenevano il Partito Socialdemocratico, guidato dal loro correligionario Viktor Adler, il cui figlio Friederich uccise il primo ministro Stürgkh. La Massoneria internazionale voleva un grande scontro sul continente che avrebbe dovuto portare alla federazione repubblicana degli Stati europei. Il 28 giugno 1914 il terrorista ebreo serbo Gavrilo Princip appartenente alla società segreta della "Mano Nera" e alla setta democratica "Giovane Serbia", uccise l'erede al trono d'Austria il granduca Francesco Ferdinando e la moglie a Sarajevo, provocando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Gli schieramenti erano questi: da una parte gli Imperi centrali, Austria - Ungheria, Germania e Turchia Ottomana, dall'altra la Triplice Intesa che comprendeva Inghilterra, Francia, Russia (poi costretta ad abbandonare per lo scoppio della Rivoluzione bolscevica) e più tardi Italia e Stati Uniti. La Grande Guerra si concluse con la vittoria delle potenze massoniche e la distruzione dei vecchi imperi europei. L'Austria – Ungheria fu smembrata e la Germania umiliata. Ottennero l'indipendenza la Cecoslovacchia, guidata dai "fratelli" Beneš e Masaryk, la Polonia, l'Ungheria e il Regno di Jugoslavia. L'Impero Ottomano fu lentamente logorato all'interno con la presa del potere dei "Giovani Turchi" nel 1908, una setta democratica modernizzante i cui membri risultavano affiliati alla loggia "Macedonia Resurrecta" di Salonicco. Il governo massonico turco pianificò il genocidio armeno nel 1915; furono trucidati 1.500.000 di armeni. Con la fine del conflitto l'Impero si sfaldò. Nel 1923 il generale massone Kemal Atatürk abolì definitivamente il sultanato; nasceva così la Repubblica di Turchia, profondamente occidentalizzata e proiettata verso l'Europa. La Russia fu sconvolta dalla Rivoluzione di febbraio che spodestò lo zar Nicola II, guidata dai massoni L'vov e Kerenskij, affiliati alla Gran Loggia di Russia. La rivolta di febbraio ebbe un carattere liberale e socialdemocratico. Ma il 25 ottobre successivo il potere fu preso dai comunisti bolscevichi, capitanati dagli altrettanti "fratelli" Lenin, Trotzkij, Zinov'ev, Parvus, Litvinov, Bucharin, Sverdlov, Lunačarskij, Radek, Rakowskij, Krasin, tutti iniziati al Grande Oriente di Francia; è forse da escludere l'appartenenza di Stalin, il quale non risulta affiliato. Lenin fu iniziato a Parigi nel 1908 alla loggia "Union de Bellevillle" e ottenne il 31° grado. Il governo sovietico del 1920 era molto particolare: su 21 Commissari del Popolo 17 erano di origine ebraica; su 545 funzionari di Stato, 447 erano ebrei. In effetti la comunità israelitica vedeva di buon occhio la Rivoluzione nel paese degli zar. Non è un mistero che essa fu finanziata da ambienti ebraici anglosassoni nordamericani ed europei contigui alla B'nai B'rith tramite Parvus (Rockefeller, Morgan, Kuhn & Loeb, Rothschild, Schiff, Warburg). Molti correligionari però, appartenenti alla piccola borghesia, furono ferocemente perseguitati e spogliati dei beni perché conservatori e fedeli al vecchio regime. La "Civiltà Cattolica", autorevole rivista dei gesuiti, parlò di un complotto giudaico-massonico-bolscevico. Il governo comunista di Russia è stato il primo a legalizzare la pratica genocida dell'aborto, voluto dal Commissario del Popolo agli Affari Familiari Goichberg su pressione di Lenin, ispirato a sua volta dal "miliardario rosso" americano Armand Hammer, uomo dei Rockefeller (i più grandi pianificatori del controllo delle nascite a livello globale), maestro dell'ecologista radicale Al Gore. Un grande storico magiaro-francese, François Fejtö, ha ammesso nella sua opera più conosciuta "Requiem per un Impero defunto", il ruolo determinante delle società segrete nello scoppio della Prima guerra mondiale. Gli stessi capi politici delle potenze vincitrici, il democratico Wilson (USA), il liberale Lloyd George (Gb), il radical-socialista Clemenceau (Fra) e il liberaldemocratico Orlando (Ita) erano tutti massoni. Woodrow Wilson fu l'ideatore della Società delle Nazioni, un organismo sovranazionale, antenato dell'ONU, che avrebbe dovuto portare secondo lui alla pace universale e ad un unico governo mondiale; essa avrebbe dovuto riuscire dove il Cristianesimo aveva fallito. Clemenceau era un anticlericale incallito; apparteneva ad una loggia i cui membri si facevano tumulare da morti ritti in piedi, in segno di odio e di sfida contro Dio. Nel '900 particolarmente travagliata è stata la storia del Messico. Scosso da rivoluzioni e da vari rivolgimenti politici (1910-1914), la lotta anticristiana fu molto virulenta. Presidenti massoni come Madero, Carranza, Obregòn, Cardenas e soprattutto Calles furono i protagonisti in negativo di un'epoca. Quest'ultimo scatenò una ferocissima persecuzione, che provocò come reazione la guerra cristera del 1927-1929. Il regime era controllato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale, che ideologicamente professava un socialismo di tipo ottocentesco con venature democratico-giacobine; per essere più pratici lo si potrebbe paragonare al Psoe di Zapatero. È unanimemente riconosciuto che la Massoneria messicana, secondo anche la testimonianza di P. Carlos Blanco, è la più anticlericale che esiste. Manovrata dagli USA o da ambienti sinarchici europei vicini alla Spagna e alla Francia, si sforza di dare al Messico un'identità laica e protestante in grado di cancellare le radici cattoliche del paese, viste come il maggiore ostacolo alla fusione di tutte le nazioni americane. Il rapporto tra la Libera Muratoria e i grandi nazionalismi europei è stato piuttosto complesso. In Italia Benito Mussolini nel 1922 mise fine a 61 anni di regime oligarchico - liberale, ma inizialmente già dal 1919, il fascismo godette del sostegno della Massoneria italiana, poiché lo credeva un movimento socialista e nazional-giacobino. Il massone anticlericale Arturo Reghini fu, insieme all'esoterista Julius Evola, il principale assertore del "fascismo pagano". Personalmente il Duce detestava i poteri occulti, e nel 1925 li mise fuori legge, suscitando le ire di Antonio Gramsci. Nonostante ciò, molti gerarchi fascisti erano "fratelli" come Grandi, Balbo, Badoglio, Bottai, Costanzo Ciano, Farinacci, Starace, Sante Ceccherini, Acerbo, ma anche due tecnici del governo come Giuseppe Volpi di Misurata e Alberto Beneduce. La cosa a quanto pare fu sottovalutata da Mussolini che se ne rese conto troppo tardi quando il 25 luglio 1943 fu sfiduciato dal Gran Consiglio da un gruppo di fascisti dissidenti capeggiati da Dino Grandi. Quest'ultimo ha scritto nelle sue memorie che voleva far pagare al Duce e al regime le scelte fatte dal 1936 in poi, anno dell'inizio della guerra civile di Spagna, che vide l'Italia fiancheggiare senza riserve i nazionalisti di Franco, impegnati in una dura lotta al bolscevismo e alla massoneria internazionale. Lo stesso Badoglio si oppose all'entrata in guerra dell'Italia. La massoneria negli anni '30 accentuò la propaganda antifascista, e in molte carte segrete, oggi recuperate, si esprimeva la necessità di abbattere il Duce con una grande alleanza internazionale, che si concretizzò con la Seconda guerra mondiale. In realtà la Massoneria non perdonava al regime anche la stipula dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, che mettevano fine al decennale contenzioso tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Il nazismo di Hitler era profondamente avverso alla massoneria, perché la considerava una pedina degli ebrei. Nonostante ciò, ministro dell'Economia del Reich e presidente della Deutsche Bank era il protestante frammassone Hjalmar Schact, "miracolosamente" sfuggito al processo di Norimberga, evidentemente salvato dai "fratelli" americani, inglesi, francesi e sovietici. Bisogna dire che il nazionalsocialismo fu in parte emanazione di circoli iniziatici pangermanisti e neopagani facenti capo alla loggia "Thule". Molti esponenti nazisti facevano parte di questo gruppo esoterico: Adolf Hitler, Alfred Rosenberg, Otto Rahn, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; quest'ultimo apparteneva anche all'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, società d'ispirazione rosacrociana. Secondo alcuni storici, si recò in Inghilterra nel 1941 per negoziare una pace separata con gli inglesi proprio a causa della sua affiliazione a questa setta segreta la cui sede e i cui vertici risiedevano in Gran Bretagna. Il Falangismo spagnolo di Francisco Franco fu autenticamente cattolico e rigorosamente antimassonico. La Repubblica, egemonizzata dalle sinistre anticlericali (socialisti, repubblicani, comunisti), e sostenuta dall'esterno dagli anarchici e all'estero dal Messico di Cardenas, dalla Francia del Fronte Popolare del marxista Lèon Blum e in maniera più decisa e diretta dall'URSS di Stalin, cominciò ad innescare un clima di odio e di violenza tale che soprattutto dal 1936 al 1939 raggiunse l'apice massimo. A proposito del dittatore georgiano, urge una precisazione: la volta scorsa ho scritto che non risulta affiliato; ebbene, un massone mi ha riferito invece che Stalin era "fratello". La Massoneria lo ha screditato dopo la morte a causa delle molte epurazioni da lui effettuate all'interno del Pcus. Il presidente repubblicano Manuel Azaña, un massone fanatico, era deciso a portare la Spagna sotto l'orbita sovietica, provocando e alimentando la violenza inaudita dei rivoluzionari contro la Chiesa e tutti coloro che non si piegavano al terrore rosso. Le persecuzioni furono terribili; gli orrori dei comunisti spagnoli superavano in molti casi quelli dei giacobini durante la Rivoluzione francese. Con la risoluta reazione dei nazionalisti di Franco, aiutati in maniera decisiva dalla Germania ma soprattutto dall'Italia, la Repubblica filosovietica fu abbattuta. Franco giunto al potere emanò il 1° marzo 1940 la legge per la repressione della massoneria e del comunismo. Va aggiunto che molti massoni di tutte le tendenze politiche antifasciste si arruolarono nelle Brigate Internazionali, per andare in soccorso dei "fratelli" in pericolo. La vittoria degli Alleati nella II guerra mondiale e la sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, implicò la divisione del mondo in due blocchi, voluto a Yalta nel 1945 dai "fratelli" Roosevelt, Churchill e Stalin: a occidente il predominio americano e a oriente quello sovietico. I due mondialismi materialisti si spartivano il pianeta: da una parte il capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante, dall'altro il comunismo ateo e totalitario. Il nazionalismo doveva essere distrutto per far posto al mondialismo, che avrebbe dovuto portare al compimento della Grande Opera, al sogno della massoneria: la Repubblica Universale. I popoli dovevano scegliere. L'Italia decideva il suo destino il 18 aprile 1948: dopo l'unità durante la Resistenza, una parte della Massoneria sostenne i partiti laici minori, il PDA, il PRI e il PLI, apertamente filoamericani, mentre l'altra il Fronte Popolare, costituito da PCI e PSI, che invece erano filosovietici. Simbolo del FP era un'immagine di Garibaldi. La grande vittoria della DC confermò l'Italia nel campo americano, insieme agli altri paesi occidentali. In tutta l'Europa orientale, la Massoneria spianò la strada ai socialcomunisti. La studiosa Angela Pellicciari, tra le migliori esperte di storia del Risorgimento italiano, ha giustamente notato che sull'emblema della DDR (la Germania Orientale comunista) figurava un compasso; ricordiamo che il compasso, con la stella a 5 punte e la squadra sono i principali simboli della massoneria. Un caso oscuro ed emblematico di come i "fratelli" si vogliano bene tra loro riguarda la Cecoslovacchia. Con il colpo di Stato del 1948, il radicale Jan Masaryk, già Gran Maestro della Massoneria ceca al pari di suo padre Tomas e di Edvard Beneš, persecutori e carnefici degli slovacchi cattolici, fu "suicidato" dagli stessi "fratelli" comunisti che lui aveva favorito come alleati al governo (era l'unico non marxista). La famiglia Masaryk fu protagonista di un vero e proprio dramma: Tomas fece di tutto per "liberare" la Cecoslovacchia dall'Impero Asburgico, mentre suo figlio Jan aveva consegnato il suo paese (rimettendoci la vita!) negli artigli del bolscevismo internazionale. Lo stesso anno, il 14 maggio 1948 Ben Gurion fondava lo Stato d'Israele, dando vita al "Risorgimento ebraico" che ha per base ideologica il Sionismo di Teodoro Herzl. Il sionismo predica il ritorno in patria del popolo d'Israele, in base ad un messianismo laico e terreno. Con l'arrivo dei coloni ebrei è iniziato un capitolo triste per la sorte del popolo arabo-palestinese. Nel 1945 a S. Francisco era nata l'ONU, per iniziativa delle potenze vincitrici, al posto della screditata Società delle Nazioni. La sua sede è a New York, edificata in uno spazio donato dai Rockefeller. Le stanze dell'ONU sono piene di simbologie massoniche. Le Nazioni Unite sono una prefigurazione del futuro governo mondiale, controllate da burocrati mediocri ma potenti, influenzati da un tipo di socialismo fabiano e tecnocratico. Esse hanno silenziosamente e subdolamente incoraggiato la decolonizzazione negli anni '40, '50 e '60 delle dipendenze oltre continente di Inghilterra, Francia, Belgio, Portogallo e Olanda. Rozzi e violenti capipopolo di sinistra come Sukarno in Indonesia, Lumumba nel Congo belga, Ho Chi Minh in Vietnam, solo per fare qualche nome, ottennero l'indipendenza delle loro nazioni per poi fare lucrosi affari sottobanco con i grandi capitalisti occidentali, loro che avevano predicato la guerra rivoluzionaria ai bianchi "schiavisti" e "sfruttatori". Lo stesso può dirsi per le rivoluzioni marxiste nei Paesi poveri, la Cina di Mao (istigata dall'agente sovietico del Comintern, il rivoluzionario massone Michail Borodin, detto Gurov) e la Cambogia dei khmer rossi, dove il macellaio comunista Pol Pot ha eliminato 1 milione di persone nel giro di una settimana, ma soprattutto nell'America Latina , guidate dai "fratelli" Castro e Che Guevara a Cuba (entrambi 33° grado del Rsaa della Gran Loggia Cubana), Romulo Betancourt in Venezuela, Jacobo Arbenz Guzmàn in Guatemala e Salvador Allende in Cile (Venerabile della Loggia "Hiram n° 66 di Santiago). Una breve digressione merita il "mitico 68". Esso fu preparato mediante un'efficace suggestione culturale dalla Scuola di Francoforte, un gruppo di filosofi marxisti "eretici", tra cui Theodor Adorno, Herbert Marcuse e Max Horkehimer. Fondata dalla Fabian Society, la società semi-segreta inglese nata nel 1904, fautrice dell'espansione del socialismo nel mondo, da cui sono usciti molti politici laburisti come i premier Tony Blair e Gordon Brown, essa aveva lo scopo di inquinare i costumi dell'Occidente con la mentalità libertaria e nichilista, al fine di facilitare l'avvento della socialdemocrazia universale. Un altro organismo mondialista che ci riguarda molto da vicino è l'Unione Europea (ex Ceca-Euratom, Cee). Nonostante sia stata voluta anche da 3 cattolici ferventi come De Gasperi, Schuman e Adenauer, l'Ue ha preso una piega sempre più tecnocratica, centralista, socialista e laicista. Padri "spirituali" di questa Europa debole e corrotta sono i massoni Blum, Spaak, Monnet, Spinelli, Brandt, Giscard d'Estaing, Felipe Gonzalez, Cohn Bendhit, Mitterrand (che in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese ha riempito Parigi di simboli esoterici) e Delors. Qualcuno non contento, vuole perfino far entrare la Turchia, vista come l'ariete che potrà finalmente distruggere la nostra Civiltà. Del resto è sotto gli occhi di tutti la politica anticristiana praticata dalle istituzioni comunitarie. L'azione della massoneria in Italia nel dopoguerra si è concentrata soprattutto sulla corruzione dei costumi e della famiglia. Forze politiche anticlericali come il Pri, il Psi, il Pci, il Psdi, il Pli, guidate dal Partito Radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino, riuscirono a far introdurre il divorzio nel 1970 e l'aborto nel 1978. Esso era stato legalizzato prima nell'URSS e poi nel restante campo comunista, poi diveniva legge negli USA il 22 gennaio 1973, quando la Corte Suprema, controllata dai Rockefeller, si pronunciò a favore di tale provvedimento. Che l'applicazione dell'aborto su scala mondiale sia frutto di una pianificazione a tavolino dei poteri massonici, non c'è dubbio; diceva la femminista francese Edwige Prud'homme, Gran Maestra della Loggia femminile di Francia, intervistata da Le Monde il 26 aprile 1975: «È nelle nostre logge che furono prese, 15 anni fa le prime iniziative che condussero alla legislazione sulla contraccezione, il familial planning e l'aborto». Lo storico François Fejtö su "il Giornale" del 14 dicembre 1982: «Sotto Giscard, il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Pierre Simon, svolse un ruolo preponderante nella preparazione delle leggi sulla contraccezione e l'aborto». Perfino Giovanni Paolo II diceva che «sono grandi e potenti le forze che oggi, apertamente od occultamente, dispiegano nel mondo la cultura della morte». Molte agenzie dell'ONU e dell'Ue promuovono l'aborto su scala planetaria, soprattutto nel Terzo mondo. L'aborto per i massoni, ha un significato esoterico profondo: è il sacrificio cruento di sangue innocente offerto al Principe di questo mondo, Satana, il vero dio della Massoneria, qualificato come Gadu o Ente Supremo, per nascondere ai profani le vere finalità della setta, come ebbe a sottolineare il grande giurista cattolico e controrivoluzionario francese vissuto tra il '700 e l'800, il conte di Anthenaire, e come confermano molti documenti riservati agli alti gradi, tra cui quelli di Albert Pike, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rssa della Giurisdizione del Sud degli Stati Uniti d'America, vissuto nell'800. Gli anni '80 furono l'inizio del collasso sovietico: l'elezione al vertice del PCUS dello pseudo innovatore Michail Gorbačev, tanto acclamato in Occidente, portò alla fine del comunismo nell'Europa orientale nel 1989 e alla dissoluzione dell'URSS nel 1991. La sua politica riformatrice e allo stesso tempo fallimentare, era dettata dai poteri forti mondialisti, decisi a far crollare il socialismo di Stato per proiettare l'economia russa verso il mercato globale; gli stessi gruppi di potere che furono i burattinai dell'ottobre 1917, i Rockefeller in testa. Non stupirà sapere che Gorbačev è massone e membro del Lucis Trust, un club fondato dalla teosofa ed esoterista Alice Bailey, che si batte per l'unificazione delle religioni; la congrega usa riunirsi spesso nella cappella newyorkese presbiteriana di S.Giovanni il Divino. Esso è inoltre uno degli sponsor più attivi per i meeting sul dialogo interreligioso promossi dall'ONU. Prima del novembre 1989, Gorbačev tenne un incontro molto riservato a Mosca con il Gran Maestro della Massoneria romena, Marcel Shapira, il quale gli confidò con mesi d'anticipo che i capi comunisti di allora, i vari Ceausescu, Husak, Honecker, ecc, sarebbero stati presto sostituiti con altri leaders. Ciò la dice lunga sui profondi legami tra apparato comunista e massoneria internazionale mondialista. Oggi l'ex dittatore sovietico è a capo della Green Cross International, una grande associazione ecologista, ed è tra i firmatari della Carta della Terra, che a suo avviso dovrebbe sostituire i 10 Comandamenti, nonché sostenitore delle bizzarre previsioni sul clima di Al Gore. Nell' '89 il comunismo, la peggiore forma di sfruttamento e di oppressione della storia, crollava con un terrificante bilancio incalcolabile di morti e di danni materiali e spirituali, con il solo risultato di aver devastato i popoli e di aver paradossalmente lasciato al loro posto tutti grossi gruppi del grande capitale internazionale. La fine del sistema comunista in Europa ha portato al superamento dei blocchi e all'indiscussa supremazia USA. L'11 settembre 1991 il presidente americano George Bush (33° grado Rsaa) annunciò dal suo studio ovale di Washington che si era giunti all'alba di un "nuovo ordine mondiale". Cosa intendeva? Quella che oggi è sotto gli occhi di tutti: la società multietnica e multiculturale, che ci porterà alla Repubblica Universale massonica, che annullerà tutte le culture e le fedi. Proprio a partire da quegli anni, l'Europa, culla di Civiltà, è stata interessata dall'invasione di immigrati provenienti dall'Est, dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia. La maggior parte di questi nuovi arrivati è di fede musulmana. La religione di Maometto è incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali, crea incomprensioni e problemi di convivenza, ma ai progressisti, custodi del politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione, la cosa sembra non importare, anzi auspicano uno "scontro creativo" tra civiltà, per cui nascerà un nuovo ordine dal caos, come disse Edgar Morin, sociologo di sinistra ed ex consigliere di Mitterrand. L'obiettivo dei grembiulini è devastare la radice e il tessuto culturale e sociale con l'ausilio della religione islamica, che è in grande espansione, contro un'Europa disarmata e in crisi d'identità. Ma la globalizzazione era già stata preparata nei piani alti delle logge massoniche. In piena Seconda guerra mondiale, John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller, così vedeva la "pace universale", sul "Times" del 16 marzo 1942: «Un Governo mondiale, la limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà di immigrazione nel mondo intero». Oggi si parla tanto di pace, quanto è abusato questo termine! La "pax mondana" è cosa ben diversa da quella "christiana", lo dice perfino Gesù nel Vangelo, checché ne dica qualche parroco o vescovo progressista. Tutti noi ricordiamo quando durante la guerra in Iraq, molti italiani esposero la bandiera arcobaleno; ebbene quel vessillo è simbolo della Società Teosofica, fondata nel 1875 a New York da Anne Beasant, Helena Petrovna Blavatsky, Alice Bailey e altri famosi occultisti, che indica la pace come sforzo umano e non come dono di Dio. L'arcobaleno così inteso era presente già nella simbologia delle logge massoniche del'700, figura sulla bandiera del Nicaragua (tuttora patria e rifugio di comunisti, massoni, rivoluzionari, guerriglieri, narcotrafficanti e terroristi di tutto il mondo) e nello stemma dell'Antico Rito Noachita. Inutile dire quanto sia usato durante le manifestazioni omosessuali. Quindi l'arcobaleno è il simbolo principale della Nuova Era dell'Acquario, che sarà pacifista, multietnica, multiculturale, multisessuale, sincretista e politicamente corretta. La moderna secolarizzazione ha colpito duramente anche la Chiesa. Una crisi che è stata preparata da tempo dalle logge massoniche. Documenti riservati dell'Alta massoneria risalenti a fine '800 – inizio '900 dichiaravano che occorreva distruggere la Chiesa cattolica dal di dentro, puntando sulla corruzione morale dei sacerdoti e dei credenti, al fine di screditarla. Il periodico francese "Vers Demain" pubblicò un estratto del piano studiato dal massone spretato Paul Roca: «Soppressione della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l'Eucarestia ridotta a un semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell'avvenire». Da qui l'irrompere dell'eresia modernista, duramente condannata da S. Pio X con il decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi del 1907. Ovunque la Massoneria è giunta al potere, ha sempre provveduto ad infiltrare agenti e a sottomettere la Chiesa allo Stato, come è avvenuto in Francia durante la Rivoluzione con la Costituzione Civile del Clero, così come in Messico, in Russia, ecc, e come voleva fare in Italia contro papa Pio IX, che non voleva «diventare il cappellano di Casa Savoia». Un grande santo come Padre Pio da Pietrelcina definiva la massoneria «l'infame setta». Non esagerava, aveva perfettamente ragione. Francesco Pio Meola
La Chiesa e lo spettro massonico. Molto spesso sopravvalutato. Un saggio di Fulvio Conti (il Mulino) mostra che le logge ebbero una parte di rilievo nella Rivoluzione francese e sotto Napoleone, non nel Risorgimento italiano, scrive Paolo Mieli il 26 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Perfino Gioacchino Belli, che pure fu un implacabile fustigatore del malcostume nello Stato pontificio, ebbe sentimenti non simpatizzanti nei confronti della massoneria e condivise al fondo l’ostilità della Chiesa ai liberi muratori. Nel 1838 Belli scrisse un sonetto, Li rivoltosi, in cui lasciò trasparire la propria diffidenza per i massoni: «Chiameli allibberàli o fframmasoni/ O ccarbonari, è sempre una pappina/ È sempre canaijaccia ggiacubbina/ Da levàssela for de li cojjoni». Segno che il pregiudizio antimassonico si diffuse nell’Ottocento anche in ambienti che non possono essere considerati di stretta osservanza cattolica. Nel saggio Dalla condanna al dialogo: tre secoli di relazioni tra Chiesa e massoneria— che uscirà nel libro, edito dal Mulino, curato da Giorgio Fabre e Karen Venturini, La Chiesa tra restaurazione e modernità (1815-2015) — Fulvio Conti ricostruisce le condanne della Chiesa a partire dalla lettera apostolica In eminenti (1738), con la quale, esattamente un secolo prima del sonetto del Belli, papa Clemente XII stabiliva il divieto, pena la scomunica, di affiliazione alla massoneria e ad altre associazioni dello stesso tipo «contrarie alla sicurezza dei regni» nonché — a suo dire — in grado di causare «mali gravissimi non solo alla tranquillità degli Stati, ma anche alla spirituale salvezza delle anime». La massoneria aveva all’epoca 21 anni. Il suo atto di nascita, ricorda Conti, viene infatti comunemente individuato nella decisione adottata da quattro logge inglesi, il 24 giugno 1717, di dar vita alla Grand Lodge of London. Sei anni dopo la «loggia madre» si dotò di un corpo di norme statutarie, Constitutions of the Free-Masons, codificate dal reverendo James Anderson, pastore della Chiesa presbiteriana scozzese. La Chiesa cattolica intuì immediatamente che quello dei «Liberi muratori» era un fenomeno con grandi potenzialità di proselitismo e si sentì minacciata. Nel 1739, l’anno successivo a quello della succitata lettera del Papa, un editto del cardinale Giuseppe Firrao, segretario dello Stato pontificio, ribadì il divieto per i fedeli di affiliarsi a quelle «perniciosissime aggregazioni», minacciando la confisca dei beni e addirittura la pena di morte per coloro che non avessero obbedito all’ingiunzione del pontefice. Proprio così: la pena di morte. Punizioni che per di più avrebbero dovuto essere inflitte, secondo l’editto, «irrimediabilmente e senza speranza di grazia». Ma queste disposizioni caddero sostanzialmente nel vuoto. E, anzi, durante la guerra di Successione austriaca (il conflitto che tra il 1740 e il 1748 consacrò, su versanti opposti, Maria Teresa d’Asburgo e Federico II di Prussia) «ideali e modello associativo della libera muratoria», scrive Conti, «conobbero una grande espansione grazie alla nascita di logge militari, che ebbero una particolare diffusione nel mondo germanico». Così il successore di papa Clemente, Benedetto XIV, con la bolla Providas Romanorum Pontificum nel 1751 si sentì in dovere di aggiungere di suo uno specifico invito a tutti i sovrani e ai governi a che bandissero la massoneria. Tra i più lesti ad accogliere l’esortazione papale, in quello stesso anno, furono Carlo di Borbone a Napoli e Ferdinando VI a Madrid. Nel contempo però — a bilanciamento dell’iniziativa pontificia — si ebbe una certa sovrapposizione tra le idee della massoneria e quelle dell’Illuminismo.
Poi la Rivoluzione americana del 1776 presentò, secondo Conti, «la realizzazione empirica, nell’elaborazione costituzionale e nella pratica di governo, dei valori espressi dalla cultura dell’Illuminismo». E della massoneria. La Gran loggia d’Austria giunse a proclamare che «ogni loggia era una democrazia», mentre la massoneria danese negli anni Sessanta affermava che la «libertà repubblicana» era un bene oltremodo prezioso. Nel 1779 la loggia parigina Noef Soeurs, a cui era affiliato Voltaire assieme a molti altri intellettuali, accolse con grandi elogi Benjamin Franklin e presentò i propri appartenenti come «cittadini della democrazia massonica». E a ridosso della Rivoluzione francese — come ha individuato Giuseppe Giarrizzo in Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento (Marsilio) — non pochi segmenti europei dell’universo liberomuratorio divennero vere e proprie «strutture terroristiche» dirette a favorire la conquista francese dei Paesi confinanti, nonché l’avvento di governi repubblicano-rivoluzionari in vari Stati italiani e tedeschi, in Svizzera e in Austria. È in questo contesto che viene pubblicato, nel 1797, il celeberrimo libro del gesuita Augustin Barruel considerato primogenito di ogni teoria «cospirazionista»: Memorie per una storia del giacobinismo. In esso viene esposta la tesi del complotto massonico che sarebbe stato all’origine della Rivoluzione francese. Tesi che nella seconda metà del Novecento sarebbe stata oggetto di un importante studio di Reinhart Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese (Mulino) e per certi versi anche della Critica della Rivoluzione francese (Laterza) di François Furet. Conti ritiene che queste ipotesi interpretative siano suggestive, ma debbano essere contestualizzate e fortemente circoscritte nel tempo e nello spazio. Senza indulgere «alla costruzione di simili teoremi, i cui passaggi risultano talora difficilmente dimostrabili», l’influenza della massoneria sulla Rivoluzione francese «appare tuttavia indubbia… sia dal punto di vista ideologico (basti pensare all’apporto dato dalle logge alla diffusione dell’idea egualitaria e alla sperimentazione di forme di rappresentanza democratica), sia sotto il profilo organizzativo, con molte figure del mondo liberomuratorio che rivestirono contemporaneamente ruoli direttivi durante l’esperienza rivoluzionaria o nel giacobinismo europeo». Successivamente — ha notato Franco Della Peruta in un saggio che compare nel volume, curato da Aldo Alessandro Mola, La massoneria nella storia d’Italia (Atanòr) — tutti quelli che raccolsero le bandiere della rivoluzione fecero propri metodi organizzativi e simboli massonici. In toto o quasi, ha scritto Giarrizzo. Ma, secondo Della Peruta, i rivoluzionari si differenziavano dalla massoneria per la pratica attivistica e cospiratoria. Sotto questo aspetto «il terreno sul quale germinarono non è tanto quello delle logge dei Franchi muratori quanto piuttosto quello delle congiure repubblicane del 1794-95, delle cospirazioni patriottico-unitarie del 1798-99, delle esperienze giacobine».
Il periodo napoleonico, prosegue Conti, vide la massoneria divenire «un fenomeno à la page», svuotata del messaggio cosmopolita delle origini e «impegnata apertamente a sostenere i disegni espansionistici dell’impero». Napoleone la utilizzò come strumento di governo e «nelle terre cadute sotto il suo dominio favorì la diffusione delle logge, che si riempirono di militari, di burocrati e di funzionari del regime». Nel 1805 fu fondato a Milano un Grande Oriente d’Italia che «sancì l’aggregazione delle numerose logge sotto un unico centro organizzativo nazionale». Il ruolo di gran maestro, «ad eloquente testimonianza degli stretti legami esistenti fra potere politico e cariche massoniche», fu affidato a Eugenio di Beauharnais, appena insediato come viceré del Regno d’Italia. Qualche tempo dopo si costituì un Grande Oriente napoletano che, fra il 1806 e il 1808, fu guidato dal re di Napoli Giuseppe Bonaparte e, in seguito, da Gioacchino Murat. Conti accredita le stime secondo cui «nei territori italiani a egemonia francese si contarono circa ventimila affiliati, in larga parte funzionari civili e militari», che frequentarono le logge assieme ai rappresentanti dei ceti emergenti dei commerci, delle imprese e delle professioni. E riprende le tesi di Gian Mario Cazzaniga — curatore di La massoneria. Storia d’Italia, Annali, 21 (Einaudi) — secondo cui l’adesione alle logge fu per molti un fenomeno di convenienza ma, ad un tempo, esse costituirono un veicolo di circolazione delle idee liberali e un «laboratorio dell’unità nazionale». È sempre Cazzaniga a mettere in evidenza la «doppia realtà» della massoneria milanese e di quella napoletana: «Da una parte una adesione di massa, superficiale e provvisoria, a liturgie più dinastiche che muratorie, dall’altra una più ristretta e convinta rete liberale di spirito repubblicano, figlia spirituale degli Idéologues e degli Illuminati di Baviera, non senza presenze dell’esoterismo cristiano, che prepara ed anticipa le battaglie per le riforme costituzionali e per l’indipendenza nazionale». Ma, come documenta Aldo Alessandro Mola in Storia della massoneria italiana (Bompiani), dopo la sconfitta del Bonaparte e in epoca di Restaurazione la Libera muratoria cedette gradualmente il passo ad altre associazioni segrete. Rimase, per così dire, sullo sfondo. La massoneria fu sostanzialmente inerte tra il 1830 e il 1870. Inoltre — mette in chiaro l’autore — «non ebbe alcun coinvolgimento diretto nelle prime due guerre di indipendenza e, più in generale, non prese parte alcuna alla cospirazione patriottica e dei moti risorgimentali». Di qui, il paradosso. Mentre «la massoneria risultava di fatto pressoché annientata, la Chiesa continuava a vedere in essa l’oscura ispiratrice di tutti i suoi principali nemici: il liberalismo, la democrazia repubblicana, il movimento patriottico che si batteva per l’Italia unita con Roma capitale, il laicismo positivista e materialista». Di questa bizzarria si accorse Gaetano Salvemini, che nel febbraio 1914 così scrisse ad Alessandro Luzio: «La leggenda che il Risorgimento italiano sia stato opera della massoneria è stata creata dai clericali, i quali, incapaci di rendersi conto di questo fenomeno, lo attribuirono al diavolo» (la lettera è riportata in un libro dello stesso Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, edito da Zanichelli). Ma Pio IX e il suo successore Leone XIII continuarono a osteggiare senza tregua i Liberi muratori. Lo stesso fecero i Papi successivi. In Francia dal 1884 nacquero associazioni e giornali (cattolici) antimassonici. Nel 1887 «La Civiltà Cattolica» annunciò la formazione di una Lega per combattere la massoneria. Che poi confluì nell’Unione antimassonica, la quale nel 1896 tenne un convegno a Trento, città (all’epoca austriaca) che nel 1545 aveva ospitato il Concilio antiluterano. Adesso — anche per effetto dell’offensiva cattolica — il clima era cambiato e, dopo l’avvento al potere della Sinistra (1876), la massoneria ebbe ben cinque presidenti del Consiglio: Depretis, Crispi, Zanardelli, Fortis e Boselli. Oltreché gli amministratori di alcune importanti città, primo tra tutti il sindaco di Roma (tra il 1907 e il 1913) Ernesto Nathan. All’avvento del fascismo, per avviare il percorso che avrebbe portato nel 1929 ai Patti lateranensi la Chiesa di Pio XI pretese e ottenne da Mussolini la messa al bando delle «associazioni segrete». E impose a don Sturzo le dimissioni dalla segreteria del Partito popolare, accusandolo di favorire, con il suo antifascismo, proprio la massoneria. Cosa che provocò una risentita lettera del sacerdote l’8 luglio del 1923. E neanche dopo la caduta del fascismo, la fine della guerra e il ripristino in Italia della democrazia le cose cambiarono. Né con Pio XII, né con Giovanni XXIII. Fu solo all’epoca di Paolo VI che si allentò la presa. Nel 1974 una lettera del prefetto della Sacra congregazione per la dottrina della fede, il cardinale croato Franjo Seper, all’arcivescovo di Filadelfia, pur ribadendo il veto ai fedeli di iscriversi ad associazioni massoniche, affermava che la scomunica doveva applicarsi soltanto a «quei cattolici iscritti ad associazioni che veramente cospirano contro la Chiesa». Il gesuita Giovanni Caprile fece notare che implicitamente si ammetteva l’esistenza di «associazioni massoniche che nulla hanno di cospiratorio contro la Chiesa e contro la fede». Le cose si fermarono lì. Ma quando nel 1978 morì Paolo VI, la «Rivista massonica» pubblicò un corsivo anonimo in cui si leggeva: «È la prima volta — nella storia della massoneria moderna — che muore il capo della più grande religione occidentale, non in istato di ostilità coi massoni».
Nel 1980 la Conferenza episcopale tedesca, dopo sei anni di incontri con esponenti delle Grandi logge di Germania, dava alle stampe una «Dichiarazione circa l’appartenenza di cattolici alla massoneria» in cui si accusava la Libera muratoria di non essere «mutata nella sua essenza» e si dichiarava che l’adesione ad essa metteva «in questione i fondamenti dell’esistenza cristiana». Successivamente tutte le principali personalità della Chiesa, fino a Joseph Ratzinger, hanno ribadito — pur senza particolare enfasi — la condanna della massoneria. Finché, a sorpresa (quantomeno per i toni), nel febbraio 2016 è comparso sul «Sole 24 Ore» un articolo del cardinale Gianfranco Ravasi dal titolo Cari fratelli massoni che ha riproposto le aperture della stagione di Paolo VI. Ma i tempi di una deposizione delle armi che possa essere considerata definitiva appaiono ancora lontani.
Bibliografia. Il saggio di Fulvio Conti Dalla condanna al dialogo: tre secoli di relazioni tra Chiesa e massoneria si trova nel volume La Chiesa tra restaurazione e modernità (1815-2015), a cura di Giorgio Fabre e Karen Venturini (il Mulino, pp. 256, e 20), che sarà in libreria dall’11 gennaio. Questa raccolta fa parte di una nuova collana del Mulino, Critica storica, che scaturisce dagli studi del dipartimento di Storia e cultura dell’Università di San Marino, diretto da Luciano Canfora. Altri libri sui massoni: Giuseppe Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento (Marsilio, 1994); Reinhart Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese (traduzione di Giuseppina Panzieri, il Mulino, 1972). Da segnalare inoltre il volume La massoneria negli «Annali» della Storia d’Italia Einaudi, a cura di Gian Mario Cazzaniga, edito nel 2006.
Quei massoni mafiosi che sussurrano ai potenti. Sacerdoti, politici, magistrati, professionisti, imprenditori. E padrini delle cosche. La commissione parlamentare antimafia ha presentato la relazione sulle infiltrazioni dei clan nella massoneria. Tra Sicilia e Calabria 17 mila iscritti alle 4 obbedienze ufficiali distribuiti in 389 logge. 193 "fratelli" sono collegati a cosa nostra e 'ndrangheta, uno ogni due templi. I nomi restano top secret, scrivono Federico Marconi e Giovanni Tizian il 22 dicembre 2017 su "L'Espresso". Sacerdoti, magistrati, consiglieri comunali e regionali, assessori, sindaci, imprenditori, studenti, professionisti. E mafiosi, calabresi e siciliani. Al gran ballo della massoneria ci sono tutti, non manca proprio nessuno. Alle danze tra Sicilia e Calabria partecipano in 17 mila. In fondo, una loggia non si nega a nessuno. Insomma, tutti pazzi per il grembiule. Il dato inquietante è però un altro: in queste due regioni del Sud c'è un mafioso o un suo complice ogni due logge massoniche. Sono 193, infatti, i “fratelli” collegati ai clan. C'è chi è stato condannato, chi è stato prosciolto, chi ha festeggiato l'assoluzione e chi si sta ancora difendendo nelle aule dei tribunali. Gli iscritti totali alle quattro obbedienze, solo in Sicilia e Calabria, sono oltre 17mila. Una popolazione in grembiule numerosa come quella dell'isola di Capri.
La commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha terminato l'indagine sull'intreccio tra massoneria e mafie. La relazione, approvata il 22 dicembre, è un viaggio nel lato oscuro della massoneria italiana. Un mondo di mezzo nel quale boss e insospettabili professionisti, padrini e rispettabili imprenditori, criminali e politici, si scambiano favori e appoggi. Dei 193 nomi sporchi la commissione precisa che «nove risultano condannati in via definitiva per reati vari, quali il traffico di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta, o destinatari, in via definitiva, di misure di prevenzione personali, come tali indicative di pericolosità sociale». Poi per altri quattro è in corso il processo di appello con l'accusa di associazione mafiosa o di reati aggravati dal metodo mafioso. Uno di questi in primo grado ha subito già una condanna a 12 anni. L'obbedienza con la maggiore presenza di iscritti dal profilo equivoco è il Goi, il Grande Oriente d'Italia. Il Gran Maestro è Stefano Bisi, il massone che più degli altri si è opposto al lavoro della commissione antimafia bollandolo come un atto fascista. Ora che l'indagine si è conclusa e la riservatezza è stata rispettata- nel documento non è presente alcun nome- si scopre che più di qualche boss ha frequentato i templi. Nella Gran Loggia regolare d'Italia i sospetti sono 58, nella Gran loggia d'Italia sono 9 e nella Serenissima solo 4. «Le risultanze illustrate nella relazione hanno fornito conferme in ordine alla rilevanza del fenomeno, a fronte di una sua negazione da parte dei gran maestri, indice o di un’inconsapevolezza o di una sua sottovalutazione, se non di un rifiuto ad ammettere la possibile permeabilità rispetto a infiltrazioni criminali», osserva l'Antimafia. La commissione, tuttavia, precisa che gli investigatori che hanno collaborato ai risconti sugli elenchi sequestrati nelle sede delle obbedienze hanno indicato solo «i soggetti iscritti per reati di mafia in senso stretto, restando pertanto non segnalati tutti i casi in cui il nominativo risulta essere stato, invece, indagato o condannato per altri reati, taluni certamente di non minore gravità». Come a dire: attenzione, i 193, che possono sembrare poca cosa, potrebbero aumentare sensibilmente se si sommassero a questi i massoni con precedenti per corruzione, abuso d'ufficio, reati economici e tributari. Tutti reati spia di una criminalità mafiosa che si insinua nei centri di potere locali: municipi, assessorati, aziende sanitarie, assemblee regionali e provinciali. «A tal proposito, si segnala che il 17,5 per cento degli iscritti presenti negli elenchi acquisiti dalla Commissione non sono identificabili o compiutamente identificabili». Questo significa che molti nella lista sono indicati con le iniziali, oppure con dati anagrafici errati. Il che ha reso impossibile risalire alla loro identità. «Nell’ambito dei 193 soggetti segnalati vi sono, come risulta dall’anagrafe tributaria, numerosi dipendenti pubblici. Le categorie professionali prevalenti sono quelle dei professionisti, come avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti pure in numero rilevanti i soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori nei più diversi settori, in primis quello edile. Così pure, non mancano coloro i quali hanno rivestito cariche pubbliche». Sono ben 9 gli amministratori, tra sindaci, assessori o consiglieri comunali. «Uno spaccato professionale denotante soggetti di un livello di istruzione medio-alto e, di tutta evidenza, in grado di stringere relazioni anche nel mondo della criminalità e in quello della società civile», si legge nella relazione.
Logge e politica. Un focus la commissione lo ha dedicato alla presenza della massomafia all'interno degli enti locali sciolti per mafia. Caso emblematico l'Asl di Locri, commissariata undici anni fa. «Fra i soggetti a vario titolo menzionati nella relazione della commissione di accesso e nell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria, figurano 306 nominativi. Di questi, 17 risultano censiti in logge massoniche. Tra essi, 12 soggetti figurano negli elenchi sequestrati dalla Commissione il 1° marzo 2017; 4 figurano solo negli elenchi (della massoneria ndr) sequestrati dalla Procura della Repubblica di Palmi nel 1993-94 (uno nel frattempo è deceduto); mentre un altro è presente in entrambi gli elenchi. Appare significativo che i 4 soggetti presenti negli elenchi del 1993-94 ma non in quelli del 2017, risultano essere stati raggiunti da provvedimenti cautelari personali o a carattere detentivo, uno dei quali per il reato di cui all’art 416-bis c.p». Ma chi sono questi mafiosi armati di compasso? «Uno è il figlio di un noto capo mafia; un altro, il nipote di un controverso personaggio ritenuto molto influente nell’ambiente mafioso; un altro ancora, figlio di un condannato in primo grado per mafia ma assolto in appello e, comunque, indicato come referente di una nota cosca calabrese, nonché in stretti rapporti con un capo indiscusso di una cosca del mandamento ionico della provincia reggina». Detto dei criminali o presunti tali, nella relazione si evidenzia un altro aspetto: «Deve ritenersi non occasionale, la significativa presenza di massoni in posti apicali dell’azienda sanitaria, nelle società presso la medesima accreditate e nelle pubbliche amministrazioni interessate dall’indagine penale. Di rilievo è il fatto che tali personaggi, di cui si è accertata l’appartenenza a logge massoniche regolari, hanno interagito con altri “fratelli” della stessa loggia o di altre per affari riconducibili a persone indagate e, in taluni casi, condannate per associazione mafiosa». Insomma, non è tanto la quantità di mafiosi presenti nelle logge, ne basta uno per usufruire dei vantaggi che il circolo di amicizie può garantire. Anche la Azienda sanitaria provincia di Cosenza è stata sciolta. Incrociando i risultati emersi nella relazione prefettizia con gli elenchi sequestrati, la commissione ha concluso che «su 220 nominativi individuati, presenti a vario titolo nella relazione conclusiva, 23 persone risulterebbero iscritte a logge massoniche».
A casa del padrino. Nel paese di Matteo Messina Denaro pullulano compassi e grembiuli. Undici logge di varie obbedienze per 31 mila abitanti. Una vera città della massoneria, Castelvetrano. Tanto da essere rappresentanta degnamente in consiglio comunale, sempre e comunque. Nell'ultima consiliatura, 2007-2012, «8 consiglieri su 30 appartenevano, o avevano chiesto di entrare in logge massoniche. Tra i componenti del consiglio comunale eletto nel 2012, vi sono 11 iscritti ad associazioni massoniche (anche diverse da quelle in esame), uno dei quali è stato anche assessore e componente della giunta comunale, quest’ultima poi revocata il 28.01.2015. Nella nuova giunta nominata l’11.02.2015, il numero di assessori massoni aumenta considerevolmente, diventando cinque su dodici membri complessivi della giunta, cioè poco meno della maggioranza. In sintesi, considerando le ultime due consiliature del comune di Castelvetrano hanno assunto cariche elettive o sono stati membri di giunta almeno 17 iscritti alle quattro obbedienze. A questi potrebbero aggiungersene verosimilmente altri 4 - per un totale, dunque, di 21 amministratori pubblici. Negli elenchi massonici di una obbedienza (GLRI), vi sono infatti omonimi di altri quattro consiglieri comunali di Castelvetrano tra i soggetti che risultano privi del luogo e della data di nascita in quanto depennati. Il tutto distribuito in 11 logge quasi tutte presenti nella città di Castelvetrano e dintorni».
Capi e massoni. Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “Molti uomini d’onore quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria (..) perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra.” Lo stesso concetto è stato ribadito alla Commissione, con riferimento ai primi anni del 2000, da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Campanella. Anche lui politico, massone e mafioso. Scrive la commissione: «Nelle più recenti indagini giudiziarie, calabresi e siciliane, ricorre la medesima affermazione che appare ancor più vera alla luce del mutamento delle mafie, ormai propense, come è noto, al metodo collusivo/corruttivo seppur collegato alla propria capacità di intimidazione...Anzi, proprio in questo peculiare momento in cui la mafia tende più ad “accordarsi che a sparare”, deve altresì considerarsi il dato oggettivo del continuo aumento del numero degli iscritti alla massoneria». Del resto le inchiesta recenti dell'antimafia di Reggio Calabria puntano a svelare proprio quel sistema criminale fatto di padrini e insospettabili uomini di potere, che spesso si ritrovano in circoli massonici, non per forza ufficiali.
Un favore al “fratello” boss. Nella loggia “Rocco Verduci” di Gerace, a Locri, si sono verificati fatti inquietanti. «Un magistrato onorario, appartenente alla predetta loggia, aveva chiaramente denunciato, ma soltanto in ambito massonico, una prima vicenda, risalente al dicembre 2010, riguardante le pressioni da egli subite ad opera di due suoi confratelli affinché si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del Tribunale di Locri al fine di ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a un procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato. Vale la pena aggiungere che il massone che sollecitava l’intervento del magistrato onorario in favore dei propri figli indagati, era un medico della ASL di Locri, poi sciolta per mafia, nonché figlio di un noto boss ‘ndranghetista, mentre il massone che lo accompagnava, per sostenerne la richiesta, era un soggetto che, all’epoca di fatti, svolgeva un ruolo direttivo nell’ambito della “Rocco Verduci”». Allo stesso magistrato onorario viene chiesto successivamente un secondo favore: «Intorno al mese di aprile 2012, fu ulteriormente sollecitato, da un altro dei suoi fratelli di loggia, affinché intervenisse ancora, riservatamente, presso i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria al fine di perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, in quel momento, nell’ambito di una indagine antimafia, naturalmente coperta dal più rigoroso segreto, si stava vagliando la sua posizione». In questo caso la vicenda assume contorni molto più oscuri. Sia perché è evidente la fuga di notizie che giungono all'orecchio di massoni borderline, sia perché si trattava di indagine in corso. «Vale la pena aggiungere, anche in questo caso, che il massone che si stava prodigando, presso il magistrato onorario, in favore del politico, già si era prestato, nei confronti di quest’ultimo per far ammettere nella loggia un nuovo bussante, figlio incensurato di un soggetto tratto in arresto per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione “Saggezza” dell'antimafia di Reggio Calabria».
Tonaca e grembiule. Nello sterminato elenco di personalità, non potevano mancare i sacerdoti delle logge. La chiesa lo vieterebbe, ma questo non ha evidentemente fermato le aspirazioni dei religiosi. «Non è questa la sede per affrontare la questione plurisecolare del rapporto tra Chiesa cattolica e massoneria, tuttavia appare utile ricordare che, in base alla Declaratio de associationibus massonicis emanata dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede il 26 novembre 1983 - presieduta dal Prefetto cardinale Joseph Ratzinger, poi papa Bendetto XVI - vi è inconciliabilità tra l’adesione alla Chiesa cattolica e alla massoneria», scrive la Commissione. Di recente, tra l'altro, papa Francesco ha respinto le credenziali di un ambasciatore straniero presso la Santa Sede perché iscritto alla massoneria.
Logge segrete e sconosciute. L'indagine della Commissione è stata effettuata sulle obbedienze conosciute, quelle più note e ufficiali. Tuttavia nel variegato mondo massonico esistono numerosi gruppuscoli più o meno noti, più o meno legali. Il tempo per analizzare anche quel mondo non sarebbe stato sufficiente. Per questo la commissione invita i prossimi membri della futura legislatura a proseguire nell'opera di inchiesta: «È stato evidenziato dallo stesso mondo massonico come in Italia, e in particolar modo nelle regioni del centro-sud, sia presente un florilegio di numerose piccole obbedienze, con dichiarate finalità lecite, considerate alla stregua di massonerie irregolari o di logge spurie. Così come è stato segnalato che esistono canali di dialogo tra queste entità associative e la massoneria regolare». E quindi: «L’insieme di queste dichiarazioni, dunque, proprio perché provenienti dall’interno del circuito massonico, e peraltro da chi lo rappresenta, acquistano particolare valenza in quanto pongono le premesse, unitamente ad altri elementi raccolti da questa Commissione, sulla necessità che il lavoro d’inchiesta avviato in questa Legislatura debba proseguire. Non potrà, infatti, essere trascurato l’approfondimento del mondo magmatico delle massonerie irregolari, del loro potenziale relazionale, dell’atteggiarsi delle mafie nei loro confronti». Interessante a questo proposito i particolari forniti dal gran maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia: «Una cosa che accade spesso è che gli iscritti alla massoneria, alla libera muratoria, sono contemporaneamente iscritti anche ad altre forme associative. Parlo del Rotary, dei Lions, dei Kiwanis. In queste associazioni i massoni di varie obbedienze – ed è l'unico posto dove avviene – si incontrano. Quindi, sarebbe ancora più interessante, secondo me, analizzare queste realtà, perché sono le uniche realtà all'interno delle quali la massoneria irregolare e regolare va a incontrarsi. Spesso, quindi, i presentatori incontrano i presentati all'interno del Rotary o del Kiwanis. Molti iscritti alla massoneria ne sono presidenti».
Gli elenchi? No, grazie. La Commissione pensava di trovare una sponda nei vertici delle obbedienze massoniche. Così non è stato. Nelle audizioni dei vertici delle organizzazioni negavano la presenza di infiltrazioni mafiose e sottolineavano l’esistenza di regole e prassi massoniche – come la richiesta dei carichi pendenti e del certificato antimafia ai nuovi membri – in grado di fronteggiare il possibile ingresso di “personalità problematiche”. Si aggiunge poi il rifiuto, in nome della segretezza, di fornire alla Commissione gli elenchi degli appartenenti alle logge, che una volta consegnati sono risultati parziali e incompleti. Le obbedienze hanno sottovalutato, minimizzato e a volte persino negato la presenza di massoni “problematici” all’interno delle logge. Basti pensare che l’infiltrazione mafiosa non è mai esplicitata nei documenti formali con cui ne viene decretata la chiusura delle logge infiltrate. Piuttosto vengono utilizzati l’espediente della “morosità degli iscritti” o questioni di mero rito massonico.
“I veri mandanti dell’Isis e la Superloggia massonica Hathor-Pentalpha”, scrive Carlo Tarallo il 20 novembre 2015 su “Italia Ora”. Intervista esclusiva a Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com) e Presidente del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), autore del best-seller “MASSONI. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges” (Chiarelettere, Milano 2014) primo volume di una trilogia, che sta anche per essere pubblicato in lingua spagnola, francese e inglese.
D. Magaldi, lei afferma nel suo libro “Massoni” che il nome “Isis” ha un significato legato a una superloggia massonica…
R. Come ho spiegato nel primo volume della serie di Massoni. Società a responsabilità, Chiarelettere Editore, l’Isis e il progetto politico-terroristico connesso sono una precisa e meditata creazione ad opera della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, una superloggia sovranazionale malignamente “eretica ed estremista” nei suoi fini e nei suoi mezzi, persino rispetto agli ordinari circuiti massonici neoaristocratici e reazionari. Del resto, Isis o Iside è la stessa divinità egizia che, in determinati contesti mitologico-rituali, assume il nome di “Hathor… Tutto questo, comunque, viene spiegato minuziosamente nel libro Massoni, cosi come vi vengono profetizzati- con mesi e mesi di anticipo (il libro è uscito nel novembre 2014) - eventi quali i tremendi attentati terroristici di Parigi del 7 gennaio (episodio di “Charlie Hebdo”) e del 13 novembre 2015. Le superlogge “Hathor-Pentalpha”, “Amun”, “Geburah”, “Der Ring” (alla guida di altre, loro satelliti) lucrarono enormi profitti geopolitici ed economici dalle guerre “preventive” al terrorismo dei primi anni ‘2000. Guerre che avrebbero avuto un senso solo se davvero fossero state volte ad “esportare” democrazia, libertà, laicità, diritti universali e infrastrutture materiali e immateriali in grado di garantire in Medio Oriente e altrove non solo istituzioni fondate sulla sovranità popolare e il pluralismo liberale, ma anche giustizia sociale e prosperità per tutti e per ciascuno. Cosi non fu. Quelle guerre, scatenate con il pretesto di abbattere “regimi canaglia” fiancheggiatori del terrorismo islamico, in realtà sono servite a scopi di ampliamento del potere e della ricchezza di un ristretto numero di gruppi massonici reazionari e neoaristocratici.
Cosa sono le superlogge massoniche?
Anzitutto occorre rammentare che il termine tecnico per denominarle è “Ur-Lodges”. Si tratta di logge molto potenti e speciali, di respiro e composizione sovranazionale, che cooptano tra i propri membri eminenti personaggi (sia uomini che donne) appartenenti alle Comunioni massoniche tradizionali (Gran Logge e Grandi Orienti) e anche profani e profane di particolare spessore e prestigio politico-sociale, economico-finanziario, mediatico, militare e culturale. E si tratta di contesti dove non ci si occupa soltanto di gestire il potere ai suoi massimi livelli globali, ma anche di cenacoli dove teorie e pratiche rituali ed esoteriche vengono coltivate con grande assiduità e scrupolosità. In effetti, a partire da fine Ottocento (momento di nascita delle prime, tra queste superlogge) e poi soprattutto nel corso del Novecento e nel primo quarto del XXI secolo, l’egemonia massonica e l’egemonia tout-court a livello planetario passa dalle tradizionali comunità massoniche organizzate su base nazionale a queste superlogge sovranazionali.
Perché una superloggia dovrebbe scatenare il terrore in Europa?
Da mesi, con la sceneggiata hollywoodiana sull’Isis e i suoi tagliatori di teste trasmessa worldwide, si è dapprima preparato il terreno. Poi è giunto il primo assaggio cruento nel cuore del Vecchio continente (vedi attentato alla sede della rivista “Charlie Hebdo”), quindi c’è stata una ulteriore escalation con l’episodio di venerdì 13 novembre 2015 e la strage di Parigi. Pur dissentendo da qualsivoglia paranoia complottista sulle numerologie di certi eventi, occorre rammentare che da quando, il venerdì 13 ottobre del 1307, il re di Francia Filippo il Bello diede l’ordine di arresto dei Cavalieri Templari, “venerdì 13” è divenuto un significante importante e famigerato negli ambienti esoterici e massonici e poi anche nell’immaginario collettivo “profano”, tanto da dar vita, in tempi recenti, ad alcune serie filmografiche sul tema. E’ in corso una lotta fratricida tra ambienti massonici neoaristocratici, egemoni da mezzo secolo, e la ripresa di attività dei circuiti latomistici progressisti, decisi ora ad invertire il corso antidemocratico e tecnocratico tanto della globalizzazione che della governance europea. Colpendo in un giorno molto preciso e particolare, le manovalanze terroristiche eterodirette dagli ambienti della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, intendevano conseguire due precisi obiettivi.
Uno: dare un segnale infra-massonico ai circuiti liberomuratori progressisti e in particolare a una superloggia precisa, legata alla tradizione dei Templari e operante con particolare attenzione in Francia, in questi mesi… Dirò poi di che Ur-Lodge si tratti e che cosa stia cercando di fare sul territorio francese.
Due: grazie allo shock provocato e allo spauracchio della presunta impossibilità di garantire la sicurezza senza misure emergenziali, determinare sia in Francia che altrove un maggiore controllo politico, sociale e mediatico “autoritario”, mediante l’introduzione di eventuali modifiche costituzionali (vedi gli annunci di Hollande in tal senso) e di una sorta di “Patriot Act” europeo. In sostanza, dopo aver determinato una cinesizzazione del popolo europeo sul piano dei rapporti sociali ed economici (smantellamento del welfare, disoccupazione galoppante, crollo della domanda aggregata e dei consumi e conseguente aumento di manodopera a buon prezzo e con bassi salari) e dopo aver costruito una UE matrigna e antidemocratica (il Parlamento europeo, luogo di rappresentanza della sovranità del Popolo europeo non ha il potere di fiduciare e sfiduciare un esecutivo politico continentale che sia sovraordinato alle strutture burocratiche comunitarie, invece di essere, come effettivamente è, subordinato alla dittatura tecnocratica della Bce, vero “dominus” non elettivo dell’attuale Europa), adesso si cerca di mortificare ulteriormente la vita democratica del Vecchio continente, introducendo, per mezzo della paura del terrorismo, leggi liberticide e autoritarie.
Il Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha detto che “forse dobbiamo essere pronti a rinunciare ad alcune delle nostre libertà personali, in particolare dal punto di vista della comunicazione” a causa della necessità di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Cosa ne pensa?
Proprio il 14 novembre, sul sito ufficiale del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), poi rilanciato anche sul sito di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), è apparso un importante intervento intitolato “Strage a Parigi del 13 novembre 2015: il tragico avverarsi delle profezie di MASSONI e di Gioele Magaldi (risalenti al 2014) e un necessario impegno di tutti e di ciascuno per difendere democrazia e libertà, contro qualsivoglia deriva autoritaria e illiberale in stile Patriot Act sul suolo europeo e contro altre conseguenze strumentali e scellerate auspicate dai mandanti degli attentati di ieri (13 novembre) e del 7 gennaio 2015 in Francia”, articolo pubblicato il 14 novembre 2015 sul sito MR, di cui consiglio un’attenta lettura. Dopo qualche polemica iniziale, “a caldo”, rispetto a quanto da lui affermato, ho avuto modo di informarmi meglio sulla figura di Franco Roberti, procuratore antimafia e antiterrorismo, e in molti me ne hanno parlato come di persona seria, competente e amante della libertà e della democrazia. Credo, quindi, che quelle parole (anch’ esse dette “a caldo”, sull’onda dei fatti terribili che ci hanno tutti indignato e scosso) sul fatto di rinunciare alla libertà, specie di comunicazione, in favore della sicurezza, siano state pronunciate in un momento di comprensibile e preponderante preoccupazione di assicurare al popolo italiano il massimo di tutela da minacce terroristiche. Ma sono altrettanto convinto che Franco Roberti e i suoi collaboratori saranno in grado di lavorare alacremente sul lato della prevenzione e del controllo sapiente del territorio e dei luoghi più esposti a rischio, senza minimamente attentare alle libertà fondamentali dei cittadini. Del resto, il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al Mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”. A proposito dei fatti di Parigi di venerdì scorso, vorrei aggiungere quello che mi hanno suggerito diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia, e in particolare a Parigi. E sa cosa mi hanno detto? Che senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere.
Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il Presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza?
Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile. Ecco, dunque ci si prodighi per evitare, in Italia, le falle clamorose e inescusabili relative alla prevenzione degli attentati e al presidio capillare dei luoghi più esposti a rischi. E da questo punto di vista, in molti che lo conoscono bene, mi assicurano che Franco Roberti rappresenti una garanzia- per competenza, intelligenza e desiderio sincero di proteggere la popolazione esposta a minacce terroristiche- di prim’ordine.
Quando e come finirà, se finirà, questa tragedia?
La tragedia non finirà da sola. La sua fine dipende insieme dalle iniziative dei massoni progressisti nel contrastare i progetti di involuzione neo-feudale su scala europea, occidentale e globale e dal risveglio dell’orgoglio di tutti i cittadini comuni, latori pro-quota di sovranità. In questa prospettiva è stato fondato il Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), per unire in una alleanza comune élites progressiste e popolo sovrano desideroso di difendere con le unghie e con i denti tre secoli di conquiste democratiche e liberali.
Le sue verità sono sconvolgenti, lei vende tantissimi libri e gira l’Italia a spiegarle a tutti. Ha mai avuto una querela?
Ho ricevuto querele (stralunate) per diffamazione, in relazione alle attività del sito ufficiale di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), Movimento massonico d’opinione di cui mi onoro di essere Gran Maestro. Ma non ho ricevuto alcuna querela per questioni attinenti alla pubblicazione del libro Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges.
Nella massoneria, adesso, pensa di avere più amici o più nemici?
Ho sicuramente sia molti amici che molti nemici, all’esterno del network specifico di GOD, parte del più ampio campo di azione della Libera Muratoria progressista, di cui sono parte integrante. Tuttavia, da qualche tempo a questa parte accadono cose un po’ strane… L’altro giorno, ad esempio, qualcuno mi ha iscritto ad un Gruppo “Massoneria” su facebook e poi, su quello stesso Gruppo, ieri, mercoledì 18 novembre, sono stato oggetto di minacce di esplicita violenza fisica e anche di morte, da alcuni massoni italiani, peraltro riconoscibili con nome e cognome. Sarà naturalmente mia cura, nelle prossime ore, allertare della cosa in modo adeguato sia le autorità giudiziarie competenti che l’opinione pubblica.
Quei giornalisti svelti a trovare il “fascista”, ma lenti a vedere l’islamista, scrive Adriano Scianca il 19 luglio 2016. Proviamo per un attimo a mettere insieme due fatti di sangue molto, molto, molto diversi. Non ci interessa confondere i piani, ma solo ragionare sul meccanismo mediatico e i suoi trabocchetti.
Primo caso: al termine di una scazzottata la cui dinamica è ancora da chiarire, a Fermo un nigeriano cade a terra, morto. Per questo fatto tragico, viene arrestato un ragazzo locale, tale Amedeo Mancini. Chi è? Di lui si sa che frequenta la curva della Fermana, ma non risulta alcuna militanza politica. Ci sono sue foto a un banchetto di destra radicale, ma anche alla raccolta firme del M5S. Il sindaco di Fermo, ex Pd, lo conosce bene, pare sia stato un suo sostenitore. “Qualche anno fa diceva di essere comunista”, afferma il primo cittadino. Qualcuno dice di averlo visto anche in alcuni centri sociali della zona. Insomma, un profilo che ha molto della figura “paesana” e poco del militante, di qualsiasi schieramento. Ma per i media, Amedeo Mancini è di estrema destra. È un fascista, lo hanno capito subito e lo hanno scritto ovunque, forti anche della versione della vedova nigeriana, smentita dagli esami autoptici e da tutte le testimonianze. Eppure loro lo sanno: l’uomo è un fascista. E se gli fai notare le incongruenze di tale affermazione, ti rispondono che poco importano le idee o le frequentazioni, chi si comporta in un certo modo è fascista, punto.
Caso numero due, cambiamo completamente scenario. A Nizza, durante i festeggiamenti del 14 luglio, un uomo falcia la folla con un tir e fa 84 vittime. Chi è? Un tunisino, con tutta una serie di problemi personali legati all’instabilità psichica, familiare ed economica. È uno jihadista? Qui gli stessi media di prima diventano improvvisamente cauti. Non si sa, chi può dirlo. Alcuni sono pronti a giurare che l’islamismo non c’entri proprio niente e che si tratti di un classico delitto della follia, un raptus maturato in una mente disturbata. L’illusione tiene, incredibilmente, anche di fronte alle prime evidenze: l’uomo aveva il padre che era un noto estremista islamico tunisino. Aveva il pc pieno di video di attentati e decapitazioni, mentre nella rubrica del suo telefonino è stato trovato il numero di uno dei maggiori reclutatori di jihadisti in Francia, un senegalese legato ad Al Nusra. Spunta uno zio che riferisce di come suo nipote fosse stato “radicalizzato” da circa “due settimane” da un reclutatore algerino membro dell’Isis a Nizza. E all’improvviso si trovano testimoni che ricordano, ultimamente, di averlo sentito elogiare lo Stato islamico. Eppure molti giornalisti sono ancora in attesa del documento in triplice copia firmato dal Califfo con le dovute marche da bollo in cui si attesti formalmente che l’uomo è un soldato dell’Isis. Si obietta che non osservava il Ramadan, che mangiava maiale e pare facesse uso di cocaina. Ma la coerenza militante e ideologica di un soldato è cosa che riguarda i suoi ufficiali o, al limite, il suo dio, non certo gli osservatori che dovrebbero prendere atto dell’evidenza.
Insomma, il quadro è chiaro: da una parte abbiamo un atto terroristico la cui matrice è chiara, limpida, cristallina (si potrà poi discutere sul grado di spontaneismo o meno dell’azione). Eppure si fa un’enorme fatica a riconoscerlo per quello che è. Se uscisse fuori che c’è una parte di mondo che ci ha dichiarato guerra si farebbe un favore alle destre populiste e xenofobe, capite? Dall’altra ci sono altre etichette, come per esempio quella di “fascista”, che i padroni delle parole dispensano a piene mani, senza troppi riguardi, decidendo loro chi lo è e chi non lo è, anche a prescindere dalle idee dell’interessato. Perché avere un fascista in più fa molto comodo a lorsignori, mentre avere un immigrato terrorista in più è una vera tragedia. E non a causa dei morti che ha fatto.
Buonisti: i morti di Nizza sono sulla vostra coscienza! Scrive Giampaolo Rossi il 16 luglio 2016 su "Il Giornale". Basta prenderci per il culo! Questa mostruosità l’avete creata voi e ha un nome preciso: si chiama multiculturalismo, la più evidente stortura ideologica del nostro tempo. Questa bestia che si annida nel cuore dell’Europa e che esplode periodicamente con una violenza cieca e disumana rappresenta il vero fallimento di tutto ciò che potevamo essere e che non saremo per vostra responsabilità. Non è importante sapere se il “franco-tunisino” che ha ammazzato 84 persone come stesse su una pista di bowling, fosse un terrorista addestrato dall’Isis, gli amici di quei sauditi che Hollande riceve con tutti gli onori all’Eliseo e che poi tornati in patria finanziano quelli che ammazzano i francesi (tutto questo è solo la resa ignobile di una classe politica europea corrotta e imbelle). Non è importante neppure sapere se l’assassino fosse un islamico praticante o saltuario, depresso o lucido; se abbia gridato “Allah Akbar” oppure nulla; se abbia sperato fino all’ultimo di raggiungere il suo Paradiso scatenando un inferno o semplicemente abbia regalato il suo inferno all’eternità. Quello che è importante è riconoscere la verità che voi continuerete a negare; e cioè che anche lui era figlio di quel pezzo di Europa che odia l’Europa; di quell’esperimento folle e suicida che la vostra ottusità ha prodotto. Siete voi che avete generato tutto questo: politici di sinistra, intellettuali ipocriti, giornalisti bugiardi e preti sconfessati. Questi mostri li avete creati voi con il vostro buonismo irreale, con i vostri gessetti colorati, con il vostro mito dell’accoglienza; voi che avete confuso l’uguaglianza dei diritti con la dittatura di un egualitarismo astratto. Voi che negate l’identità europea perché non avete il coraggio di difenderla: vigliacchi e stolti. Siete voi che continuate a non vedere che loro odiano ciò che noi siamo: odiano la nostra libertà, il nostro senso della vita, la nostra idea di uomo e di donna. Odiano i nostri diritti e la nostra cultura. Siete voi i responsabili di questa paura che ora viaggia nel cuore dell’Europa; voi che avete permesso le banlieue a Parigi, i “quartieri della sharia” in Belgio e Olanda (dove scuole e moschee sono finanziate dall’integralismo salafita), i tribunali islamici in Germania e Gran Bretagna, Husby e i laboratori di orrore sociale a Stoccolma dove travestite da integrazione ghetti di emarginazione. Siete voi che continuate a non leggere le ricerche che raccontano che il 30% dei giovani musulmani francesi tifa Isis, e che quasi la metà dei turchi tedeschi preferisce rispettare la legge islamica a quella vigente in Germania. Questi mostri li avete creati voi, tecnocrati di Bruxelles che state distruggendo le identità sovrane e nazionali per costruire un assurdo melting pot dove, da veri razzisti, pianificate i progetti di migrazione sostitutiva che trasformeranno l’Europa in Eurabia molto prima di quanto immaginasse Oriana Fallaci. Questi mostri li avete creati voi guerrafondai, con le vostre bombe umanitarie e le guerre illuminate; voi che avete pianificato il caos Mediorientale, che avete benedetto il disastro in Libia, quello in Siria che hanno aperto la strada all’esodo di disperati (pochi) e furbi (tanti) che si riversano nei nostri paesi e al dilagare dell’islamismo; voi che avete alimentato le primavere arabe che a loro volta hanno alimentato il terrorismo; voi che dite di combattere l’Isis e Al Qaeda e poi li finanziate e li addestrate per i vostri disegni strategici. Dai, forza buonisti, ora regalateci ancora un po’ del vostro sdegno. Continuate a scandalizzarvi e a bollarci come demagoghi, xenofobi e oscurantisti; scatenate i vostri giullari di corte sui giornali e in tv. Concedete ai menestrelli stonati di continuare a raccontare la favola del multiculturalismo, magari con i soldi pubblici della Rai e al solito Gad Lerner. Troverete ancora qualcuno che vi darà retta sperando che il mondo irreale della vostra ipocrisia non getti definitivamente l’Europa nel baratro. Ma questi morti sono sulla vostra coscienza. Fatemi capire.
La Boldrini vuole punire chi parla male dell'islam. La presidente della Camera insiste sul reato di "islamofobia" per censurare le critiche sulla religione di Allah. Ma si dimentica dei cristiani perseguitati, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La minaccia principale alla nostra civiltà laica e liberale risiede nel divieto assoluto di criticare e di condannare l'islam come religione, perché i suoi contenuti sono in totale contrasto con le leggi dello Stato, le regole della civile convivenza, i valori non negoziabili della sacralità della vita, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta. Mentre il terrorismo islamico dei tagliagole, coloro che sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, noi lo sconfiggeremo sui campi di battaglia dentro e fuori di casa nostra, di fatto ci siamo già arresi al terrorismo islamico dei «taglialingue», coloro che sono riusciti a imporci la legittimazione dell'islam a prescindere dai suoi contenuti ed ora sono mobilitati per codificare il reato di «islamofobia», un'autocensura nei confronti dell'islam. Le Nazioni Unite, l'Unione Europea e il Consiglio d'Europa hanno già accreditato, sul piano politico, il reato di islamofobia, assecondando la strategia dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Ebbene ora in Italia il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha fatto un ulteriore passo in avanti finalizzato a codificare per legge il reato di islamofobia, che comporterà sanzioni penali e civili per chiunque criticherà e condannerà l'islam come religione. È ciò che emerge dall'iniziativa della Boldrini di dar vita alla Commissione di studio sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nelle varie forme che possono assumere, xenofobia, antisemitismo, islamofobia, antigitanismo, sessismo, omofobia. Secondo la Boldrini sarebbero nuove forme di razzismo, che si manifestano soprattutto nella rete, catalogate in inglese come «hate speech», da intendersi come «incitazione all'odio». È singolare che siamo in un'Italia e in un'Europa dove chiunque può dire di tutto e di più sul cristianesimo, su Gesù, sulla Chiesa e sul Papa, senza che succeda nulla perché viene ascritto alla libertà d'espressione, mentre ci siamo auto imposti di non dire nulla sull'islam, su Allah, su Maometto e sul Corano perché urta la suscettibilità dei musulmani, perché abbiamo paura della loro reazione violenta che si ritorce indiscriminatamente contro tutti i cristiani nel mondo. A proposito, dal momento che i cristiani sono in assoluto i più perseguitati al mondo per la loro fede, perché mai tra le categorie che sostanzierebbero il reato di «incitazione all'odio» non compare la «cristianofobia»? L'errore fondamentale che viene commesso è di sovrapporre la dimensione della persona con quella della religione, ritenendo che per rispettare i musulmani come persone si debba automaticamente e acriticamente legittimare l'islam come religione. Noi invece dobbiamo rispettare i musulmani come persone, ma al tempo stesso dobbiamo usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti di una religione e poter esprimere in libertà la verità sull'islam. La Boldrini, la terza carica dello Stato che dovrebbe lealtà e fedeltà all'Italia, si esibisce in pubblico con al petto una spilletta su cui c'è scritto «Stati Uniti d'Europa», una entità inesistente ma che si tradurrebbe nella scomparsa dell'Italia come Stato sovrano e indipendente, così come promuove l'invasione di milioni di clandestini musulmani che a suo avviso rigenererebbero la vita e la civiltà dell'Italia. In questo contesto il reato di islamofobia si rivelerebbe il colpo di grazia all'Italia e agli italiani.
Le bugie di Fermo e il razzismo degli anti-razzisti contro la verità, scrive Salvatore Tramontano, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". E ora Boldrini e Boschi cosa fate? Se si guarda solo il colore si perdono di vista i fatti. Questo vale per il sesso, il genere, la lingua, la nazionalità, il reddito, perfino la religione. Non è razzismo. È il contrario. Quando un uomo uccide un uomo il colore della pelle non può essere l'unica variabile. Altrimenti si finisce davvero per peccare di razzismo, anche senza volerlo. Oppure la morte di una persona si sfrutta come strumento politico. Nella brutta e drammatica storia di Fermo sappiamo che ci sono una vittima e un assassino. Quello che bisogna valutare e raccontare con onestà sono i fatti. Per capire. Amedeo Mancini si è comportato da razzista. Ha insultato un uomo e quell'uomo ha reagito. Su questo non ci sono dubbi. Emmanuel era con sua moglie e probabilmente si è spaventato. Ha preso un cartello stradale e ha aggredito Mancini. Anche su questo ormai non ci sono dubbi. Solo che a lungo si è faticato a credere a questa versione, nonostante ci fossero sei testimoni. Qui entrano in gioco la politica e l'ideologia e una sorta di razzismo involontario o antirazzismo strumentale. Ci sono sospese ancora le parole di Laura Boldrini e Maria Elena Boschi. La prima testimone mente. È inattendibile. E anche gli altri cinque nascondono (...) (...) qualcosa. Questo perché conta più il colore della pelle di chi parla che la verità. Non per bontà, ma per vantaggio politico. Ma non è così che si sta dalla parte dei deboli e dei discriminati, perché se si mente o si preferisce non vedere per antirazzismo si finisce col fare il gioco dei razzisti. Si creano alibi e invece in storie maledette come questa nessuno deve averne, di alibi. Non è infatti in discussione la colpevolezza di Mancini, ma perfino lui ha il diritto processuale alle attenuanti. Non si contrastano le discriminazioni razziali cancellando il diritto, compreso quello alla difesa. Ora la moglie di Emmanuel, Chinyere, ha ammesso di essersi spiegata male. È vero, il marito ha reagito alle accuse disgustose con rabbia, aggredendo con un'asta di ferro. I testimoni avevano detto il vero. È bene subito dire che la precisazione di Chinyere non è un alibi per Mancini. Ma quello che deve far riflettere è la facilità con cui il politicamente corretto cancella ogni dubbio se deve scegliere tra un nero e un bianco. E questo danneggia soprattutto i neri. Perché comunque è una discriminazione. Quello che conta è l'uomo, l'uomo ucciso, non il suo colore. Boldrini e Boschi hanno voluto credere alla versione della vedova, sbugiardando i testimoni solo perché non rientravano nella narrazione che strappa applausi al loro elettorato. Applausi sulla morte. Tutta questa retorica purtroppo puzza di opportunismo e finisce per rendere poco credibili le battaglie di libertà di chi davvero si batte contro il razzismo, con i fatti, non con la retorica. Non c'è bisogno di caricare una storia già eloquente. In Italia c'è un razzismo di offese, di ignoranza, da bar e di cori da stadio. Emmanuel è stato offeso da un razzista, ma la sua morte non è un pestaggio. C'è una dose di fatalità, che non assolve affatto Mancini, ma di cui non si può non tener conto. Ma c'è da spazzare via anche tutto l'apparato ideologico che ha voluto trasformare una brutta storia in una fotografia dell'Italia razzista. Razzista sì, ma in questo caso nei confronti della verità.
Renzi si indigna: «Un regalo squallido». Però i veri antisemiti stanno a sinistra. Il premier condanna l'iniziativa con un tweet ipocrita Ma il 25 aprile la Brigata ebraica fu cacciata dal corteo, scrive MMO, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". «Trovo squallido che un quotidiano italiano regali oggi il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio affettuoso alla comunità ebraica. #maipiù». Così Matteo Renzi su Twitter va all'attacco del Giornale per la scelta di regalare il Mein Kampf con il primo volume della collana sulla storia del Terzo Reich. Ma il cinguettio del premier suona ipocrita, considerato che proprio nella sinistra italiana c'è un problema irrisolto - e difficilmente dichiarato - con l'antisemitismo, come testimoniano le puntuali quanto vergognose contestazioni della Brigata ebraica ai cortei del 25 aprile (salutati al grido di «assassini» e «fascisti» a Milano poco più di un mese fa), per dirne una.
Comunali, il Pd milanese punta sull’islamismo politico. Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti: Pierfrancesco Majorino fotografato in questi giorni assieme a Sameh Meligy, legato ai Fratelli Musulmani, scrive Angelo Scarano, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti. Non sono bastati i collegamenti messi in evidenza dai media durante la campagna per le Comunali tra la candidata Sumaya Abdel Qader e i Fratelli Musulmani, non sono bastate le sue dichiarazioni contraddittorie nei confronti dell’organizzazione islamista e nemmeno i post equivoci del marito, Abdallah Kabakebbji, nei confronti di Israele, definita “una truffa” e un “errore storico”. La rete che collega la candidata del PD e “confratelli” a ambienti come CAIM, Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto, Waqf al-Islami, Associazione Donne Musulmane d’Italia (Admi) e Alleanza Islamica, nonché a Fioe, Femyso. Sarà forse un caso che il presidente del Caim, Maher Kabakebbji, nonché suocero di Sumaya, è anche presidente del Caim e del Waqf al-Islami? Sarà un caso che Maher e il figlio Abdallah (marito di Sumaya) venivano ritratti in foto con Rachid Ghannouchi, leader storico dei Fratelli Musulmani tunisini? Sarà una coincidenza che Souhair Katkhouda, moglie di Maher Kabakebbji, è la presidentessa dell’Admi? Entrambi erano inoltre agli eventi organizzati in nord-Italia per inaugurare moschee finanziate dalla Qatar Charity. E che dire della foto che ritrae il padre di Sumaya Abdel Qader, nonché imam di Perugia, a un evento ufficiale mentre stringe la mano dell’ex presidente egiziano ed esponente dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi? Guarda caso diversi esponenti del Caim erano stati fotografati e filmati a manifestazioni a favore di Morsi, tra cui Omar Jibril, legato al Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto (gruppo molto attivo con iniziative a favore di Morsi). Omar Jibril e Sumaya Abdel Qader venivano recentemente fotografati a una riunione proprio con il candidato sindaco PD, Beppe Sala. Al momento Beppe Sala si è limitato a dire, durante un confronto televisivo con Parisi, che gli elementi in questione non sono dei Fratelli Musulmani, ma non ha ancora fornito chiarimenti riguardo ai collegamenti più che evidenti messi in luce dai media, così come Sumaya Abdel Qader non si è vista granchè sui grandi schermi e non ha chiarito le sue posizioni nei confronti dei matrimoni gay, delle adozioni, della repressione messa in atto dal governo-regime di Erdogan nei confronti di intellettuali, giornalisti, membri dell’opposizione e curdi. Tutti temi che, almeno in teoria, dovrebbero essere cari alla sinistra. Non dimentichiamo inoltre che in piena campagna elettorale il PD si è visto costretto a ritirare la candidatura di Sameh Meligy, pronto a correre per la zona 4 di Milano e fotografato assieme a Beppe Sala. Le polemiche erano scoppiate in seguito a una sua foto scattata assieme al predicatore legato ai Fratelli Musulmani kuwaitiani, Tareq Suwaidan, al quale è stato recentemente vietato l’ingresso in Italia poiché dal 2014 sulla blacklist dell’area Schengen e la cui enciclopedia illustrata sugli ebrei è ben più pericolosa del Mein Kampf. Meligy era inoltre apparso anche lui a manifestazioni pro-Fratelli Musulmani egiziani assieme a membri del Caim. Le posizioni islamiste intransigenti di Meligy sono ben note. Nonostante ciò, l’assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, è stato fotografato in questi giorni assieme a Meligy durante i volantinaggi del PD a favore di Beppe Sala. Meligy che è inoltre amico di Usama Santawy, predicatore noto non soltanto pro-Fratelli Musulmani, ma legato anche a personaggi come Musa Cerantonio, predicatore italo-australiano apologeta dell’Isis. Tutto ciò mentre i principi del Qatar, paese notoriamente legato ai Fratelli Musulmani e accusato di supportare i jihadisti in Siria, venivano in Italia a incontrare il Papa e a inaugurare centri islamici. Nel frattempo a Milano, dal 3 al 5 giugno, veniva ospitato a una conferenza organizzata dalla European Muslim Network, Tariq Ramadan, esponente dell’Islam “europeo” ma anche nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna. Non dimentichiamo che l’organizzazione dei Fratelli Musulmani è stata messa al bando in Russia, Egitto, Siria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi mentre in Gran Bretagna Cameron aveva fatto aprire un’inchiesta per avere maggiori informazioni sull’organizzazione. Il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani è niente meno che Hamas, che pochi giorni fa festeggiava l’attentato di Tel Aviv offrendo pasticcini agli incroci stradali di Gaza. Vista la delicata situazione internazionale, la presenza di elementi legati all’islamismo politico all’interno del PD andrebbe affrontata con le necessarie cautele. Gli elementi emersi non possono non far riflettere. Il PD milanese a questo punto deve fornire delle risposte immediate ed esaustive al riguardo che vadano oltre il “non sono dei Fratelli Musulmani”, visto che la questione è seria. Del resto essere dei Fratelli Musulmani in Italia non comporta reato, dunque, se non c’è nulla da temere, se non ci sono scheletri nell’armadio perché negare? Vale poi la pena considerare un elemento, musulmani e Fratelli Musulmani non sono sinonimi, dunque inglobare nel PD elementi legati a un’ideologia politica significa discriminare la maggior parte dei musulmani che credono e seguono una religione e non un’ideologia.
Nell'islam che noi tuteliamo non c'è spazio per la libertà. La strage in Florida mostra le nostre contraddizioni: difendiamo coloro che sottometteranno i nostri diritti, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale". Ecco quale sarà la sorte di noi italiani, noi europei, noi occidentali qualora sciaguratamente dovessimo essere sottomessi all'islam. A prescindere dal fatto che Omar Saddiqui Mateen, lo stragista del locale gay Pulse a Orlando, 29 anni, cittadino americano dalla nascita, di origine afghana, fosse o meno organico all'Isis o ad altre sigle del terrorismo islamico, è indubbio che la condanna a morte degli omosessuali corrisponda a ciò che Allah prescrive letteralmente e integralmente nel Corano, a ciò che ha detto e ha fatto Maometto, alla prassi nel corso di 1400 anni di storia dell'islam. A oggi tutti gli Stati islamici, nonostante abbiano formalmente sottoscritto la «Dichiarazione universale dei diritti umani», sanzionano in un modo o nell'altro l'omosessualità come reato, mentre la condanna a morte degli omosessuali è ufficialmente vigente in Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Nigeria, Sudan, Somalia e Mauritania. Non è affatto casuale che gli omosessuali siano vittime predilette sia dei terroristi islamici, che li lanciano dai tetti di edifici alti e poi vengono lapidati a morte, sia di Stati islamici che noi occidentali consideriamo addirittura «moderati», che li impiccano ostentatamente nelle pubbliche piazze di fronte alle moschee dopo la preghiera collettiva del venerdì. Succede perché tutti i musulmani sono tenuti a sanzionare il rapporto anale definito «liwat», a prescindere dal sesso di chi lo subisce, dove l'omosessuale è indicato come «luti», dal nome di Lot, nipote di Abramo, che per l'islam è un profeta, salvato da Allah dopo aver distrutto Sodoma e Gomorra. Nel Corano (27, 55-58) si legge: «V'accosterete voi lussuriosamente agli uomini anziché alle donne? Siete certo un popolo ignorante! Ma la sola risposta del suo popolo fu: Scacciate la famiglia di Lot dalla vostra città, poiché son gente che voglion farsi passare per puri. E noi salvammo lui e la sua famiglia, eccetto sua moglie, che stabilimmo dovesse restare fra quelli che rimasero indietro. Su di essi facemmo piovere una pioggia: terribile è la pioggia che piove su chi fu ammonito invano!». Così come a Maometto viene attribuito il detto: «Se scoprite chi commette il peccato del popolo di Lot, uccidete chi lo compie e chi lo subisce». È pertanto paradossale che dentro casa nostra siano proprio i paladini più intransigenti dei diritti dell'uomo e persino gli stessi omosessuali, guarda caso quasi tutti schierati a sinistra, a mobilitarsi per la piena legittimazione dell'islam, per la proliferazione delle moschee e persino per la presenza di tribunali islamici che emettono sentenze sulla base della sharia che, in generale, disconosce i diritti fondamentali alla vita, alla dignità, alla libertà di tutti e, in particolare, condanna a morte gli omosessuali. Un caso emblematico è quello del presidente della Regione della Sicilia Rosario Crocetta, dichiaratamente omosessuale, che sta promuovendo la reislamizzazione della Sicilia, consentendo in particolare all'Arabia Saudita e al Qatar di investire decine di milioni di euro per la costruzione di nuove moschee. All'amico Crocetta ricordo che a oggi può professarsi orgogliosamente omosessuale solo perché per sua fortuna si trova su questa nostra sponda del Mediterraneo, dove vige una civiltà laica e liberale dalle radici cristiane, ma se malauguratamente anche da noi dovesse prevalere l'islam gli omosessuali farebbero la stessa fine delle vittime del locale gay di Orlando. Perché è l'islam che lo prescrive, a prescindere dal fatto se il carnefice è un individuo o uno Stato, un terrorista o un «moderato».
LA DIFFERENZA TRA RELIGIONI.
Il laicismo è esso stesso una religione, se al contempo con esso si santifica il comunismo. Ergo. Il comunismo non è una ideologia, ma per i suoi adepti è una religione, che non promana dubbi.
Contro il naufragio laico studiamo le religioni. Sono stati smentiti coloro che avevano indicato nella secolarizzazione un processo irreversibile, immaginando che le religioni sarebbero state confinate per sempre alla sfera privata. Pensare che la religione sia solo violenza è un modo sbrigativo per ridurre ogni conflitto alla «guerra del sacro» contro la laicità, scrive Donatella Di Cesare su “Il Corriere della Sera” il 29 dicembre 2015. Le polemiche sui presepi o sui crocefissi a scuola, le difficoltà in cui spesso si scontra chi tenta di affrontare temi religiosi, non solo nelle aule scolastiche, ma anche in quelle universitarie, spingono a più di una riflessione. La presenza dell’Islam (come religione) in Europa ha fatto emergere un fenomeno diffuso già da qualche anno: il ritorno delle religioni nella sfera pubblica. Sono stati smentiti coloro che avevano indicato nella secolarizzazione un processo irreversibile, immaginando che le religioni sarebbero state confinate per sempre alla sfera privata. Giustamente Jürgen Habermas parla perciò di «società post-secolari». Il «ritorno» delle religioni crea molti problemi soprattutto là dove, come in Francia, la laicità sembrava un valore intramontabile. Di qui il forte attrito con l’Islam. Mentre Ebraismo e Cristianesimo, rinunciando a molte prerogative, hanno concordato, già all’inizio della modernità, un patto con lo Stato, riconoscendone la sovranità, l’Islam comincia solo ora a entrare nel «patto laico» e nella nazione. L’ingresso dell’Islam nella cittadinanza europea porta alla luce una difficoltà che riguarda anche le altre religioni. Così Ebraismo e Cristianesimo hanno dovuto rinunciare alla loro dimensione politica, senza che questa rinuncia fosse mai definitiva. Forse perché la separazione tra religione e politica è una pretesa del laicismo, fittizia quanto irrealizzabile. E se a essere un problema fosse proprio quella sorta di religione civile dello Stato che sta tramontando insieme allo Stato-nazione? Certo è che le componenti più laiche sembrano oggi le più impreparate a comprendere quel che accade nel complicato processo della globalizzazione. Pensare che la religione sia solo violenza, che rappresenti un inutile oscurantismo, è un modo sbrigativo per ridurre ogni conflitto alla «guerra del sacro» contro la laicità. Come se bastasse sbarazzarsi delle religioni per trovare un rimedio nel tormentato scenario contemporaneo. Quel che appare ormai evidente è che la laicità non è il luogo neutro di un confronto tra religioni e culture diverse, non è il terreno di una non meglio precisata «morale universale», né la forma dell’identità collettiva. Ciò a cui oggi si assiste è proprio il naufragio della laicità così intesa. Il patto laico, che ha sempre avuto tratti fortemente nazionali, non funziona nel mondo globalizzato. Ma a ben guardare non ha funzionato neppure prima, lasciando una difficile eredità. Giudicate dall’alto della ragione illuministica, le religioni sono state ridotte a dogmi superflui e dannosi, quasi che non facessero parte del patrimonio culturale. Gli effetti sono devastanti. Questo spiega perché il «dialogo interreligioso» è una faccenda di élite. Nelle scuole e nelle università, sia nel nostro Paese, sia in altre nazioni europee, domina l’ignoranza. Peraltro proprio quando oramai in quasi ogni classe ci sono studenti delle tre religioni e sarebbe auspicabile la mutua conoscenza. Ma come si può dialogare con la religione degli altri, se si sa poco o nulla della propria? E se si è portati a credere che, in un caso come nell’altro, si tratta di oscuri dogmi? Si moltiplicano allora preconcetti e cliché. Anche l’ebraismo è oggi più che mai nel mirino. Così si spalancano le porte all’islamofobia non meno che all’antisemitismo. E così finiscono per avere la meglio le posizioni fondamentaliste, diffuse purtroppo anche tra i giovani. Dove non si è stati abituati all’ermeneutica dei testi, alla riflessione sui concetti religiosi, si resta muti di fronte alla ostentazione di una pretesa «verità», che dovrebbe invece essere subito decostruita. I fondamentalismi religiosi tentano infatti di separarsi dalla cultura di provenienza. Mentre il Corano, come i Vangeli, come la Torà, richiedono interpretazione.
Isis, curdi e peshmerga, sciiti e sunniti: il glossario del Medio Oriente. Quali sono le definizioni delle parole e delle sigle che meglio spiegano i conflitti religiosi, militari e politici in corso nella regione mediorientale, scrive “Il Corriere della Sera” il 4 gennaio 2016.
ALAUITI. O Alawiti, termine coniato dall’amministrazione francese per indicare la setta musulmana sciita dei Nusairī e la regione da essi abitata, fra Tripoli e Laodicea, sopra le falde occidentali del gebel Ansāriyya. Staccata dal Libano nel 1920 ed eretta in amministrazione autonoma con la denominazione di Territorio degli Alauiti, poi di Stato alawita, nel 1922 la regione entrò a far parte della Federazione siriana, dalla quale uscì nel 1924 ricostituendosi come Territorio autonomo degli Alauiti, poi divenuto (1930) Governatorato autonomo di Laodicea. Prefettura della repubblica siriana dal 1935, di nuovo territorio autonomo nel 1939, con la definitiva cessazione del mandato francese (1945) è stata reincorporata nella Siria. Il presidente siriano Bashar al-Assad è alauita. (Fonte: Treccani).
CALIFFATO. È stato proclamato il 29 giugno del 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isis che si auto definisce Califfo. Viene usato impropriamente come sinonimo di Isis (vedi sotto alla voce Isis). In passato il califfato è stato una forma di governo adottato dal primissimo Islam, il giorno stesso della morte di Maometto e intende rappresentare l’unità politica dei musulmani, ovvero la Umma. Nel corso di questi secoli, oltre i primi quattro califfi “ortodossi” (definiti, secondo una traduzione impropria, “ben guidati”) e quelli omayyadi di Siria e abbasidi di Baghdad e Samarra, altri due califfati si sono affermati: quello sciita-ismailita fatimide fra il 909 d.C e il 1171, e poi quello omayyade andaluso, attivo tra il 929 e il 1031.
CURDI. Popolazione iranica la cui regione storica, il Kurdistan, è attualmente suddivisa fra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Repubblica di Armenia. La consistenza numerica dei curdi, di difficile valutazione per la mancanza di dati ufficiali sufficientemente attendibili, si aggira sui 20-30 milioni di persone, distribuite soprattutto fra la Turchia sud-orientale, il Nord-Ovest dell’Iran e il Nord-Est dell’Iraq, mentre assai minore è la presenza curda nella fascia più settentrionale della Siria e nella regione transcaucasica (specialmente in Armenia). I curdi erano suddivisi in numerose tribù patriarcali, dotate di un’organizzazione di tipo semifeudale. Elementi di tale assetto tradizionale sono tuttora presenti. La religione predominante è musulmana di rito sunnita. La lingua è indoeuropea della famiglia iranica, con tre grandi gruppi dialettali: l’orientale, il settentrionale e l’occidentale; il lessico è caratterizzato da numerosi prestiti dal persiano moderno e dall’arabo, questi ultimi quasi sempre per il tramite del persiano o del turco. (Fonte: Treccani)
ISIS. L’Isis è lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, spesso abbreviato in Is, ed è un gruppo terroristico di natura jihadista guidato da Abu Bakr Al Baghdadi. Il 13 ottobre del 2006 venne annunciata la fondazione del Dawlat al Iraq al-Islamiyah (Stato islamico dell’Iraq, Isi). Il 9 aprile 2013, dopo essersi espanso in Siria, il gruppo adottò il nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, conosciuto anche come Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham.Il nome viene abbreviato in Isis o Isil. La s finale nell’acronimo Isis deriva dalla parola araba Sham (or Shaam), che nel contesto di una jihad globale si riferisce al Levante o alla Grande Siria. Il 14 maggio del 2014 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato la sua decisione di usare Islamic State of Iraq and the Levant (Isil) come nome principale del gruppo ma a seconda dei paesi e della traduzione vengono usati acronimi diversi (EI, IS, ecc). L’equivalente arabo, Al dawla al islamiya fi al Iraq wal Sham, può essere abbreviato in Daesh. Isis segue un’interpretazione estremamente anti-occidentale dell’Islam, promuove la violenza religiosa e considera coloro che non concordano con la sua interpretazione come infedeli e apostati. Allo stesso tempo mira a fondare uno stato islamista orientato al salafismo (vedi sotto) in Iraq, Siria e altre parti del levante.
JIHAD. Questa parola araba significa esercitare il massimo sforzo. Si riferisce a una delle istituzioni fondamentali dell’Islam e compare in 23 versi del Corano, il testo sacro per i musulmani. Anche se si discute molto sulla sua vera interpretazione, negli ultimi decenni, le scuole coraniche concordano sul fatto che il concetto di Jihad implichi una battaglia contro i persecutori e gli oppressori. Si distingue dunque tra una concezione difensiva, come era tradizionalmente intesa, e una invece offensiva del concetto, propria degli ambienti radicali.
PESHMERGA. In lingua curda indica un combattente guerrigliero che intende battersi fino alla morte. Il nome è stato ugualmente usato per una parte dei combattenti autonomisti e indipendentisti curdi in Iraq, appartenenti al Partito Democratico del Kurdistan. In particolare, Peshmerga è il nome ufficiale delle forze armate del Governo Regionale del Kurdistan nella regione semiautonoma (a tutto agosto 2014) del Kurdistan iracheno. Queste forze si sono in passato scontrate con i militanti dell’Unione Patriottica del Kurdistan (ed anche al Partito dei lavoratori del Kurdistan turco, presente nella parte nord dell’Iraq) e con i guerriglieri islamisti di Ansar al Islam; sempre nell’agosto 2014, alcuni battaglioni della milizia peshmerga sono stati integrati nella Guardia Nazionale Irachena, e sono parte della nuova 2a divisione irachena, di base a Mossul. La storia di questi combattenti è però molto più antica: i peshmerga sono stati attivi nei vari sconvolgimenti della storia dell’Iraq dalla sua indipendenza, nella guerra Iran-Iraq, nella prima e nella seconda guerra del golfo. Durante le guerre del Golfo hanno cooperato con le forze speciali dell’Alleanza contro Saddam Hussein, salvando vari piloti e incursori sul loro territorio, e tenendo occupato l’intero V corpo iracheno nel 2003 a nord, impedendogli di schierarsi contro le forze alleate a sud. Hanno avuto e hanno proprie forze speciali, al 2014 in parte amalgamate con l’esercito iracheno. Il termine peshmerga indica anche i combattenti pathani(pashtun) lungo la frontiera dell’Afghanistan.
SALAFISMO. È una scuola di pensiero sunnita che prende il nome dal termine arabo salaf al-salihin (“i pii antenati”) che identifica le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo) considerati - dai salafiti - dei modelli esemplari di virtù religiosa. I primi segnali evidenti, e ufficiali, del mutamento ideologico e strategico del Salafismo, da movimento “riformista” e tollerante a movimento “fondamentalista”, si possono forse riscontrare in Tunisia, verso gli anni trenta del XX secolo. In Egitto, la trasformazione del Salafismo avvenne nello stesso periodo, con l’avvento della cosiddetta “Neo-Salafiyya”.
SCIITI E SUNNITI. Come ha spiegato Roberto Tottoli sul Corriere della Sera, la divisione tra sunniti e sciiti risale alla morte del profeta Maometto nel 632 d.C. Per il «partito di Alì», in arabo shi’at ‘Ali, da cui deriva il nome «sciiti», il legittimo successore di Maometto doveva essere ‘Ali, suo genero. E dopo di lui dovevano regnare i suoi discendenti con il titolo di imam. Ma la questione della successione non fu solo politica: per gli sciiti gli imam erano e sono una guida anche religiosa. Per i sunniti, invece, i primi sovrani, chiamati «califfi», furono scelti tra i compagni di Maometto, senza alcun ruolo religioso ma solo con il dovere di garantire l’ideale unità della comunità. Nel corso dei secoli il sunnismo è stato la via seguita dalla stragrande maggioranza dei musulmani, mentre lo sciismo si è a sua volta frantumato in svariate sette circoscritte ad alcune regioni.
SHARIA. Legge sacra dell’islam, qual è dedotta dai quattro ‘fondamenti del diritto’: il Corano, la sunna o consuetudine del Profeta, il consenso della comunità musulmana, e il qiyās o deduzione analogica. Si distinguono nella s. le norme riguardanti il culto e gli obblighi rituali da quelle di natura giuridica e politica. Le varie prescrizioni del diritto musulmano sono suddivise dai Sunniti in ‛ibādāt, le pratiche del culto, e mu‛amalāt, il modo d’agire verso gli altri. In alcuni Stati islamici la s. può essere considerata legge civile e penale. (Fonte Treccani).
YAZIDI. Popolo di origine curda, costituito da circa 300 mila persone. Il gruppo principale, costituito da 150 mila yazidi, vive in due aree dell’Iraq: i monti del Gebel Singiar (al confine con la Siria) e i distretti di Badinan (o Shaykhan) e Dohuk (nord-ovest del Paese). Il nord-ovest dell’Iraq è l’area originaria del popolo yazidi, insieme all’Anatolia sud-orientale (province di Diyarbakir e Mardin). Sbagliato è trattare gli yazidi come gruppo entico. La parola va riferita infatti a una specifica religione, combinazione sincretistica di zoroastrismo, manicheismo, ebraismo e cristianesimo nestoriano sui quali sono stati successivamente aggiunti elementi islamici sciiti e sufi. Sono stati perseguitati da Isis, oltre 5 mila donne yazide sono state rapite e ridotte in schiavitù dai jihadisti dopo la caduta di Sinjar.
La differenza tra sunniti e sciiti. Di Giordano Stabile, Ugo Leo e Samuele Pozzato su “La Stampa”.
Le sanguinose guerre in corso in Siria, Iraq, Yemen e altri Paesi musulmani nascono da due visioni, quella sunnita e quella sciita, islamiche che si confrontano da 1400 anni. Il punto cruciale della discordia è su chi sia e che ruolo debba avere il khalifa, il califfo, cioè il successore di Maometto. Tutto comincia l’imam Hussein, considerato dagli sciiti vero erede del Profeta ma trucidato nel 680 a Karbala, in Iraq.
Il profeta e il califfo.
1) Maometto, Muhammad (570-632 dopo Cristo), per i musulmani è il Profeta incaricato da Dio (Allah) di diffondere la sua Parola, il Corano. Nomina califfo (khalifa, successore) Abu Bakr, uno dei primi compagni. I sunniti aderiscono a questa linea di successione.
2) Gli sciiti non riconoscono come successore Abu Bakr ma Ali, cugino e genero di Maometto.
Origine del nome.
1) Il nome sunnita viene da sunna, la tradizione dei detti (ahadith) di Maometto.
2) Il nome sciita viene da Shiat Ali, «Partito di Ali”.
Pilastri del culto.
1) Per i sunniti sono 5: la testimonianza di fede, al-shahada; la preghiera rituale, al-salah; l’elemosina canonica, al-zakah; il digiuno durante il Ramadan, sawm; il pellegrinaggio a Mecca, hajj.
2) Nello sciismo ci sono 10 pilastri: fra gli altri, la tawalla, esprimere l’amore per il bene; tabarra, esprimere odio per il male.
Atteggiamento nella preghiera.
1) I sunniti pregano con le mani congiunte all’altezza del diaframma. Per la Professione di fede si ripete la formula: «Testimonio che non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è il suo Profeta». È la frase che vediamo anche sulle bandiere dell’Isis.
2) Alla shahada gli sciiti aggiungono «e Ali ibn Abi Talib è amico di Dio». Gli sciiti pregano con le mani in parallelo rispetto al corpo, davanti alle cosce. Finisce pronunciando tre volte il takbir («Allahu akbar).
Feste.
1) I sunniti celebrano solo due feste: Eid al-Fitr, che segna la fine del mese di digiuno, e la Eid al-Adha, festa del sacrificio, alla fine del pellegrinaggio (hajj) alla Mecca.
2) Gli sciiti festeggiano in particolare l’Ashura, in cui viene ricordato il martirio di Hussayn a Karbala.
Cibi e bevande.
1) Vietata la carne di maiale e l’alcol.
2) Non ci sono differenze con il sunnismo.
Velo islamico.
1) L’uso del velo è obbligatorio in base a due sure del Corano. Ma le versioni più rigide, come niqab e burqa sono diffuse in Paesi sunniti come l’Afghanistan.
2) In Iran, il più grande Paese sciita, il velo più usato è lo hijab.
Diffusione.
1) La maggior parte dei musulmani è sunnita, l’80% del totale.
2) Il 15% dei musulmani è costituito da sciiti. Lo sciismo è diffuso in Iran (90%), Iraq (55%), Pakistan (20%), Arabia Saudita (15%), Bahrein (70%), Libano (27%), Yemen (50%), Siria (15%).
Clero.
1) Fra i sunniti non c’è clero. L’imam è colui che guida la preghiera.
2) Lo sciismo ha un clero organizzato, preparato in università specifiche di scienze islamiche.
I motivi per cui Cristiani e Islamici non adorano lo stesso Dio - l'eresia dell'Onnivolenza divina. Dio nel Cristianesimo è Trinitario, nell' Islam no. La base unitaria delle religioni monoteiste (ebraica, mussulmana, cattolica) è la Sacra Bibbia. Fonte di un Dio tutto da interpretare. Le differenze in loro le scopri nei loro profeti. Nell’Ebraismo manca; nell’Islam c’è Maometto, profeta di guerra; nel cristianesimo c’è Gesù Cristo, considerato dai cattolici figlio di Dio e Dio al contempo. Non si può negare che sia un Dio o un Profeta di pace. Diverso dal Dio del Vecchio Testamento. "Allah o Gesù, cosa cambia? In fondo è lo stesso Dio!" Il problema è che non è affatto lo stesso Dio. I motivi sono molteplici ma per uno studio più approfondito rimando alla splendido documento firmato dall'allora cardinale Ratzinger dal titolo "Dominus Iesus" dell'anno 2000. Qui mi limiterò a spiegare quella che secondo la visione islamica è una caratteristica del divino e che invece per il Credo cattolico e' semplicemente un'eresia dalle conseguenze inaudite. Intendo parlare brevemente dell'Onnivolenza divina secondo l'Islam. Secondo gli Islamici Dio è onnivolente, cioè, in parole povere, può comandare ciò che vuole e ciò che comanda e' bene e va fatto. Dove sta il problema? Il problema sta in quello che anche Papa Benedetto XVI descrisse nel suo famoso discorso di Ratisbona (a cui rimando per comprendere meglio il discorso che sto facendo): non è vero che una cosa e buona perché Dio dice che è buona, ma una cosa e' buona quindi Dio dice che quella cosa e' buona. Mi spiego meglio: se domani Allah comandasse di uccidere nel suo nome, anche se l'omicidio è un male, questo diventa un bene perché Allah dice che in quel caso è un bene. Questa cosa non è condivisa dal credo cattolico che parla di un Dio onnipotente, onnisciente, ma non onnivolente. La Chiesa, seguendo il pensiero platonico-socratico, ha sempre creduto che il bene e il male siano realtà oggettive, non dipendenti dall'arbitrio umano ne dall'arbitro divino. Il Dio cristiano indica la strada dei comandamenti come la strada del bene e questa strada non potrà mai cambiare o essere modificata perché il bene indicato da Dio non è tale perché Lui lo indica come bene, ma è in se bene e di conseguenza Dio lo indica, perché desidera che l'uomo segua la via del bene. In questo senso il pensiero islamico si distanzia in modo determinante dal pensiero cattolico. Comprendiamo bene perché in quel discorso di Ratisbona il Santo Padre ha insistito sul fatto che "agire contro la ragione è contrario all'agire di Dio". Con queste parole riaffermo' proprio questo concetto. Il bene e il male sono fatti oggettivi, non modificabili secondo l'arbitro umano, ne secondo un presunto arbitrio divino. Dio ha indicato qual è la via del bene e qual è la via del male e queste vie non potranno mai cambiare. Le conseguenze di questo sono facilmente comprensibili: Dio non solo non comanda di uccidere, ma non può comandare di uccidere perché uccidere è un male in se'. Il dio islamico invece può anche comandare di uccidere e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Attenzione quando si afferma che il dio islamico e lo stesso Dio dei cristiani, perché questo non è - per il motivo che ho descritto e per molti altri descritti nei documenti sopra citati - assolutamente vero. D Cristiano M.G.
«Con la venuta di Gesù Cristo salvatore, Dio ha voluto che la Chiesa da Lui fondata fosse lo strumento per la salvezza di tutta l'umanità (cf. At 17,30-31). Questa verità di fede niente toglie al fatto che la Chiesa consideri le religioni del mondo con sincero rispetto, ma nel contempo esclude radicalmente quella mentalità indifferentista «improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l'altra”». Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici. Tuttavia occorre ricordare « a tutti i figli della Chiesa che la loro particolare condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati ». Si comprende quindi che, seguendo il mandato del Signore (cf. Mt 28,19-20) e come esigenza dell'amore a tutti gli uomini, la Chiesa «annuncia, ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose» (Dominus Iesus n°22).
Il documento a firma del card. Ratzinger fu approvato da Papa Giovanni Paolo II e da lui fu ordinata la pubblicazione e la diffusione.
CHI E’ MAOMETTO?
Maometto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Maometto (La Mecca, 570 circa – Medina, 8 giugno 632) è stato il fondatore e, per i musulmani, l'ultimo profeta dell'Islam. Considerato dai musulmani di ogni declinazione - ad eccezione degli Ahmadi - l'ultimo esponente di una lunga tradizione profetica all'interno della quale occupa una posizione di assoluto rilievo, Messaggero di Dio (Allah) e Sigillo dei profeti, per citare solo due degli epiteti onorifici che gli sono tradizionalmente riferiti, sarebbe stato incaricato da Dio stesso - attraverso l'arcangelo Gabriele - di divulgare il suo verbo tra gli Arabi.
Prima della Rivelazione. Maometto (che nella sua forma originale araba significa "il grandemente lodato") nacque in un giorno imprecisato (che secondo alcune fonti tradizionali sarebbe il 20 o il 26 aprile di un anno parimenti imprecisabile, convenzionalmente fissato però al 570) a Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabīʿ I dell'anno 11 dell'Egira (equivalente all'8 giugno del 632) a Medina e ivi fu sepolto, all'interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c'è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa, anche se sostanziosa, di tradizionisti. La sua nascita sarebbe stata segnata, secondo alcune tradizioni, da eventi straordinari e miracolosi. Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh di Mecca, Maometto era l'unico figlio di ʿAbd Allāh b. ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim e di Āmina bint Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch'esso appartenente ai B. Quraysh. Orfano fin dalla nascita del padre (morto a Yathrib al termine d'un viaggio di commercio che l'aveva portato nella palestinese Gaza), Maometto rimase precocemente orfano anche di sua madre che, nei suoi primissimi anni, l'aveva dato a balia a alīma bt. Abī Dhuʿayb, della tribù dei Banū Saʿd b. Bakr, che effettuava piccolo nomadismo intorno a Yathrib. Nell'Arabia preislamica già esistevano comunità monoteistiche, comprese alcune di cristiani ed ebrei. A Mecca - dove, alla morte della madre, fu portato dal suo primo tutore, il nonno paterno ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim, e dove poi rimase anche col secondo suo tutore, lo zio paterno Abu Tàlib - Maometto potrebbe forse aver avuto l'occasione di entrare in contatto presto con quei hanīf, che il Corano vuole fossero monoteisti che non si riferivano ad alcuna religione rivelata, come si può leggere nelle sure III:67 e II:135. Secondo una tradizione islamica, egli stesso era un hanīf e un discendente di Ismaele, figlio di Abramo. La storicità di questo gruppo è comunque discussa fra gli studiosi. Nei suoi viaggi fatti in Siria e Yemen con suo zio, Maometto potrebbe aver preso conoscenza dell'esistenza di comunità ebraiche e cristiane e dell'incontro, che sarebbe avvenuto quando Maometto aveva 9 o 12 anni, col monaco cristiano siriano Bahīra - che avrebbe riconosciuto in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico - si parla già nella prima biografia (Sīra) di Maometto, che fu curata, vario tempo dopo la morte, da Ibn Isāq per essere poi ripresa in forma più "pia" da Ibn Hishām. Oltre alla madre e alla nutrice, due altre donne si presero cura di lui da bambino: Umm Ayman Baraka e Fātima bint Asad, moglie dello zio Abū Tālib. La prima era la schiava etiopica della madre che lo aveva allevato dopo il periodo trascorso presso con Halīma, rimanendo con lui fino a che Maometto ne propiziò il matrimonio, dapprima con un medinese e poi col figlio adottivo Zayd. Nella tradizione islamica Umm Ayman, che generò Usama ibn Zayd, fa parte della Gente della Casa (Ahl al-Bayt) e il Profeta nutrì sempre per lei un vivo affetto, anche per essere stata una delle prime donne a credere al messaggio coranico da lui rivelato. Altrettanto importante fu l'affettuosa e presente sua zia Fātima bint Asad, che Maometto amava per il suo carattere dolce, tanto da mettere il suo nome a una delle proprie figlie e per la quale il futuro profeta pregò spesso dopo la sua morte. I numerosi viaggi intrapresi per via dell'attività mercantile familiare - dapprima con lo zio e poi come agente della ricca e colta vedova Khadīja bt. Khuwaylid - dettero a Maometto occasione di ampliare in maniera significativa le sue conoscenze in campo religioso e sociale. Sposata nel 595 Khadìja bint Khuwàylid (che restò finché visse la sua unica moglie), egli poté dedicarsi alle sue riflessioni spirituali in modo più assiduo e, anzi, pressoché esclusivo. Khadìja fu il primo essere umano a credere nella Rivelazione di cui Maometto era portatore e lo sostenne con forte convinzione fino alla sua morte avvenuta nel 619. A lui, in una vita di coppia senz'altro felice, dette quattro figlie - Zaynab, Ruqayya, Umm Khulthūm e Fāima, detta al-Zahrāʾ (tutte premorte al padre, salvo l'ultima) - oltre a due figli maschi (al-Qàsim e ʿAbd Allah) che morirono tuttavia in tenera età.
Rivelazione. Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una Rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di Dio, unico e indivisibile. In effetti il concetto di monoteismo era diffuso in Arabia da tempi più antichi e il nome Allah (principale nome di Dio nell'Islam) significa semplicemente "Iddio". Gli abitanti dell'Arabia peninsulare e di Mecca - salvo pochi cristiani e zoroastriani e un assai più consistente numero di ebrei - erano per lo più dediti a culti politeistici e adoravano un gran numero di idoli. Questi dèi erano venerati anche in occasione di feste, per lo più abbinate a pellegrinaggi (in arabo: mawsim). Particolarmente rilevante era il pellegrinaggio panarabo, detto ajj, che si svolgeva nel mese lunare di Dhu l-Hijja ("Quello del Pellegrinaggio"). In tale occasione molti devoti arrivavano nei pressi della città, nella zona di Mina, Muzdalifa e di ʿArafa. Gli abitanti di Mecca avevano anche un loro proprio pellegrinaggio urbano (la cosiddetta ʿumra) che svolgevano nel mese di rajab in onore del dio tribale Hubal e delle altre divinità panarabe, graziosamente ospitate dai Quraysh all'interno del santuario meccano della Kaʿba. Maometto, come altri anīf, era solito ritirarsi a meditare, secondo la tradizione islamica, in una grotta sul monte Hira vicino Mecca. Secondo tale tradizione, una notte, intorno all'anno 610, durante il mese di Ramadan, all'età di circa quarant'anni, gli apparve l'arcangelo Gabriele (in arabo Jibrīl o Jabrāʾīl, ossia "potenza di Dio": da "jabr", potenza, e "Allah", Dio) che lo esortò a diventare Messaggero (rasūl) di Allah con le seguenti parole: « (1) Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, (2) ha creato l'uomo da un grumo di sangue! (3) Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, (4) Colui che ha insegnato l’uso del calamo, (5) ha insegnato all'uomo quello che non sapeva». Turbato da un'esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnūn, "impazzito", significa letteralmente "catturato dai jinn") tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore. Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi che gli parlavano. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e nel girarsi vide Gabriele sovrastare con le sue ali immense l'intero orizzonte (per quel "gigantismo" che caratterizza le "realtà angeliche", anche in contesti diversi da quello islamico) e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo messaggero. Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che alcuni indicano come cristiano ma che, più verosimilmente, era uno di quei monoteisti arabi (anīf) che non si riferivano tuttavia a una specifica struttura religiosa organizzata. Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero seguito (fatra), Gabriele tornò di nuovo a parlargli per trasmettergli altri versetti e questo proseguì per 23 anni, fino alla morte nel 632 di Maometto.
È ancora oggetto di disputa la questione riguardante l'analfabetismo di Maometto. Si nota come la sua professione di commerciante abbia potuto portarlo in contatto con altre lingue e altre culture, e come sia intervenuto, secondo una tradizione riportata da Tabari, per apportare una correzione riguardante la sua firma nel Trattato di udaybiyya. Ci sarebbe poi una lettera autografa, conservata nel museo Topkapi di Istanbul. Secondo alcuni, tutto deriverebbe da un equivoco riguardante l'espressione a lui riferita di al-Nabī al-ummī che può voler dire in effetti "il profeta ignorante" ma anche, e più verosimilmente, "il profeta della comunità (araba)" o "il profeta di una cultura non basata su testi sacri scritti". Altre fonti fanno notare come le personalità in grado di leggere e scrivere, nel periodo precedente all'Egira, fossero una quindicina, tutte conosciute per nome, e in effetti il Corano sarebbe il più antico libro arabo in prosa. Studiosi occidentali fanno notare come le tribù nomadi, compresa quella di Maometto, disprezzassero la scrittura, privilegiando la trasmissione orale delle conoscenze. La maggior parte dei musulmani propende per un analfabetismo del loro Profeta, escludendo pertanto radicalmente che egli abbia potuto leggere la Bibbia o altri testi sacri, che del resto sarebbero comparsi in forma scritta solo diverso tempo dopo la sua morte. Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Jibrīl, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse a Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr (destinato a succedergli come califfo, guida della comunità islamica che si fondò con lenta ma sicura progressione malgrado l'assenza di precise indicazioni scritte e orali in merito) e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti "Dieci Benedetti" (al-ʿashara al-mubashshara). La Rivelazione da lui espressa dunque - raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell'Islam - dimostrò la validità del detto evangelico per cui "nessuno è profeta in patria". Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ʿUthmān b. ʿAffān a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thābit, segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo Sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayat).
Gli ultimi anni a Mecca e l'Egira. Nel 619, l'"anno del dolore", morirono tanto suo zio Abu Talib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l'amata Khadìja. Fu solo dopo ripetute insistenze che Maometto contrasse nuove nozze, tra cui quelle con ʿĀʾisha bt. Abī Bakr, figlia del suo più intimo amico e collaboratore, Abu Bakr. L'ostilità dei suoi concittadini tentò di esprimersi con un prolungato boicottaggio nei confronti di Maometto e del suo clan, con il divieto di intrattenere con costoro rapporti di tipo economico commerciale, i troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto. Nel 622 il crescente malumore dei Quraysh nel veder danneggiati i propri interessi - a causa dell'inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe radicato con gli altri arabi politeisti (che con loro proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della ʿumra del mese di rajab) - lo indusse a rifugiarsi con la sua settantina di correligionari, a Yathrib, trecentoquaranta chilometri più a nord di Mecca, che mutò presto il proprio nome in Madīnat al-Nabī, "la Città del Profeta" (Medina). Il 622, l'anno dell'Egira (emigrazione), divenne poi sotto il califfo 'Omar ibn al-Khattàb il primo anno del calendario islamico, utile alla tenuta dei registri fiscali e dell'amministrazione in genere.
La Umma e l'inizio dei conflitti armati. Inizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò la Costituzione di Medina (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo aīfa) che fu accettata da tutte le componenti della città-oasi e che vide il sorgere della Umma, la prima Comunità politica di credenti. Nello stesso tempo, con i suoi seguaci, condusse attacchi contro le carovane dei Meccani e respinse i loro contrattacchi. L'ostilità di Maometto nei confronti dei suoi concittadini si concretizzò nel primo vittorioso scontro armato ai pozzi di Badr, alla successiva disfatta di Uud e alla finale vittoria strategica di Medina (Battaglia del Fossato) contro i politeisti Quraysh che lo avevano inutilmente assediato.
L'atteggiamento verso gli ebrei. In tutte queste circostanze Maometto colpì in diversa misura anche gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma della violazione del Rescritto di Medina e di tradimento nei confronti della componente islamica. In occasione dei due primi fatti d'armi furono esiliate le tribù ebraiche dei Banū Qaynuqāʿ e dei Banū Naīr, mentre dopo la vittoria nella cosiddetta "battaglia" del Fossato (Yawm al-Khandaq), i musulmani decapitarono tra i 700 e i 900 uomini ebrei della tribù dei Banū Qurayza, arresasi ai seguaci del Profeta in conseguenza del fallimento dell'assedio dei Quraysh e dei loro alleati arabi, protrattosi per 25 giorni. Le loro donne e i loro bambini furono invece venduti come schiavi sui mercati d'uomini di Siria e del Najd, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene. La cruenta decisione fu probabilmente la conseguenza dell’accusa di intelligenza col nemico durante l’assedio ma la sentenza non fu decisa da Maometto che invece affidò il responso sulla punizione da adottare a Saʿd b. Muʿādh, sayyid dei Banū ʿAbd al-Ashhal, clan della tribù medinese dei Banu Aws e un tempo principale alleato dei B. Quraya. Questi, ferito gravemente da una freccia (tanto da morirne pochissimi giorni più tardi) e ovviamente pieno di rabbia e rancore, decise per quella soluzione estrema, non frequente ma neppure del tutto inconsueta per l'epoca. Che non si trattasse comunque di una decisione da leggere in chiave esclusivamente anti-ebraica potrebbe dimostrarcelo il fatto che gli altri B. Quraya che vivevano intorno a Medina, e nel resto del ijāz (circa 25.000 persone), non furono infastiditi dai musulmani, né allora, né in seguito. In proposito si è anche espresso uno dei più apprezzati storici del primo Islam, Fred McGrew Donner, che, nel suo Muhammad and the believers (Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 2010, p. 74), afferma « dobbiamo... concludere che gli scontri con altri ebrei o gruppi di ebrei furono il risultato di particolari atteggiamenti o comportamenti politici di costoro, come, per esempio, il rifiuto di accettare la leadership o il rango di profeta di Muhammad. Questi episodi non possono pertanto essere considerati prove di un'ostilità generalizzata nei confronti degli ebrei da parte del movimento dei Credenti, così come non si può concludere che Muhammad nutrisse un'ostilità generalizzata nei confronti dei Quraysh perché fece mettere a morte e punì alcuni suoi persecutori appartenenti a questa tribù. (Fred M. Donner, Maometto e le origini dell'islam, ediz. e trad. di R. Tottoli, Torino, Einaudi, 2011, p. 76-77). » Una minoranza di studiosi musulmani rifiutano di riconoscere l'incidente ritenendo che Ibn Ishaq, il primo biografo di Maometto, abbia presumibilmente raccolto molti dettagli dello scontro dai discendenti degli stessi ebrei Qurayza. Questi discendenti avrebbero arricchito o inventato dettagli dell'incidente prendendo ispirazione dalla storia delle persecuzioni ebraiche in epoca romana.
La conquista dell'Arabia e la morte. Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare su Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a unayn contro l'alleanza che s'imperniava sulla tribù dei Banū Hawāzin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabūk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche.
Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Pellegrinaggio detto anche il "Pellegrinaggio dell'Addio", senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma. Lasciava nove vedove - tra cui ʿĀʾisha bt. Abī Bakr - e una sola figlia vivente, Fāima, andata sposa al cugino del profeta, ʿAlī b. Abī ālib, madre dei suoi nipoti al-asan b. ʿAlī e al-usayn b. ʿAlī. Fatima, piegata dal dolore della perdita del padre e logorata da una vita di sofferenze e fatiche, morì sei mesi più tardi, diventando in breve una delle figure più rappresentative e venerate della religione islamica.
Origine del nome. "Maometto" è la volgarizzazione italiana fatta in età medievale del nome "Muhammad", utile semplificazione della pronuncia. La parola araba "muhammad", che significa "grandemente lodato", è infatti un participio passivo di II forma (intensiva) della radice [h-m-d] (lodare). Secondo lo studioso francese Michel Masson], invece, nelle lingue romanze, e tra queste l'italiano, si osserva una storpiatura del nome del profeta in senso spregiativo (e da ciò deriverebbero, a suo dire, il francese Mahomet e l'italiano Macometto). Allo stesso modo si esprimono alcuni scrittori italiani che ritengono che il nome "Maometto" non sarebbe di diretta origine araba, ma "un'italianizzazione" adottata all'epoca per costituire una sintesi dell'espressione spregiativa di "Mal Commetto", volta a conferire una connotazione negativa al Profeta dell'Islam.
Maometto secondo i non musulmani. Dopo un protratto periodo di indifferenza nei confronti dell'Islam, superficialmente equivocato dalla Cristianità occidentale e orientale, come una delle tante eresie del Cristianesimo nelle dispute con cristiani, questi ultimi sottolinearono sovente il carattere sincretistico della religione di Maometto, basata allo stesso tempo su tradizioni arabe preislamiche (come il culto della Pietra Nera della Mecca) e su tradizioni cristiane siriache ed ebraiche, e mossero critiche alla personalità di Maometto, alla formazione e trasmissione del testo coranico e alla diffusione dell'islam attraverso la spada. Nell'Occidente medievale Maometto fu considerato per oltre cinque secoli un cristiano eretico. Dante Alighieri - non consapevole del profondo grado di diversità teologica della fede predicata da Maometto, per l'influenza su di lui esercitata dal suo Maestro Brunetto Latini, che riteneva Maometto un chierico cristiano di nome Pelagio, appartenente al casato romano dei Colonna - lo cita nel canto XXVIII dell'Inferno tra i seminatori di scandalo e di scisma nella Divina Commedia assieme ad Ali ibn Abi Tàlib, suo cugino-genero, coerentemente con quanto da lui già scritto ai versetti 70-73 del canto VIII dell'Inferno:« ...«Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite / fossero... » in cui le "meschite" (evidente deformazione della parola del volgare castigliano mezquita, derivante dall'arabo masjid, che significa moschea) della città di Dite sono le "vermiglie" abitazioni della città dannata ove dimorano gli eresiarchi cristiani. È questo (e non altro) il motivo per cui nella basilica di San Petronio a Bologna, in un celebre affresco, Maometto fu raffigurato all'inferno, secondo la descrizione di Dante, con il ventre squarciato, come spaccata era la comunità cristiana a causa dei suoi vari scismi. Il motivo per cui Dante lo colloca tra i seminatori di discordie e non tra gli eresiarchi è probabilmente dovuto a una leggenda medievale che parla di Maometto come vescovo e cardinale cristiano, che poi avrebbe rinnegato la propria fede, deluso per non aver raggiunto il papato o per altra ragione e avrebbe creato una nuova religione «mescolando quella di Moisè con quella di Cristo». Secondo una tradizione diffusa tra i musulmani, il Negus di Abissinia - che ospitò gli esiliati musulmani quando Maometto era in vita - avrebbe attestato la sua fede in lui come profeta di Dio.
Si può ridere di Dio? Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura, scrive Paolo Pegoraro su “Aleteia”. Ricordiamo tutti il monaco cieco che, ne Il nome della rosa, avvelena quanti si avvicinano al prezioso scritto nel quale Aristotele difende la commedia e il riso. È vero che la tristezza intossica, meno che il Medioevo sia stato un’epoca di cupa e triste penitenza. Eric Auerbach, nel suo immortale studio Mimesis, ha documentato che la struttura portante della narrativa cristiana, a partire dai Vangeli, è proprio la commedia… non la tragedia. E Dante, con la sua Comedìa, ne è la pietra miliare. Lo affianca il prologo che Francois Rabelais – frate francescano (a suo modo), monaco benedettino (a suo modo), parroco diocesano (a suo modo) – antepone al Gargantua et Pantagruel: «Altra cosa non può il mio cuore esprimere / vedendo il lutto che da voi promana: / meglio è di risa che di pianti scrivere, / ché rider soprattutto è cosa umana». Altrettanto si potrebbe dire per il suo predecessore padano, il monaco, poi ex monaco, infine di nuovo monaco Teofilo Folengo. La tradizione del grottesco e del caricaturale crebbe febbrilmente in Occidente: dalle deformi statue gotiche alle pagine grottesche di Flannery O’Connor fino al caricaturale Vangelo secondo Biff di Christopher Moore. Per contrapporsi e disgregare le istituzioni, si dirà. Fosse pure, il fatto è che la tradizione comico-grottesca crebbe qui come non altrove. Prolificò qui un umorismo religioso, dissacrante, talora perfino blasfemo. Nessuna sorpresa: le barzellette più sconce vengono bisbigliate in sacrestia. Come si rapporta, allora, Dio con il ridere? Il grande poeta irlandese Patrick Kavanagh espose il suo pensiero in maniera convincente nella composizione A View of God and the Devil (Una visione di Dio e del Diavolo – traduzione dell’autore).
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Ho incontrato Dio Padre sulla strada e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: divertente, sperimentale, irresponsabile sulle frivolezze. Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio né impressionerebbe un vescovo o un circolo di artisti. Non era splendido, spaventoso o tremendo e neppure insignificante. Questo era il mio Dio che fece l’erba e il sole e i ciottoli nei ruscelli in aprile; questo era il Dio che ho incontrato in una vecchia cava colma di denti-di-leone. Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino mentre vagavo per strade inconsapevoli. Questo era il Dio che covò sui campi erpicati di Rooney accanto alla statale Carrick il giorno che i miei primi versi furono stampati io lo conobbi e mai ebbi paura di morte o dannazione e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.
Il Diavolo anche il Diavolo ho incontrato, e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: solenne, noioso, conservatore. Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio, sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo, assomigliava a un artista. Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani andava in collera quando qualcuno rideva; era grave su cose senza peso; dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità perché era consapevole di non essere creativo.
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Colpisce che il primo aggettivo scelto da Kavanagh per descrivere il “suo” Dio sia proprio amusing (“divertente”) in opposizione a quel povero diavolo che «andava in collera quando qualcuno rideva». Perché rideva proprio di lui, probabilmente, abituato a prendersi “dannatamente” sul serio. Mentre il divino sa essere irresponsabile «sulle frivolezze», il demoniaco è grave «su cose senza peso». Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura. Mentre il divino umorismo ha mille sfumature, la “dannata” serietà è monolitica e monotona. Il Dio di Kavanagh è un Dio autoironico. Non è possibile deriderlo semplicemente perché è Lui il primo a ridere di se stesso. Non si può ridere “di” Dio semplicemente perché si può ridere soltanto “con” Lui. Proprio perché così prolificamente creativo (egli “cova” i campi come una chioccia) e fantasioso, non sorprenderebbe se fosse Lui in persona l’autore delle migliori storielle su se stesso. Se il demoniaco rivela il proprio «complesso d’inferiorità» irrigidendosi di continuo, nel vano tentativo di nascondere la propria sterilità, per contro il sigillo della creatività senza limiti è l’umiltà (umile, yet not insignificant!). E, fra tutte, l’autoironia è la forma di umiltà più bella. Perché l’autoironia è una forma di umiltà così autentica che proprio non ci riesce, a prendersi sul serio.
Chiunque sa ridere degli altri, basta avere un granello d'intelligenza; ma per ridere con loro di se stessi, occorre un'oncia di santità.
Divina Commedia. Dante aveva già capito tutto: ecco dove e come aveva messo Maometto. C'è una satira anti-Maometto più feroce di quella di Charlie Hebdo. Circola liberamente in Europa e non solo da secoli. A scriverla fu uno dei più grandi scrittori della storia dell'Occidente. E la si studia anche in tutte le scuole. Mette il profeta musulmano e Alì, suo cugino, genero e successore come Califfo, nientemeno che all'inferno, nel canto XXVIII dedicato ai seminatori di discordia. Lui, l'anti-Maometto, è nientemeno che Dante e l'opera è la Divina Commedia. In cui Maometto viene messo nella bolgia più "sozza" che si possa immaginare, piena di corpi mutilati e orrendamente sfigurati. C'è che secondo le convinzioni dell'epoca, condivise evidentemente da Dante, l'islam era il risultato di uno scisma nell'ambito della cristianità: come riporta il Corriere della Sera, il cardinale o monaco Maometto, amareggiato per non aver conseguito il papato, avrebbe fondato una nuova dottrina. Per questo Dante lo immagina nella nona bolgia, squarciato dal mento all'ano, "infin dove si trulla" (ovvero dove si scorreggia). Alì con la faccia spaccata dal mento alla fronte. Questo perchè, secondo Dante, i seminatori di discordia nell'aldilà erano condannati a subire il contrappasso adeguato, soffrendo nel loro corpo le stesse mutilazioni di cui sono stati artefici in vita.
Dante, Maometto e Charlie Hebdo, scrive “Biuso”.
«Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ‘l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: ‘Or vedi com’ io mi dilacco!”
vedi come storpiato è Mäometto!’»
(Inferno, XXVIII, 22-31).
Così Dante Alighieri descrive la figura ripugnante dello ‘scismatico’ Maometto, tagliato/squartato come lui volle tagliare/squartare l’unità cristiana del Mediterraneo. Ancora una volta i monoteismi confermano tutta la loro carica di violenza, gli uni contro gli altri. Nel presente i più pericolosi e armati di tali monoteismi sono quello di Israele e quello degli islamisti. Massacrare i redattori del giornale parigino Charlie Hebdo perché hanno «offeso il Profeta» è semplicemente ripugnante. E conferma ancora una volta tutta la violenza insita nell’Identità senza Differenza, nell’Uno.
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dèi di fronte a me. […] Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Deuteronomio, cap. 5, versetti 6-10).
«Allah testimonia, e con Lui gli Angeli e i sapienti, che non c’è dio all’infuori di Lui, Colui Che realizza la giustizia. Non c’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio». (Corano, sura III, versetto 18).
«Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è eguale a Lui» (Corano, sura CXII, versetti 1-4).
«E i miscredenti che muoiono nella miscredenza, saranno maledetti da Allah, dagli angeli e da tutti gli uomini. Rimarranno in questo stato in eterno e il castigo non sarà loro alleviato, né avranno attenuanti. Il vostro Dio è il Dio Unico, non c’è altro dio che Lui, il Compassionevole, il Misericordioso» (Corano, sura II, versetti 161-163).
Dante e l’Islam. È ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia. Ma oggi, turbati dalla violenza fondamentalista, tendiamo a dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”. Nel 1919 Miguel Asín Palacios pubblicava un libro (“La escatologia musulmana en la Divina Comedia”) che aveva fatto subito molto rumore. In centinaia di pagine identificava analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica, in particolare le varie versioni del viaggio notturno di Maometto all’inferno e al paradiso. Specie in Italia ne era nata una polemica tra sostenitori di quella ricerca e difensori dell’originalità di Dante. Si stava per celebrare il sesto centenario della morte del più “italiano” dei poeti, e inoltre il mondo islamico era guardato piuttosto dall’alto al basso in un clima di ambizioni coloniali e “civilizzatrici”: come si poteva pensare che il genio italico fosse debitore delle tradizioni di “extracomunitari” straccioni? Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro (“L’idea deforme”, a cura di Maria Pia Pozzato) i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta. E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante. Ormai è assodato che Dante abbia subito l’influenza di molte fonti musulmane. Il problema non è se lui le avesse avvicinate direttamente ma come sarebbero potute pervenirgli. Si potrebbe cominciare dalle molte visioni medievali, dove si raccontava di visite ai regni dell’oltretomba. Sono la “Vita di san Maccario romano”, il “Viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre”, la “Visione di Tugdalo”, sino alla leggenda del pozzo di san Patrizio. Fonti occidentali, certo, ma ecco che Asín Palacios le paragonava a tradizioni islamiche, mostrando che anche in quei casi i visionari occidentali avevano appreso qualcosa dai visionari dell’altra sponda del Mediterraneo. E dire che Asín Palacios non conosceva ancora quel “Libro della Scala”, ritrovato negli anni Quaranta del secolo scorso, tradotto dall’arabo in castigliano e poi in latino e antico francese. Poteva conoscere Dante questa storia del viaggio nell’oltretomba del Profeta? Poteva averne avuto notizia attraverso Brunetto Latini, suo maestro, e la versione latina del testo era contenuta in una “Collectio toledana”, dove Pietro il Venerabile, abate di Cluny, aveva fatto raccogliere testi arabi filosofici e scientifici - tutto questo prima della nascita di Dante. E Maria Corti si era molto battuta per riconoscer la presenza di queste fonti musulmane nell’opera dantesca. Chi oggi voglia leggere qualcosa su almeno un resoconto della avventura oltremondana del Profeta trova da Einaudi “Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta”, con una prefazione di Cesare Segre. Il riconoscere queste influenze non toglie nulla alla grandezza di Dante, con buona pace degli antichi oppositori di Asín Palacios. Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale. Ho rievocato queste polemiche e queste scoperte perché ora l’editrice Luini ripubblica il libro di Asín Palacios, con il titolo più accattivante di “Dante e l’Islam”, e riprende la bella introduzione che Carlo Ossola ne aveva scritto per la traduzione del 1993. Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione? Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” arabi. E lo ha ai giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie del fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati.
Maometto prima di Dante all'inferno. Un viaggio miracoloso che precede e forse ispira la «Commedia». Ma è solo apologetico, scrive Segre Cesare su “Il Corriere della Sera”. Nei suoi ultimi dieci anni Maria Corti era tutta presa dal problema dei contatti arabo-cristiani nella letteratura medievale. Punti di riferimento, sostanzialmente due: il tema del viaggio di Ulisse oltre le colonne d'Ercole, forse derivato da tradizioni arabe, e gli eventuali contatti fra la Commedia e un testo musulmano, il Libro della Scala, che narrava il miracoloso viaggio notturno di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme e la sua successiva visita nei regni oltramondani. Per i due protagonisti, Ulisse e Dante, l'obiettivo è il mondo dei morti: sfiorato da Ulisse, attraversato da Dante. Le ricerche della Corti diedero spunto ad articoli e conversazioni, dibattiti, interviste. Ci si potrebbe stupire di tanto interesse per problemi che non trovarono del tutto le soluzioni desiderate, ma davvero stimolante per il lettore era già la possibilità di immergersi in problematiche di ricerca sempre più raffinate, che, indipendentemente dalle auspicate conclusioni, attraversavano punti nodali della cultura del Medioevo.Si sa che fra cultura musulmana e cultura occidentale esisteva una notevole interrelazione, che l'intensa attività traduttoria rese ancora più stretta. Si traduceva, naturalmente, dall'arabo al latino e alle lingue romanze, e non viceversa. Tra le opere tradotte, c'è il cosiddetto Libro della Scala: l'originale arabo è perduto, così come la sua prima versione spagnola, opera di un medico ebreo legato al re di Castiglia Alfonso el Sabio, ma rimangono due traduzioni, una latina e una francese, derivate dalla versione spagnola e da ascrivere (sicuramente la prima, forse la seconda) a un notaio toscano, Bonaventura da Siena, esule, dopo il 1260, presso Alfonso.Il Libro della Scala è forse la traduzione dall'arabo che ha suscitato più interesse, ma non tanto nel mondo medievale, quanto semmai presso i lettori moderni, e per una ragione molto semplice: le sue vere o apparenti rassomiglianze con la Commedia. Che Dante abbia conosciuto e imitato il popolare libro arabo?La prima curiosità per l'opera si era manifestata dopo l'edizione del testo latino pubblicata da Enrico Cerulli (1949): nella postfazione, Cerulli insisteva sul problema dei rapporti tra Libro e Commedia, riferendosi ai concetti di plagio e di imitazione (due concetti, sia detto per inciso, che ora noi trattiamo diversamente, parlando piuttosto di intertestualità e interdiscorsività). Poi tutto si calmò, almeno fino agli studi della Corti. Ora, una nuova edizione del Libro ci consente di riprendere il discorso, alla luce anche di nuove scoperte e prospettive. Il problema non è più analizzare le affinità, ma distinguere tra ciò che accomuna le due opere perché elemento diffuso nella cultura del tempo, e ciò che è stato trasposto di proposito dall'una all'altra narrazione. Si tenga conto che nel Medioevo lo scambio d'invenzioni e d'immagini era frequentissimo, anche tra gli apologeti delle tre fedi monoteistiche.La nuova edizione che ci propone Anna Longoni, allieva della Corti (Il libro della Scala di Maometto, Bur, pp. 368, ? 13), ha come pregio maggiore quello di offrirci un'edizione filologica della versione (o riscrittura) latina, testimoniata da due manoscritti, uno vaticano, dell'inizio del XIV secolo, e l'altro conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, affiancata da una precisa traduzione in italiano moderno. Ma non vanno trascurati né l'Introduzione, molto informata, né, in appendice, la ristampa del principale articolo della Corti su Dante e la cultura islamica.In partenza, direi che gli elementi congiuntivi tra Libro e Commedia sono soprattutto la strutturazione dei regni ultraterreni e la descrizione delle pene dei dannati, mentre quello disgiuntivo è lo spirito completamente diverso che anima le due opere. La Commedia ha finalità didattiche, filosofiche e narrative, in fondo anche autocelebrative; il Libro della Scala è l'esaltazione di Allah e della sua potenza, e la consacrazione di Maometto come profeta. In più, la Commedia è primariamente un'opera d'arte, mentre il Libro della Scala è opera eminentemente apologetica. Ma ciò che allontana la Scala dalla Commedia è la diversissima tradizione che caratterizza le due opere. Perché i temi del «viaggio notturno» e dell'«ascensione al cielo» di Maometto, di cui il Libro della Scala presenta una redazione particolare, sono maturati attraverso il tempo: concepiti già all'epoca di Maometto (VII secolo), sono stati rielaborati precocemente (dice la tradizione) da Ibn'Abbas, cugino del Profeta, riscritti nel IX secolo. E continuano tuttora a circolare, anche a livello popolare (in proposito, si può leggere l'edizione del Viaggio di Ibn'Abbas a cura di Ida Zilio-Grandi, Einaudi 2010). Della Commedia viceversa sappiamo tutto, o quasi, dato che ci è noto chi l'ha scritta e quando. Nel tessuto dello stesso Libro è evidente la bipartizione tra il «viaggio notturno» di Maometto per andare dalla Mecca a Gerusalemme su una specie di ippogrifo, e il «Libro della scala», in senso stretto, che prevede l'ascensione di Maometto, attraverso la scala di Giacobbe, dall'inferno al paradiso, sino all'incontro con Allah. A un certo punto le due parti sono state cucite assieme: si tenga conto che si tratta di un'opera a tradizione orale, dunque aperta a qualunque contaminazione, anche se va riconosciuto che il contenuto rimane in fondo unitario. Ma Dante come avrebbe potuto conoscere il Libro della Scala? S'era inventata una favola ingegnosa, senza prove: Brunetto Latini, ambasciatore dei guelfi fiorentini alla corte di Alfonso el Sabio, una volta tornato a Firenze, avrebbe potuto riassumere al suo discepolo Dante il Libro, o qualche sua parte. Ma oggi gli studi sull'islamismo medievale sono molto più approfonditi, e sappiamo persino di vere scuole di arabo, in Inghilterra, a Hereford, o nel Convento di Miramar a Maiorca, oltre naturalmente alla scuola di Toledo. Il prodotto più consistente di questi circoli di studiosi è la Collectio Toletana, un'antologia di testi arabi, tra cui il Corano, tradotti in latino, e ampiamente diffusi nell'Europa medievale. Anche la convinzione che in Italia il Libro fosse sconosciuto, già smentita dai versi di Fazio degli Uberti, che nel Dittamondo (1336) cita un «Libro che Scala ha nome» e riassume in qualche verso i costumi musulmani, è ora solennemente confutata (2011) da Luciano Gargan, che ha trovato il Libro citato in un catalogo bolognese del 1312, che elenca i libri di un frate domenicano, Ugolino.Ma insomma Dante ha conosciuto o no il Libro della Scala? Tutti i critici, anche la Corti e la Longoni, hanno cercato, con equilibrio, le prove più consistenti. Certo, Dante, come tutti i grandi, è capace di trovare spunti e suggerimenti ovunque, e può aver raccattato qualcosa anche da lì. Però bisogna rendersi conto delle sue prospettive e delle sue presupposizioni culturali. Cosa poteva trovare in un libro nettamente popolare, dove il gusto dell'iperbole («misura in lunghezza quanto potrebbe percorrere un uomo in cinquecento anni»; «ognuno di questi serpenti ha in bocca diciottomila denti, ciascuno dei quali è grande tanto quanto una di quelle piante chiamate palme») si mescola con quello dei colori, sicché Maometto avanza tra quinte di veli colorati? C'è qualche scena grandiosa, ma l'unico sentimento che suscita è lo stupore. Noi siamo vittime del gusto moderno per il primitivo, e abbiamo tutto il diritto di accostare il Libro della Scala alla Commedia. Ma quanto a metterli sullo stesso piano, a qualcuno è lecito essere riluttante.
«Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici». L'accusa di Gherush92 organizzazione di ricercatori consulente dell'Onu, scrive “Il Corriere della Sera”. in alternativa alcune parti del capolavoro andrebbero espunte dal testo. La Divina Commedia deve essere tolta dai programmi scolastici: troppi contenuti antisemiti, islamofobici, razzisti ed omofobici. La sorprendente richiesta arriva da «Gherush92», organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti.
ANTISEMITISMO - «La Divina Commedia - spiega all'Adnkronos Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all'antisemitismo e al razzismo». Sotto la lente di ingrandimento in particolare i canti XXXIV, XXIII, XXVIII, XIV. Il canto XXXIV, spiega l'organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell'apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore» (così scrive De Mauro, Il dizionario della lingua italiana). Il significato negativo di giudeo è poi esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell'antisemitismo. «Studiando la Divina Commedia - sostiene Gherush92 - i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un'opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti». E ancora, prosegue l'organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti».
MAOMETTO - Ma attenzione. Il capolavoro di Dante conterrebbe anche accenti islamofobici. «Nel canto XXVIII dell'Inferno - spiega ancora Sereni - Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. L'offesa - aggiunge - è resa più evidente perchè il corpo "rotto" e "storpiato" di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa».
OMOSESSUALI - Anche gli omosessuali, nel linguaggio dantesco i sodomiti, sarebbero messi all'indice nel poema dell'Alighieri. Coloro che ebbero rapporti «contro natura», sono infatti puniti nell'Inferno: i sodomiti, i peccatori più numerosi del girone, sono descritti mentre corrono sotto una pioggia di fuoco, condannati a non fermarsi. Nel Purgatorio i sodomiti riappaiono, nel canto XXVI, insieme ai lussuriosi eterosessuali. «Non invochiamo nè censure nè roghi - precisa Sereni - ma vorremmo che si riconoscesse, in maniera chiara e senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti. L'arte non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico. L'arte è fatta di forma e di contenuto e anche ammettendo che nella Commedia esistano diversi livelli di interpretazione, simbolico, metaforico, iconografico, estetico, ciò non autorizza a rimuovere il significato testuale dell'opera, il cui contenuto denigratorio è evidente e contribuisce, oggi come ieri, a diffondere false accuse costate nei secoli milioni e milioni di morti. Persecuzioni, discriminazioni, espulsioni, roghi hanno subito da parte dei cristiani ebrei, omosessuali, mori, popoli infedeli, eretici e pagani, gli stessi che Dante colloca nei gironi dell'inferno e del purgatorio. Questo è razzismo che letture simboliche, metaforiche ed estetiche dell'opera, evidentemente, non rimuovono».
CRIMINI - «Oggi - conclude Sereni - il razzismo è considerato un crimine ed esistono leggi e convenzioni internazionali che tutelano la diversità culturale e preservano dalla discriminazione, dall'odio o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e a queste bisogna riferirsi; quindi questi contenuti, se insegnati nelle scuole o declamati in pubblico, contravvengono a queste leggi, soprattutto se in presenza di una delle categorie discriminate. È nostro dovere segnalare alle autoritá competenti, anche giudiziarie, che la Commedia presenta contenuti offensivi e razzisti che vanno approfonditi e conosciuti. Chiediamo, quindi, di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o, almeno, di inserire i necessari commenti e chiarimenti». Certo c'è da chiederci cosa succederebbe se il criterio proposto da «Gherush92» venisse applicato ai grandi autori della letteratura. In Gran Bretagna vedremmo censurato «Il mercante di Venezia» di Shakespeare? O alcuni dei racconti di Chaucer? Certo è che il tema del politicamente corretto finisce sempre più per invadere sfere distanti dalla politica vera e propria. Così il Corriere in un articolo del 1996 racconta come, al momento di scegliere personaggi celebri per adornare le future banconote dell'euro, Shakespeare fu scartato perchè potenzialmente antisemita Mozart perché massone, Leonardo Da Vinci perché omosessuale. Alla fine si decise per mettere sulle banconote immagini di ponti almeno loro non accusabili di nulla.
Dante "razzista", follia Onu: bandire Divina Commedia. L'associazione Gherush92, consulente delle Nazioni Unite: "Offende ebrei, musulmani, gay. Non va studiata a scuola", scrive di Caterina Maniaci su “Libero Quotidiano”. L’hanno recitata a migliaia, ovunque nel mondo; l’hanno citata, letta, studiata, commentata in milioni di volumi e per intere generazioni. È persino diventata una sorta di fenomeno sociale, dopo che Vittorio Sermonti prima e Roberto Benigni poi l’hanno declamata a un pubblico sempre più numeroso, fino ad approdare in tv. Ma nessuno, fino a oggi, si era mai immaginato di poter parlare della Divina Commedia in questi termini: ossia come un’opera piena di luoghi comuni, frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che difficilmente possono essere comprese e che raramente vengono evidenziate e spiegate nel modo corretto. Definisce così il contenuto di numerose terzine dantesche “Gherush92”, organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale per il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti, razzismo, antisemitismo, islamofobia. E proprio secondo questa organizzazione il poema di Dante andrebbe eliminato dai programmi scolastici o, quanto meno, letto con le dovute accortezze. Sotto la lente censoria sono finiti, in particolare, i canti dell’Inferno XIV, XXIII, XXVIII e XXXIV. Il canto XXXIV, spiega l’organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell’apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore». Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell’antisemitismo. E ancora, prosegue l’organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti». Il poema, spiega Valentina Sereni, presidente di Gherush92, «pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani, presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposto senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo». Spiega ancora Sereni: «Nel canto XXVIII dell’Inferno Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l’Islam come un’eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano, in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli». «L’offesa», aggiunge, «è resa più evidente perché il corpo “rotto” e “storpiato” di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un’offesa». La stessa Sereni, da noi ricontattata, ci spiega che lo studio sulla Divina Commedia è stato eseguito dai ricercatori di Gherush92 «dopo alcuni mesi di riflessione». Il gruppo «si finanzia con le quote dei soci iscritti». Alla domanda se esistono nuovi studi su altre opere letterarie, risponde: «Ci stiamo lavorando e più avanti saranno diffusi». Nessun timore che, utilizzando simili criteri di analisi, tutta la letteratura italiana delle origini possa essere considerata razzista, omofoba e antisemita? «Non è colpa nostra se ci sono opere d’arte italiane eventualmente razziste», ribadisce la Sereni, perché «è l’insegnamento della Divina Commedia che deve essere contestualizzato e siccome viene insegnata e proclamata oggi, il contesto è oggi. Oggi possiamo e dobbiamo fare queste osservazioni sul razzismo nella Divina Commedia e in altre opere d’arte. D’altra parte il razzismo contro le stesse entità esisteva tanto allora quanto oggi». Tutto chiaro e preciso. Ma pur essendo Gherush92 consulente dell’Onu, status di tutto rispetto e cosa che non è concessa proprio a tutte le organizzazioni, la sede a Roma, segnalata nel sito dell’United Nations Department of Economic and Social Affairs, è inesistente: a quell’indirizzo non risulta nessuna organizzazione. Lo abbiamo scoperto personalmente. Una zona di quasi campagna, nella periferia nord della Capitale, tra villette e piccoli capannoni aziendali. Il numero civico non corrisponde, anzi non esiste. Chiediamo in giro. «Associazione Gherush92? Mai sentita, qui non c’è», risponde una ragazza che esce da un cancello. In effetti, ci viene confermato dalla stessa associazione che quell’indirizzo non è valido e non ce n’è un altro cui fare riferimento...
GESU’ CRISTO CONTRO MAOMETTO.
Come ebreo vorrei fosse studiato a scuola. Io vado a comprarne una copia. Mi serve per capire il Male. Proprio perché sono interessato al dramma della Shoah questo libro terribile non può mancare nella mia biblioteca, scrive Giampiero Mughini, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale". Sto per andare alla mia edicola di viale Trastevere dove assieme alla consueta mazzetta di quotidiani comprerò il Mein Kampf di Adolf Hitler di cui Francesco Perfetti (uno dei migliori storici italiani del moderno) ha curato l'edizione per Il Giornale. No, è pericoloso per chi non ha senso critico. Proprio perché sono visceralmente e drammaticamente interessato alla Shoah in ogni sua sfumatura di storia e di personaggi e di tragedia apicale del Novecento, quel libro non può mancare alla mia biblioteca. Lo metterò nello scaffale che ho dedicato a quell'argomento, il più vicino alla sedia su cui lavoro nel mio studio. Gli staranno accanto il libro dello storico inglese Martin Gilbert sulla reticenza degli Alleati a reagire a quel che sapevano stava succedendo nel campo di Auschwitz e altri; il portentoso libro/intervista in cui Gitta Sereny dialogava con l'ex capo nazi di Treblinka; il libro di Hannah Arendt sul processo Eichmann; il libro einaudiano che pubblicava per intero la relazione d'accusa del procuratore generale israeliano contro Eichman; il libro di Robert Faurisson il capo dei «negazionisti» francesi che avevo comprato nella libreria parigina dove negli anni Sessanta aveva comprato una celeberrima rivista trotzchista su cui avevo fatto la tesi di laurea nel 1970. Accanto al libro forse il più sconvolgente di tutti, L'Album d'Auschwitz, il libro dov'erano le foto che un paio di SS di Auschwitz avevano scattato in tutta tranquillità (alla maniera dei selfie nostrani) a donne e uomini che a vagonate erano appena sbarcati ad Auschwitz e che avevano ancora poche ore di vita. Ne potrei elencare cento altri. Il Mein Kampf non lo avevo, e invece cimelio mostruoso com'è non deve mancare da una biblioteca come la mia. All'epoca in cui apparve e fino al momento in cui il popolo tedesco non inondò di voti Hitler, quel libraccio lo avevano letto in pochissimi. Era reputato lo sproloquio di uno squinternato che si stava facendo un po' di galera per avere tentato un (ridicolo) putsch contro la democrazia di Weimar. L'inumana potenza dei carri armati e dei caccia nazi rese quel programma attuabile. Un programma che in tanti avevano sottovalutato. Se una tale porcata a tal punto dilaga e diventa effettuale, come fai a non conoscerne i tratti? Purtroppo non conosco il tedesco e non sono ricco. Fosse dipeso da me avrei volentierissimo comprato l'esemplare della prima edizione che i bouquinistes della Senna hanno venduto una decina d'anni fa. Come non avere un cimelio dell'orrore di tale stazza? E del resto io da ragazzo li avevo comprati i quattro volumi degli Editori Riuniti con le opere complete di Stalin, altro pontefice dell'orrore assoluto. Un paio d'anni fa mi capitò tra le mani la prima edizione italiana del Mein Kampf, un'edizione Bompiani del 1942. Solo che era in cattive condizioni, e la mia anima da bibliofilo si rifiutò. Se la trovo in buone condizioni la compro subito. Un libro uscito quando erano in molti gli italiani anche colti che flirtavano con l'antisemitismo. Ricordatevi di Guido Piovene che aveva fatto un grande elogio del «razzista» all'italiana Telesio Interlandi (personaggio del resto interessantissimo su cui ho scritto 25 anni fa un libro meritorio). Leggere sapere conoscere capire. Più lo fai e meglio è. E poi vi ricordate la gran polemica se sì o no pubblicare i «comunicati» delle Br pur di fare rilasciare un magistrato che loro avevano rapito? Tutti a dire di no, che non bisognava dar loro una vetrina massmediatica. Si distinse in quell'occasione Riccardo Lombardi, uno dei maestri socialisti della mia giovinezza. Ma certo che vanno pubblicati, scrisse, a far vedere a tutti che razza di cretini e delinquenti sono i brigatisti. Quei loro comunicati e «risoluzioni» mi sono messo adesso a cercarli in antiquariato e a leggermeli a uno a uno. Da far accapponare la pelle a pensare che quegli idioti hanno costituito un allarme per la nostra democrazia. Buona lettura.
Maometto vs Gesù. Riflessioni di Jerry Rassamni. La differenza tra Gesù, quindi il Cristianesimo, e Maometto, quindi l'Islam.
Nessuna profezia preannunciò la venuta di Maometto. Numerose e precise e antiche profezie si sono avverate con la nascita di Gesù.
Il concepimento di Maometto fu umano e naturale. Gesù fu concepito in modo soprannaturale e nacque da una vergine.
Numerose rivelazioni di Maometto servivano a soddisfare i suoi interessi personali, come ad esempio la legalizzazione del matrimonio con la sua nuora. Le rivelazioni e la vita di Gesù erano «sacrificali», come la sua crocifissione per i peccati del mondo.
Maometto non ha fatto alcun miracolo. Gesù ha guarito lebbrosi, dato la vista ai ciechi, camminato sulle acque, risuscitato i morti.
Maometto ha instaurato un regno terreno. Gesù ha detto «il mio regno non è di questo mondo».
Maometto ha ammesso che le sue più grandi passioni erano le donne, gli aromi e il cibo. La passione principale di Gesù era di glorificare il nome del suo Padre celeste.
Maometto era un re terreno che accumulava ricchezze, divenendo il più ricco possidente in Arabia. Gesù non aveva un posto dove appoggiare il suo capo.
La vita di Maometto era contrassegnata dalla spada. La vita di Gesù era contrassegnata da misericordia e amore.
Maometto incitava alla jihad, la guerra santa. Gesù ha detto che «coloro che feriscono di spada, periscono di spada». Uno dei suoi titoli è «Principe della pace».
Se una carovana era debole, Maometto l’attaccava, la saccheggiava e la massacrava; se era forte, fuggiva. Gesù disse: «Splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli.» «Amate i vostri nemici e benedite coloro che vi odiano.»
Maometto fece lapidare un’adultera. Gesù perdonò un’adultera.
Maometto sposò quattordici donne, compresa una bambina di sette anni. Gesù non ebbe relazioni sessuali.
Maometto riconosceva di essere un peccatore. Gesù fu senza peccato, perfino secondo il Corano.
Maometto non predisse la sua morte. Gesù predisse esattamente la sua crocifissione, morte e risurrezione.
Maometto non nominò né istruì un successore. Gesù nominò, istruì e Gesù nominò, istruì e preparò i suoi successori.
Maometto era così incerto riguardo alla sua salvezza che pregava settanta volte al giorno per ricevere perdono. Gesù era l’essenza della salvezza, egli disse: «Io sono la via, la verità e la vita! Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.»
Maometto massacrò i suoi nemici. Gesù perdonò i suoi nemici.
Maometto morì e le sue spoglie sono sepolte sulla Terra. Gesù risuscitò dai morti e salì al Cielo!
Il multiculturalismo imperante esige che si eviti di fare qualsiasi associazione tra terrorismo e fondamentalismo islamico, malgrado siano gli stessi terroristi a invocare il Corano. Abbiamo visto le assurde – e anche ridicole – conseguenze di questa censura “politicamente corretta” nella notizia pubblicata il 19 febbraio. Ora, ha ben ragione Benedetto XVI a insistere sul fatto che non è lecito uccidere in nome di Dio e che Dio non può volere la violenza, ma l’insistenza – che ha assunto il tono di una sfida alla ragione – si spiega proprio con il fatto che, in campo islamico, c’è chi teorizza il contrario. Sarebbe anche sbagliata un’equazione del tipo islam=terrorismo o islam=violenza, però allo stesso modo non si possono negare certi fenomeni inquietanti, che ripropongono la domanda sulle radici della violenza fondamentalista. Uno spunto originale ce lo offre il lavoro di William J. Federer, uno studioso americano esperto di rapporti tra religione e società, il cui ultimo libro esamina il rapporto tra islam e Stati Uniti. In un articolo scritto per WorldDailyNet, Federer smentisce sia gli apologeti islamici che accusano anche i cristiani di aver commesso violenze nella loro storia, sia i laicisti che credono sia la religione la prima causa della violenza – dimenticando gli stermini “atei” della Rivoluzione Francese, dello stalinismo, del maoismo -. Lo fa mettendo a confronto la vita e gli insegnamenti di Gesù con la vita e gli insegnamenti di Maometto: i quattro vangeli sono la fonte usata per Gesù, mentre per Maometto usa il Corano, l’Hadith (le storie sul Profeta trasmesse oralmente e poi raccolte dal califfo Omar II nell'VIII secolo) e il Sirat Rasul Allah (La vita del Profeta di Allah), anche questo scritto nell'VIII secolo. Il confronto tra le due figure, ben dettagliato da Federer e che potete leggere nell’articolo integrale, non necessita di alcun commento. Citiamo solo alcuni punti:
– Gesù è stato un leader religioso.
– Maometto è stato un leader religioso e militare.
– Gesù non ha mai ucciso nessuno.
– Maometto si stima abbia ucciso 3mila persone, compresi 700 ebrei a Medina nel 627.
– Gesù non ha mai posseduto schiavi.
– Maometto ne riceveva un quinto dei prigionieri catturati in battaglia, comprese le donne (Sura 8,41).
– Gesù non ha mai forzato i suoi discepoli a continuare a credere in Lui.
– Maometto ha forzato i suoi discepoli a continuare a credere in lui (pena la morte).
– Gesù ha insegnato a perdonare le offese ricevute.
– Maometto ha insegnato a vendicare le offese contro l’onore, la famiglia o la religione.
– Gesù non ha mai torturato nessuno.
– Maometto ha torturato il capo di una tribù ebrea.
– Gesù non ha vendicato la violenza contro di lui, affermando addirittura “Padre, perdona loro” (Lc 23,24).
– Maometto ha vendicato le violenze contro di lui ordinando la morte dei suoi nemici.
– Per cristiani ed ebrei martire è colui che muore per la propria fede.
– Per l’islam martire è chi muore per la propria fede mentre combatte (e uccide) gli infedeli.
– Nessuno dei discepoli di Gesù ha mai guidato eserciti.
– Tutti i califfi discepoli di Maometto sono stati anche generali.
– Nei primi 300 anni di cristianesimo ci sono state 10 importanti persecuzioni contro i cristiani (senza che ci fossero resistenze armate).
– Nei primi 300 anni di islam, gli eserciti islamici hanno conquistato Arabia, Persia, la Terra Santa, Nord Africa, Africa centrale, Spagna, Francia meridionale e vaste aree di Asia minore e Asia.
“Morendo, Gesù lascia quattro chiodi, Maometto sette spade”. Victor-Marie Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885). Sulla base di questa citazione mettiamo a confronto i principali personaggi delle due più diffuse religioni al mondo, troppo spesso equiparati ma mai per ragioni di verbo.
“Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” – Matteo 5,44
“Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce” – Corano VIII, 60
Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno vi perquote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. – Matteo 5,39
“Non combatterete contro gente che ha violato i giuramenti e cercato di scacciare il Messaggero? Sono loro che vi hanno attaccato per primi”. – Corano IX, 13
“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” – Matteo 5,11-12
“Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio” – Corano II, 191
“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avra ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con ii proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.” – Matteo 5,21-22
“Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è [l'ordine di Allah]. Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah.” – Corano XLVII, 4
“Nessuno è buono, se non Dio solo.” – Marco 10,18
“I giudei dicono: ‘La mano di Allah si è incatenata!’. Siano incatenate le mani loro e siano maledetti per quel che hanno detto. Le Sue mani sono invece ben aperte: Egli dà a chi vuole.” – Corano V, 64
“Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna e stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più.” – Giovanni 8,3-11
“Una donna di Ghamid si reco da lui (il Santo Profeta [Maometto]) e disse: “Messaggero di Allah, purificami poiché ho commesso adulterio”. Egli (il Santo Profeta) la mandò via. Il giorno seguente ella disse: Messaggero di Allah, perche ml scacci? […] In nome di Allah, sono rimasta incinta”. Egli disse: “Bene, se proprio insisti, allora vattene e non tornare prima di avere dato alla luce il bambino”. Dopo avere partorito la donna tornò con il neonato avvolto in un pezzo di stoffa e disse: “Questo e il figlio che ho dato alla luce”. E Maometto: “Vattene e allattalo fin quando non l’avrai svezzato”. Una volta svezzato il bambino, ella tornò da lui […] e disse: “Apostolo di Allah, ecco mio figlio. L’ho svezzato e ora è in grado di mangiare”. A quel punto il Santo Profeta affidò il bambino a uno dei musulmani e pronunciò la condanna. La donna fu messa in una fossa che le arrivava al petto e Maometto ordinò al suoi uomini di lapidarla. Halid ‘Ibn Walid si fece avanti e le tiro una pietra sulla testa. Il sangue schizzo sul volto di Halid cd egli allora abusò di lei. L’apostolo di Allah sentì la maledizione scagliata su di lei da Halid e disse: “Halid, sii gentile. In nome di Colui che ha nelle Sue Mani la mia vita, il pentimento di questa donna è tale che sarebbe stata perdonata persino se fosse un esattore della tasse disonesto”. Date quindi istruzioni su cosa fare di lei, si mise a pregare e la donna venne seppellita.” Hadith – Sahih Muslim, vol. 3, libro 17, n. 4206
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna.” – Giovanni 3,16
“Allah ha comprato dai credenti le loro persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi. Promessa autentica per Lui vincolante.” – Corano IX, 111
“Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno.” – Matteo 26,52
“Sappiate che il Paradiso è all’ombra delle spade (jihad in nome di Allah).” – Hadith – al-Bukari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 4, libro 56, n. 2818
“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perche saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.” – Matteo 5,8-10
“Coiui che partecipi (alle guerre sante) in nome di Allah, e che non lo faccia per nessun’altra ragione che non sia la fede in Allah e nei suoi messaggeri, sarà ricompensato da Allah o con un ricco bottino (qualora sopravviva) o con l’ingresso in Paradiso (nel caso muoia da martire in battaglia).” – Hadith – Al-Bukhari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 1, libro 2, n. 36.
“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. […] Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” – Matteo 5,7; 46-47
“Maometto è il Messaggero di Allah e quanti sono con lui sono duri con i miscredenti e compassionevoli fra loro.” – Corano XLVIII, 29
Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio.” – Giovanni 16,2
“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati.” – Corano IX, 29
“Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” – Marco 13,13
“Avete avuto un bell’esempio in Abramo e in coloro che erano con lui, quando dissero alla loro gente: “Noi ci dissociamo da voi e da quel che adorate all’infuori di Allah: vi rinneghiamo. Tra noi e voi è sorta inimicizia e odio [che continueranno] ininterrotti, finché non crederete in Allah” – Corano LX, 4
“Allora quelli che eran con lui, vedendo cio che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì.” – Luca 22,49-51
“Secondo ‘Abù Qilaba, Anan disse: “Alcuni uomini di ‘Ukl e di ‘Uraina vennero a Medina, ma poiché il clima della regione non si confaceva loro essi si ammalarono. Allora uccisero il pastore che accudiva le bestie del Profeta e portarono via tutti i cammelli. Quando al mattino presto la notizia giunse alle orecchie di Maometto egli ordinò ai suoi [uomini] di inseguire i ladri, che a mezzogiorno erano già stati catturati e riportati indietro. Allora il Profeta diede disposizioni di amputare loro le mani e i piedi (e questo fu fatto). Quindi gli vennero bruciati gli occhi con dei pezzi di ferro incandescente. Dopodiché furono portati ad Al-Harra e quando chiesero dell’acqua non gli venne concessa”. ‘Abu Qilaba aggiunse: “Questi uomini rubarono, uccisero, tornarono a essere infedeli dopo avere abbracciato l’lslam e si opposero al volere di Allah e del Suo Messaggero”. – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. vol. 1, libro 4, n. 234
“Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto.” – Giovanni 18,36
“Ho ricevuto (da Allah) l’ordine di combattere contro gli infedeli finché non testimonieranno che non vi è altro dio al di fuori di Allah e che Maometto è il Suo Messaggero.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. Vol. 1, libro 2, n. 25
Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.” – Luca 6,35
“I credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia nei loro confronti.” – Corano III, 28
“Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi”. – Matteo 10,14
“Chiunque lasci il credo islamico per convertirsi a un’altra religione merita la morte.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 4, libro 52, n. 260.
“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro [tutti gli uomini]: questa infatti è la Legge ed i Profeti.” – Matteo 7, 12
“Nessuno di voi avrà fede finché non farà per il suo fratello (musulmano) ciò che fa per se stesso.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 1, libro 2, n. 13
GUERRA DI RELIGIONE CONTRO LA RELIGIONE.
Da sempre la laica massoneria ha cercato di estromettere il cristianesimo dall’Europa per prenderne il suo posto di guida spirituale ed instaurare il potere temporale. Oggi la sua creatura, il Comunismo, usa la guerra di religione attraverso il terrorismo islamico e l’invasione dei mussulmani nelle terre del loro nord, per cancellare la Religione millenaria, fondamento della cultura occidentale, trovando la flebile opposizione dei comunisti clericali locali.
Terrorismo, qualcosa non torna…scrive Diego Fusaro su "Il Fatto Quotidiano" il 26 luglio 2016. Stragi su stragi. Senza tregua. Quasi una al giorno, ormai. Chissà perché, poi, questi orrendi attentati si abbattono sempre nei luoghi pubblici facendo strage di povera gente, di persone comuni, lavoratori e disoccupati, ragazzi e studenti. Mai una volta – avete notato? – che l’ira delirante dei terroristi si abbatta nei luoghi del potere e della finanza. Mai. Mai un signore della finanza colpito, mai uno statista, mai un “pezzo grosso” dell’Occidente. Strano, davvero, che i pazzi alfieri del terrorismo, che in teoria – si dice – avrebbero dichiarato guerra all’Occidente non prendano di mira chi l’Occidente davvero lo governa. Se non ci dicessero un giorno sì e l’altro pure che il terrorismo islamico ha dichiarato guerra all’Occidente si avrebbe quasi l’impressione che si tratti di una guerra di classe – gestita poi da chi? – contro lavoratori, disoccupati, classi disagiate: una lotta di classe tremenda, ordita per tenere a bada i dominati, per tenerli sotto tensione, proprio ora che, mentre stanno perdendo tutto, iniziano a sollevarsi (è il caso della Francia della “loi travail”, uno dei Paesi più colpiti dal terrorismo). E intanto, a reti unificate, ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano permanente dell’economia di mercato. Ci fanno credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, il fautore delle “riforme” che uccidono il mondo del lavoro: il conflitto Servo-Signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Nell’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo, quali ne siano gli agenti, è un’arma nelle mani dei potenti: fa il loro interesse. E lo fa per più ragioni. Intanto, perché frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (Islamici vs Cristiani, Orientali vs Occidentali): lo “scontro di civiltà” di Huntington va a occultare la “lotta di classe di Marx”. Il tutto condito con le tirate à la Fallaci. In secondo luogo perché attiva il paradigma securitario, modello “Patriot Act” Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Et voilà, il gioco è fatto. In terzo luogo, si crea adesione al partito unico della produzione capitalistica anche in chi avrebbe solo motivi per contestarla: l’Occidente “buono” contro l’Oriente cattivo e terrorista. In quarto luogo, si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre in nome del terrore, come fu in Afghanistan (2001) e non molto fa con i bombardamenti in Siria. Il terrorismo diventa una “opportunità” - sit venia verbo – per guerre di aggressione imperialistiche. Questo lo scenario. V’è poco da stare allegri. Ma è meglio essere informati, se non altro.
Guerre di religione, guerra alla religione, scrive “Tempi” il 7 Aprile 2016. «L’Occidente è troppo preso dalla sua guerra interna alla religione per occuparsi delle guerre di religione in Siria o in Nigeria». Presentato il VII Rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo. Articolo tratto dall’Osservatore romano – «L’Europa ha un’intrinseca debolezza che la rende incapace di vedere la sfida in atto. Questa sua debolezza nei confronti del problema delle nuove guerre di religione deriva dall’aver dichiarato guerra alla religione e alla religione cristiana in particolare». L’arcivescovo-vescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, sintetizza così il dato centrale del settimo Rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo, realizzato dall’Osservatorio cardinale Van Thuân in collaborazione con il Movimento cristiano lavoratori, presentato ieri a Roma. Già nel suo titolo — «Guerre di religione, guerra alla religione» — è ben evidente l’elemento caratterizzante delle oltre duecento pagine di documentazione che passano in rassegna i fatti avvenuti nel mondo — l’anno preso in considerazione è il 2014 — evidenziando anche i principali cambiamenti geopolitici e economici, prestando attenzione all’azione della Santa Sede e al magistero sociale di Papa Francesco. «Le guerre alla religione e la guerra alla religione, secondo noi, caratterizzano il momento presente. Avremmo voluto essere smentiti dai fatti. Avremmo voluto aver sbagliato titolo. Ma i gravissimi attentati di Bruxelles hanno, purtroppo, confermato che avevamo visto giusto. Non è una conferma gradita. Ma la realtà si impone con una sua propria forza», ha aggiunto Crepaldi. Gli atti di violenza e di persecuzione messi in atto da Boko Haram in Nigeria, la violenza jiadhista in Medio oriente e in Africa, uniti ad altri innumerevoli fatti di cronaca, accaduti nei vari continenti lungo tutto il 2014, attestano che è in corso un ritorno delle guerre di religione. «Rimane indubbio che oggi, in questi casi acuti, il fattore religioso è quello che fa da sintesi a tutti gli altri», sostiene il direttore dell’Osservatorio, Stefano Fontana, per il quale non si è davanti a una «guerra dichiarata, convenzionale, con uso di armi e strategie militari. È un conflitto, una lotta tramite leggi, licenziamenti, intimidazioni, uso dei media, destinazione di ingenti risorse alla propaganda contro la religione cattolica e i suoi presupposti». Infatti, mentre «le guerre di religione sono dislocate nelle aree caratterizzate dai califfati» esiste una guerra alla religione «attuata soprattutto nell’Occidente e, in particolare, in Europa». In questo senso, ha aggiunto «l’Occidente è troppo preso dalla sua guerra interna alla religione per potersi occupare delle guerre di religione in Siria o in Nigeria. È troppo preoccupato di recidere i propri legami con la religione proclamando l’indifferenza alle religioni, indebolendosi e rendendosi non più capace di difendere nel mondo nemmeno il diritto alla libertà di religione, che in un certo senso è una sua creazione».
Con l’islam è guerra di religione. Mentre l’occidente si balocca fra tenerezze, cecità e nevrosi secolari, i seguaci di Maometto praticano l’epica del jihad, zittiscono papi e ci decollano. L’unica risposta è in una violenza incomparabilmente superiore, scrive Giuliano Ferrara il 5 Settembre 2014 su “Il Foglio”. Mentre nella Serenissima si baloccano con il poetico, quanto di meno cinematografico esista al mondo, in medio oriente subiamo lezioni di epica, cioè narrazione e trasfigurazione, fondamento mitico della realtà. Tenerezza e misericordia a occidente, più nevrosi leopardiane e pasoliniane; giustizia e violenza purificatrice a oriente, più sesso, matrimonio, figli e coltelli seghettati: questo è il luogo globale in cui europei e americani vivono senza volerlo sapere, e pattuglie di avanguardia passano nel campo di Agramante dove la Discordia è un modo di fare la guerra, non necessariamente di perderla. Ogni modello di vita (quando non si intenda un lifestyle) è in nome di Dio, lo si riconosca oppure no. Il nostro Dio è incarnato, crocifisso, umile e grande, e noi lo abbiamo per giunta abbandonato per la fitness; ci si oppone un Dio che è profezia, è mistica, è politica, è scisma, il Dio degli infedeli d’antan (non noi ma i Saracini), un Dio che nessuno di loro abbandona, non i cosiddetti moderati, non i sauditi wahabiti, non gli sciiti, non i sunniti califfali, non i “laici” e i Fratelli (si ammazzano per decidere come ammazzarci, al massimo). Guerra al terrore o al terrorismo va bene, se è per il marketing politico, ma nella definizione, peraltro respinta dai riluttanti e dagli umanitari in quanto espressione bellicista, sta un equivoco colossale. Noi l’avevamo sospettato, e lo gridammo come atroce verità quando pubblicammo come un Caravaggio la testa mozzata di Nick Berg o raccontammo la storia di Daniel Pearl, decollati entrambi in nome del Misericordioso, ma è un sospetto scorretto, una verità intollerabile: è questa una guerra di religione, della cui ferocia ultimativa e coesiva, appunto religiosa, solo un fronte è consapevole, il loro. La madre dell’ultimo reporter ucciso in nome della giustizia divina si dice convinta che l’islam è stato tradito quando su ordine di un Califfo uno sgherro occidentale tutto vestito di nero, stufo probabilmente di fare il dj, ha impugnato la lama e ha tolto dal busto il collo di un figliolo d’occidente, e niente è proibito a una madre addolorata e trafitta senza pietà nell’amore che solo è suo. Ma non è così, lo sappiamo. E’ ideologico esorcizzare il rito del nemico, provarsi a diminuirlo, essere ciechi di fronte alla sua caratura feroce di bene in cui si specchia il nostro impietoso male. Bernardo Valli continua a insinuare analiticamente, ché l’analisi minuziosa e imparziale è spesso la maschera del pregiudizio ideologico contemporaneo, che tutto derivi dall’errore di George W. Bush, Cheney e Rumsfeld, che i nostri nemici li abbiamo creati sciaguratamente noi, che il Baath iracheno era laico e ora i suoi generali sconfitti militano con lo stato islamico per nostra responsabilità, che il campo profetico maomettano non è fatto di nemici in nome di Dio ma di una “stragrande maggioranza” di amici nostri che vorrebbero non il Califfo ma un qualche dialogo interreligioso. La buona intenzione c’è tutta, per un commentatore corretto e di sinistra, ma non è così, lo sappiamo. Piacerebbe a tutti noi poter pensare che il patibolo nel deserto sia una macabra messinscena, uno spettacolo di violenza demenziale e cieca, invece è una rappresentazione corrusca, che lascia balenare un suo fuoco luminoso e insieme accecante. Con Hollywood e la televisione abbiamo sostituito l’epica con i supereroi, altra faccia dell’inconscio freudiano, ma la tremenda realtà dell’omicidio rituale, della morte inferta in nome di Dio, quando l’uomo si fa agnello e il lupo lo azzanna, quando l’angelo caduto si fa vivo in questo mondo, supera la nostra immaginazione agnostica, il nostro benedetto spessore liberale e commerciale, e taglia tutti i ponti. E’ un crudele gioco di intimidazione in cui la palma della vittoria in battaglia è già conquistata dall’islam, la religione che ha tappato la bocca a un Papa di Roma, che ha reso riluttante e timido un potere imperiale e internazionalista come quello americano. So di dire qualcosa di sconcertante, ma non si risponde a questa altezza di sfida e a questa brutalità santificante con lo stato di diritto, con un’idea di polizia internazionale, con la denuncia della violenza; l’unica risposta è in una violenza incomparabilmente superiore.
Ci ammazzano ovunque! Coraggio! Svegliamoci! Scrive Nino Spirlì il 19 luglio 2016 su “Il Giornale”. (Dopo Nizza, le asce sui treni tedeschi, le coltellate alla mamma e alle tre bambine in Francia, dopo troppi morti…) Basta! Siamo ridicoli, grotteschi. Stiamo facendoci ridere dietro da tutto l’islam: quello sanguinario di daesh e compagnia, quello miliardario dei grattacieli degli emiri e soci, quello bugiardo e falso che si sta insinuando nelle nostre città, nelle nostre case, nelle nostre famiglie. Bugiardo e falso, complice di tutti questi assassini che sgozzano, accoltellano, bombardano, investono, stuprano, seviziano noi, le nostre donne, i nostri uomini, i nostri figli, i nostri vecchi. Basta! Basta con questa maledetta sete di denaro che ci sta trasformando in anfitrioni coglionazzi, destinati al martirio. Basta con le navi militari che vanno a prelevare maledetti assassini in mezzo al mare e li sbarcano dietro l’angolo di casa nostra. Basta! Basta coi penosi governanti che ci bacchettano e ci rimproverano come fossimo ragazzini immaturi, mentre abbracciano come fratelli questi maledetti da Dio e dagli Uomini. Basta con la pazienza, con la compassione, con l’accoglienza, con l’amicizia. Basta con la pietà. Basta! Basta con questa stupida, schifosa disponibilità fino al masochismo. Fino al martirio! Questi ci ammazzano ovunque! In casa, in treno, in albergo, in strada, al mercato, nella metropolitana, in aeroporto e stazione ferroviaria, di giorno, di notte. Non hanno pietà per nessuno. Neanche per i nostri bambini! Si divertono a seminare il terrore. A spaventare i più deboli fra noi. Basta! Non esiste MODERAZIONE fra loro. Sono tutti uguali. Ci odiano e basta. E quando ci accarezzano, stanno prendendo le misure per tagliarci la gola. Ormai è provato! Giorno dopo giorno! E noi? Rispondiamo ancora alla loro violenza con una codardia orrenda! Non sembriamo i figli di quegli Eroi che hanno attraversato gli oceani, valicato le montagne più alte del mondo, conquistato i cieli. Siamo diventati dei rammolliti che vanno a cercare fantasmini col cellulare, porco giuda, mentre questi bastardi ci stanno decimando! Basta! Siamo i figli dei Romani, dei Crociati, dei Carbonari, dei Mille, dei Briganti, dei Patrioti, dei Cavalieri di Vittorio Veneto, degli Eroi di El Alamein. Siamo quelli che hanno sconfitto il terrorismo degli anni di piombo. Siamo dei combattenti per destino! E se fra noi c’è ancora feccia mafiosa e malapolitica massona, noi, gli ITALIANI, restiamo bella gente. Gioiosa e laboriosa. Nonostante le ombre del Palazzo stiano cercando di impoverirci, renderci schiavi, tristi e pappamolle. Svegliamoci! Chiudiamo questa partita! Basta buone maniere e basta ospitalità. Diventiamo rudi e maleducati. Rendiamogliela dura, questa loro vita da invasori. Che se ne vadano via. Che tornino a casa loro. Nei loro deserti dell’anima. Alziamoli, questi muri! In nome della Libertà. Della Gioia. Della Fede. Fra me e Voi.
Il gesto eroico di padre Jacques: "Non si è inginocchiato". Dopo l'orrore nella chiesa di Rouen emergono nuovi dettagli sulla morte del prete 86enne sgozzato da due jihadisti: cosa ha fatto il prete, scrive Claudio Torre, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". Dopo l'orrore nella chiesa di Rouen emergono nuovi dettagli sulla morte del prete 86enne sgozzato da due jihadisti. A quanto pare il prete prima che venisse sgozzato ha cercato di difendere la sua chiesa. Non si è piegato al diktat dei due islamici e si è rifiutato di inginocchiarsi. Un gesto che di certo segna la drammaticità di quegli attimi. La consapevolezza di morire e il rifiuto di soccombere davanti ai due assassini. A raccontare il retroscena è stata suor Danielle che ha assistito alla scena senza che i due jihadisti si accorgerserro della sua presenza. “Sembravano invasati” ha raccontato suor Danielle. “Gridavano Daesh, Daesh o anche Allah Akbar”. “Volevano che Padre Jacques si inginocchiasse, giravano attorno all’altare facendo una specie di proclama islamico, in arabo. Tutti gridavano. “Fermatevi, non sapete cosa state facendo”. “E’ una follia”. Ma i due avevano i coltelli e minacciavano tutti”. Poi quella richiesta al prete: “Inginocchiati”, avrebbero detto al prete. “Padre Jacques non ha voluto inginocchiarsi, ha resistito e credo che tutto sia degenerato in quel momento”. Così uno dei due ha sgozzato il prete. “Tutti urlavano, i fedeli inorriditi e anche i due invasati. “Fermatevi, fermatevi”. Io ero vicina alla porta, nessuno mi guardava”. Padre Jaques si deve essere accasciato perché la suora racconta che “quello del coltello si era chinato per raccoglierlo. L’altro stava riprendendosi mentre pregava in arabo davanti all’altare. Una barbarie. Ed è stato allora che sono corsa fuori senza che nessuno se ne accorgesse”.
Mancava la chiesa: Eurabia avanza…scrive Giampaolo Rossi il 26 luglio 2016 su “Il Giornale”. L’hanno sgozzato mentre celebrava l’Eucaristia: “fonte e culmine di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium). Il Mistero profondo e vitale del percorso di salvezza concesso ad ognuno di noi. Il Dio che facendosi uomo è risorto, suscitando “scandalo e stoltezza”, si è offerto nella sua carne e nel suo sangue. Il cristianesimo è l’unica religione in cui un Dio si sacrifica per l’uomo e non il contrario; per questo un uomo sacrificato in nome di Dio, per un cristiano è una bestemmia. L’anziano prete sgozzato a Rouen è un martire cristiano nel cuore dell’Europa, in quella Francia che ha difeso per secoli la cristianità nel mondo. In questi anni siamo stati abituati ad ascoltare distratti le storie orribili delle persecuzioni anti-cristiane nel mondo; di cristiani uccisi, costretti alla fuga, torturati per la loro fede, quasi sempre ad opera di islamici; cristiani nascosti nelle nuove catacombe del mondo moderno; cristiani che sono morti per non rinnegare Gesù e cristiani che combattono per difendere la loro libertà. Ora i cristiani sono in pericolo anche in Europa. Da mesi i servizi di sicurezza francesi si aspettavano attacchi alle chiese cristiane. Lo scorso anno ne furono sventati ben quattro di cui due indirizzati alla Basilica del Sacro Cuore a Parigi. L’attentato alla chiesa di Saint-Étienne du Rouvray non è tra quelli più cruenti. La Francia e l’Europa, negli ultimi anni, hanno visto scorrere molto più sangue e molto più orrore per la violenza islamista. La periferia di Rouen è un brulicare di islamisti. Il prefetto di Seine Maritime (il dipartimento della Normandia cui appartiene la città) ha stimato ben 140 persone identificate come radicali islamisti, di cui 30 sorvegliati speciali. Uno degli assassini del sacerdote era tornato dalla Siria. Uno dei decapitatori dei 18 prigionieri siriani a Palmira era un cittadino francese di Rouen. L’assalto di Rouen è un punto di non ritorno nella strategia islamista. Per la prima volta viene attaccata una chiesa in Europa, ed uccisi dei cristiani non perché “occidentali” ma proprio perché cristiani praticanti. Fino ad ora erano stati attaccati i simboli dell’Occidente laico: concerti, feste di piazza, giornali satirici, supermercati, metropolitane, stazioni. Ora il messaggio a noi è chiaro: “porteremo la persecuzione dei cristiani in Europa. Diventerete come il Pakistan, come la Nigeria, come la Siria sotto il controllo di Daesh”. Eurabia sta prendendo forma. I padroni dell’informazione assoldati da un potere di incapaci, possono continuare a dissimulare il problema, a cercare di manipolare la verità raccontandoci che siamo in balìa di un’epidemia di malati mentali travestiti da jihadisti. I veri malati mentali sono coloro che continuano a negare che l’Islam in Europa sia un pericolo per tutti noi.
Islam? Macchè! Depressione, squilibrio, emorroidi, colite: il terrorismo dei buonisti, scrive Emanuele Ricucci il 26 luglio 2016 su "Il Giornale". Nel migliore dei mondi possibili, l’odio si combatte col Prozac, l’ingiustizia col Maalox, la povertà con il Guttalax e il male con latte e miele e un bel po’ di riposo. Gli squilibrati francesi – direttamente dall’Ansa -. I depressi tedeschi. Quelli con le emorroidi di Charlie Hebdo. Quelli tristi del Bataclan. I malati di solitudine perché la moglie balla salsa e merengue il giovedì sera, dell’aeroporto. L’angosciato con l’alluce valgo di Nizza. Questo sarebbe terrorismo? No, questo è il parco giochi della deficienza occidentale. Ognuno di loro, un’arma, una modalità, un massacro, una patologia. Un solo denominatore comune: l’Islam. Strano!? Nonostante sia ben chiara la derivazione della morte, il movente, il grido di battaglia di quella parte marcia, putrida dell’umanità e dell’Islam, i media occidentali, i regnanti sul trono d’Europa negano, illudono, sognano: mai l’Islam armò la mano di qualcuno; erano solo poveri scemi. Poveri scemi armati e pericolosissimi, nati, vissuti e cresciuti nel caldo ventre europeo, arrestati e rilasciati, sospettati e furtivi. Vicini ma lontani. Di cosa si tratta: di una truffa? Di una presa in giro? Negazionisti ad occhi aperti, autolesionisti che ci sentono benissimo. Sentono Allahu Akbar, sentono le parole di rivendicazione dell’Isis. Sentono le sirene correre e i colpi partire dalla canna Beretta. Allora, mettete del Prozac nei vostri cannoni! Vuoi vedere che alla fine, gira, gira, è tutta colpa dell’Occidente? L’Occidente che marginalizza i depressi, i tristi e gli affetti da emorroidi è responsabile unico del terrorismo. Stress post traumatico, ansia, depressione. Sono questi i disturbi psicologici più diffusi tra i migranti. A registrarli un rapporto di Medici senza Frontiere, a riportarlo IlFattoQuotidiano – che da quando verrà legalizzata l’erba sarà il giornale più letto… -. Di chi è la colpa del terrorismo incontrollato? Dell’occidente che marginalizza chi ha problemi psicologici, di depressione, di tristezza, di emorroidi e di alluce valgo, finanche di colite spastica. Loro, frustrati, schizzati, ghettizzati, scaricano armata la rabbia, come i brigatisti in rivoluzione, come i popolani del Verga, si riprendono il loro spazio, uscendo dalla fogna della vita nelle periferie occidentali, fomentati dai movimenti xenofobi della destra europea, nel tentativo di restaurare il potere dei Visigoti e di screditare il pacifico mondo islamico, tradizione e identità sorella e millenaria. Vuoi vedere che alla fine, gira, gira…Come ci si può nascondere dietro alla scusa più stupidamente idiota, inguattarsi indegni e vigliacchi quando il sangue europeo ricopre il pavimento dei luoghi della nostra quotidianità? Come si può sminuire il peso incredibile che un attentato al giorno sta portando nelle nostre anime? Ancora in cerca di integrazione o vogliosi di sostituzione? Paura di aver fallito il grande disegno del progresso? Viene da pensare che l’Islam non lo integri. Né nel 1096, né nel 2016. Che tu sia Goffredo di Buglione, figurarsi Matteo Renzi o François Hollande. Non l’individuo di buon senso, ma la legge coranica. Non il fedele in buonafede ma l’Islam che non parla la tua lingua millenaria. C’è sempre stato un motivo se nel globo siamo stati e siamo vicini e non coinquilini. L’obbligo alla mescolanza è una rovina. È scritto tra le pagine della nostra secolare identità. Non ci riuscirono gli uomini saggi che ci hanno preceduto. Figurarsi oggi. Da Dante al crollo dell’impero romano, fino alle guerre d’occidente, nello stretto confine: ogni evento ce lo strilla ad alta voce. La storia ce lo grida. E quando gli uomini in ogni loro futuro, ignorano la storia, vanno quasi sempre a sfasciarsi contro il muro della presunzione. Gli uomini cooperano seppur diversi per tendersi una mano, non per annullarsi. Insomma, per dirla con Mentana: “La situazione si deteriora, ma qualcuno continua a darne una lettura minimalista, quasi surreale. A leggere alcuni commenti sembra che la causa prima degli attentati più che lo Stato Islamico sia lo Stato Depressivo. Vogliono sconfiggere il terrorismo col Prozac”.
Idioti utili dell’occidentalismo, scrive Sebastiano Caputo il 27 luglio 2016 su “Il Giornale”. Viene colpita nuovamente la Francia, questa volta la città di Rouen. A pagare con la vita è stato un prete cattolico. Sulla lama insanguinata c’è ancora stampato il marchio di Daesh, un’organizzazione che dopo un anno e mezzo continua a bazzicare liberamente in Siraq perché da parte delle cancellerie occidentali non c’è mai stata la volontà politica di sconfiggerla. Anzi, storicamente queste hanno fatto di tutto per accrescere il suo peso geopolitico (combattendo il governo siriano di Assad) ed ingrassare il suo esercito (tra foreign fighters, commercio di armi e petrolio). Ora però che è stato colpito un simbolo della cristianità, improvvisamente, insorgono i “difensori della civiltà” contro l’orda barbarica sedicente islamica. E’ curioso come lorsignori impugnino la croce solo adesso, paradossalmente proprio in Francia e a difesa della “Francia cattolica” che cattolica non lo è più da un pezzo. Ma quale “fille ainée de l’Eglise” (figlia maggiore della Chiesa). Oltralpe la comunità cristiana è una minoranza da più di due secoli. Questi nostalgici di Lepanto dovrebbero leggersi Maurras e Sorel. Ma piuttosto che percorrere il sentiero intellettuale più difficile, quello anti-illuminista, preferiscono la scorciatoia pigliatutto condita di slogan come “islamizzazione dell’Europa”, “Eurabia”, “invasione islamica”, “crociata al contrario”, bla bla bla. Bene, ora da cristiani non dobbiamo dare retta ai nuovi crociati che vogliono mandarci al camposanto contro il mondo islamico. E’ vero, è stato sgozzato Padre Jacques Hamel mentre celebrava l’eucaristia, ma non dimentichiamoci che proprio l’altro giorno, nel silenzio più totale, a Kabul sono morte 80 persone di religione sciita mentre qualche settimana fa c’è stata una strage di sunniti a Baghdad. Il terrorismo, al pari del laicismo, rifiuta il Sacro in tutte le sue forme. E, tra di noi, ricordiamocelo sempre: la teoria dello scontro di civiltà oltre ad essere un falso storico rappresenta una trappola mortifera. Chi scade in questa retorica di basso livello diventa un perfetto idiota utile dell’occidentalismo. Che nel frattempo già prepara un’altra guerra dall’altra parte del Mediterraneo dove ancora molti eserciti prevalentemente musulmani difendono la libertà religiosa delle comunità cristiane di Oriente.
"Più martiri ora che ai tempi di leoni e stragi". Monsignor Negri è in Polonia: "Il massacro di Rouen è stato un salto di qualità terribile", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". È a Cracovia per la giornata mondiale della gioventù, ma monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, segue con angoscia il massacro di Rouen. «Questa è una frattura gravissima nel tessuto sociale, questo è un salto di qualità terribile».
Eccellenza, siamo entrati in una fase ancora più cupa del terrore. Che cosa accadrà?
«Dobbiamo chiamare le cose con il loro nome e non fingere di avere a che fare soltanto con il disagio, l' emarginazione, la psiche che non funziona. Questo è il male che avanza, è un pensiero totalitario, è la contro civiltà e questi signori sono i figli delle tenebre, per usare un linguaggio evangelico».
Ma come si fronteggiano le tenebre che scendono sull'Europa?
«Mi lasci dire che questo sacerdote, ucciso mentre celebrava la Messa e il mistero di Cristo morto e risorto per noi, ha dominato i suoi dominatori proprio perché legato a Cristo che sconfigge il male. Certo, lo scenario che abbiamo davanti è terribile, temo che questi atti sciagurati ci accompagneranno a lungo».
È la fine del dialogo fra le religioni?
«Il problema è saper bilanciare carità e verità. Praticare la carità con tutti, ma senza dimenticare la verità. In questo senso tutti, i cristiani ancora di più, sono chiamati ad una grandissima responsabilità».
L'arcivescovo dosa con il contagocce le parole, poi indica un futuro scuro come la notte.
«Ci vuole la preghiera e ci vuole il coraggio della verità, ma non facciamoci illusioni».
Quali?
«Giovanni Paolo II ebbe una straordinaria intuizione ed elesse padre Massimiliano Kolbe, morto ad Auschwitz, a pochi chilometri da Cracovia, a rappresentante della Chiesa del terzo millennio. Capisce?».
Il totalitarismo che credevamo sconfitto viene avanti? Aggiornato nella sua versione islamista?
«Se la profezia di Giovanni Paolo ha un senso, allora persecuzione e martirio ci saranno compagni. I cristiani, come scrisse Claudio Chieffo in una sua memorabile canzone, sono i nuovi ebrei».
L'Italia e l'Europa hanno il dovere di difendersi?
«Non voglio aggiungere altro in questo clima di smemoratezza generale. Ma dobbiamo riflettere e chiedere aiuto alla Madonna su un punto decisivo e però dimenticato».
Quale?
«In questi anni in giro per il mondo ci sono stati più martiri che non nei primi tre secoli, quelli dei leoni e delle stragi. Questa è la realtà, ancora di più dopo Rouen».
Ora è guerra di religione Attaccano le chiese per colpire i nostri valori. L'attentato di ieri fa parte di una strategia precisa: conquistare Roma tramite il terrore, scrive Gian Micalessin, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". Chi vuole continuare a chiamarli pazzi o squilibrati è libero di farlo. Ma il vero pazzo, l'incapace d'intendere, volere e persino vedere è solo lui. Dopo l'assassinio rituale dell'84enne padre Jacques Hamel, sgozzato sull'altare di Saint-Etienne-du Rouvray, il bandolo della matassa è sotto gli occhi di tutti. Per capire il piano dei nostri nemici, per scorgerne ragioni e finalità basta seguirne la trama. S'inizia nel 2014 con le decapitazioni di ostaggi decise per fare a pezzi la risolutezza occidentale. Si continua nel 2015 con gli attacchi di Parigi e Bruxelles messi in atto per portare la paura nelle nostre case. Si finisce con un terrore nelle chiese che vuole spingerci a nascondere la nostra fede, a rinunciare alla nostra identità, a rinnegare i nostri valori. Che punta insomma a farci morire in ginocchio e a conquistarci definitivamente. Ma partiamo dall'inizio, partiamo dalla Siria. Lì tra agosto e ottobre 2014 «Jihadi John», un islamista cresciuto nei quartieri eleganti di Londra, fa rotolare le teste di James Foley, Steven Sotloff, David Haines ed Alan Henning. Lo sgozzamento, in meno di 45 giorni, di quattro ostaggi occidentali prigionieri dell'Isis da mesi, se non anni, ha un significato ben preciso. Con quella raffica d'esecuzioni lo Stato Islamico vuole seminare la paura nei cuori occidentali, convincere gli americani e i loro alleati che hanno appena iniziato a bombardare l'Irak a starsene alla larga. Sono esecuzioni basate sulla certezza di fronteggiare un nemico debole e pusillanime. Esecuzioni rivolte non tanto a far smettere dei raid aerei a cui l'Isis sa di poter sopravvivere, ma a convincerci a non mandare forze di terra, a non combattere il nemico faccia a faccia, a non scegliere l'unica forma possibile di guerra al terrorismo. Quell'errore capitale, quell'arretramento innegabile rispetto alle decisioni assunte dopo l'11 settembre quando si diede la caccia ad Al Qaida nel cuore dell'Afghanistan regala all'Isis la certezza di poter compiere un altro passo avanti, spingendolo a portare il terrore nelle nostre città. Con gli attentati di Parigi e Bruxelles lo Stato Islamico trasferisce la prima linea nel cuore dell'Occidente. E noi ancora una volta non sappiamo far di meglio che chinar la testa e fare un altro passo indietro. Quando, in quei giorni, rinunciamo a chiamare i nostri nemici «islamici», seppur «estremisti», seppur «fanatici», perdiamo la capacità di far notare la differenza tra noi e loro. La differenza tra chi giustifica odio e violenza con la parole di un Profeta che consentono di praticarli e chi - come noi - s'identifica nei principi ben diversi del Cristianesimo. Ma dopo l'assassinio sull'altare di ieri il piano è già ad una tappa successiva. E non è una tappa segreta. Il primo luglio 2014 - quando proclama il Califfato in una moschea di Mosul - Abu Bakr Al Baghdadi lo spiega esplicitamente «La prossima mossa annuncia quel giorno l'autoproclamato Califfo - sarà la conquista di Roma». La conquista di Roma, ovvero la distruzione dell'identità cristiana ed europea, passa obbligatoriamente dalle chiese. Dopo averci spinti a chiuderci in casa e a muoverci tremanti nelle nostre città, dopo averci intimorito fino renderci incapaci di chiamare il nostro nemico con il suo nome il Califfo punta ad allontanarci dai simboli della fede trasformandoli in luoghi del terrore. I suoi sgherri sono già al lavoro. E lo sgozzamento di padre Jacques Hamel non è neppure il primo colpo. Il 19 aprile del 2015 l'Isis c'aveva provato a Villejuif, sempre in Francia. Lì il 25enne Sid Ahmed Ghlam, un suo militante algerino, sognava di falciare a colpi di kalashnikov i fedeli in uscita da due chiese cattoliche. Non ci riuscì soltanto perché due colpi partiti accidentalmente gli trapassarono una coscia. Ma il piano c'è ed è ben chiaro. Non appena le chiese saranno vuote, non appena la maggior parte dei fedeli avranno rinunciato a frequentarle e a dirsi cristiani la conquista di Roma potrà dirsi compiuta.
La "crociata" anti cristiana: bruciate 200 chiese al mese. Sono 150 milioni i perseguitati. E il fondamentalismo islamico è la prima causa dell'oppressione. Antonio Tajani: "È necessario che l'Occidente rompa il silenzio", scrive Anna Maria Greco, Mercoledì 02/12/2015, su "Il Giornale". Se c'è una musica che può rappresentare la persecuzione dei cristiani nel mondo è quella della cantante gospel eritrea Helen Berhane, che per la sua fede evangelica nel 2004 è stata torturata e rinchiusa in un container di metallo per 30 lunghi mesi, dopo aver registrato uno dei suoi album.Era a Bruxelles ieri, Helen, alla conferenza sul tema «Persecuzione dei cristiani nel mondo», organizzata dal primo vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani. I dati sono agghiaccianti: oltre 150 milioni di credenti perseguitati, 200 chiese assaltate e distrutte ogni mese, più del 70 per cento dei cristiani fuggito dall'Iraq dal 2003; in Siria, dal 2011, 700mila cristiani costretti ad abbandonare le loro case dall'inizio della guerra civile. «Ogni giorno - spiega Tajani- e in ogni regione del pianeta, si registrano nuovi casi di persecuzione nei confronti dei cristiani. Nessun'altra comunità religiosa è oggetto di odio, violenza e aggressione sistematica quanto quella dei cristiani». Il fondamentalismo islamico è indubbiamente la prima causa di persecuzione e pesa molto «l'identificazione dei cristiani con l'Occidente», perché portatori di valori dal carattere universalistico che stanno alla base delle democrazie moderne. «Per i fondamentalisti islamici - dice il vicepresidente - i cristiani sono i nuovi crociati d'Europa. I loro valori sfidano regimi dittatoriali, come nel caso della Nord Corea, o sistemi politici autoritari».Eppure di fronte a questa diffusa persecuzione, che pochi giorni fa anche il Papa in viaggio in Africa ha ricordato commemorando i martiri ugandesi, si registra una scarsa percezione del fenomeno e l'assenza di reazioni proporzionate. «È necessario che l'Occidente rompa il silenzio - esorta Tajani-. Vivere in democrazie laiche non vuol dire escludere le religioni dalla società. L'Europa deve farsi promotrice di un modello di società da contrapporre al radicalismo religioso e a progetti brutali e criminali, come quello di creare un califfato islamico in Iraq e Siria che estenda poi i suoi tentacoli fino alla Libia». Tajani ricorda a questo punto le radici giudaico-cristiane dell'identità comune europea. «Ci dobbiamo scuotere - concorda il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz- perché anche nel nostro continente i cristiani non sono sicuri. Ma l'oppressione ha luogo fuori dall'Europa, e quindi c'è poca consapevolezza». Schulz garantisce che per arginare il fenomeno «il Parlamento europeo, nei limiti del possibile, farà tutto il possibile». Perché «il dialogo sulla base del rispetto reciproco è la base della nostra collaborazione».L'intervento del presidente conclude il seminario, cui partecipano autorità civili e religiose, da Christopher Hill, presidente della Conferenza episcopale europea, a Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, da Paul Bhatti, fratello dell'unico ministro cristiano in Pakistan, ucciso in un attentato a Antony Gardner, ambasciatore Usa all'Ue. Non è solo una questione di Europa o non Europa, cristiani o non cristiani, in gioco c'è di più. Dice Scultz: «I diritti fondamentali oggi sono più minacciati che in passato, e bisogna dirlo. Includono anche la scelta religiosa e la possibilità di professarla in totale libertà. Oggi il gruppo più oppresso è quello dei cristiani, e questo perché non si è agito come si doveva».
I cristiani i più perseguitati. E l'islam «buono»? Non c'è. Ogni anno i martiri sono oltre 100mila. E guai a pregare per le vittime: rifiutato il permesso agli imam di Bruxelles, scrive Magdi Cristiano Allam, Martedì 29/03/2016, su "Il Giornale". Di fronte alla strage di oltre 70 bambini e madri in un parco giochi a Lahore, in Pakistan, dilaniati dall'esplosione di un terrorista islamico suicida mentre festeggiavano la Pasqua, Papa Francesco se la sente ancora di attribuirne la responsabilità ai trafficanti di armi? E la quinta colonna delle anime pie nostrane, dalla Mogherini alla Boldrini, da D'Alema a Vauro, sono sempre convinti che i terroristi islamici siano vittime dell'emarginazione sociale, di conseguenza sarebbe colpa nostra se loro sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, così come loro non avrebbero nulla a che fare con l'islam che, all'opposto, sarebbe una religione d'amore e di pace esattamente come il cristianesimo?Se è indubbio che i terroristi che hanno perpetrato le stragi di Bruxelles del 22 marzo ci odiano al punto da massacrarci indiscriminatamente perché ai loro occhi siamo tutti «miscredenti», ebbene dobbiamo prendere atto che anche il «Consiglio esecutivo islamico di Bruxelles», l'organo che rappresenta ufficialmente l'islam «moderato» presso le istituzioni, la pensa allo stesso modo, avendo rifiutato di consentire agli imam di celebrare nelle moschee della capitale del Belgio «una preghiera congiunta per le vittime della strage», sostenendo che le preghiere dei musulmani possono essere rivolte solo ai musulmani, perché solo i musulmani sarebbero «credenti», mentre tutti i non musulmani sono condannati in quanto «miscredenti». In particolare, è stato spiegato, che la prima Sura, o capitolo, del Corano, detta Al-Fatiha, L'Aprente, che viene ripetuta 17 volte nel corso delle 5 preghiere quotidiane obbligatorie, non può essere recitata per commemorare i «miscredenti». Ed hanno assolutamente ragione perché questa preghiera, di fatto il loro «Padre Nostro», si conclude con questa esortazione ad Allah: «Guidaci sulla retta via, la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nella tua ira, né di coloro che vagano nell'errore». Ebbene tutti i teologi islamici concordano sul fatto che «coloro che hai colmato di grazia» sono i musulmani, «coloro che sono incorsi nella tua ira» sono gli ebrei, «coloro che vagano nell'errore» sono i cristiani. Significa che tutti quelli che pregano, a prescindere dal fatto che noi li definiamo moderati, integralisti o terroristi, condannano tutti i giorni, 17 volte al giorno, gli ebrei e i cristiani quali miscredenti. La verità è che quando devono pronunciarsi su ciò che Allah prescrive nel Corano e su ciò che ha detto e ha fatto Maometto, i musulmani credenti e praticanti sono tutti uguali, perché il Corano è unico e Maometto è lo stesso. I musulmani possono assumere una posizione diversa, compatibile con le leggi laiche dello Stato e i valori che sostanziano la nostra civiltà, solo se antepongono la ragione e il cuore ad Allah e a Maometto. Di conseguenza i musulmani possono essere moderati come persone, ma l'islam non è moderato come religione.La verità è che i cristiani sono discriminati, perseguitati e massacrati dai musulmani da 1.400 anni, da quando Maometto sterminò, convertì con la violenza o sottomise come dhimmi, protetti, gli ebrei e i cristiani, che avevano salva la vita solo pagando una tassa, la jizya. La verità è che i cristiani sono i più perseguitati al mondo per la loro fede. Oggi su 100 persone che subiscono la violazione del diritto alla libertà religiosa, 75 sono cristiani. Ogni anno ci sono 105.000 nuovi martiri cristiani, un martire al minuto, ad opera di terroristi islamici, di fanatici indù in India, di regimi comunisti in Cina, Corea del Nord e Vietnam. Quante altre stragi di cristiani dovranno succedere prima che chi ci governa capisca che i terroristi islamici ci uccidono per il semplice fatto che siamo cristiani, che il terrorismo islamico è di natura aggressiva e non reattiva, che la persecuzione dei cristiani è una costante nella storia dell'islam perché Maometto stesso massacrò i cristiani e gli ebrei, così come Allah nel Corano legittima l'odio, la violenza e la morte nei confronti di tutti noi «miscredenti»?
Se si nega il legame tra terrore e Corano l'Occidente ha perso. Dalla Tunisia al Regno Unito non si ha il coraggio di dire che il libro sacro incita all'odio, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 26/07/2015, su "Il Giornale". Quanta ipocrisia e quanta irresponsabilità da parte di coloro che oggi si illudono di poter combattere e sconfiggere il terrorismo islamico negando che esso s'ispiri direttamente all'islam, che è l'applicazione letterale e integrale di ciò che Allah ha prescritto nel Corano e ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Due casi di questi ultimi giorni ci fanno comprendere come pur in presenza di una catastrofe nazionale e internazionale la paura di dire la verità sull'islam accomuna musulmani e cristiani, Oriente e Occidente. Ieri il Parlamento tunisino ha approvato una nuova legge contro il terrorismo che reintroduce la pena di morte, che persino l'odiatissimo dittatore laico Ben Ali aveva escluso nel 2003. Ebbene si è rasentata persino la comicità quando nel dibattito in aula, i parlamentari contrari alla pena di morte hanno sostenuto che si favorirebbero i terroristi perché la loro massima aspirazione è il «martirio», che pertanto la pena capitale non solo non rappresenterebbe un deterrente o una sanzione ma addirittura un incentivo al terrorismo islamico suicida. Intendiamoci: è vero, ma il punto è che nessuno ha osato spingersi oltre, spiegando che il «martirio» è pienamente legittimato da Allah nel Corano: «Allah ha comprato dai credenti le loro vite e i loro beni dando in cambio il Paradiso, poiché combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi» (9,111). «E non chiamare morti coloro che sono stati uccisi sulla via di Dio, anzi, vivi sono, nutriti di Grazia presso il Signore!» (3, 169). Così come, mentre da un lato la nuova legge condanna l'apostasia e l'incitamento all'odio come «crimini terroristici», ci si è ben guardati dall'indicare che le basi religiose sono contenute nel Corano: «Combattete coloro che non credono in Allah e nell'Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo e siano soggiogati» (9, 29). «La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi» (5, 33). Spostandoci in quest'Europa relativista e filo-islamica, ha fatto scalpore il discorso tenuto dal primo ministro britannico a Birmingham il 20 luglio, contro «l'estremismo», senza qualificarlo, senza mai usare l'espressione «terrorismo islamico». Cameron distingue tra l'islam e la «ideologia radicale». Solo dopo aver detto che «questa ideologia non è il vero islam», Cameron si spinge ad affermare che «negare il collegamento tra la religione dell'islam e gli estremisti non funziona, perché questi ultimi si auto-identificano come musulmani». Possiamo consolarci dicendo che Cameron ha fatto un passo in avanti, considerando che in passato lui stesso aveva sostenuto che i terroristi islamici non hanno nulla a che fare con l'islam. Ma se anche noi, in quest'Europa che è stata culla della libertà e della democrazia, siamo sopraffatti dalle medesime paure dei musulmani che vivono in paesi dove regna il terrore di una religione violenta e vendicativa, significa che siamo destinati ad essere sconfitti dai taglialingue islamici, i sedicenti «musulmani moderati» che hanno messo radici dentro casa nostra e ci impongono di non dire e di non fare nulla che possa urtare la loro suscettibilità. Oggi più che mai tocchiamo con mano come il destino dell'unica civiltà che esalta la vita, la dignità e la libertà sarà determinato dalla nostra capacità o meno di dire la verità sull'islam.
L'islam usa la spada non la ragione. Così Ratzinger ci aveva avvertiti. La lectio magistralis tenuta dall'allora Pontefice nel 2006 aveva squarciato il velo sulla vera natura del Corano Benedetto XVI fu accusato dalla stampa di islamofobia, ma dieci anni dopo le sue parole appaiono profetiche. Joseph Ratzinger – Riportato da “Il Giornale Mercoledì 27/07/2016 - Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis «Fede, ragione e università - Ricordi e riflessioni». L'orazione è stata tenuta da papa Benedetto XVI il 12 settembre 2006 all'università di Regensburg (Ratisbona) durante il suo viaggio apostolico in Baviera. Un discorso profetico nel quale il Pontefice toccava i temi del rapporto tra il cristianesimo e l'islam, parlando anche di jihad. Citando un teologo e la sua analisi di un dialogo tra un dignitario persiano e l'imperatore bizantino del XII-XIII secolo, si parla dell'«irrazionalità» della guerra di religione propugnata da Maometto. La lezione provocò molto clamore e scatenò dure polemiche nei confronti di Ratzinger, ma aprì uno squarcio sulla natura dei rapporti tra le due religioni e sulla vera essenza del Corano. Un documento che risulta ancora più attuale ed efficace.
"Illustri Signori, gentili Signore! È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell'Università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era nel 1959 ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. (...) L'Università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del «tutto» dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra Università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva. Di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'Università, era una convinzione indiscussa. Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non le risposte dell'erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le «tre Leggi»: Antico Testamento, Nuovo Testamento e Corano. Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento piuttosto marginale nella struttura del dialogo che, nel contesto del tema «fede e ragione», mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema. Nel settimo colloquio (controversia) edito dal professor Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihad (guerra santa). Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2,256 si legge: «Nessuna costrizione nelle cose di fede». È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il «Libro» e gli «increduli», egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». L'imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. «Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione (logos) è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte». L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. Theodore Khoury commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria. Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: «In principio era il verbo», ovvero il logos. È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola: una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di San Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (cfr At 16,6-10), questa visione può essere interpretata come una «condensazione» della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco. In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. (...) Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sono soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento - la «Settanta», realizzata in Alessandria - è più di una semplice (da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: non agire «con il logos» è contrario alla natura di Dio. Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore «sorpassa» la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-logos, per cui il culto cristiano è logike latreia, un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1). Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa. Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione del cristianesimo: una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra. La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati fondamentali della Riforma del XVI secolo. (...) Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il «sola Scriptura» invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà. La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. (...)Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ciò è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'Università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'Università. In sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle «critiche» di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. (...) Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina «scientifica», del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del «da dove» e del «verso dove», gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla «scienza» e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la «coscienza» soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo constatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione, patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente. Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell'incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l'ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco, un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell'Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura. Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l'opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell'illuminismo, rigettando le convinzioni dell'età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all'uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L'ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l'intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze. Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'Universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare, alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: «Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno». L'Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza: è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica entra nella disputa del tempo presente. «Non agire secondo ragione (con il logos) è contrario alla natura di Dio», ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'Università. Joseph Ratzinger, Regensburg, 12 settembre 2006
"Contro il genocidio dei cristiani è lecito usare la forza". Il Nunzio apostolico all'Onu: "La comunità internazionale deve difendere gli innocenti. E se dialogo ed embargo non bastano...", scrive Gian Micalessin, Domenica 05/04/2015, su "Il Giornale". «In alcuni casi non siamo più di fronte a semplici persecuzioni, ma ad un vero genocidio». Quando gli chiedi degli attacchi ai cristiani per mano di Stato Islamico e gruppi jihadisti l'arcivescovo Silvano Maria Tomasi, nunzio apostolico presso le Nazioni Unite di Ginevra, sfodera quella parola terribile. Una parola che riporta alla memoria stragi ancor più grandi. Ma secondo il nunzio che da un decennio denuncia la sistematica persecuzione delle comunità cristiane, solo questa parola rende appieno la sistematicità delle minacce alla fede di Cristo: «Secondo la Convenzione sui diritti umani del 1948 il genocidio è l'intenzione di eliminare un gruppo con un'identità etnica o religiosa precisa e questo - afferma Tomasi in quest'intervista esclusiva a Il Giornale - è quanto succede ai cristiani o agli yazidi perseguitati dallo Stato Islamico».
Per fermarlo si deve usare la forza?
«Uno Stato deve proteggere i propri cittadini. Se non è in grado di farlo spetta alla comunità internazionale impedire violenze ai danni d'innocenti. Questo principio del diritto internazionale - accettato e condiviso dalle Nazioni Unite - va esercitato solo in mancanza di altre opzioni. Una volta esperite tutte le possibilità, dall'embargo al blocco delle armi, all'isolamento internazionale, è lecito prevedere un uso della forza sanzionato dal Consiglio di Sicurezza. Deve però essere un uso accorto. Interventi sconsiderati rischiano di produrre danni maggiori».
L'Islam può esser considerato responsabile per alcune persecuzioni?
«La maggioranza degli stati islamici non perseguita chi non ne condivide la fede. In alcuni di questi i cristiani non sono però cittadini con uguali diritti e doveri. Questa differenza strutturale determina un esodo sistematico dei cristiani. Da una parte c'è, quindi, la struttura politica di alcune nazioni islamiche da cui deriva la discriminazione sistematica di chi non appartiene alla maggioranza religiosa. Dall'altra ci sono gli atti violenti di gruppi che usano la fede religiosa in maniera ideologica».
La persecuzione dei cristiani è una prerogativa islamista?
«Abbiamo situazioni molto difficili anche in alcuni stati indiani come il Gujarat. Lì gli induisti non accettano il pluralismo religioso e politico. In Cina ci sono ancora resistenze di fronte alla presenza di una Chiesa libera. In generale l'intolleranza verso i cristiani è sempre il riflesso di un'intolleranza più generale. Dove non si rispetta la libertà religiosa non vengono garantiti neppure gli altri diritti fondamentali».
Perché tanto odio per i cristiani?
«L'identità cristiana porta con se libertà, pensiero indipendente, razionalità e concretezze quotidiane che infastidiscono le realtà non democratiche. Nella tradizione cristiana le relazioni con gli altri si basano sul dialogo e sul rispetto della dignità altrui. Un modello unico di vita e pensiero mal si concilia con l'essere cristiano».
Il Papa parla di silenzio complice? A chi allude?
«In molti paesi Occidentali c'è la tendenza a tacere quando violenza e discriminazione colpiscono persone di fede religiosa. Come se i diritti di chi crede in Dio non fossero uguali a quelli di chi non ci crede. Quando in Libia lo Stato Islamico decapita 21 copti egiziani la stampa francese parla semplicemente di cittadini egiziani. Omettendo così di spiegare che sono stati uccisi per non aver rinunciato alla propria fede. Quando la violazione dei diritti umani colpisce la sfera religiosa c'è reticenza a difendere i diritti delle persone.
Cosa rischiamo?
«Rischiamo, come avverte Papa Francesco, che il silenzio generi tragedie ancor più grandi. E magari tra qualche anno dovremo chiederci perchè intere comunità sono state spazzate via senza che noi muovessimo un dito».
L' Europa sta rinnegando le proprie radici cristiane?
«Come diceva Padre Benedetto XVI l'identità religiosa rischia di venir sottomessa ad un laicismo anti religioso. Bisogna distinguere tra laicità intesa come terreno d'incontro di fedi diverse e il laicismo di chi mette al bando la dimensione religiosa. Da questa mentalità nasce l'indifferenza per i fedeli perseguitati».
Perché l'Occidente è schiavo dell'"islamicamente corretto". Sembra che la vera emergenza in Europa non sia il contrasto alla realtà del terrorismo, ma a chi denuncia l'islam, scrive Magdi Cristiano Allam, Venerdì 25/03/2016, su "Il Giornale". Anche nel dopo-Bruxelles, così come si era verificato nel dopo-Parigi, sembra che la vera emergenza in Europa non sia il contrasto alla realtà del terrorismo perpetrato ottemperando letteralmente a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto, ma il contrasto alla rappresentazione della realtà da parte di coloro che correttamente denunciano il «terrorismo islamico» e specificatamente l' «islam». Ebbene anche ora registriamo la mobilitazione delle istituzioni e dei governi europei, della Chiesa, dei grandi mezzi di comunicazione di massa per mettere a tacere, criminalizzare e sanzionare tutte le voci non sottomesse alla «neolingua», coniata da Orwell nel suo romanzo «1984», attualizzata all'insegna del più rigoroso islamicamente corretto. Puntualmente, mentre sono in corso le atrocità di terroristi islamici europei che infieriscono contro altri cittadini europei condannati indiscriminatamente come «miscredenti», si eleva una barriera a difesa dell'islam in quanto religione, vietando esplicitamente di usare l'espressione «terrorismo islamico». Noi l'abbiamo toccato con mano con il processo mediatico e la mobilitazione islamica contro il titolo del Giornale «Cacciamo l'islam da casa nostra» e per le parole del direttore Sallusti «l'islam e il suo Allah sono incompatibili con la nostra civiltà». A questo punto solleviamo noi il fulcro del problema: nel nostro stato di diritto è lecito o no usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti di un'idea, di un'ideologia e di una religione, esprimendo in libertà una valutazione che può essere critica, di accettazione o di condanna? Perché in Italia e in Europa chiunque può dire tutto e di più sul cristianesimo, la Chiesa, il Papa, Gesù e la Madonna, ascrivendolo alla libertà d'espressione, mentre non si deve dire nulla contro l'islam, Allah, Maometto e il Corano? La risposta è semplice: chi denuncia il cristianesimo non gli succede assolutamente nulla, mentre chi denuncia l'islam viene condannato a morte. Ed è così che più i terroristi islamici ci uccidono, più legittimiamo l'islam. Più i tagliagole sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere dentro casa nostra, più vincono i taglialingue che ci impongono di legittimare l'islam a prescindere dai suoi contenuti. Più contiamo i nostri morti vittime del terrorismo islamico, più diamo visibilità pubblica e accreditiamo sul piano istituzionale sedicenti imam e presidenti di «comunità islamiche». Più scatenano la guerra nel nome dell'islam, più si consolida il mito dell' «islam moderato», incarnato da musulmani che sostengono che i «criminali» non avrebbero nulla a che fare con l'islam, assicurandoci che l'islam è una religione di pace e di amore del tutto simile al cristianesimo. Più siamo destabilizzati dal terrorismo islamico e condizionati dall'islamizzazione demografica, religiosa e culturale, più cresce il fronte di autoctoni relativisti e islamofili che denunciano la «islamofobia», la follia di voler scatenare la guerra all'islam, il razzismo nei confronti dei musulmani, ricordandoci che se proprio i musulmani sono le principali vittime del terrorismo islamico ciò assolverebbe l'islam. La conclusione è che quest'Europa è votata al suicidio. Chi di noi sopravvive alla violenza fisica dei terroristi islamici tagliagole, è destinato a morire dentro, sottomettendosi alla violenza mentale, morale e affettiva dei terroristi islamici taglialingue, che ci spogliano della nostra libertà di scelta e dignità umana.
«Le persecuzioni ignorate per interessi economici». Il direttore di Asianews: «Cristiani mai tanto oppressi, ma l'Occidente fa finta di niente in nome degli affari e della stabilità politica», scrive Serena Sartini, Martedì 17/03/2015, su "Il Giornale". I cristiani rappresentano la comunità religiosa «più perseguitata al mondo»; è una «persecuzione sistematica» e dietro al silenzio delle grandi potenze «ci sono interessi economici e politici». È dura la condanna che arriva da padre Bernardo Cervellera, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere e direttore dell'agenzia Asianews, che ogni giorno dà voce alle minoranze cristiane vittime di violenze in tante parti del mondo.
Il Papa ha accusato il mondo di tacere di fronte alle persecuzioni dei cristiani. Perché questo silenzio?
«I cristiani sono i più perseguitati, almeno nel 70% degli Stati del mondo non viene rispettata la loro libertà religiosa. Non si tratta di casi isolati. Dietro c'è una persecuzione sistematica, dovuta a due motivi. Il primo è legato al fondamentalismo religioso utilizzato dai poteri politici come un modo per legittimarsi. Spesso si utilizzano i musulmani, i buddhisti, gli indù, per colpire la minoranza cristiana. Il secondo motivo è lo statalismo e la dittatura: in questi casi, come in Cina, i cristiani sono tenuti schiacciati e controllati senza possibilità di esprimere la loro fede. Di fronte alle ripetute e numerose persecuzioni, il mondo tace perché crede di preservare così la stabilità delle società e delle relazioni internazionali; e poi perché spesso i cristiani sono scomodi, criticano le posizioni totalitarie e fondamentaliste, e per questo vanno eliminati».
Quali sono le aree geografiche dove i cristiani sono più a rischio?
«Prima di tutto la Cina: non si parla mai della persecuzione dei cristiani in Cina. Si dice che va tutto bene, che il Paese asiatico sta facendo passi da gigante verso la tutela dei diritti umani. In realtà non è così: ci sono vescovi imprigionati, sacerdoti e fedeli scomparsi, persone agli arresti domiciliari solamente perché intendono professare la loro fede. I cristiani sono il segnale della poca libertà che c'è nel Paese. Solamente nel 2014 sono stati arrestati quasi mille attivisti. Perché le grandi potenze tacciono? Perché dietro ci sono interessi economici e geo-strategici. Anche in Arabia Saudita i cristiani vengono perseguitati nel disinteresse totale. Non è permesso costruire chiese e neppure consentito ai cristiani di pregare nelle loro case o di indossare una croce al collo. Eppure tutti parlano bene del Regno di Saud, succubi delle sue ricchezze petrolifere. In nome del Dio commercio si gettano via i diritti religiosi. La situazione in Arabia Saudita è molto peggiore che in Iran, dove i cristiani in realtà sono più liberi - anche se nell'immaginario collettivo la repubblica islamica iraniana è considerata una dittatura malvagia».
Ci sono forme di anti-cristianesimo anche in Occidente?
«Sì. Benedetto XVI ha parlato spesso del pericolo del relativismo in Europa paragonandolo alla minaccia del fondamentalismo. Si sta sviluppando uno stile di laicità in cui si cercano di eliminare dalla sfera pubblica le religioni relegandole all'ambito privato. Anche questa è una persecuzione sottile perché non permette ai cristiani di far sentire la propria voce. È il caso dell'aborto, della questione del gender. L'atteggiamento cristiano è vissuto come un'offesa ai diritti degli altri».
E in Italia?
«Anche da noi. Tante volte si accusano i musulmani di essere contrari ai crocifissi nelle scuole. In realtà sono i sindaci e i presidi che hanno posizioni laiciste e si nascondono dietro il pretesto di non offendere i musulmani. Anche questa è persecuzione».
Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale?
«Per cambiare qualcosa occorrerebbe che l'Onu fosse più incisiva e usasse il pugno duro di fronte a episodi di violazioni della libertà religiosa. Perché la libertà religiosa è la base di tutti i diritti umani ed è la base della convivenza sociale. Purtroppo invece le grandi potenze, dagli Stati Uniti alla Cina, sono convinte che, in nome della stabilità, possono essere sacrificate anche libertà fondamentali come la fede».
Papa Francesco accusa: «Il mondo nasconde la strage dei cristiani». Il Pontefice all'Angelus ammonisce chi vuol far passare le persecuzioni in secondo piano: «Basta violenze», scrive Fabio Marchese Ragona, Lunedì 16/03/2015, su "Il Giornale". Un monito durissimo, un Papa che ha voluto «battere il pugno» per dire basta alle persecuzioni contro i cristiani «che il mondo cerca di nascondere». Francesco ha lanciato il suo grido di dolore ieri mattina, al termine dell'Angelus della domenica, dopo aver ricevuto notizie dal Pakistan, dove due attacchi terroristici da parte dei talebani contro due chiese hanno causato almeno 15 morti e 78 feriti. Il Papa ha parlato a braccio, col cuore, questo suo intervento non era previsto: «Con dolore, con molto dolore», ha detto Francesco, «ho appreso degli attentati terroristici a Lahore, in Pakistan contro due chiese. I cristiani sono perseguitati», ha continuato il Pontefice, «i nostri fratelli versano il sangue soltanto perché sono cristiani. Mentre assicuro la mia preghiera per le vittime e per le loro famiglie, chiedo al Signore il dono della pace e della concordia per quel Paese. Che questa persecuzione contro i cristiani, che il mondo cerca di nascondere, finisca e ci sia la pace». Un messaggio chiaro, preciso, rivolto soprattutto verso coloro che, come dice Bergoglio, minimizzano o tentano di far passare in secondo piano questo drammatico tema rispetto ad altre questioni considerate più importanti. Un attacco del Papa contro chi preferisce «nascondere» le persecuzioni dei cristiani per dar voce o spazio a quei fondamentalisti che incitano alla violenza. Non a caso, anche se in Pakistan non si è trattato di un attacco organizzato dai jihadisti dell'Isis, il Vaticano proprio nei giorni scorsi, tramite Monsignor Silvano Maria Tomasi, rappresentante della Santa Sede all'Onu di Ginevra, ha chiesto ancora una volta un intervento chiaro per mettere fine al «genocidio». L'arcivescovo intervistato da una rivista cattolica americana ha ribadito: «Quello dell'Isis è un vero e proprio genocidio. A questo punto serve una protezione più coordinata, che preveda l'uso della forza per fermare le mani dell'aggressore». Parole che ricordano in parte quelle pronunciate proprio da Papa Francesco poco tempo fa: «È lecito fermare un aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo fermare - aveva detto Bergoglio - Alle Nazioni Unite si deve discutere e dire: È un aggressore ingiusto? Sembra di sì. Come lo fermiamo?». Un tema quello delle persecuzioni contro i cristiani che sta particolarmente a cuore a Papa Francesco; un appello dietro l'altro: ne aveva parlato, ad esempio, il 12 novembre scorso durante l'udienza generale del mercoledì: «Sento il bisogno di esprimere la mia profonda vicinanza spirituale alle comunità cristiane duramente colpite da un'assurda violenza che non accenna a fermarsi, mentre incoraggiò i pastori e i fedeli tutti ad essere forti e saldi nella speranza». Un ennesimo appello era arrivato poi lo scorso dicembre, quando il Pontefice aveva addirittura realizzato un videomessaggio, affidato al cardinale francese Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione che aveva visitato il campo profughi di Erbil, in Iraq. «In qualità di capi religiosi - aveva detto il Papa nel video - abbiamo l'obbligo di denunciare tutte le violazioni della dignità e dei diritti umani. Preghiamo per tutti i cristiani», aveva aggiunto Francesco, «perché la loro resistenza è martirio, è rugiada che feconda. Chi è al servizio del nome di Dio deve condannare chi uccide degli esseri umani». Non solo appelli ai fedeli, Francesco aveva voluto affidare anche ai social network un invito a tutto il mondo digitale contro le persecuzioni dei cristiani; un cinguettio del Papa lanciato su Twitter il 26 dicembre scorso, festa di Santo Stefano, il primo martire della Chiesa cattolica: «Oggi preghiamo - aveva scritto Bergoglio - per tutti coloro che sono perseguitati a causa della fede cristiana».
Perseguitati nell'indifferenza duecento milioni di cristiani. Cresce la violenza: stragi, stupri e devastazioni. I Paesi islamici i più feroci, ma l'inferno è la Corea del Nord, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/01/2018, su "Il Giornale". I numeri della persecuzione dei cristiani nel mondo fanno venire i brividi. In cinquanta nazioni i nostri fratelli rimangono nel mirino per la loro fede. I martiri cristiani sono 3.066 e 15.540 le chiese, abitazioni e negozi attaccati. Questa la denuncia del nuovo rapporto 2018 dell'organizzazione internazionale Porte aperte sulla persecuzione religiosa durante lo scorso anno. Non solo: si calcola che 215 milioni cristiani nel mondo siano sotto minaccia. «La persecuzione va ben oltre il numero dei martiri o le distruzioni di edifici cristiani - dichiara Cristian Nani direttore di Porte Aperte in Italia - Si manifesta negli arresti senza processo, nei licenziamenti, nella violazione di diritti fondamentali come l'istruzione e le cure mediche, nelle campagne denigratorie e nel bullismo».
Nella lista nera dei paesi anti cristiani è sempre al primo posto la Corea del Nord, che ottiene il punteggio massimo (94) rispetto alla violenza di stato, nel privato, sulla famiglia e così via. Nel paese dove la popolazione soffre la fame, ma il regime ha un arsenale nucleare e balistico, vivono fra i 300mila ed i 400mila cristiani costretti in molti casi a professare la loro fede di nascosto. Circa 70mila sarebbero finiti nei campi di concentramento ed il 75% non sopravvive agli stenti della prigionia. In compenso nella capitale, Pyongyang, ci sono cinque chiese «di facciata» controllate da agenti del regime per far vedere che nella Corea del Nord c'è libertà di culto. Al secondo posto della lista nera per la persecuzione dei cristiani spicca, purtroppo, l'Afghanistan dove l'Italia è intervenuta con migliaia di soldati e milioni di euro dal 2002. La scorsa estate i talebani hanno trucidato tre volontari dell'organizzazione non governativa Catholic relief considerandoli infedeli. Uno degli obiettivi preferiti dei terroristi è il college americano di Kabul bollato come «l'università cristiana». Grazie alle sconfitte sul terreno del Califfato la Siria è scesa nella classifica dei paesi peggiori per i cristiani al quindicesimo posto, ma gli orrori dello Stato islamico continuano a venire alla luce. In ottobre sono state scoperte le fosse comuni con i resti di 128 cristiani massacrati dalle bandiere nere a Qaryatain. Il Sudan si assesta al quarto posto con manifestazioni violente contro i cristiani anche nella capitale Kartoum. E subito dopo i primi dieci si attesta Arabia Saudita, Maldive e Nigeria. Purtroppo è l'Egitto, dove i cristiani copti rappresentano il 10% della popolazione, a registrare un aumento delle vittime. Ben 128 solo nel 2017 sono stati uccisi e altri duecento cristiani hanno dovuto abbandonare le loro case davanti alla furia islamista. L'ultimo attentato contro una chiesa, che ha provocato 11 morti è avvenuto il 29 dicembre. Il rapporto di Porte aperte punta il dito contro l'aumento delle violenze non solo islamiche, ma dei «nazionalismi religiosi», che si stanno sviluppando soprattutto in Asia. «L'India è di fatto il caso più preoccupante - denuncia l'organizzazione non governativa - dalla posizione 28 della lista dei paesi persecutori nel 2014 sale all'undicesimo posto». Il nazionalismo religioso induista punta ad assimilare a forza i cristiani, «che sono sempre più socialmente esclusi, detenuti, minacciati, espulsi dai loro villaggi, aggrediti fisicamente e in alcuni casi persino uccisi». Stesso copione per la new entry della lista nera, il Nepal, al venticinquesimo posto. Un gruppo terrorista hindu, l'Esercito di difesa nepalese, attacca chiese e cristiani accusandoli di convertire la cittadinanza. Anche i buddisti nel Myanmar (24mo posto), visitato dal Papa, non sono da meno. Il direttore di Porte aperte accende i riflettori anche sulle violenze meno denunciate e conosciute, ma altrettanto gravi: «Ben 1.240 matrimoni forzati e oltre 1.000 stupri - sostiene Nani - sono cifre che celano vite devastate a causa di una scelta di fede».
I trecento cristiani perseguitati dagli islamici in Puglia, scrive il 20 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. Fedeli cristiani segregati in Italia, costretti a celebrare messe clandestine, Crocifissi nascosti per evitare che vengano distrutti, bruciati da fanatici islamici. Tutto questo nel Gargano, a 40 km dalla tomba di San Padre Pio in Puglia. La storia, incredibile, la racconta Cristiano Gatti sull'Espresso e Repubblica ne anticipa una parte. Si tratta di 300 immigrati africani, lavoratori stagionali dei campi di pomodoro, che vivono in una vera e propria bidonville sotto costante minaccia di musulmani che vengono da fuori: "Abbiamo paura, sì. Da due anni la domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere". Di fatto il ghetto di Rignano Garganico è la riproposizione su piccola scala dei drammi della Nigeria e di altri Paesi africani dove i cristiani vengono perseguitati, picchiati, uccisi. "La bidonville aumenta di 10 nuovi arrivati ogni 24 ore. Ha già superato il record di 2mila abitanti e, con la raccolta dei pomodori, si avvia verso i 3mila. Troppa manodopera. Il risultato è che trovano lavoro per non più di 3 o 4 giorni al mese". I racconti dei cristiani sono atroci. Un nigeriano custodisce una croce, due legnetti di fortuna legati insieme alla bell'e meglio: "L'abbiamo fatta con i resti della baracca della fedele che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l'hanno bruciata una notte di due anni fa. Poi qualcuno ci ha fatto capire che, se non volevamo altri incendi, non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Trecento contro duemila, troppo pochi. Così per paura abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno 3 moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa". "I braccianti musulmani sono solidali con noi", spiega, rivelando che i persecutori sono "spie dei caporali", africani anche loro, che per ora non hanno dichiarato la loro vicinanza a Boko Haram o Isis. Ma l'intolleranza sta aumentando anche nel ghetto, con l'arrivo di nuovi immigrati: "Oggi ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con quanta fatica viviamo".
La "crociata" anti cristiana: bruciate 200 chiese al mese. Sono 150 milioni i perseguitati. E il fondamentalismo islamico è la prima causa dell'oppressione. Antonio Tajani: "È necessario che l'Occidente rompa il silenzio", scrive Anna Maria Greco, Mercoledì 02/12/2015, su "Il Giornale". Se c'è una musica che può rappresentare la persecuzione dei cristiani nel mondo è quella della cantante gospel eritrea Helen Berhane, che per la sua fede evangelica nel 2004 è stata torturata e rinchiusa in un container di metallo per 30 lunghi mesi, dopo aver registrato uno dei suoi album.Era a Bruxelles ieri, Helen, alla conferenza sul tema «Persecuzione dei cristiani nel mondo», organizzata dal primo vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani. I dati sono agghiaccianti: oltre 150 milioni di credenti perseguitati, 200 chiese assaltate e distrutte ogni mese, più del 70 per cento dei cristiani fuggito dall'Iraq dal 2003; in Siria, dal 2011, 700mila cristiani costretti ad abbandonare le loro case dall'inizio della guerra civile. «Ogni giorno - spiega Tajani- e in ogni regione del pianeta, si registrano nuovi casi di persecuzione nei confronti dei cristiani. Nessun'altra comunità religiosa è oggetto di odio, violenza e aggressione sistematica quanto quella dei cristiani». Il fondamentalismo islamico è indubbiamente la prima causa di persecuzione e pesa molto «l'identificazione dei cristiani con l'Occidente», perché portatori di valori dal carattere universalistico che stanno alla base delle democrazie moderne. «Per i fondamentalisti islamici - dice il vicepresidente - i cristiani sono i nuovi crociati d'Europa. I loro valori sfidano regimi dittatoriali, come nel caso della Nord Corea, o sistemi politici autoritari».Eppure di fronte a questa diffusa persecuzione, che pochi giorni fa anche il Papa in viaggio in Africa ha ricordato commemorando i martiri ugandesi, si registra una scarsa percezione del fenomeno e l'assenza di reazioni proporzionate. «È necessario che l'Occidente rompa il silenzio - esorta Tajani-. Vivere in democrazie laiche non vuol dire escludere le religioni dalla società. L'Europa deve farsi promotrice di un modello di società da contrapporre al radicalismo religioso e a progetti brutali e criminali, come quello di creare un califfato islamico in Iraq e Siria che estenda poi i suoi tentacoli fino alla Libia». Tajani ricorda a questo punto le radici giudaico-cristiane dell'identità comune europea. «Ci dobbiamo scuotere - concorda il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz- perché anche nel nostro continente i cristiani non sono sicuri. Ma l'oppressione ha luogo fuori dall'Europa, e quindi c'è poca consapevolezza». Schulz garantisce che per arginare il fenomeno «il Parlamento europeo, nei limiti del possibile, farà tutto il possibile». Perché «il dialogo sulla base del rispetto reciproco è la base della nostra collaborazione».L'intervento del presidente conclude il seminario, cui partecipano autorità civili e religiose, da Christopher Hill, presidente della Conferenza episcopale europea, a Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, da Paul Bhatti, fratello dell'unico ministro cristiano in Pakistan, ucciso in un attentato a Antony Gardner, ambasciatore Usa all'Ue. Non è solo una questione di Europa o non Europa, cristiani o non cristiani, in gioco c'è di più. Dice Scultz: «I diritti fondamentali oggi sono più minacciati che in passato, e bisogna dirlo. Includono anche la scelta religiosa e la possibilità di professarla in totale libertà. Oggi il gruppo più oppresso è quello dei cristiani, e questo perché non si è agito come si doveva».
I cristiani i più perseguitati. E l'islam «buono»? Non c'è. Ogni anno i martiri sono oltre 100mila. E guai a pregare per le vittime: rifiutato il permesso agli imam di Bruxelles, scrive Magdi Cristiano Allam, Martedì 29/03/2016, su "Il Giornale". Di fronte alla strage di oltre 70 bambini e madri in un parco giochi a Lahore, in Pakistan, dilaniati dall'esplosione di un terrorista islamico suicida mentre festeggiavano la Pasqua, Papa Francesco se la sente ancora di attribuirne la responsabilità ai trafficanti di armi? E la quinta colonna delle anime pie nostrane, dalla Mogherini alla Boldrini, da D'Alema a Vauro, sono sempre convinti che i terroristi islamici siano vittime dell'emarginazione sociale, di conseguenza sarebbe colpa nostra se loro sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, così come loro non avrebbero nulla a che fare con l'islam che, all'opposto, sarebbe una religione d'amore e di pace esattamente come il cristianesimo?Se è indubbio che i terroristi che hanno perpetrato le stragi di Bruxelles del 22 marzo ci odiano al punto da massacrarci indiscriminatamente perché ai loro occhi siamo tutti «miscredenti», ebbene dobbiamo prendere atto che anche il «Consiglio esecutivo islamico di Bruxelles», l'organo che rappresenta ufficialmente l'islam «moderato» presso le istituzioni, la pensa allo stesso modo, avendo rifiutato di consentire agli imam di celebrare nelle moschee della capitale del Belgio «una preghiera congiunta per le vittime della strage», sostenendo che le preghiere dei musulmani possono essere rivolte solo ai musulmani, perché solo i musulmani sarebbero «credenti», mentre tutti i non musulmani sono condannati in quanto «miscredenti». In particolare, è stato spiegato, che la prima Sura, o capitolo, del Corano, detta Al-Fatiha, L'Aprente, che viene ripetuta 17 volte nel corso delle 5 preghiere quotidiane obbligatorie, non può essere recitata per commemorare i «miscredenti». Ed hanno assolutamente ragione perché questa preghiera, di fatto il loro «Padre Nostro», si conclude con questa esortazione ad Allah: «Guidaci sulla retta via, la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nella tua ira, né di coloro che vagano nell'errore». Ebbene tutti i teologi islamici concordano sul fatto che «coloro che hai colmato di grazia» sono i musulmani, «coloro che sono incorsi nella tua ira» sono gli ebrei, «coloro che vagano nell'errore» sono i cristiani. Significa che tutti quelli che pregano, a prescindere dal fatto che noi li definiamo moderati, integralisti o terroristi, condannano tutti i giorni, 17 volte al giorno, gli ebrei e i cristiani quali miscredenti. La verità è che quando devono pronunciarsi su ciò che Allah prescrive nel Corano e su ciò che ha detto e ha fatto Maometto, i musulmani credenti e praticanti sono tutti uguali, perché il Corano è unico e Maometto è lo stesso. I musulmani possono assumere una posizione diversa, compatibile con le leggi laiche dello Stato e i valori che sostanziano la nostra civiltà, solo se antepongono la ragione e il cuore ad Allah e a Maometto. Di conseguenza i musulmani possono essere moderati come persone, ma l'islam non è moderato come religione.La verità è che i cristiani sono discriminati, perseguitati e massacrati dai musulmani da 1.400 anni, da quando Maometto sterminò, convertì con la violenza o sottomise come dhimmi, protetti, gli ebrei e i cristiani, che avevano salva la vita solo pagando una tassa, la jizya. La verità è che i cristiani sono i più perseguitati al mondo per la loro fede. Oggi su 100 persone che subiscono la violazione del diritto alla libertà religiosa, 75 sono cristiani. Ogni anno ci sono 105.000 nuovi martiri cristiani, un martire al minuto, ad opera di terroristi islamici, di fanatici indù in India, di regimi comunisti in Cina, Corea del Nord e Vietnam. Quante altre stragi di cristiani dovranno succedere prima che chi ci governa capisca che i terroristi islamici ci uccidono per il semplice fatto che siamo cristiani, che il terrorismo islamico è di natura aggressiva e non reattiva, che la persecuzione dei cristiani è una costante nella storia dell'islam perché Maometto stesso massacrò i cristiani e gli ebrei, così come Allah nel Corano legittima l'odio, la violenza e la morte nei confronti di tutti noi «miscredenti»?
La Boldrini vuole punire chi parla male dell'islam. La presidente della Camera insiste sul reato di "islamofobia" per censurare le critiche sulla religione di Allah. Ma si dimentica dei cristiani perseguitati, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La minaccia principale alla nostra civiltà laica e liberale risiede nel divieto assoluto di criticare e di condannare l'islam come religione, perché i suoi contenuti sono in totale contrasto con le leggi dello Stato, le regole della civile convivenza, i valori non negoziabili della sacralità della vita, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta. Mentre il terrorismo islamico dei tagliagole, coloro che sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, noi lo sconfiggeremo sui campi di battaglia dentro e fuori di casa nostra, di fatto ci siamo già arresi al terrorismo islamico dei «taglialingue», coloro che sono riusciti a imporci la legittimazione dell'islam a prescindere dai suoi contenuti ed ora sono mobilitati per codificare il reato di «islamofobia», un'autocensura nei confronti dell'islam. Le Nazioni Unite, l'Unione Europea e il Consiglio d'Europa hanno già accreditato, sul piano politico, il reato di islamofobia, assecondando la strategia dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Ebbene ora in Italia il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha fatto un ulteriore passo in avanti finalizzato a codificare per legge il reato di islamofobia, che comporterà sanzioni penali e civili per chiunque criticherà e condannerà l'islam come religione. È ciò che emerge dall'iniziativa della Boldrini di dar vita alla Commissione di studio sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nelle varie forme che possono assumere, xenofobia, antisemitismo, islamofobia, antigitanismo, sessismo, omofobia. Secondo la Boldrini sarebbero nuove forme di razzismo, che si manifestano soprattutto nella rete, catalogate in inglese come «hate speech», da intendersi come «incitazione all'odio». È singolare che siamo in un'Italia e in un'Europa dove chiunque può dire di tutto e di più sul cristianesimo, su Gesù, sulla Chiesa e sul Papa, senza che succeda nulla perché viene ascritto alla libertà d'espressione, mentre ci siamo auto imposti di non dire nulla sull'islam, su Allah, su Maometto e sul Corano perché urta la suscettibilità dei musulmani, perché abbiamo paura della loro reazione violenta che si ritorce indiscriminatamente contro tutti i cristiani nel mondo. A proposito, dal momento che i cristiani sono in assoluto i più perseguitati al mondo per la loro fede, perché mai tra le categorie che sostanzierebbero il reato di «incitazione all'odio» non compare la «cristianofobia»? L'errore fondamentale che viene commesso è di sovrapporre la dimensione della persona con quella della religione, ritenendo che per rispettare i musulmani come persone si debba automaticamente e acriticamente legittimare l'islam come religione. Noi invece dobbiamo rispettare i musulmani come persone, ma al tempo stesso dobbiamo usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti di una religione e poter esprimere in libertà la verità sull'islam. La Boldrini, la terza carica dello Stato che dovrebbe lealtà e fedeltà all'Italia, si esibisce in pubblico con al petto una spilletta su cui c'è scritto «Stati Uniti d'Europa», una entità inesistente ma che si tradurrebbe nella scomparsa dell'Italia come Stato sovrano e indipendente, così come promuove l'invasione di milioni di clandestini musulmani che a suo avviso rigenererebbero la vita e la civiltà dell'Italia. In questo contesto il reato di islamofobia si rivelerebbe il colpo di grazia all'Italia e agli italiani.
Papa Francesco condanna "ogni forma di odio". Ma (in pubblico) non nomina ancora l'Isis. Il dolore di Bergoglio per il prete sgozzato, scrive Fabio Marchese Ragona, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". «La condanna più radicale di ogni forma di odio e la preghiera per le persone colpite». È stata questa la prima reazione pubblica di Papa Francesco e del Vaticano dopo l'attacco jihadista nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray in Normandia. Una condanna contro le violenze in cui non viene pronunciata la parola «Isis» o «Daesh» ma a cui Bergoglio è ormai abituato, avendola pronunciata sempre più spesso a seguito degli attentati terroristici che stanno sconvolgendo il mondo. Dentro le stanze vaticane, i più vicini collaboratori di Francesco raccontano però di un Pontefice in partenza per Cracovia sempre più preoccupato e turbato, un Papa che nel 2014 diceva: «È bene tenere una porta aperta per il dialogo con l'Isis, anche se penso che sia impossibile» e che oggi invece non sembra trovare più parole per discutere della barbarie jihadista, rimanendo spesso in silenzio a riflettere o a pregare di fronte a discorsi in cui si parla del Califfato e sperando che la «Guerra mondiale a pezzi», di cui parla ormai da tempo, si vinca anche con l'appoggio dell'Islam moderato. Proprio per questo motivo, Francesco, ha riallacciato i rapporti con le massime autorità sunnite e dialoga da tempo con il governo sciita di Teheran, nella speranza che siano principalmente loro a combattere dall'interno, anche ideologicamente, la deriva fondamentalista. «Se c'è una condanna banale da parte dell'islam moderato, anche senza impegno, allora è senza senso», commenta invece al Giornale il cardinale Velasio De Paolis, Presidente Emerito della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede: «Non c'è dialogo se una comunità non riesce a condannare nemmeno in modo evidente, palese, convinto, direi quasi universale, questi fatti ed episodi. Il Papa fa bene a intervenire e a condannare. Dovrebbero farlo però anche i musulmani cosiddetti moderati, dovrebbero associarsi senza tentennamenti alle parole di condanna». Da quando si sono intensificati gli attacchi in Europa, Papa Francesco, in più di un'occasione privata, racconta chi gli sta accanto, ha definito i terroristi come «degli uomini che hanno perso la vera visione di Dio, accecati dal dio denaro e dall'odio». «Dei giovani - avrebbe detto durante una colazione a Santa Marta - che non hanno più degli ideali, plagiati da chissà quale mente criminale». Un Papa provato, che se in pubblico non punta il dito chiaramente contro il sedicente stato islamico, in privato, come Jorge Bergoglio, si dice addolorato ma allo stesso tempo «speranzoso che questi terroristi trovino la ragione e depongano le armi per abbracciare i fratelli». «Il dialogo - spiega il cardinale De Paolis - si dovrebbe sempre fare, altrimenti facciamo muro contro muro. Però non dev'essere motivo per dimenticare gli atti terroristici come questo. Purtroppo - conclude - spesso ci si dimentica di quanto è avvenuto e ci si appella al dialogo con l'Islam quasi per evadere il discorso. E le cose rimangono come prima».
"Il mondo è in guerra perché ha perso la pace", ma "non si tratta una guerra di religione": così papa Francesco, il 27 luglio 2016 da bordo dell'aereo che lo stava conducendo a Cracovia dove parteciperà alla Giornata Mondiale della Gioventù, commentando i recenti fatti di sangue. Secondo Francesco, in tempi come quelli attuali la prima parola che viene in mente è "insicurezza", ma appunto "la parola autentica è guerra". Quindi, davanti ai 75 giornalisti al seguito, "non abbiamo paura di affermarlo", ha sottolineato Jorge Mario Bergoglio. "Il mondo è in guerra perché ha perduto la pace. Parlo di guerra sul serio", ha quindi precisato, "una guerra d'interesse, per denaro, per le risorse naturali, per il dominio sui popoli. Una guerra che tuttavia", ha puntualizzato, "non è di religione, perché tutte le religioni anelano la pace". Il fenomeno, ha tenuto a ricordare, non riguarda soltanto l'Europa.
Sacerdote sgozzato, il Papa: "Il mondo è in guerra ma le religioni non c'entrano". Due jihadisti sgozzano un prete in chiesa. Bergoglio: "Tutte le religioni vogliono la pace. La guerra la vogliono gli altri", scrive Sergio Rame, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". "Abbiamo bisogno di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace". Sul volo che da Roma lo porta a Cracovia per portare alla Giornata Mondiale della Gioventù, papa Francesco condanna gli ultimi attacchi inflitti all'Europa dal terrorismo islamico. Ma si affretta a chiarire: "Quando parlo di guerra, parlo di guerra sul serio e non di guerra di religione". Il mondo cattolico è sconvolto dalla brutale omicidio di padre Jacques Hamel, sgozzato da due terroristi mentre stava dicendo la Santa Messa nella chiesa di Saint-Etienne du Rouvray. Lo hanno fatto inginocchiare davanti all'altare e, dopo aver recitato un sermone in arabo, gli hanno reciso la gola. Una macabra esecuzione filmata col cellulare che ricorda le decapitazioni degli ostaggi occidentali eseguite dal boia dell'Isis Jihadi John. I due giovanissimi jihadisti hanno risposto alla chiamata alle armi dello Stato islamico. E, per la prima volta nella storia dell'Unione europea, un parroco è stato ammazzato in chiesa in virtù della fede che professa. Papa Francesco si è, tuttavia, affrettato ad allontanare lo spettro della guerra di religione. "C'è guerra per interessi, soldi, risorse della natura, per il dominio sui popoli - ha spiegato - questi sono i motivi. Qualcuno parla di guerra di religione, ma tutte le religioni vogliono la pace. La guerra la vogliono gli altri, capito?". Nell'ultimo mese gli attacchi all'Europa si sono moltiplicati di giorno in giorno. Con la strage lungo la Promenade des Anglais a Nizza, i seguaci dell'Isis hanno "inaugurato" una lunga scia di sangue che sembra non aver fine. "Da tempo il mondo è in guerra a pezzi - ha ammesso papa Francesco - non è tanto organica forse (organizzata sì), ma è guerra". Durante il volo verso Cracovia, il Santo Padre ha rivolto un pensiero a padre Jacques: "Questo santo sacerdote ieri è morto per la preghiera che offriva alla chiesa. È uno, ma pensiamo a quanti innocenti, a quanti bambini muoiono. Pensiamo alla Nigeria, ad esempio. 'Ah quella è l'Africa', dicono, sì è l'Africa, ma è in guerra". Poi, una volta atterrato in Polonia, nella cornice imponente del Wawel, l'antico Palazzo Reale, Bergoglio ha affrontato il tema dell'accoglienza: "Occorre la disponibilità ad accogliere quanti fuggono dalle guerre e dalla fame - ha detto - la solidarietà verso coloro che sono privati dei loro fondamentali diritti, tra i quali quello di professare in libertà e sicurezza la propria fede".
Se Francesco legittima l'islam. Le dichiarazioni rese dal pontefice in Turchia raffigurano una Chiesa cattolica irrimediabilmente persa nel relativismo religioso, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 30/11/2014, su "Il Giornale". Le dichiarazioni rese da Papa Francesco in Turchia raffigurano una Chiesa cattolica irrimediabilmente persa nel relativismo religioso che la porta a concepire che l'amore per il prossimo, il comandamento nuovo portatoci da Gesù, debba obbligatoriamente tradursi nella legittimazione della religione del prossimo, a prescindere dalla valutazione razionale e critica dei suoi contenuti, incorrendo nell'errore di accomunare e sovrapporre persone e religioni, peccatori e peccato. Quando il Papa ha giustamente detto «la violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l'Onnipotente è Dio della vita e della pace», dimentica però che il Dio Padre che concepisce gli uomini come figli, che per amore degli uomini si è incarnato in Gesù, il quale ha scelto la croce per redimere l'umanità, non ha nulla a che fare con Allah che considera gli uomini come servi a lui sottomessi, legittimando l'uccisione degli ebrei, dei cristiani, degli apostati, degli infedeli, degli adulteri e degli omosessuali («Instillerò il mio terrore nel cuore degli infedeli; colpiteli sul collo e recidete loro la punta delle dita... I miscredenti avranno il castigo del Fuoco! ... Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi» (Sura 8:12-17). Quando il Papa all'interno della Moschea Blu si è messo a pregare in direzione della Mecca congiuntamente con il Gran Mufti, la massima autorità religiosa islamica turca che gli ha descritto la bontà di alcuni versetti coranici, una preghiera che il Papa ha definito una «adorazione silenziosa», affermando due volte «dobbiamo adorare Dio», ha legittimato la moschea come luogo di culto dove si condividerebbe lo stesso Dio e ha legittimato l'islam come religione di pari valenza del cristianesimo. Perché il Papa non si fida dei propri vescovi che patiscono sulla loro pelle le atrocità dell'islam, come l'arcivescovo di Mosul, Emil Nona, che in un'intervista all' Avvenire del 12 agosto ha detto «l'islam è una religione diversa da tutte le altre religioni», chiarendo che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e sostenendo senza mezzi termini che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam»? Quando il Papa intervenendo al «Dipartimento islamico per gli Affari religiosi» ha detto «noi, musulmani e cristiani, siamo depositari di inestimabili tesori spirituali, tra i quali riconosciamo elementi di comunanza, pur vissuti secondo le proprie tradizioni: l'adorazione di Dio misericordioso, il riferimento al patriarca Abramo, la preghiera, l'elemosina, il digiuno...», ha reiterato la tesi del tutto ideologica e infondata delle tre grandi religioni monoteiste, rivelate, abramitiche e del Libro, che di fatto legittima l'islam come religione di pari valore dell'ebraismo e del cristianesimo e, di conseguenza, finisce per delegittimare il cristianesimo dato che l'islam si concepisce come l'unica vera religione, il sigillo della profezia e il compimento della rivelazione. Così come quando il Papa ha aggiunto che «riconoscere e sviluppare questa comunanza spirituale attraverso il dialogo interreligioso ci aiuta anche a promuovere e difendere nella società i valori morali, la pace e la libertà», ha riproposto sia una concezione errata del dialogo, perché concepisce un dialogo tra le religioni mentre il dialogo avviene solo tra le persone e va pertanto contestualizzato nel tempo e nello spazio, sia una visione suicida del dialogo dal momento che il nostro interlocutore, i militanti islamici dediti all'islamizzazione dell'insieme dell'umanità, non riconosce né i valori fondanti della nostra comune umanità né il traguardo della pacifica convivenza tra persone di fedi diverse dall'islam. Anche quando il Papa ha detto «è fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani - tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione -, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri», ci trova assolutamente d'accordo. A condizione che l'assoluta parità di diritti e doveri concerne le persone, ma non le religioni. Perché se questa assoluta parità dovesse tradursi nella legittimazione aprioristica e acritica dell'islam, di Allah, del Corano, di Maometto, della sharia, delle moschee, delle scuole coraniche e dei tribunali sharaitici, significherebbe che la Chiesa ha legittimato il proprio carnefice che, sia che vesta il doppiopetto di Erdogan sia che si celi dietro il cappuccio del boia, non vede l'ora di sottometterci all'islam.
"Dialogo, amore e no ai militari". La Chiesa porge l'altra guancia. Gli estremisti combattono una guerra santa a cui i vescovi rispondono con la tolleranza a oltranza. Ma pagherà? Scrive Riccardo Pelliccetti, Giovedì 28/07/2016, su "Il Giornale". Il dado è tratto. Che siamo in guerra non c'è neppure più bisogno di dirlo, basta guardare i fatti, e lo ammettono tutti, dai leader mondiali alle gerarchie ecclesiastiche. Ma con l'attacco alla chiesa di Saint Etienne du Rouvray e lo sgozzamento del parroco, i terroristi islamici hanno voluto lanciare un chiaro messaggio che nessuno oggi gradisce: questa è una guerra di religione. Piaccia o non piaccia, è inutile girarci intorno. Certo, dargli questa definizione nel ventunesimo secolo appare anacronistico, sembra di ripiombare nel Medio Evo. Ma qual è il grado di civiltà e il livello sociale nello Stato Islamico? Medievale, lo sappiamo tutti, e non solo per la brutalità che lo contraddistingue. Il Vaticano, però, non ne vuol sentir parlare. Anche ieri Papa Francesco, nell'affrontare per la prima volta con i giornalisti l'attacco alla chiesa nel cuore della Normandia, ha voluto ribadire che non è una guerra di religione. «Questa è guerra. Abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace - ha detto Bergoglio - Quando parlo di guerra parlo di guerra sul serio, non di guerra di religione. C'è guerra di interessi, c'è guerra per i soldi, c'è guerra per le risorse della natura, c'è guerra per il dominio dei popoli, questa è la guerra. Qualcuno può pensare sta parlando di guerra di religione: no, tutte le religioni vogliono la pace, la guerra la vogliono gli altri, capito?». Apprezziamo e stimiamo il Pontefice, il cristianesimo è diventata una religione di pace e il messaggio non potrebbe essere diverso. Ma non possiamo far finta di niente, lo Stato Islamico ha dichiarato il jihad, cioè la guerra santa, quindi per quei musulmani e per i loro seguaci, è una guerra di religione. E non da oggi. Si possono sicuramente fare delle distinzioni, perché non tutto l'islam ha dichiarato la guerra santa, ma solo il suo braccio integralista, come wahabiti e salafiti. Ebbene, rimane sempre una guerra santa, qualunque faccia si voglia guardare. E non solo per l'attacco alla chiesa di Saint Etienne du Rouvray, che ci ha maggiormente impressionato perché è avvenuto nel cuore dell'Europa, ma per tutti gli attacchi sanguinosi ai luoghi di culto cristiani e ai massacri di religiosi e fedeli, dalla Nigeria alla Siria, dall'Iraq fino al Pakistan. Quindi, forse è ora di non porgere più l'altra guancia perché colpirebbero anche quella, una, cento, mille volte. Ma il mondo cattolico nostrano non ci sta. Il vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, invita i cattolici a non farsi strumentalizzare per «evitare logiche di chiusura e di vendetta» e ha ribadito il suo invito «all'accoglienza». Stessa linea anche per il presidente della Cei, monsignor Angelo Bagnasco che ha insistito come il Papa nel dire che non bisogna credere che «sia in atto una guerra di religione». Più spinta addirittura la posizione dell'associazione Migrantes, che per bocca di monsignor Gian Carlo Perego ha esortato a non indebolire la cultura dell'incontro. Anche Paola Binetti, deputata cattolica di Ap, riprende le parole del Pontefice e rilancia dal canto suo «il messaggio di pace, di perdono e di reciproca fraternità». Ora sono in molti a chiedere «più sicurezza nei luoghi di culto», come i leader religiosi di tutte le fedi che sono stati ricevuti ieri all'Eliseo da Francois Hollande. Ma a Roma la questione non si pone, anzi. Anche se lo Stato Islamico colpisce luoghi di culto e religiosi, il Vaticano, seppure spaventato, non ha intenzione di vedere le chiese militarizzate, almeno in Italia. Quindi, porte aperte come sempre nelle chiese e niente uomini armati a proteggere chi va a messa. Ma in Vaticano non dovrebbero scordare che i fedeli sono anche cittadini e che lo Stato ha il dovere di difenderli.
Hanno sgozzato Dio. Due baby terroristi (uno minorenne) uccidono un parroco in chiesa durante la messa. L'Isis rivendica: è guerra di religione, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". Il limite che si pensava invalicabile è stato superato ieri in un paesino nel nord della Francia, dove due islamici sono entrati in una chiesa durante la messa e inneggiando ad Allah hanno sgozzato il sacerdote e una fedele dopo averli fatti inginocchiare e aver recitato passi del Corano. Anche il terrore non è solo questione di numeri, ha un peso. E il sacrilegio compiuto ieri pesa in modo inconcepibile e insopportabile su tutti noi, cattolici o laici non cambia. Neppure le SS naziste, nei loro feroci rastrellamenti a caccia di ebrei e partigiani, avevano mai osato oltrepassare il portone delle chiese che infatti erano tra i rifugi più sicuri per le loro prede. Violare la casa di Dio, tagliare la gola al suo ministro sull'altare è il compiersi, per la prima volta nell'Europa moderna, di un folle invito di Maometto, profeta sanguinario, a tutti i musulmani. Spaventa l'idea di una guerra di religione, dichiarata unilateralmente, ma di questo si tratta. Quanta ipocrisia in quel «je suis prêtre», io sono prete, che rimbalzava ieri sulle reti di internet. Molta parte della gerarchia ecclesiale a partire dall'attuale Papa - che tace sui mandanti e spalanca le porte ai carnefici, della classe politica che ha smantellato il sistema valoriale occidentale, persino dei fedeli distratti oggi non può dire in coscienza «je suis prêtre». Il cristianesimo lo abbiamo archiviato, e l'Europa non ha bisogno di nuovi martiri, abbiamo già dato nei secoli. Abbiamo bisogno di preti, politici e uomini soldati schierati a difesa di ciò che siamo, di ciò che vogliamo essere. Si inizia smantellando «per rispetto» i presepi in scuole e oratori, ovvio che si arrivi ai terroristi in chiesa. Ciò che non concediamo se lo prendono con le bombe, con i mitra, con i camion, con i coltelli. Sanno che siamo deboli, che la democrazia ci impedisce di rispondere colpo su colpo con la stessa efficacia. Siamo prigionieri delle nostre libertà che gentilmente gli abbiamo concesso gratis. Ha voglia Hollande a dire: «Faremo tutto il possibile per contrastarli». E come? Presidiando tutte le chiese, le piazze, tutti i supermarket e tutte le discoteche? Tempo perso, è impresa tecnicamente impossibile. Se continuiamo a tenerci i nemici in casa, a non chiamarli con il loro nome, rassegniamoci a contare i morti.
"...allora creperemo tutti". Islam, c'è solo una possibilità: la cupa profezia di Mario Giordano il 28 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Un altro mattacchione? Un altro pazzo isolato? Un altro depresso? E adesso come reagirà l'Europa di fronte a un prete sgozzato in chiesa, mentre dice messa, da due islamici che gridavano Allah Akbar? Organizzerà un convegno di psichiatri? Si affiderà agli antidepressivi? Più Prozac per tutti? Continueranno a raccontarci la favoletta dei malati di mente che in quest' estate 2016, anziché mettersi in testa il cappello di Napoleone, vanno in giro a massacrare cristiani? Insisteranno con le bugie, le minimizzazioni, «per favore», «non generalizziamo», «i profughi non c' entrano nulla», «l'Islam? Figuriamoci», «la nostra risposta sono le porte aperte» e già che ci siamo «inauguriamo una mezza dozzina di moschee»? Davvero faranno così? Ce lo dicano, perché nel caso prepariamo il collo: se non ci difenderemo, infatti, finiremo presto tutti sgozzati. Proprio come quell' anziano sacerdote sull' altare di Saint-Etienne-du-Rouveray. Il tempo è scaduto, ne abbiamo perso fin troppo in chiacchiere e dibattiti da salotto. Adesso siamo arrivati all'ora della scelta: o si combatte o si muore. O si capisce che c' è una guerra di religione in corso o siamo già stati sconfitti. L'abbiamo già scritto tante volte, ma adesso il nemico ha alzato il tiro: l'attacco a una chiesa, durante una messa, con i fedeli e le suore prese in ostaggio, il prete scuoiato come un agnello sacrificale sotto il crocifisso, nel pieno dell'Europa cristiana, ebbene: un atto del genere dovrebbe aprire gli occhi anche ai più ottusi. Che aspettiamo ancora? Che ci vengano a sgozzare nel Duomo di Milano? Nella basilica di Assisi? O magari sotto il Cupolone di San Pietro? Il messaggio è già chiaro. Vi ricordate la bandiera nera che sventolava sul Vaticano? Vi ricordate i cristiani copti uccisi sul bagnasciuga della Libia per insanguinare il nostro mare? Vi ricordare le minacce del Califfo, che ripeteva «arriveremo a Roma per uccidere tutti gli infedeli»? Sembravano esagerazioni, paradossi, boutade. Invece l'attacco è in corso. Houellebecq ha sbagliato tutto: la sottomissione non avverrà in maniera pacifica, ma con le armi in pugno, non ci conquisteranno con democratiche elezioni ma con il coltello per le decapitazioni. Di che cosa abbiamo ancora bisogno per convincercene? Finora, fateci caso, hanno mantenuto tutte le promesse. Anche nelle ultime settimane. Avevano annunciato attacchi in Francia, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in Germania, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in riva al mare, e c' è stata la strage sulla passeggiata di Nizza. Avevano annunciato che sarebbe stata un'estate di sangue, e così purtroppo è. Sono assassini, questi islamici, ma non cialtroni. A modo loro, sono persone di parola: dicono che vogliono tagliare le teste, e zac, lo fanno. Dicono che vogliono distruggere i cristiani, e zac, rispettano l'impegno. Non mancano mai l'appuntamento con la morte, che per loro, per altro, significa vergini in fiore e fiumi di latte. A noi lo sgozzamento, a loro il paradiso. E di fronte a questo attacco frontale, davanti a questa offensiva violenta e spregiudicata, l'Europa dei tremebondi che fa? L' avete sentita in questi giorni: discute di pazzia, follia, gesti isolati, minimizza, specifica, precisa, si perde nei distinguo, organizza sessioni plenarie sulle teorie dei discendenti di Freud, si autoflagella, si colpevolizza, esulta se trova che un assassino (iraniano) ha in casa una foto di Breivik («lo vedete: i cattivi siamo noi»), erige processi sulla diffusione delle armi, come se le armi sparassero da sole, «ah signora mia non sa com' è facile procurarsi una pistola» (in effetti, in Europa non tanto: ma per un coltello basta entrare in cucina), si comporta come se la colpa delle sparatorie fosse delle fabbriche di pistole e la colpa degli sgozzamenti delle coltellerie. Alcuni giornali hanno persino messo sotto processo i videogiochi (lo giuro: i videogiochi). Tutto pur di non dire la piatta e brutale verità: il Corano ordina, i musulmani sgozzano. È la guerra santa dell'Islam. Questa verità sta lì da tempo, sotto i nostri occhi, oggi è rossa come il sangue di quel sacerdote. Ma noi non vogliamo ammetterla. Preferiamo raccontarci balle, nascondere la verità, come hanno fatto ripetutamente in questi giorni il governo francese, e forse anche quello tedesco. Preferiamo non dire quello che sappiamo, e cioè che è in atto un attacco coordinato e organizzato contro di noi. Preferiamo chiudere gli occhi, liberare dalle carceri soggetti pericolosi, come uno di due assalitori della Normandia, come i terroristi appena usciti a Bari, come tanti altri, preferiamo esporci al rischio della morte piuttosto che al rischio della verità. È pazzesco: sembra quasi che la civiltà occidentale, oggi, scelga di farsi ammazzare piuttosto che ammettere di dover fare i conti con la religione islamica. Sceglie di soccombere piuttosto che ammettere che i sacri principi della tolleranza e del dialogo non possono funzionare sempre, perché se qualcuno ti vuole uccidere non basta sventolargli in faccia la bandiera della pace. È così duro prenderne atto che andiamo diritti verso la macellazione avvolti dal nostro morbido involucro di bugie. Anche ieri, le prime dichiarazioni dopo lo sgozzamento del prete, sono andate in questa direzione. Il premier francese ha parlato di «barbaro attacco», il Papa ha «condannato l'odio». Come vedete, manca una parola, sempre la stessa. Non sono stati i marziani ad attaccare ma gli islamici, l'odio non nasce sotto il cavolo ma dentro le moschee. Noi continuiamo a tacerlo. E perciò finiremo tutti come padre Jacques, 58 anni di sacerdozio, lacerati con una lama al collo, mentre celebrava la messa del mattino nella sua chiesa in Normandia. Se il Papa avesse le palle, lo dovrebbe proclamare santo subito. San Jacques Martire, ucciso per difendere la nostra fede dall' aggressione dei seguaci di Allah. Suona anche bene. Suona ormai un po' inutile, però. Mario Giordano
Mario Giordano il 21 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”, sentenza tombale sull'Islam in Italia: "Siamo una civiltà finita". Ma quei bresciani di Pontoglio, poi, che cosa si sono messi in testa? Di difendere la tradizione cristiana? La cultura occidentale? Sono diventati matti? Meritano una bella multa e una condanna, parola del Tribunale di Brescia, sentenza pronunciata nel nome di Allah. Così la prossima volta imparano. Se fanno i furbi. La tradizione cristiana, pensa un po’. Ma perché non difendono Maometto, come va di moda oggi? La tradizione sunnita? Le sure del Corano? Perché non chiedono di sostituire il prete con un imam? E il campanile con un minareto? Perché non inneggiano al burqa come strumento di protezione della donna? Ecco, quello sì che piacerebbe a tutti. Persino al tribunale. Altro che multa: avrebbe dato loro un premio. Invece, niente. Quei testoni sono rimasti gli ultimi a combattere per la cultura occidentale. Per la tradizione cristiana. Scommetto che sono di quella pasta lì, i nostalgici che a Natale fanno ancora il presepe, anziché andare in pellegrinaggio alla Mecca, e insegnano ancora ai loro figli a rispettare la Quaresima anziché il Ramadan. Razza di retrogradi. Così retrogradi che il loro legame con la tradizione l’avevano voluto esibire, mettendolo bianco su marrone in un cartello, all’ingresso del paese. Proprio sotto «Pontoglio», infatti, c’era il nome in dialetto «Pontoi» e poi la scritta, di cui s’è fatto un gran discutere nei mesi scorsi: «Paese a cultura occidentale e di profonda tradizione cristiana. Chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene». Avete capito bene: «Chi non intende rispettare» le tradizioni è «invitato ad andarsene». Ma in realtà non se n’è andato nessuno. A parte il medesimo cartello, per l’appunto. Il Comune, infatti, l’aveva messo il 30 novembre scorso, ma a luglio l’aveva già tolto. S’era subito capito che non era aria. Polemiche, sollevazioni, denunce in Procura. Ma l’autocensura (già di per sé piuttosto umiliante) non è bastata. Il giudice di Brescia, infatti, non s’è accontentato della rimozione, e l’altro giorno ha appioppato una punizione esemplare, con condanna per «discriminazione collettiva» e in aggiunta una bella multa. Soldi soldi soldi: così quei testoni imparano. E pagano per la grave colpa di aver detto a chi entra in paese che loro sono occidentali e cristiani. Non l’hanno capito che, dalle nostre parti, non si usa più? Come vedete, stiamo facendo dei rapidi progressi: un tempo discutevamo se era possibile accettare la cultura islamica in Italia. Adesso stiamo discutendo se e quando è possibile proclamarsi cristiani senza dar fastidio. Preparatevi: la sottomissione definitiva è ormai vicina. Fra l’altro è piuttosto bizzarro che sotto i cartelli delle città d’Italia si possano vedere scritte di tutti i tipi, dal tradizionale e insensato «Comune denuclearizzato» ai «Comuni deautoveloxizzati», dal «Comune non belligerante» (Bisceglie) al «Comune detruciolizzato» (Torrecuso) al «Comune derazzistizzato« (Montesilvano) passando per un’infinità di «città di pace», gemellaggi con paesi polacchi e scandinavi che non esistevano nemmeno a Giochi senza frontiere, inni a autorità locali più o meno meritevoli di celebrazione. L’unica cosa che non si può scrivere, abbiamo accertato con questa storia sentenza, è che un Comune è cristiano. Detruciolizzato sì, cattolico no. Singolare, non vi pare? I motivi di questa decisione sono ancor più surreali. Il giudice infatti, nel condannare, parla di «discriminazione per motivi religiosi e etnici». Sarà. Ma rileggendo il cartello incriminato, rimosso e condannato a noi pare di capire che l’invito «ad andarsene» non è genericamente rivolto a chi professa un’altra religione o appartiene a un’altra etnia, ma soltanto a chi (di qualsiasi religione o etnia sia) non «intende rispettare la cultura e le tradizioni locali». Dov’è la discriminazione? Io non posso chiedere che chi arriva a casa mia rispetti ciò in cui credo? E perché? Dunque, secondo questa sentenza, se uno entra in paese e sputa sul presepe dev’essere il benvenuto. Orina sulla chiesa? Prego, s’accomodi. Sbriciola la statua del santo patrono? Dobbiamo ringraziarlo. Magari stendergli un tappeto rosso. Avanti, venga pure la stavamo aspettando. Si capisce: noi dai Comuni togliamo gli autovelox, al massimo, ma non i vandali. Eliminiamo il nucleare che non c’è, ma non gli aggressori. E non vediamo l’ora di farci offendere, umiliare, magari sopraffare e, se è il caso, trucidare senza batter ciglio. Soprattutto, senza scrivere cartelli che possano irritare i nostri tribunali. I quali, avanti di questo passo, la prossima sentenza sulla cultura cristiana la emetteranno applicando direttamente la sharia. Mario Giordano
Perché anche gli atei sono bersaglio dell'islam. Siamo civili e pretendiamo di giudicare chi non lo è col nostro metro di uomini e donne evoluti. Sbagliamo, scrive Vittorio Feltri, Venerdì 03/04/2015, su "Il Giornale". Le notizie che arrivano dal Kenya, in questo momento in cui il sangue dei cristiani inonda i resti della civiltà occidentale lasciata laggiù dagli inglesi, sono frammentarie e incerte: e proprio per questo temiamo siano vere. A Garissa, a nord del Paese, un college è stato attaccato dagli instancabili assassini islamisti che avrebbero compiuto una strage di studenti, ovviamente cristiani, selezionati per essere uccisi in base a un criterio biblico: separare il grano dalla pula. In altre profane parole: sei cristiano? Ti sparo. Sei musulmano? Sei salvo e benedetto. Di questo orrore si tratta. Morte ai cristiani, vita lunga agli islamici. E poi c'è chi insiste a negare che i massacri avvengano nell'ambito di una guerra di religione. Bisogna essere ciechi per non capire che qui si ammazza con diligente sistematicità soltanto chi crede in un Dio diverso da Allah. Noi occidentali non siamo bigotti e non comprendiamo come sia possibile una cosa del genere, e per spiegarci le uccisioni in massa dei nostri confratelli ci arrampichiamo sugli specchi della ragione. Pensiamo che a caricare di odio i terroristi siano motivi economici e politici, sete di dominio, smania di potere. Abbiamo scordato la storia, piena di gente sacrificata sugli altari in omaggio a divinità. Siamo civili e pretendiamo di giudicare chi non lo è col nostro metro di uomini e donne evoluti. Sbagliamo. A Garissa si contano già 147 cadaveri e mancano all'appello decine di studenti. Dove sono finiti? E dove, se non all'altro mondo? Tremano le dita sulla tastiera a scrivere un articolo quale il presente. Speriamo che la realtà sia meno crudele delle ipotesi nere che si profilano. Ma le nostre speranze sono tenui e non le scartiamo solo perché non abbiamo la forza né il coraggio di guardare in faccia il mostro che stravolge il mondo, minacciando di sterminare i cosiddetti infedeli. Decine di giovani non svaniscono nel nulla come aria fresca. Gli islamisti fanno prigionieri esclusivamente per giustiziarli allestendo spettacoli macabri da filmarsi e diffondersi via Internet. È il loro modo di farsi propaganda e per arruolare proseliti da avviare all'attività di boia, tagliagola e affini. Chi non è idoneo a essere utilizzato in video come agnello sacrificale viene abbattuto subito. A schioppettate, per fare prima. Il binomio libro e moschetto è sempre di moda, con i dovuti aggiornamenti: adesso va il Corano abbinato al kalashnikov, che aumenta la potenzialità omicida dei sacri assassini. Un tempo il Kenya era famoso per il turismo balneare e i safari nella savana, ricca di zebre, leoni ed elefanti. Da quando il colonialismo britannico ha passato la mano a quello musulmano, la caccia grossa non colpisce più i rinoceronti e mira ai cristiani, portatori insani di virus della pace: vanno decimati senza requie. L'allarme terrorismo da almeno una settimana era stato lanciato dall'intelligence: circolavano voci insistenti di prossimi assalti a università e collegi. E le misure di sicurezza erano state adottate soprattutto in tre atenei di Nairobi, la capitale. Cosicché gli sterminatori hanno cambiato obiettivo, per evitare grane con la polizia, e hanno puntato sul villaggio universitario di Garissa, a 150 chilometri dal confine somalo. L'Africa equatoriale è relativamente distante dall'Italia, ma ciò non consiglia di sottovalutare il pericolo islamico. Dalle nostre parti si commettono troppe leggerezze. La prima è di considerarci amici dei musulmani buoni: confidiamo in costoro affinché la spada dell'islam non ci trafigga. Cerchiamo di compiacerli convinti che, avendoli ospitati in nome dell'integrazione, ci proteggano da quelli cattivi. Ignoriamo che coloro i quali tra noi sono atei o agnostici, perfino buddisti, hanno l'anima involontariamente cristiana, e quando ce ne accorgiamo non ci fa schifo. Siamo tutti pii bestemmiatori, chi non lo è non sa cos'è la civiltà occidentale nella versione alla pummarola. Purtroppo se questo è il pensiero della stragrande maggioranza del popolo, che ha divorato i libri di Oriana Fallaci senza riuscire a imporne l'idea (rimasta minoritaria), corre l'obbligo di ammettere che nell'arena pubblica prevalgono i buonisti pronti ad aprire i cancelli ai messaggeri di morte, e a liquidare chi quei cancelli li preferisce chiusi alla stregua di minorati mentali, razzisti da sbattere fuori dal recinto della decenza intellettuale. Risultato. Le persone che sono state tirate su nella broda schifiltosa della sinistra al caviale, con annessi teologi alla Mancuso, consegnerà le chiavi della patria e delle coscienze (vuote) al Califfo. Cretini. Vittorio Feltri
Le lettere segrete di un martire italiano. In esclusiva i messaggi di Don Santoro, ucciso in Turchia nel 2006 da un islamista, scrive Serena Sartini, Giovedì 28/07/2016, su "Il Giornale". All'indomani della terribile uccisione di padre Jacques Hamel, sgozzato mentre celebrava messa nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray a Rouen, in Normandia, pubblichiamo alcune lettere inedite di don Andrea Santoro, il sacerdote romano brutalmente assassinato esattamente dieci anni fa a Trebisonda, in Turchia, da un giovane che gridò «Allah è grande» e gli sparò due colpi di pistola alle spalle, mentre don Andrea era inginocchiato a pregare all'interno della chiesa «Santa Maria» dove era stato destinato.
Per l'omicidio venne un giovane di 16 anni, Ouzhan Akdil, che confessò di aver ucciso don Santoro perché sconvolto dalle vignette satiriche su Maometto apparse su un quotidiano danese. Gli scritti del sacerdote nell'anno in cui ricorre il decennale dalla morte sono stati raccolti e archiviati dall'Associazione don Andrea Santoro che ne sta curando anche la pubblicazione (leggi qui).
In queste lettere emerge chiaramente la visione profetica di don Andrea, martire assassinato a causa della sua fede, che già dieci anni fa intuiva la difficoltà di comprendere l'identità e i valori di ciascuno, in un'Europa che spesso ha negato a se stessa la sua vera identità. Don Andrea si è speso fino alla morte affinché il dialogo vincesse sullo scontro, e chiedeva rispetto e reciprocità. Ma già dieci anni fa le difficoltà non mancavano e il sacerdote desiderava farle conoscere (alle autorità civili) con la speranza che si potesse agire per superarle, e non per scontrarsi. Per ricordare la figura del sacerdote Fidei Donum romano, l'associazione ha organizzato una serie di eventi nella Capitale. Il prossimo si svolgerà presso la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme domenica 27 novembre.
"Dottore, faccio seguito alla sua telefonata di oggi (...) in cui mi informava delle difficoltà circa il rilascio del mio permesso di soggiorno. Desideravo solo ragguagliarla meglio sulla situazione (riguardo la chiesa cattolica di Sancta Maria a Trabzon)...Ci sono altre cose che desidererei far conoscere a lei e all'ambasciatore italiano. Ma desidererei farlo di persona in modo riservato, vista la loro delicatezza. Mi pare importante che le autorità italiane sappiano certe realtà di fatto, oltre ai buoni propositi e ai programmi espressi in pubblico dalle vecchie e nuove autorità turche. Fatti che vivendo tra la gente e girando di città in città ho potuto conoscere direttamente. Amo la Turchia, amo questa terra, la sua storia e la sua gente. Sono convinto che tra stati e religioni bisogna cercare la via del dialogo, del rispetto, della convivenza, della collaborazione, dell'avvicinamento. Ma sono anche convinto che solo nella verità possa essere fatto tutto questo, la verità confermata dai fatti e quindi dai passi concreti da compiere. Al mio paesino natale si diceva che «di buone intenzioni è pavimentato l'inferno». Vorrei riferirle di persona certe cose, per amore di questo popolo, per amore di un'Europa aperta oltre gli attuali propri confini, per amore di una convivenza non facile ma unica speranza di pace.Mi parrebbe importante se si riuscisse ad intervenire prima che la risposta negativa sia ufficiale perché in questo caso bisognerebbe ricominciare tutto daccapo. (...) La ringrazio immensamente della sua premura e della sua cordialità. In attesa di una sua telefonata la saluto e la ossequio con deferenza. Don Andrea Santoro"
"Eccellenza illustrissima, desideravo anzitutto ringraziarla per il suo interessamento in merito alla mia richiesta di permesso di soggiorno in Turchia... Spero che la richiesta possa andare in porto per poter assicurare un'assistenza spirituale ai pochi ma ferventi fedeli della chiesa di Trabzon sul Mar Nero. Sono anche altri i luoghi che avrebbero bisogno di una altrettanta assistenza spirituale per la presenza di cristiani, talvolta non dichiarati, e per il passaggio di pellegrini provenienti dall'Europa, come Urfa-Harran la città dove Abramo fu chiamato e da cui si mise in viaggio per Gerusalemme. Ma molteplici difficoltà non rendono facile la cosa. Desideravo inoltre invitarla, lei personalmente o, qualora non le fosse possibile, qualcuno dei suoi collaboratori, per conoscere più da vicino certe realtà, talvolta complesse... Sarebbe per me un piacere ospitarla e mostrarle più da vicino le realtà del luogo (parlo di Trabzon e di Urfa dove attualmente sono presente...), sia sotto l'aspetto umano che civile e paesaggistico. Sono luoghi carichi di storia... Ma anche solo io personalmente e le persone che con me lavorano saremmo contente di averla tra noi e di sentire per questo più vicina la nostra Italia in una terra così ricca e interessante e al crocevia di tante delicate problematiche del mondo di oggi... Spero, come cristiano e come italiano, di poter fare onore al mio nome e di poter essere utile a questa terra favorendo il dialogo, l'incontro e la collaborazione tra popoli, nazioni e religioni. (...) Con ossequi e infinite cordialità. Don Andrea Santoro"
Ora la linea morbida mette a disagio il mondo cattolico. I malumori per le posizioni delle gerarchie ecclesiali: "Ingenue e buoniste, serve verità", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". La parola disagio stava già stretta prima. Figurarsi oggi dopo la mattanza in una chiesetta della Normandia. Una parte del mondo cattolico fatica a riconoscersi nelle perifrasi delle gerarchie, nel pastoralismo di tante prediche, nel buonismo spalmato sui massacri sempre più frequenti. Non si tratta di iscriversi al partito degli anti Bergoglio, formuletta frusta e un po' semplicistica, e però diverse voci segnalano un malessere crescente dentro il corpo, vasto e trasversale, della Chiesa italiana che troppo spesso usa un linguaggio politicamente corretto, inadeguato davanti ai drammi della nostra epoca. «La Chiesa - punge Sandro Magister, storico vaticanista dell'Espresso e autore di un blog, Settimo cielo, molto seguito - ha il dovere della verità e invece continua a non chiamare le cose con il loro nome. Nessuno che ai piani alti della Cei metta il terrorismo in relazione con l'Islam. Si utilizzano giri di parole per non dire quel che il fedele vorrebbe sentire. Nessuno che alzi il velo della reticenza: il terrore non è figlio della povertà o della mancata integrazione. In Germania l'integrazione era andata avanti, ma è successo quel che è successo e invece tutti, anche i vescovi, se la cavano parlando di follia, di psichiatria, di emarginazione. La Chiesa - conclude Magister - dovrebbe tornare a Ratzinger e ai suoi ragionamenti sul rapporto fra cristianesimo e illuminismo. Benedetto sosteneva che il cristianesimo ha avuto benefici dall'incontro, pure aspro, con l'illuminismo mentre l'Islam questo confronto non l'ha neanche iniziato. Ma la lezione di Ratzinger è stata oscurata». La requisitoria di Magister coincide per molti aspetti con quella di Riccardo Cascioli, direttore del foglio on-line La Nuova bussola quotidiana e del mensile Il timone, punti di riferimento per molti laici inquieti e disorientati. «Qui si fanno grandi teorie sull'accoglienza senza distinguere - spiega Cascioli - non si è capito che siamo in guerra, non si è compreso che il Medio Oriente è arrivato qui da noi. Ho appena letto un discorso di monsignor Galantino, voce unica dei vescovi italiani, che dice di non capire chi prega e poi frena sulla politica delle porte aperte a tutti. Ma no, sono io che non capisco lui, come si fa a non misurarsi con quello che sta accadendo?».
Cascioli va all'attacco: «Siamo davanti a una Chiesa ingenua e buonista che ha tradito il realismo cristiano. Ci si balocca con slogan vuoti, si dialoga con l'Islam presunto moderato che pure è una finzione e così si accreditano i fanatici dell'ideologia travestiti da agnelli. E non si distingue fra profugo, rifugiato, immigrato, clandestino perdendo concetti preziosi che sono nel diritto internazionale». Dunque, niente dubbi: «La melassa dei buoni sentimenti non aiuta a capire la complessità delle sfide che dobbiamo fronteggiare e nello stesso tempo annacqua pericolosamente la profondità del messaggio cristiano». Siamo all'origine, secondo i critici, della malattia. «Guardi - riprende Cascioli - la diagnosi l'aveva già fatta il cardinal Biffi quando diceva che o l'Europa ritrova il suo spirito cristiano, le sue radici, oppure verrà spazzata via dall'Islam. Sarà un'immagine forte ma ora, dopo quello che è successo in Francia, è ancora più vera». E di immagine in immagine, anche il polemista cattolico finisce per recuperare il magistero di Ratzinger e del Benedetto più urticante, quello di Ratisbona: «Il Papa sosteneva che l'Occidente ha come suo pilastro la ragione ma dimentica la fede, l'Islam al contrario privilegia la fede ma mette in un angolo la ragione. È un discorso scomodissimo ma non per questo meno attuale». Un tema variegato, con molte suggestioni. L' ultimo tratto lo accenna Stefano Fontana, direttore dell'Osservatorio internazionale cardinale Van Thuan: «La dottrina sociale della Chiesa ci dice che le nazioni hanno il diritto a non perdere la loro identità. E invece dopo Giovanni Paolo II in questa sottolineatura è andata persa in un universalismo zuccheroso e incolore». E il gregge è sempre più confuso.
I migranti arruolano per l'Isis: ecco la rete del Califfo in Italia. Due arresti nel Savonese. Denunciata una terza persona. Le indagini partite da un messaggio spedito per errore a una 25enne, scrive Sergio Rame, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". Li hanno beccati quasi per caso, grazie a una ragazza che si è vista arrivare sul cellulare una fotografia agghiacciante. Lo scatto immortalava una combattente che imbracciava un mitra. Da quel messaggio inviato per sbaglio sono scattate le indagini che oggi, nella provincia di Savona, hanno portato all'arresto di due marocchini e alla denuncia di un terzo per terrorismo. Emerge così la rete dell'Isis in Italia per trovare nuovi combattenti da arruolare nel jihad. I tre immigrati sono noti alle forze dell'ordine. Hanno tutti precedenti per spaccio di sostanze stupefacenti, lesioni personali e accuse per falso. A incastrarli, questa volta, è appunto la segnalazione di una giovane savonese che si è fiondata alla polizia postale quando su WhatsApp è stata contattata da una persona che non presente nella sua rubrica. Il numero di telefono era marocchino e l'immagine riprodotta nel profilo apparteneva a una giovane ragazza con un mitra in mano e in posizione di tiro. Circa tre mesi prima, passando per la struttura data in cessione agli immigrati appena sbarcati dall'Africa, la 25enne aveva prestato il proprio cellulare a uno dei marocchini che, a suo dire, doveva contattare alcuni conoscenti in Marocco. Le successive indagini della polizia postale ligure hanno ricostruito una fitta rete di contatti da cui emerge come i tre marocchini facessero proselitismo per lo Stato Islamico.
Ora basta con i “je suis”, scrive Fabrizio Boschi il 15 luglio 2016 su “Il Giornale”. Eppure, sicuramente anche oggi ci sarà qualche Boldrini, o simil Boldrini qualunque, che non se la sentirà di dire che questa è una guerra. Che siamo in guerra. Ci sarà ancora qualcuno che proverà fastidio nel pronunciare il nome di quel nemico subdolo e vigliacco che non si vede, ma che esiste: il fanatismo ISLAMICO. Non terrorismo in generale, non fanatismo e basta, ma islamico. Sia chiaro. Invece, cari Boldrini e soci, oggi più che mai questa è una guerra, una guerra totale contro il fanatismo religioso islamico e i loro adepti che provengono da una parte ben definita del mondo e che professano un credo ben chiaro, e che si nascondono come serpenti in ogni nazione d’Europa, pronti ad iniettare il proprio veleno. Ora l’obiettivo è la Francia, quella che ci dava lezioni di integrazione e di immigrazione, domani sarà di nuovo l’Inghilterra, il Belgio, la Spagna. Poi chissà, toccherà alla Germania, all’Italia e a tutti gli altri. Uno dopo l’altro. Finché ne rimarrà anche solo uno in vita, sarà sempre così. Senza tregua. Perché questa guerra non avrà una fine. Nessuno è più al sicuro, questo è il messaggio che vogliono imprimerci nelle nostre vite quotidiane, e se i vari Boldrini e soci, e i servizi segreti dei governi europei, non prenderanno le misure necessarie per stanare e neutralizzare queste cellule di folli islamici, passeremo i prossimi dieci o venti anni a piangere ancora vittime inermi sterminate sulle nostre strade, nei nostri ristoranti, negli stadi, nei parchi, nelle spiagge, sui treni, sugli aerei, nelle metropolitane. L’assassino che il 14 luglio guidava quel camion bianco a Nizza era un franco-tunisino di fede islamica. Con quel mezzo ha fatto 2 chilometri a zig zag per falciare più persone possibili. Ha anche abbattuto un chiosco di caramelle. Di caramelle, capite? In quel chiosco ci sarebbe potuto essere chiunque di noi. A difesa della Promenade des Anglais e dei centomila presenti a vedere i fuochi del 14 luglio, c’erano due piccole transenne di ferro. Migliaia di persone sul lungomare e due transenne. Ci odiano, ormai è chiaro, e non odiano qualcuno in particolare. Odiano tutti i cristiani del mondo. Indistintamente. Qualunque essi siano. Anzi, odiano anche quelli che cristiani non lo sono ma che non sono come loro. E quindi non c’è via di scampo. Non accettano il nostro modo di pensare, di vivere, di essere liberi, di divertirci, di viaggiare, di vestire, di pregare, forse anche di mangiare. E questo gli è sufficiente per salire su un camion e farsi due chilometri a zig zag sulla Promenade des Anglais. E questo gli basta per sentire l’impulso di uccidere trenta bambini e cinquanta persone comuni. Persone che non avrebbero mai e poi mai, nemmeno pensato, di far loro del male. Persone comuni, come me e come voi, per le quali egiziani, marocchini, senegalesi, tunisini, ebrei, o cinesi, sono tutti uguali. È questo che ci differenzia da loro: le bestie, dagli esseri umani. Ora basta però con i “je suis”, ne abbiamo già visti troppi, e non servono a niente. Basta con gli appelli alla pace, le promesse ipocrite dei governi, i vertici di emergenza, i pubblici cordogli, i fiori alle ambasciate, l’innalzamento dei livelli di allerta (che al massimo durano tre giorni, appena subito dopo gli attentati). Basta con le giornate di lutto nazionale, le marce per la pace, i funerali di Stato dei quali a nessuno interessa nulla. A quelle persone, a quei bambini, a quelle mamme e a quei papà, interessava solo di vivere, non di finire in una bara con una bandiera stesa sopra. Il presidente Hollande ha ripetuto le stesse parole vuote dette dopo le stragi del Bataclan (“reagiremo”). Alle sue seguiranno quelle inutili e ipocrite dei vari Merkel, Renzi e Obama. La verità è che abbiamo paura. Tanta paura. La verità è che sotto quel camion bianco ci siamo finiti tutti. Ma ci sono finiti per primi i nostri governi che ancora non hanno il coraggio di ammettere di aver sbagliato tutto e di non aver ancora trovato la forza di reagire per proteggere i propri cittadini. Ci sentiamo inermi di fronte a questo nemico invisibile, è vero, ma ci sentiamo ancor più inermi soprattutto perché i nostri governanti, chiusi dentro al loro ridicolo buonismo di Stato, non permettono ai loro cittadini di essere liberi di passeggiare, in luglio, sulla Promenade di Nizza, accanto ad un chiosco di caramelle.
La proposta drastica di Giuliano Zulin su "Libero" del 27 luglio 2016: i terroristi islamici riduciamoli così. La cosa che fa più arrabbiare è che uno dei due terroristi della chiesa in Normandia era ai domiciliari: girava con il braccialetto elettronico. Si trovava in libertà, nonostante le autorità sapessero che il musulmano in questione era in odore di terrorismo. Anche lo stragista di Nizza era attenzionato dalle forze dell’ordine, visto che il padre era un islamico estremista e lui - con problemi mentali - si era troppo avvicinato all’Isis. E che dire dei killer del Bataclan? Salah era conosciuto dalla polizia. Eppure era in giro e non l’hanno preso per mesi...Perchè allora ci sono in giro potenziali terroristi? Dopo le stragi si dice che «combatteremo il terrorismo con tutti i mezzi», come ha sentenziato ieri il presidente francese Francoise Hollande. Ma i servizi segreti a cosa servono? A prevenire, no? E dunque non si può studiare la creazione di una mega Guantanamo europea, visto che si conoscono i tipi pericolosi? Gli americani, nella zona occupata dagli Usa a Cuba, avevano messo tutti gli uomini di Al Qaeda dopo le Torri Gemelle e la guerra ai talebani. Non possiamo anche noi, in Europa, organizzare una Guantanamo nostra? Su un’isola, in un’area isolata. Da qualche parte. Purchè si tolgano di torno i potenziali stragisti. Lo stato di diritto è superato in questa emergenza. Invece di pensare di introdurre il reato di tortura, è il caso di varare un Patriot Act. Invece di aspettare che ci facciano saltare in aria, sarebbe il caso di procedere con retate a tutto campo. Prenderli, sradicarli, toglier loro internet. E metterli in qualche zona protetta. Sotto controllo. Magari gli attentati continueranno, ma i cosiddetti «depressi» assassini diminuirebbero. Tanto interessa solo alla Boldrini dei diritti degli estremisti...
La profezia terrificante. "Dopo quest'ultima strage...": quella certezza di Mentana, scrive “Libero Quotidiano” il 26 luglio 2016. Una nuova strage in Francia, a Rouen, dove due terroristi hanno fattoincursione in una chiesa per sgozzare un prete e ridurre in fin di vita in fedele. Eppure, inizialmente, la maggior parte di televisioni, radio e siti parlavano di due "squilibrati", "folli", di "persone instabili", di soggetti con "problemi psichici". Nessuno parlava chiaramente di terroristi. Una circostanza che ha fatto saltare la proverbiale mosca al naso ad Enrico Mentana, il quale si è sfogato su Facebook con toni molto accesi. "Sgozzare un anziano prete in una chiesa cattolica francese in nome dell'Isis. I due terroristi hanno compiuto un'azione che ha significati simbolici chiari - spiega il direttore del TgLa7 -. Si completa il quadrodegli attacchi in Europa. Un giornale satirico, un supermercato di cibi ebraici, uno stadio di calcio, un teatro di musica giovanile, un caffè, un aeroporto, una stazione del metrò, un treno, una festa di piazza, un festival di musica, e ora una chiesa". Mentana, dunque, mette nel mirino i buonisti e tutti quelli che operanoipocrite censure verbali: "Parlare di isolati, di disperati, di emuli non ha nessun senso. Nessuno ha mai imitato l'attentato precedente". Una frase con la quale Mentana fa capire in modo esplicito che il terrorismo è difficile da arginare, forse impossibile. "Perché parlare di gesti isolati non ha più senso. Forse non ne ha mai avuto. Ma in tanti - troppi - non lo hanno ancora capito. E probabilmente qualcuno non lo vuole capire".
Il filosofo Giorello sull'orrore Isis: perché i comunisti sono complici, scrive “Libero Quotidiano” il 27 luglio 2016. Il giorno successivo all'orrore di Rouen, con l'attacco Isis e il prete sgozzato in chiesa, il filosofo della scienza Giulio Giorello fa il punto della situazione. "Forse è banale dirlo, ma è orribile", premette in un'intervista a Il Giornale. E nel lungo colloquio, Giorello sposta l'attenzione su un aspetto della questione forse troppe volte sottovalutato. Quando gli si chiede se crede che la reazione all'Isis non sia adeguata, risponde: "Io vedo circolare un sacco di analisi che applicano alla questione i vecchi canoni marxisti. Badi bene non di Marx ma dei cascami ideologici delle teorie - sottolinea -. Come dire: si cerca sempre la spiegazione sociologica, economica, si discute di imperialismo. Non nego che esistano anche queste questioni. Ma qui il nocciolo è religioso, la religione è centrale, non è sovrastruttura". E ancora: "Io non ho simpatia per i monoteismi, lo ammetto, ma qui mi pare evidente che siamo di fronte ad un monoteismo intransigente ed aggressivo che non tollera l'esistenza di concorrenti ed è ora di prenderne atto e di assumere posizioni ferme e decise. La religione islamica non è la sola a predicare l'intolleranza, ma di certo la pratica". Parole chiare, quelle di Giorello, che in buona sostanza mette in luce come un certo pensiero che trae origine dal marxismo tenda a giustificare i terroristi, addossando le loro colpe alla nostra società.
Gioriello: "L'islam non ferma i fanatici. Siamo noi a doverlo fare". Il filosofo: "Basta distinguo dalla società civile. I musulmani moderati? La violenza uccide il loro dio e non se ne accorgono", scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 27/07/2016, su "Il Giornale". Mentre il fondamentalismo islamico sceglie come bersaglio anche le chiese, l'Europa è sempre più minacciata. Anche perché la libertà religiosa è uno dei suoi pilastri. Ne abbiamo parlato con il filosofo della scienza Giulio Giorello, noto per le sue posizioni libertarie e laiche.
Un prete sgozzato nel bel mezzo di una funzione religiosa in una piccola chiesa di una cittadina dell'Alta Normandia...
«Forse è banale dirlo ma è orribile. Sono sempre i buoni le vittime dell'odio religioso, è un gesto orribile. Il fanatico non vede l'essere umano che ha davanti, in questo caso l'anziano sacerdote, vede solo nemici. È questo il peccato originale di tutti gli integralismi... Non voglio dire che è un gesto bestiale, perché gli animali possono essere crudeli ma c'è una logica naturale nei loro gesti in questo caso non c'è... Questi fanatici colpiscono sempre luoghi simbolici. Sembrano luoghi diversi ma dalla discoteca alla rivendita di alcolici, alla chiesa di una religione che non è la loro, colpiscono sempre qualcosa che è un simbolo della possibilità di essere diversi da loro. Da questo punto di vista, per quanto possa essere rudimentale la tecnica, il messaggio che danno è sempre lo stesso. E con questo tipo di messaggio noi non dobbiamo mostrare più alcuna debolezza».
Crede che non stiamo reagendo nel modo giusto?
«Io vedo circolare un sacco di analisi che applicano alla questione i vecchi canoni marxisti. Badi bene non di Marx ma dei cascami ideologici delle teorie di Marx... Come dire: si cerca sempre la spiegazione sociologica, economica si discute di imperialismo. Non nego che esistano anche queste questioni. Ma qui il nocciolo è religioso, la religione è centrale, non è sovrastruttura. Io non ho simpatia per i monoteismi, lo ammetto, ma qui mi pare evidente che siamo di fronte ad un monoteismo intransigente ed aggressivo che non tollera l'esistenza di concorrenti ed è ora di prenderne atto e di assumere posizioni ferme e decise. La religione islamica non è la sola a praticare l'intolleranza ma di certo la pratica».
È un terrorismo diverso da quello politico e noi non ce ne siamo accorti quindi?
«Chiariamoci io non ho mai avuto alcuna simpatia per terroristi come le nostre Br, ma qui siamo oltre, il fanatismo religioso elimina qualsiasi remora. Dobbiamo difendere a tutti i costi il pluralismo religioso, il diritto di circolare liberamente. È arrivato secondo me il momento di agire con durezza contro i fanatici, se non difendiamo la laicità della nostra società corriamo dei rischi enormi».
La chiesa cattolica ha verso il mondo islamico toni sempre molto morbidi...
«Queste scelte le deve giudicare un credente, non io. Ma, a parte il fatto che non si può trascurare l'evangelico porgere l'altra guancia, è chiaro che il muro contro muro tra religioni non credo possa portare buoni risultati. Ma sono gli Stati che devono avere un atteggiamento diverso. E anche la società civile deve avere un atteggiamento senza se e senza ma verso l'intolleranza religiosa. Per noi occidentali la religione è un fatto privato e libero. Io mi ricordo gli illuminati interventi del Cardinale Carlo Maria Martini durante la Cattedra dei non credenti. Rifletteva su come bisognasse levare da ogni discorso su Dio la violenza. Ci sono questioni su cui dovrebbero intervenire gli islamici illuminati, se ce ne sono... Se i musulmani moderati non riescono a smussare dall'interno il fanatismo dovremo farlo noi. Se non riescono a fermarli quelli della loro religione lo lascino fare agli altri, a chi ne è capace... Io non riesco a capire come non si accorgano che questa violenza sta uccidendo dall'interno la loro religione il loro Dio».
Il contrasto al terrorismo non è facile comunque la si giri...
«L'Occidente deve reagire con maggior decisione. Naturalmente bisogna saper colpire nel modo giusto ci sono anche islamici in fuga dai fanatici... Mi risulta che l'Isis abbia uno Stato, territori, città. Partiamo da lì, leviamoglieli, non risolverà la questione ma è un inizio. E iniziamo anche a dire che non siamo più disposti ad accettare la tolleranza verso gli estremisti nei Paesi arabi. Questi Paesi non possono pensare di sfruttare la tecnologia occidentale e basta. La nostra tecnologia è figlia del pensiero scientifico e della laicità e della pluralità, non si può staccarla dal pacchetto».
La politica stenta...
«La politica stentava a trovare una soluzione anche con i nazisti, si ricorda come è finita? Quando Feltri scriveva che era ora di ammettere la nostra paura, anche sulle vostre pagine, mi sono trovato d'accordo con lui. Ora è il momento di prendere la paura e trasformarla in forza di agire».
Sinistra ipocrita. E' guerra di religione. Lo dichiara Jean Birnbaum, che dirige Le Monde des Livres. Riprendiamo dalla NAZIONE di oggi, 25/03/2016, a pag.6, con il titolo " Ammettetelo, è guerra di religione ", l'intervista di Giovanni Serafini a Jean Birnbaum, direttore di Le Monde des Livres. Anche Le Monde pare accorgersi -anche se per ora nel supplemento dei libri - che si tratta di una guerra dove la religione islamica gioca il ruolo principale, Un quotidiano che è sempre stato in prima fila nell'escludere le reponsabilità dell'islam, vediamo ora se ne trarranno le debita lezione i nostri giornaloni, che sempre guardano al collega parigino quale primaria fonte di informazione, e cominceranno a cambiare musica. Le parole di Birnbaum sono illuminanti, tranne forse l'ultimo richiamo alla perduta spiritualità dell'Occidente. Non si vince il terrorismo islamico opponendogliene uno altrettanto fanatico anche se in salaa diversa. Si sconfigge l'invasione islamica e il conseguente terrorismo con l'unico strumento che i terroristi riconoscono immediatamete: la forza. Ecco il pezzo: Jean Birnbaum. Ha 42 anni, dirige Le Monde des Livres, il suo ultimo saggio (Un silenzio religioso) esamina le tragiche derive dell'Islam. Ne parliamo con l'autore, Jean Birnbaum. Che cosa induce dei giovani europei a diventare jihadisti e a compiere attentati? «Possiamo trovare spiegazioni nella geopolitica, nella storia, nel sociale, nell'economia. Ma se non siamo riusciti ad arginare il fenomeno, è soprattutto perché non abbiamo voluto decifrarlo per quello che è. Dietro gli attentati, gli attacchi dei kamikaze, le gesta sanguinarie di giovani killer pronti a immolarsi, c'è soprattutto l'aspetto religioso. Ma noi continuiamo a occultare questa realtà». Noi chi? «Tutti noi, rappresentanti dei media e della politica. Pensi agli attentati di Parigi: gli assassini sono entrati in azione invocando il nome di Allah, ma il presidente socialista della Francia straziata dagli attentati ha sostenuto che i killer non hanno niente a che vedere con l'Islam. E un errore imperdonabile, tipico della gauche. Si vogliono affibbiare per forza etichette geopolitiche, post-colonialiste e socio-economiche a un fenomeno che è invece espressione della potenza autonoma della spiritualità». Lei vuol dire che gli assassini dell'Isis sono spinti dalla fede? «Il collante che li tiene insieme è lo spirito religioso. Non appartengono a un milieu comune, vengono da città e ceti sociali diversi, ma compiono gli stessi gesti e usano le stesse parole ovunque, ad Aleppo come a Parigi, in Kenya come a Bruxelles. Parole e gesti ispirati a un'energia profondamente religiosa. Si richiamano ad Allah, agli angeli protettori, alle rivelazioni profetiche, ai versetti del Corano. Alcuni sono eruditi, altri che erano ignoranti si sono fatti una cultura. Un rapporto della polizia ha dimostrato che a casa dei fratelli Kouachi e di Coulibaby, gli assassini di Charlie Hébdo e dell'Yper Cacher, c'erano gli stessi libri: non dei manuali che insegnano a fabbricare bombe, ma le esegesi del Corano e altri testi religiosi». Stiamo vivendo una guerra di religione? «E questo l'aspetto centrale: se i governi che debbono fronteggiare la minaccia continueranno a dire che quel che sta succedendo non ha niente a che fare con l'Islam, non ne usciremo. Tanto più che lo slancio religioso è venuto a mancare nelle nostre società: i giovani jihadisti hanno la fede, noi no. Dunque sono più forti loro. Ed è impressionante vedere che le altre religioni si mostrano intimidite, come se l'islamismo fosse ormai la forma dominante del desiderio religioso. L'Islam ha una capacità di attrazione incredibile presso i giovani, peggio di una calamita: non esiste niente del genere per le altre dottrine». Che cosa possiamo fare per difenderci? «Prima di tutto chiamiamo le cose col loro nome: parlare di 'barbari' e di mostri' non aiuta a capire. Poi facciamo l'esame di coscienza: è ammissibile vendere armi all'Arabia Saudita, come ha fatto la Francia, nel momento stesso in cui autorità civili e religiose saudite lanciano appelli alla Jihad? Bisogna finirla con la realpolitik. Aiutiamo invece i giovani occidentali a ritrovare i valori perduti, primo fra tutti quello della spiritualità».
Cosa la sinistra non capisce del terrorismo islamico, scrive Giovanna Jacob il 9 Maggio 2016 su “Tempi”. Se da una parte cercano di nascondere il genocidio dei cristiani sotto tutta l’ombra del mondo, dall’altra i media di sinistra vanno da sempre a caccia del fantasma del “terrorismo cristiano”. Caro direttore, si è scoperto che fra i candidati del Pd per le elezioni amministrative del prossimo 5 giugno a Milano è presente una musulmana con velo d’ordinanza che non riesce a dimostrare in maniera convincente di non avere mai avuto nessun legame col famigerato gruppo dei Fratelli Musulmani, che sono fra i principali ispiratori del terrorismo jihadista. Non c’è nessuna ragione di credere che il Partito democratico simpatizzi con i Fratelli Musulmani o con altri gruppi della galassia fondamentalista. Quello che invece è certo è che la sinistra post-marxista occidentale, di cui il Pd è uno dei tanti partiti di riferimento, ha più simpatia per i non bianchi del terzo mondo che per i bianchi occidentali. Infatti la sinistra guarda ai non bianchi del terzo mondo come ai nuovi “proletari sfruttati” e agli bianchi occidentali come ai nuovi “borghesi capitalisti sfruttatori”. Perché mai i partiti della sinistra post-marxista, in tutti i paesi occidentali, cercano di incentivare con ogni mezzo l’immigrazione dai paesi del terzo mondo se non perché sperano che gli immigrati finiscano al più presto di disintegrare dall’interno l’odiata società borghese-capitalista con i suoi odiati valori borghesi-capitalisti (lo ha confessato un vecchio laburista inglese) e votino per pure per loro? Avendo perso elettori in casa, la sinistra li deve importare dal terzo mondo. E per assicurarsi che gli elettori d’importazione non sentano la tentazione di votare per qualche altro partito, i partiti di sinistra cercano sempre di infilare all’interno delle loro liste elettorali qualche immigrato. Il Pd milanese ha infilato nella sua lista una immigrata di origine mediorientale che professa la religione islamica. Dunque, i partiti di sinistra cercano sempre di fare entrare al loro interno qualche immigrato, non necessariamente musulmano. Ma c’è ragione di credere che, se devono scegliere fra un immigrato cristiano e un immigrato musulmano, preferiscono fare entrare il secondo. In teoria, i post-marxisti non dovrebbero preferire l’islam al cristianesimo, dal momento che per loro tutte le religioni sono “oppio dei popoli”. In pratica, non hanno per l’islam la stessa avversione che hanno per il cristianesimo. Non è affatto un caso che i media ufficiali (tutti occupati con gramsciana determinazione da giornalisti di sinistra) parlino il meno possibile o non parlino affatto del vero e proprio genocidio dei cristiani che i musulmani stanno portando a termine nei paesi del vicino oriente. Ad esempio, il giorno di Pasqua a Lahore, Pakistan, un kamikaze si è fatto esplodere in un parco, uccidendo 72 persone, fra cui 30 bambini. Perché i 30 bambini più i 42 adulti dilaniati a Lahore hanno fatto meno notizia dei 37 morti di Bruxelles? La risposta ufficiale è che il Pakistan è lontano mentre il Belgio è vicino. La vera risposta è che a Bruxelles i terroristi hanno voluto colpire dei cittadini occidentali qualunque, senza fare distinzioni fra cristiani e non cristiani, mentre a Lahore i terroristi hanno voluto colpire esplicitamente dei cristiani. Sebbene qualcuno abbia cercato di fare credere il contrario, la stragrande maggioranza dei morti di Lahore erano cristiani. Secondo la grande narrazione della sinistra post-marxista, quello che si sta consumando dall’11 settembre non è uno “scontro di civiltà” bensì uno “scontro fra religioni” ossia uno “scontro fra oscurantismi” che potrà cessare solo nel momento in cui finalmente tutto il mondo diventerà ateo e marxista. Per divulgare in maniera efficace questa grande narrazione, i media ufficiali ossia di sinistra hanno usato massicciamente, dall’11 settembre 2001 fino alla fine dello scorso decennio, la cara vecchia tecnica del riflettore: «Di tutto un ampio discorso s’illumina una piccola parte, ma tutto il resto, che servirebbe a spiegarlo e a dare a ciascuna cosa il suo posto, e verrebbe, per così dire, a formare un contrappeso a ciò che è stato messo in risalto, viene lasciato nel buio. In questo modo vien detta apparentemente la verità, poiché quanto è detto è incontestabile, e tuttavia tutto è falsato, essendo che la verità è composta di tutta la verità e del giusto rapporto tra le singole parti”» (Erich Auerbach). Nel nostro caso, i media puntavano i riflettori della propaganda sui pochi atti di violenza che i cristiani d’oriente commettevano contro i musulmani d’oriente e lasciavano nell’ombra gli infinitamente più numerosi atti di violenza che i musulmani commettevano contro i cristiani. Quando le stragi di cristiani compiute dai musulmani erano troppo grandi per equiparale alle timide reazioni dei cristiani contro i musulmani, i media di sinistra cercavano di minimizzare con ogni mezzo le responsabilità degli autori delle stragi: “I musulmani aggrediscono i cristiani perché credono che i cristiani siano complici degli eserciti ‘crociati’ di Bush, che stanno ammazzando i musulmani in Iraq e in Afghanistan”. Più in generale, i sinistresi interpretavano e tuttora interpretano l’integralismo terroristico come un “effetto collaterale” delle ingiustizie politico-economiche che, secondo loro, l’occidente infliggerebbe al mondo islamico. Dunque dal loro punto di vista per annientare l’integralismo terroristico non bisogna combattere contro integralisti e terroristi ma contro gli sfruttatori occidentali: i petrolieri, i capi delle multinazionali occidentali, le spie della Cia, i banchieri di Wall Street, i neoconservatori, i sionisti…Se da una parte cercano di nascondere il genocidio dei cristiani sotto tutta l’ombra del mondo, dall’altra i media ufficiali ossia di sinistra vanno da sempre a caccia del fantasma del “terrorismo cristiano”. Ansiosi come erano di mettere le mani su quel fantasma, nelle ore immediatamente successive alla strage di San Bernardino i giornalisti ufficiali ossia di sinistra si dicevano tutti sicuri che gli autori della strage fossero membri della “estrema destra cristiana”. Per il resto, ogni volta che i musulmani portano a termine una strage in occidente, i giornalisti di sinistra ci tengono a ricordare che le “milizie cristiane” del “cristiano Karadzic” negli anni Novanta hanno sterminato i musulmani bosniaci e che nel 2011 il “cristiano Breivik” ha ammazzato da solo molte più persone di quante ne abbiano ammazzate tre terroristi a Bruxelles. E c’è sempre chi non perde occasione per ricordare che i terroristi irlandesi dell’Ira e i mafiosi siciliani sono tutti dichiaratamente “cattolici”. Riepilogando, per tutto lo scorso decennio i media di sinistra hanno messo sullo stesso piano le violenze compiute dai musulmani contro i cristiani e le reazioni violente dei cristiani, che era come mettere sullo stesso piano le colossali violenze commesse dai nazisti contro i popoli conquistati e le violenze reattive commesse dagli alleati contro i soldati nazisti. Ma poi, verso la fine del decennio scorso, i media ufficiali hanno semplicemente smesso di parlare di “scontro fra religioni”. Perché? Perché ormai le violenze compiute dai musulmani contro i cristiani avevano raggiunto le proporzioni di un genocidio su vasta scala in tutto l’Oriente e il riflettore della propaganda non era più sufficiente per ingigantire le colpe dei cristiani e minimizzare quelle dei musulmani. A quel punto i media ufficiali-sinistrorsi hanno messo da parte la tecnica del riflettore e hanno cominciato ad usare un’altra tecnica, molto più potente: la tecnica del silenzio. Delle violenze subite dai cristiani in tutte le terre dell’islam se ne deve parlare il meno possibile o non se ne deve parlare affatto. Come accennato, i post-marxisti in teoria non dovrebbero fare preferenze fra cristianesimo e islam ma in pratica hanno dell’islam una opinione molto migliore di quella che hanno del cristianesimo. Essi tanto detestano il Medioevo cristiano quanto invece esaltano la civiltà islamica medievale, che nella loro immaginazione è stata la culla della scienza, della libertà di pensiero, della laicità e di quasi tutte le cose belle per cui vale la pena vivere. Da lunghi articoli apparsi sulle pagine culturali di Repubblica abbiamo appreso che nel Medioevo gli arabi si dedicavano alla scienza e alle arti mentre i cristiani pensavano solo ad uccidere gli arabi con le crociate. Siccome le leggende nere sul Medioevo e sulla storia della Chiesa inventate dagli illuministi sapevano di vecchio, oggi la stampa di sinistra ne inventa di nuove, ad esempio quella sui preti pedofili (cui è dedicato il film Spotlight, passato di recente per le sale) e quella su madre Teresa. L’Huffington Post ci ha informato che madre Teresa non curava i malati perché amava vederla soffrire e non si sa come investiva né dove nascondeva le cospicue donazioni che riceveva dai privati. Per andare subito al sodo, leggende d’oro sull’islam medievale sono figlie legittime delle leggende nere contro la Chiesa. Infatti per gli atei illuministi e post-illuministi tutte le religioni sono oscurantiste ma quella cristiana lo è più delle altre (segnalo che dal 15 al 17 aprile a Filadelfia i “progressisti” democratici-obamiani made in Usa si sono riuniti per riflettere insieme su quanto male la cultura cristiana dei bianchi ha fatto al mondo intero). Dopo avere dunque dimostrato (con prove false) che il cristianesimo in generale, quello cattolico in particolare, è oscurantista, gli atei post-illuministi dovevano dimostrare (con prove false) che le religioni antagoniste lo sono di meno. Ad esempio, in Italia l’orientalista di ispirazione positivista e anti-religiosa Michele Amari (1806 –1889) con la sua Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872) è riuscito a convincere generazioni di orientalisti italiani che, durante la dominazione araba (827-1091), arabi e siciliani autoctoni vivevano in perfetta armonia coltivando tutte le arti e tutte le scienze. Da opere storiche più recenti e meglio documentate (La Sicilia Musulmana di Alessandro Vanoli, Il Mulino 2012, e L’isola di Allah di Salvatore Tramontana, Einaudi 2014) emerge che la Sicilia musulmana poteva essere un paradiso per i musulmani ma non per i siciliani: infatti i primi si facevano mantenere dai secondi. Oltre che a pagare pesanti tributi ai loro padroni musulmani, i siciliani autoctoni erano costretti a rispettare molteplici, umilianti divieti, che ne facevano poco più che servi. Bisogna aggiungere che, nel corso del Medioevo, i musulmani non diedero contributi originali né all’arte né alla scienza e nemmeno all’agricoltura: si limitavano ad appropriarsi della cultura scientifica, artistica e agricola dei popoli da loro conquistati. Sebbene tutt’oggi sia ancora molto diffusa l’idea che i musulmani abbiano introdotto nella penisola iberica (in cui rimasero dal 718 al 1492) sia dei geniali sistemi di irrigazione sia la cosiddetta “architettura moresca”, basata sul celebre arco a ferro di cavallo (“arco moresco”), in realtà quei geniali sistemi di irrigazione erano diffusi in Spagna già in epoca romana (cfr. Irrigation Agrosystems in Eastern Spain: Roman or Islamic Origins? di W. Butzer e altri; Annals of the Association of American Geographers, Vol. 75, No. 4, Dec., 1985, pp. 479-509) mentre la cosiddetta architettura moresca non l’hanno portata i “mori”, dal momento che era diffusa nella penisola iberica da ben prima del loro arrivo. Con ogni evidenza, furono gli architetti del regno visigotico ad inventare quello stile architettonico, che dunque dovrebbe chiamarsi “visigotico”. Per quanto riguarda la scienza, Averroè e tutti gli altri (non molti) filosofi-scienziati di religione musulmana che vissero fra il X e il XI secolo furono duramente osteggiati dalle sette islamiche dominanti, convinte che non si potesse ragionare sul mondo e allo stesso tempo avere fede in Dio. Nell’opera dall’eloquente titolo L’incoerenza dei filosofi, apparsa nel 1094, Al Gazali vietò ufficialmente ai filosofi di filosofare. Dopo che Averroè aveva eroicamente e inutilmente cercato di confutare la tesi di Al Gazali nell’opera L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi (1180), di fatto la produzione filosofica si arrestò in tutto il mondo islamico. Da allora, ai pensatori islamici è concesso soltanto di commentare i testi sacri dell’islam. Alcune copie delle opere dell’ultimo filosofo musulmano finirono nelle mani di Michele Scoto, che nella prima metà del XIII secolo le tradusse in latino e le fece conoscere in Europa. Alla fine del XIII secolo, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino si accorsero che, sebbene Averroè presentasse il suo pensiero come “commento” all’opera di Aristotele, in realtà il suo pensiero non solo era molto difforme dal pensiero dell’antico filosofo greco ma portava verso una visione panteista e materialista che non si poteva conciliare con la fede cristiana (non a caso le tesi averroiste, che seducevano molti studenti della Sorbona, furono condannate dal vescovo di Parigi nel 1270). Soprattutto, Albero Magno e il suo allievo si accorsero che le traduzioni arabe erano molto poco fedeli ai testi originali di Aristotele, di cui erano state appena ritrovate alcune copie. Quindi, che siano stati gli arabi a consegnare agli europei i testi di Aristotele è vero solo fino ad un certo punto. Per capire qualche cosa delle cosiddette crociate, bisogna tenere presente la fondamentale distinzione fra aggressori e aggrediti. Da che mondo è mondo, chi aggredisce sta dalla parte del torto mentre chi reagisce alla aggressione sta dalla parte del giusto. Ora, un numero crescente di storici (Robert Spencer, Thomas Madden, Jonathan Riley-Smith, Paul Crawford, Rodney Stark e tanti altri) non hanno dubbi sul fatto che i crociati fossero dalla parte del giusto. Dal secolo VIII al secolo XI, i pirati musulmani avevano ininterrottamente portato distruzione e morte lungo tutte le coste europee. Dopo avere conquistato tutti i territori del medio oriente più la Sicilia e l’Andalusia, le potenze musulmane avevano cercato più volte di penetrare in Europa via terra e via mare. Perché gli europei non avrebbero dovuto reagire? Le crociate non furono dunque guerre “di aggressione” ma guerre diciamo “di reazione” che avevano due scopi precisi: il primo era liberare la Terra Santa dagli invasori islamici, il secondo era fermare l’avanzata degli invasori islamici dall’altra parte del Mediterraneo. Come tutti i crimini commessi dai soldati alleati in Germania (in ogni caso molto meno numerosi dei crimini di guerra compiuti dai nazisti) non hanno fatto passare gli alleati dalla parte del torto e i nazisti dalla parte del giusto, così tutti i crimini contro i musulmani che i crociati possono avere commesso in Terrasanta (in ogni caso molto meno numerosi e molto meno gravi dei crimini commessi dai musulmani contro i crociati) non hanno fatto passare i crociati dalla parte del torto. Oltretutto, se e quando si macchiavano di gravi crimini, i crociati agivano in contrasto con la loro fede, dal momento che il Vangelo non autorizza a commettere alcun genere di crimine mentre i testi sacri dell’islam non so. Con le loro azioni criminali, i terroristi sedicenti cattolici dell’Ira e i mafiosi di Cosa Nostra (che tanto ci tengono a presenziare alle processioni dei santi) si sono consapevolmente posti al di fuori dalla Chiesa. Invece di cianciare di “terrorismo cattolico” e “mafia cattolica”, i giornalisti di sinistra farebbero bene a ricordare ogni tanto che sia i terroristi sedicenti cattolici dell’Ira sia i mafiosi sono stati ufficialmente scomunicati. Dal momento che non è possibile trovare alcun argomento a favore del razzismo né nel Vangelo né nella Bibbia, la destra bianca cristiana degli Usa, che mescola Vangelo e razzismo, non potrebbe neppure chiamarsi cristiana. Il massone norvegese Anders Breivik, che i giornalisti di sinistra si ostinano a chiamare “terrorista cristiano”, ha spiegato lui stesso, in un corposo manifesto, quanto poco cristiana sia la sua visione del mondo. Infine, il serbo Radovan Karadzic, che i giornalisti di sinistra definiscono “cristiano”, è “cristiano” come può esserlo Breivik, che non a caso nel suo manifesto elogia lo stragista serbo. Sia l’uno che l’altro non credono in Cristo: Karadzic crede ossia idolatra la “identità serba”, Breivik crede ossia idolatra la “identità occidentale”. Sia l’uno che l’altro guardano al cristianesimo non come ad una religione in cui credere ma come ad un folklore religioso “identitario”. Se per Karadzic il folklore cristiano è ornamento spirituale della “identità serba”, per Breivik è ornamento spirituale della “identità occidentale”. Dal momento che hanno compiuto azioni contrarie alla volontà di Cristo e non se ne sono mai pentiti, non avrebbero il diritto di proclamarsi cristiani neppure se lo volessero. E dal momento che nel Vangelo non è possibile trovare nessun argomento a favore della pedofilia, i preti pedofili sono fuori dalla Chiesa alla stregua dei mafiosi. Oltretutto, i media farebbero bene a sottolineare che la percentuale di pedofili all’interno degli ambienti ecclesiastici è molto più bassa della percentuale di pedofili all’interno della società laica in generale (Massimo Introvigne esamina tutti gli aspetti del problema nel libro Preti pedofili. Abbiamo visto che secondo la sinistra post-marxista l’occidente sfrutta il terzo mondo e tutte le religioni sono oscurantiste, ma il cristianesimo lo è più delle altre. Dal momento che non ama né l’occidente né il cristianesimo e guarda con simpatia all’islam, la sinistra non vuole sentire parlare di scontro fra civiltà cristiana-occidentale e civiltà islamica. Per scoraggiare ogni discussione in proposito, la sinistra sostiene che basta parlare di “scontro di civiltà” per renderlo reale (“profezia che si autorealizza”), che è come dire che basta urlare “al fuoco” per scatenare un incendio. Più in generale, la sinistra afferma che le civiltà non si scontrano in quanto le civiltà non esistono proprio, sono insiemi di culture diverse. Secondo la loro grande narrazione, dentro quella che chiamiamo “civiltà occidentale” ci sono componenti culturali fin troppo eterogenee fra loro: la cultura classica, il cristianesimo, le eresie medievali, l’ateismo, l’illuminismo, la tecno-scienza, la cultura moderna, il modernismo, il postmodernismo. In realtà, la civiltà occidentale non è un semplice raccoglitore di culture diverse: tutte le sue diverse componenti culturali ruotano attorno al cristianesimo. La cultura classica è stata salvata e rielaborata dal cristianesimo medievale, le eresie medievali nascono come deformazioni del cristianesimo, l’ateismo non può esistere senza la fede cristiana in quanto ne è il contrario speculare, l’illuminismo contiene sia argomenti atei che argomenti cristiani, la cultura tecno-scientifica nasce direttamente dalla teologia cattolica (tesi sostenuta da un numero crescete di studiosi, di cui evito di fare l’elenco), la cultura moderna (che si basa sui diritti dell’uomo, sulla laicità e sulla democrazia) è figlia del cristianesimo, il modernismo (che comprende le ideologie totalitarie: comunismo e nazismo) e il postmodernismo (che porta al relativismo e al nichilismo) invece sono figli dell’ateismo. Dopo avere negato l’esistenza della civiltà occidentale, la sinistra ripudia i valori occidentali. Accecati da un relativismo culturale e morale divenuto totalitario, gli intellettuali di sinistra perseguitano gli stessi musulmani (come ad esempio Kamel Daoud) che vorrebbero obbligare i loro correligionari rispettare i valori occidentali. Perché la sinistra postmodernista ripudia i valori occidentali e usa il relativismo morale per distruggerli, se non proprio perché ha capito che i valori occidentali sono valori cristiani? E perché nega l’esistenza della civiltà occidentale e spera che le altre civiltà la travolgano, se non perché ormai è chiaro che la civiltà occidentale è figlia del cristianesimo? Dopo avere messo sullo stesso piano la civiltà che difende tutti i diritti dell’uomo e la civiltà che li nega tutti, la sinistra mette i diritti dell’animale sullo stesso piano dei diritti dell’uomo. Dopo avere negato la superiorità della civiltà occidentale su tutte le altre civiltà, la sinistra coerentemente arriva a negare la superiorità dell’uomo sull’animale. Quindi, oggi la cultura di sinistra si salda non soltanto con la cultura relativista-multiculturale ma anche con la cultura ecologista-animalista. Che cosa dicono in sostanza, gli ecologisti-animalisti? Dicono che un animale ha lo stesso valore di un essere umano ossia un essere umano non vale più di un topo anzi un essere umano vale meno di un topo in quanto il topo rispetta la natura mentre l’uomo la distrugge e quindi, per il bene della natura e degli animali, la razza umana farebbe meglio ad estinguersi volontariamente tramite il “rientro dolce”. Duecento anni fa l’Occidente ha deciso di buttare via la Bibbia, dove c’è scritto che l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio ed è stato messo da Dio a capo del creato. E così siamo diventati prima scimmie evolute (Darwin) e poi scimmie e basta. Oggi abbiamo da una parte dei terroristi che guardano a noi “infedeli” occidentali come a scimmie o maiali da sterminare, dall’altra abbiamo degli occidentali secondo i quali ciascuno di noi non vale più di una scimmia o un maiale o perfino di un verme o un insetto. Da un lato abbiamo fondamentalisti che negano o esaltano l’olocausto degli ebrei, dall’altra abbiano occidentali secondo i quali i consumare carne animale è come uccidere gli ebrei, che è come dire che gli ebrei non valgono più dei manzi e dei polli (durante la trasmissione In Onda del 3 aprile 2016, due animaliste hanno chiesto di fermare “l’olocausto degli animali”, che per loro è addirittura “la nuova Shoah”). Non abbiamo più scelta: se non vogliamo essere trattati come animali dai nuovi barbari che vivono dentro e fuori i confini dell’occidente, dobbiamo difendere le radici cristiane della nostra civiltà.
La questione migranti che portò Roma al collasso, scrive Elisabetta Intini il 9 maggio 2016 su “Focus”. La cattiva gestione dell'ondata migratoria di Goti, nel quarto secolo, generò le ostilità alla base della Battaglia di Adrianopoli, l'inizio della fine per l'Impero Romano d'Occidente. Una vicenda da cui avremmo da imparare. Il 9 agosto del 378 d.C., ad Adrianopoli, in Tracia - nella moderna provincia turca di Edirne - si consumava una delle peggiori sconfitte militari mai subite dai romani: il massacro di 30 mila soldati dell'impero, guidati da Flavio Giulio Valente, perpetrato dai Goti, al seguito del re guerriero Fritigerno. Secondo gli storici, quella disfatta segnò l'inizio della catena di eventi che avrebbe portato alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, nel 476. Ripercorrere oggi gli eventi che portarono alla battaglia di Adrianopoli è interessante: secondo una lettura dei fatti di allora pubblicata su Quartz, all'origine della strage ci sarebbe stata la cattiva gestione, da parte dei romani, di un'imponente ondata migratoria di Goti avvenuta due anni prima. Gli stessi Goti che si sarebbero trasformati nei carnefici delle legioni dell'Urbe. Nel 376 d.C., racconta lo storico Ammiano Marcellino, i Goti furono costretti ad abbandonare i propri territori (nell'attuale Europa orientale) spinti dagli Unni, "la razza più feroce di ogni parallelo", che premeva da nord sui loro confini. Il loro arrivo, "come un turbine, dalle montagne, come se fossero saliti dai più segreti recessi della Terra per distruggere tutto quello che capitava a tiro", provocò un bagno di sangue tra i Goti che decisero - come fanno oggi i siriani - di fuggire. I Goti, guidati da Fritigerno, chiesero allora ai Romani di potersi stabilire in Tracia, al di là del Danubio: una terra fertile con un fiume che li avrebbe protetti da un'invasione unna. Quell'area era governata dall'imperatore Valente, al quale i Goti promisero sottomissione a patto che avessero potuto vivere in pace, coltivando e servendo i romani come truppe ausiliarie. In segno di gratitudine, Fritigerno si convertì anche al cristianesimo. Inizialmente le cose sembrarono funzionare: i Romani, nei confronti delle popolazioni sottomesse, esercitavano abitualmente una strategia inclusiva. Preferivano farne cittadini romani e assimilarne la cultura, per evitare future ribellioni. Decine di migliaia di Goti (forse oltre 200 mila) guadarono il Danubio di giorno e di notte, imbarcandosi su navi e scialuppe di fortuna; molti di essi, per il gran numero, annegarono, e furono trascinati via dalle correnti. In base agli accordi, i Goti arrivati in Tracia sarebbero stati coscritti nell'esercito romano e avrebbero ottenuto la cittadinanza. Ma gli ufficiali militari che dovevano garantire loro supporto e provviste - un'antica rete di supporto ai migranti - si rivelarono corrotti e approfittarono dei mezzi stanziati per i nuovi arrivati, vendendo le provvigioni al mercato nero. Ridotti alla fame, i Goti furono costretti a vendere i figli come schiavi e a comprare carne di cane dai romani. Le ostilità tra le due popolazioni crebbero. Il risentimento covato dai Goti li portò dal desiderare di divenire romani al desiderio di annientare i romani. Fu con questa rabbia covata a lungo che sterminarono gli eserciti di Valente. E la battaglia fu l’inizio della valanga che travolse l’Occidente. Tanto che molti storici assumono il 9 agosto 378 come data spartiacque tra l’antichità e il Medioevo. Nella gestione dei flussi migratori, oggi, ci si prospettano due strade: quella dell'inclusione, e quella del rifiuto e del respingimento. Se è vero che la storia è magistra vitae, abbiamo già visto una volta dove porta la seconda via.
Buoni con i kamikaze, teneri con il tiranno. Ci diciamo che non abbiamo più lacrime. Ma non facciamo nulla per prevenire attentati e raid di morte, scrive il 22 luglio 2016 Giorgio Mulè su "Panorama". Ci diciamo che non abbiamo più lacrime. Lo ripetiamo sconvolti mentre scorrono le immagini dell'ennesima strage, attoniti mentre una mano accarezza le bare allineate per i funerali. Ci sentiamo rassegnati quando malediciamo l'ultimo kamikaze e, cambiando canale, apprendiamo che, di nuovo, i terroristi hanno colpito. Sì, ci sentiamo rassegnati e impotenti. Perché vorremmo risposte, vorremmo essere rassicurati dalla certezza che stiamo facendo di tutto per prevenire attentati e raid di morte. Non è così. Lo denunciamo da anni, prima ancora di piangere le vittime di Parigi e Bruxelles, di Dacca e Nizza. L'Italia, semplicemente, si è ben guardata dall'essere in prima linea e ha preferito fare da ruotino di scorta a un dispositivo sgangherato e disorganizzato. Non siamo di fronte oggi a una tragedia che si traduce in farsa ma, peggio, a un'inerzia che diventa macchietta. C'è l'Italia ma sullo stesso piano c'è l'Europa, quel concetto di Unione che ha fallito clamorosamente sul fronte del terrorismo islamico e prima ancora su immigrazione e rilancio dell'economia. Siamo perplessi e sconcertati nel leggere di beghe tra comari e mancanza di coordinamento tra polizia e procure oppure tra magistrati stessi. Cadono le braccia davanti all'improvvisazione di un ministro dell'Interno che per contrastare i jihadisti tira fuori dal cilindro l'idea di far passeggiare armati poliziotti e carabinieri quando non sono in servizio. O, peggio, di fronte alla trovata geniale del presidente del Consiglio che istituisce una commissione di indagine formata da tecnici indipendenti (ci vedo bene il suo amichetto finanziatore Marco Carrai) sull'Islam radicale "come strumento di conoscenza e di contrasto al fenomeno" che dovrà terminare i lavori tra i 90 e i 120 giorni. Tra ottobre e novembre, annuncia, "avremo la prima disamina ampia e particolareggiata di questo argomento". Il che equivale a dire: finora siamo andati a tentoni, non abbiamo saputo mettere insieme le informazioni, non disponiamo di un piano di prevenzione serio, lo sforzo dei nostri apparati di intelligence è stato ed è tuttora vano. E voi, integralisti tagliagole che fate impunemente avanti e indietro dall'Italia (vedi i fiancheggiatori individuati per le stragi di Parigi e Nizza), state pure tranquilli perché fin quando non arriverà il generale inverno saremo impegnati con la nostra commissione a comprendere il livello di radicalizzazione nelle comunità islamiche. Tutto questo fa parte di un canovaccio da operetta, l'ennesima dimostrazione della mala arte di vivacchiare che ci contraddistingue. La stiamo sperimentando anche dopo i fatti della Turchia. Con il suo contro golpe, Recep Tayyip Erdogan sta toccando vette di disumanità che neanche Augusto Pinochet aveva raggiunto: le immagini dei soldati ammassati come bestie e picchiati selvaggiamente, i rastrellamentie le purghe di magistratie poliziotti invisi al regime sono lìa testimoniarlo. Qual è la nostra reazione? Un invito a non introdurre la pena di morte, come se già non fosse applicata. Tutto qui: a Erdogan diciamo di non esagerare, di sistemare le sue cosucce però senza clamore. Questo non è l'Occidente, siamo quasi all'Eurabia preconizzata quindici anni fa da Oriana Fallaci. E ancora non abbiamo toccato il fondo.
QUELLI CHE...ORIANA FALLACI AVEVA TORTO.
Dalle colonne del giornale vaticano si nasconde la verità.
DA MONACO A NIZZA, SMETTETELA DI CITARE ORIANA FALLACI (CHE AVEVA TORTO). Subito dopo ogni attentato, senza sapere se si tratta di Isis o di qualche folle omicida come nel caso di Monaco, sui social network si tirano fuori le tesi dell’autrice sullo scontro di civiltà tra l’Occidente cristiano e i musulmani assassini in nome di Allah ed è tutto un fiorire di “scusaci, Oriana”. Ma di che cosa? La sua tesi, che non ha senso confutare oggi, l’abbiamo vista all’opera nella sciagurata politica anglo-americana di Bush e Blair in Medio Oriente. Ecco perché, una volta per tutte, bisognerebbe smetterla di citare la scrittrice, scrive Antonio Sanfrancesco il 23/07/2016 su "Famiglia Cristiana". Uno dei danni collaterali degli attacchi terroristici che stanno insanguinando questi mesi uccidendo vittime innocenti in ogni parte del globo è l’idiozia che dobbiamo puntualmente sorbirci da parte di chi, bontà sua, tre minuti tre dopo l’attacco, senza che ovviamente la polizia e gli inquirenti sappiano ancora nulla di preciso, intasa i social network, Facebook e Twitter in particolare, con citazioni del pamphlet La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci e la sua teoria sulla guerra di civiltà: noi occidentali e cristiani vittime dei musulmani tagliagole e assassini in nome di Allah. La Fallaci è stata tirata fuori nel novembre scorso dopo la strage di Parigi e l’assalto al Bataclan, poi dopo l’attentato a Bruxelles di marzo, poi di nuovo a giugno dopo l’assalto di Omar Mateen in un club gay di Orlando, in Florida, salvo poi scoprire pochi giorni dopo che Mateen era a sua volta un gay con la mente disturbata e il suo presunto legame col Califfato era tutto da dimostrare. Per stare alle ultime settimane, la Fallaci è stata tirata fuori di nuovo dopo la strage sul lungomare di Nizza («Molte persone hanno in odio la #Fallaci semplicemente perché ha predetto quello che sarebbe successo #Nizza», ha cinguettato un’utente su Twitter) e, adesso, dopo l’attacco al centro commerciale Olympia di Monaco di Baviera dove, come appurato finora dagli inquirenti, la matrice islamista non c’entra e il killer è un diciottenne tedesco-iraniano, Ali Sonboly, in cura per depressione e forse vittima di bullismo che si sarebbe ispirato al killer norvegese Anders Breivik autore, cinque anni fa, della strage di Utoya dove furono uccise 77 persone. Pochissimi minuti dopo gli spari nella città bavarese, però, Oriana Fallaci su Twitter era già nei trend (le parole che segnalano gli argomenti più discussi dagli utenti) con analisti da strapazzo a commentare e beccarsi tra di loro. Per fortuna con qualche spiraglio d’ironia come quella di Francesca che scrive: «Ma fatemi capire, Oriana Fallaci la tenete salvata nelle bozze che appena succede qualcosa pubblicate qualche sua frase?». Eh sì, è proprio così. Citare la Fallaci, come una sorta di risarcimento postumo perché lei aveva capito tutto e noi niente, perché lei sì che aveva ragione e noi torto, per molti è diventato un riflesso quasi pavloviano. Si va in automatico ormai: un folle o un terrorista spara, a Monaco o a Bruxelles, a Nizza, a Dacca o a Istanbul e si tira fuori dall’armadio la Fallaci e il suo pamphlet scritto di getto qualche giorno dopo gli attacchi terroristici alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 nel quale riversava tutto il suo senso di frustrazione e rabbia per quanto appena accaduto. Ma davvero la scrittrice aveva individuato le soluzioni giuste per combattere il terrore islamista? Quel libro aveva una tesi, abbastanza insostenibile per la sua mancanza di flessibilità e di pragmatismo: la superiorità dell’Occidente cristiano e la violenza religiosa della cultura islamica, a tutti i suoi livelli, che prepara l’attacco agli Usa e all’Europa e vuole ucciderci tutti. Una tesi assoluta, da “noi contro loro”, da “bene contro male”, che non ha senso provare a confutare quattordici anni dopo. Una tesi avanzata peraltro quando il mondo era completamente diverso da com’è oggi. Nel 2001, per stare solo al Medio Oriente, c’erano Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia, in Tunisia Ben Ali, in Israele il primo ministro era Ariel Sharon. E poi – ma questa è materia di analisti e studiosi – in questi quattordici anni le tesi della Fallaci hanno avuto largo seguito nella politica anglo-americana come ad esempio la guerra, basata su prove false costruite a tavolino, contro l’Iraq di Saddam Hussein condotta dall’accoppiata Bush-Blair e altre che hanno messo a soqquadro il Medio Oriente. Non è colpa della Fallaci, ovviamente, se sono state fatte queste guerre illegali, inutili e dannose se l’obiettivo era quello di combattere il terrorismo. Ma la strategia politico-militare (più militare che politica, forse) di questi anni ricalca abbastanza bene le sue teorie. Abbiamo risolto qualcosa? Il terrore è stato vinto? Il Medio Oriente è stato pacificato? No, purtroppo. E allora perché citare la Fallaci? Non sarebbe meglio dire una volta per tutte: “Cara Oriana avevi torto” e non citarla più?
Stessa linea portata avanti dai comunisti.
Oriana Fallaci aveva torto, scrive Gianluca Briguglia il 17 novembre 2015 su "Il Post". Con quattordici anni di ritardo, ieri, ho letto La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci. Incuriosito dall’articolo di Battista sul Corriere della sera di domenica – che esplorando Twitter notava tutto un fiorire di “Scusaci Oriana, avevi ragione”, risarcimento postumo di una rancorosa incomprensione in vita – ho deciso di colmare la lacuna. La prima cosa che mi ha colpito è la qualità di una scrittura affilata e a tratti scintillante, che è che come l’estensione, la forma scritta, di una personalità eccezionale. Del resto tutto il libro si regge sulla credibilità della sua autrice. È la molteplicità delle storie vissute da Oriana Fallaci quello che è capace di fare della rabbia un testo. Ho trovato pieni di colorata meraviglia i riferimenti al Risorgimento, l’evocazione dei personaggi della storia italiana, il dialogo con quelli della storia americana. È lo stupore brillante di una storia da sussidiario delle elementari e lo dico come complimento, perché in fondo è proprio su quei sussidiari che ognuno di noi ha capito chi era. Poi naturalmente il Rinascimento non è stato come dice il libro, la storia europea non è come la racconta lei, ma questo non conta. Come sarebbe bello se nei discorsi politici e pubblici si fosse capaci di citare qualche volta Garibaldi, Silvio Pellico, la storia di Firenze e tutto il resto anche pure in quel modo filologicamente sbagliato. L’orgoglio del libro per un’Italia della dignità che sembra non esserci più, affondata dalle debolezze, dagli opportunismi, da chi non ama il Paese, dai pennivendoli che scrivono bugie sui giornali in cambio di uno stipendio, dall’ipocrisia del politicamente corretto è, insieme alla scrittura, la vena più felice del libro. (Rimane per me un mistero come possano riconoscersi in questa vena personaggi come Salvini, come certi giornalisti prezzolati o certi intellettuali un po’ dandy e un po’ ormai rincoglioniti che twittano come se non ci fosse un domani. Ma questa è un’altra storia). Il libro ha un’unica tesi, insostenibile nella sua mancanza di flessibilità e pragmatismo: la superiorità dell’Occidente e la violenza religiosa della cultura islamica, a tutti i suoi livelli, che prepara l’attacco finale agli Stati Uniti e all’Europa. È una tesi assoluta, che non ammette diminuzioni e che come tutte le tesi non scientifiche è inconfutabile (e che non ha senso tentare di confutare a distanza di 14 anni). Il libro è stato scritto nel 2001, pochi giorni dopo l’11 settembre, di cui restituisce tutto il senso di frustrazione e la sacrosanta necessità di una reazione. È di questo che dovremmo ringraziare a quattordici anni di distanza Oriana Fallaci? Aveva ragione lei? Aveva davvero individuato una strategia di risposta, delle soluzioni? Quattordici anni sono molti e tante cose sono successe. Nel 2001 il premier britannico era Tony Blair, in Francia c’era Chirac (ma ancora al primo mandato) e la Francia non era nella Nato per antica dottrina gollista e aveva come moneta il franco, noi avevamo la lira, ancora per pochissimo, in Germania c’era Schroeder, il papa era Giovanni Paolo II (sì, Karol Wojtyła), in Palestina c’era Arafat, in Italia gli atei non erano ancora devoti (diventeranno devoti qualche anno dopo e oggi sono ancora atei, ma non più devoti), Magdi Allam era musulmano (moderato), Berlusconi era calvo, poi qua e là c’erano Saddam Hussein, Gheddafi, in Tunisia Ben Ali, in Israele il primo ministro era Ariel Sharon. Insomma il mondo era molto diverso e aveva di fronte a sé molte opzioni, molte possibilità. Si è scelto di fare delle guerre, alcune inevitabili, giuste e utili (a mio modestissimo parere), come quella contro i Talebani dell’Afghanistan, altre illegali e probabilmente inutili e anzi dannose, come quella che finì con Bush su una portaerei a dire “missione compiuta” (e invece doveva ancora cominciare tutto), altre strane e senza alcuna strategia per il dopo. Tutte guerre militarmente (quasi) vinte e tutti dopoguerra persi. Sono morte centinaia di migliaia di persone, in massima parte civili. Tutto questo non può essere imputato alla Fallaci, naturalmente. Ma il punto è che a guardare indietro, retrospettivamente, tutta questa strategia politico-militare, durata quattordici anni con fasi alterne e ripensamenti, è quanto di più simile alla linea che quel libro traccia. Radicalizzando, si può dire che l’opzione Fallaci è diventata la realtà storica degli anni successivi al libro. Radicalizzando, possiamo dire che abbiamo fatto del nostro meglio per seguire quanto il libro in certo modo poteva suggerire. I risultati di quella strategia sono catastrofici, oggi lo possiamo dire perché è sotto gli occhi di tutti: non abbiamo risolto quasi nulla. Probabilmente altre guerre ci saranno (ci sono già), e alcune inevitabili e perfino giuste, ma saranno inutili e dannose se associate a quella teoria semplice, assoluta e inconfutabile che i sostenitori di quel libro continuano a ripetere come se niente fosse successo. Quindi dobbiamo dirlo: “Scusaci Oriana, sei stata capace di ispirarci con tutto il tuo percorso, ma su questo avevi torto, torto marcio”.
Perché Oriana Fallaci aveva torto marcio, scrive Saverio Tommasi giovedì 8 gennaio 2015. Qualche stolto, di cui Gasparri è solo l'esempio più evidente, ha individuato nell'attentato a Chiarlie Hebdo le ragioni di Oriana Fallaci. Cioè le ragioni della guerra in virtù di uno scontro di civiltà. Oriana Fallaci chi? Quella che ha passato un pezzo della sua vita raccontando, bene, il mondo e le sue trasformazioni. Ma anche quella che negli ultimi anni aveva sbroccato come un George Bush qualsiasi al bancone del bar. E complice una malattia (e chissà cos'altro) era finita per sostenere "se costruiscono una moschea a Colle Val d'Elsa vado a prendere l'esplosivo e la faccio saltare io personalmente". Cioè una che allo stesso tavolo avrebbe fatto fare la figura del tenero a George Bush. Una fine di merda, insomma, a cui però gli stolti (che i suoi libri più belli non li hanno letti e si sono fermati ai suoi editoriali sul Foglio di Ferrara), si appigliano per provare l'improvabile. E cioè che l'attentato a Chiarlie Hebdo sarebbe la prova che non è possibile una convivenza pacifica con l'Islam e che per salvarci doppiamo continuare a usare la guerra come mezzo per esportare la democrazia.
Eppure la lettura dell'attentato a Charlie Hebdo è esattamente opposta, e cioè certifica la sconfitta della guerra in tutte le sue forme. Perché, ricordiamolo, la linea di Oriana Fallaci non era solo di Oriana Fallaci, ma fu quella che poi venne ferocemente applicata da quasi tutti gli Stati del mondo occidentale. Infatti nonostante la seconda potenza mondiale (come la definì il New York Times) fosse il movimento per la pace, noi quella lotta la perdemmo. E vinsero le destre, Bush e D'Alema. Ricordiamo qualche cifra: la guerra in Afghanistan cominciò il 7 ottobre del 2001 (ed è ancora in corso) e la guerra in Iraq il 20 marzo 2003. Il 90% dei morti sono stati civili, fra questi bambini e donne la maggioranza. La guerra in Afghanistan costa ancora oggi 250 milioni di euro al giorno, cioè la stessa cifra che servirebbe per costruire finanziare e far funzionare dieci centri ospedalieri di prima eccellenza per tre anni (Gino Strada, conti alla mano). Senza considerare le cifre della guerra in Iraq, il mantenimento di Guantanamo e la violazione sistematica dei diritti civili. Praticamente se la coalizione internazionale avesse riposato una settimana, o invece del 7 ottobre fosse partita, ad esempio, il 15 ottobre (cioè otto giorni dopo), avremmo avuto i soldi per costruire 80 ospedali di prima eccellenza e farli funzionare per tre anni. E, rimandando la partenza di un'altra settimana ancora, avremmo potuto costruire 800 asili. Immaginatevi cosa avremmo potuto fare evitando del tutto le guerre e seguendo la linea del movimento per la pace. Invece quel giorno del 2001 vinsero le linee politica di Oriana Fallaci, di George Bush e (in Italia) di Massimo D'Alema e Berlusconi. Ricordiamocele, queste cose, perché presto tenteranno altri imbrogli, svilendo il principio e mistificando la realtà. E noi dobbiamo avere cuore grande e mente ferma. Un abbraccio a chi cammina per la pace, alle dodici famiglie e ai loro dodici cari. Viva Charlie Hebdo! In alto le matite!
Una mia vecchia lettera non spedita a Oriana Fallaci. (Conversazione con Adriano Sofri pubblicata su "Il Foglio" il 29 marzo 2016). Oggi sono in molti a dirsi che Oriana Fallaci aveva ragione, a tal punto da potersi permettere di avere platealmente torto. Il problema è: benché avesse molte ragioni, aveva torto? O: benché avesse molti torti, aveva ragione? Nel novembre 2001 le scrissi una lettera aperta. Poi non la pubblicai, anzi non la finii nemmeno. Forse perché non ne ero soddisfatto, o perché mi dispiaceva litigare con lei. Era stata solidale con me, che ero in galera. Mi aveva raccontato dei suoi sentimenti quando in galera era suo padre. Mi mandava dediche affettuose coi suoi libri. Nell’agosto 1980 eravamo stati insieme in un viaggio in Cina con il presidente Sandro Pertini, non mi era piaciuta. Faceva scenate alle hostess e sfuriate a sua sorella, se ne stava appartata come una regina che un incidente di carrozza avesse costretto a viaggiare con i domestici. Un po’era così, lei aveva un appuntamento fissato per una intervista con Deng Xiaoping, che divenne naturalmente, e giustamente, celebre. Deng le disse frasi come: “La gente è stufa dei movimenti di massa…”: favoloso, per il capo del comunismo mondiale. Io, come altri della comitiva, fui introdotto da Deng per un breve saluto, e me ne portai indietro pressoché solo il ricordo della grossa sputacchiera accanto alla sua poltrona. Ma io non ero un giornalista, non lo sono mai stato, ero un imbucato, grazie a Pertini. Insomma, cominciai a scrivere questa lettera aperta a Oriana Fallaci dopo aver letto le sue pagine sul Corriere, e il loro svolgimento in libro, “La rabbia e l’orgoglio”. Poi me ne dimenticai. Ora la copio, così com’è. Per gli eventuali lettori, dò per scontata la conoscenza del testo di Fallaci, scritto a ridosso dell’11 settembre di Manhattan. Aggiungo solo, tra parentesi e in corsivo, pochi indispensabili chiarimenti. Rinuncio a commentare a distanza di 14 anni quello che scrisse Oriana Fallaci e quello che scrissi io, col senno di poi –ammesso che il poi abbia un senno. Gentile Oriana Fallaci, ho visto che lei dichiara di non leggere le obiezioni altrui. Gliene rivolgerò qualcuna anch’io, almeno a me servirà. Rinuncio alla più inevitabile, che lei abbia esagerato. Lei voleva esagerare, e se si potesse esagerare nell’esagerare, lei l’avrebbe fatto. Inoltre lei si fa forte di alcune prerogative robuste: per esempio lei è donna, è fiorentina, e di tempra azionista. Dunque bisogna prendere sul serio la sua sfuriata. Ho bensì un piccolo rammarico personale, perché lei se la prende coi ciuchi, per l’abuso che ne hanno fatto i politicanti dell’Asinello /era il simbolo dei Democratici di Prodi e Parisi nel 1999/. Coi ciuchi, che sono quasi finiti, pochi superstiti nelle isole, a rimpiangere gli ergastolani. Coi ciuchi, lei che dovrebbe ricordarsi, se non di Luciano e di Apuleio, almeno di Pinocchio e della sua buccia asinina. Nell’Afghanistan che guardiamo ogni giorno in televisione, se non ci fossero quelle donne imprigionate e bastonate e i loro bambini, l’immagine più emozionante sono i somari: carichi di donne e bambini, come alla fuga in Egitto, o messi a tirare carretti straripanti, e bastonati strada facendo. “Animale uso a ragliare, ch’io sappia, non certo a simboleggiare l’intelligenza”! Ma come le è venuto in mente, di maramaldeggiare con i ciuchi. Ha voluto ramazzare quello che le capitava fra i piedi. “I buonisti”, scrive, che “celebrano congressi all’ombra d’un motto anglo-americano. Un motto che sembra la reclame d’un detersivo: ‘I care’.” Se la prenda pure con Veltroni, se vuole –dopotutto, a suo modo voleva fare l’americano- evochi pure il suo falegname comunista che confonde l’I care con Icaro, cui si sciolsero le ali. Lei però la sa la differenza fra Icaro e I care. Senta, Icaro mi fa tornare in mente il volo di Lauro De Bosis, che dovrebbe esserle carissimo. Era nato nel 1901 e aveva poco più di vent’anni quando fu invitato a New York e avvertì gli americani dell’infamia della dittatura fascista: proprio come fece poi il Gaetano Salvemini cui lei si ispira, e che fu fra gli amici di Lauro. Nel 1926 insegnò a Harvard e nel 1927 scrisse il poema intitolato così: “Icaro”. I suoi famigliari e collaboratori furono arrestati mentre lui tornava dall’Italia in America. Si fermò a Parigi, faceva il portiere d’albergo, traduceva, studiava, preparava antologie di poeti, imparava a guidare l’aereo. Nel 1931 una sottoscrizione gli consentì di acquistare un piccolo velivolo e di caricarlo di volantini. Il 3 ottobre decollò da Marsiglia, arrivò sopra Roma, scese a una quota bassissima, versò su piazza Venezia e sul resto del centro 400 mila manifestini. Aveva preparato tre testi diversi. In uno si leggeva fra l’altro: “Chiunque tu sia, tu certo imprechi contro il fascismo e ne senti tutta la servile vergogna. Ma anche tu ne sei responsabile con la tua inerzia. Non cercarti un’illusoria giustificazione col dirti che non c’è nulla da fare. Non è vero. Tutti gli uomini di coraggio e d’onore lavorano in silenzio per preparare un’Italia libera”. De Bosis sapeva che il carburante non gli sarebbe bastato per il ritorno. Precipitò in mare vicino all’isola d’Elba, Icaro di se stesso. La notte prima aveva scritto una “Storia della mia morte”. Non era invasato di morte, come gli assassini-suicidi delle Torri. Pensava semplicemente che bisognasse. “Mentre, durante il Risorgimento, i giovani pronti a dar la vita si contavano a migliaia, oggi ce ne sono assai pochi. Bisogna morire. Spero che, dopo me, molti altri seguiranno, e riusciranno infine a scuotere l’opinione”. La sua compagna, la famosa attrice Ruth Draper, intitolò a lui una donazione per una cattedra di italianistica a Harvard. Quel Gaetano Salvemini vi tenne le sue famose lezioni sulle origini del fascismo. Vede dove ci porta il fantastico equivoco del suo falegname fra I care e Icaro. Magari averlo, un congresso ex-comunista all’insegna di Icaro, come il volo di Lauro De Bosis. Lei la sa la differenza fra Icaro e I care, anzi lei sa di più, e quel di più le poteva sconsigliare la battutella sul detersivo. Lei lo sa che quel motto stava scritto su un muro della scuola di Barbiana, per volere del curato don Milani, anche lui in esilio e anche lui capace di prediche agli italiani, cui sua sorella, Neera Fallaci, si dedicò con tanto fervore (Neera aveva scritto “Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani”). Lei quel motto doveva maneggiarlo con più cura (handle with care, no?), una volta messo in moto il suo camion della monnezza. Anche perché la ragione che aveva spinto don Lorenzo a scegliere l’ “I care” mentre insegnava l’inglese il tedesco il francese e lo spagnolo (e l’arabo) ai suoi ragazzi, era di rovesciare il motto dei fascisti, che rischia di essere ogni volta di nuovo il motto degli italiani: Me ne frego! “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. E’ il contrario esatto del motto fascista Me ne frego.” (Lettera a una professoressa). Guardi che a don Milani lei deve molto. Lui è fra quelli che le hanno preparato la strada. Non tanto per quello che diceva, ma per com’era, e come lo diceva. Senta come gli scriveva il suo vescovo, il cardinale Florit, mentre il priore era già in un letto d’ospedale col suo cancro: “Ora la tua natura, il tuo modo di parlare, di scrivere, di essere, ti porta agli scontri verbali, agli estremi, alle espressioni-limite”. Gli rinfacciava di esagerare, vede. Don Milani le ha preparato la strada. Gliel’hanno preparata in parecchi. Se no, la sua sarebbe la sfuriata di una che se ne stava chiusa in casa, ed è uscita di testa ed è venuta in vestaglia sul pianerottolo a inveire contro i vicini e i lontani. Pensi alla questione della superbia. “Poi c’è la storia della superbia. Sai che ho deciso dopo matura riflessione che l’umiltà è la rovina della classe operaia e peggio ancora contadina e montanara”. (Lettera…). Se lei non fosse una donna, la sua sfuriata sarebbe stata inconcepibile. Guardi che non è un lapsus: lo so che “concepire” è un verbo che ha un pregnante genere femminile, e che lei ha scritto la Lettera a un bambino mai nato, e che lei parla con esattezza della lunga gravidanza del suo prossimo libro. Le dirò un’impressione, senza paura di offenderla, perché anzi ho l’intenzione opposta. I ragazzini maschi possono aver voglia di fare i ganzi con una puttana di strada, e vanno in banda a gridarle frizzi e parolacce: la donna rovescia loro addosso una gragnuola tale di insulti inauditi e male parole terrificanti e zoccolate e sassate da farli scappare a gambe levate, e ancora scappano. Niente di simile saprebbe fare un uomo. Così mi guarderei dal venire a sfottere lei, anche solo per iscritto. Soprattutto, se non fosse donna, lei non avrebbe il coraggio – ce ne vuole! - di trattare così sprezzantemente le donne. Non direbbe che vogliono scopare con Bin Laden. (Però, aspetti. Ho appena letto su uno spigliato mensile italiano che si chiama Max l’intervista con la ragazza della copertina – “L’ultima figlia dei fiori” secondo il titolo. L’intervistatore le chiede: “Fisicamente ti piace di più Bush o bin Laden?” Risposta: “Sicuramente bin Laden. Mi piacciono gli uomini con barba e carnagione scura… Bush ha una faccia da deficiente”. Lo cito per darle un po’ ragione, e perché sono colpito dalle peripezie degli accoppiamenti. Non che mi augurassi che la ragazza preferisse – “fisicamente” - Bush. Ma insomma: uomini maturi e pensosi erano già arrivati a decretarsi “Né con Bush né con bin Laden”. Poteva bastare. Ci sono domande cui le belle ragazze intervistate potrebbero fare a meno di rispondere). Dunque lei non le scriverebbe così grosse se non fosse donna. Naturalmente, non tutte le donne le sparano così grosse: lei è un caso singolare. Per esempio, Dacia Maraini le ha risposto in modo molto affabile e quasi ingenuo. “Nei grattacieli, lo sai, sono morti 400 musulmani… I primi a fare le spese del fanatismo religioso sono stati proprio loro, i figli di Allah: le tante ragazze sgozzate in Algeria per la semplice ragione che frequentavano una scuola; le tante donne che in Afghanistan sono state lapidate perché scoperte a camminare con un burqa non abbastanza lungo o non abbastanza fitto davanti agli occhi”. Infatti lei sembra trascurare il dettaglio che anche le donne sono musulmane, quelle bastonate in Afghanistan e sgozzate in Algeria, e quelle che in Afghanistan e in Algeria audacemente si ribellano, come Khalida Messaoudi. Dacia Maraini è mite però testarda. Ma si capisce che fra chi parla affabilmente e ingenuamente, e chi fa una sfuriata, non c’è partita. Soprattutto se l’affabile si affida all’antropologia: “Non c’è bisogno di avere studiato antropologia (un’arte squisitamente europea, figlia di una cultura illuminista, attenta verso l’altro, il diverso), per sapere che ogni confronto fra culture è insensato”. Ci tornerò, su questa storia dell’antropologia. Anzi, sarà il mio grimaldello. Penso anche che lei, Oriana, non le sparerebbe così grosse se non fosse fiorentina e comunque toscana. (Però anche Dacia lo è abbastanza. Anche don Lorenzo). Quando ho finito di leggere il Corriere –tutti quegli umori e liquori, sputi e piscio e calci nelle palle- ho pensato che un siciliano non avrebbe potuto usare quella lingua. Forse sbaglio perché non conosco abbastanza il siciliano, ma mi sembra che in quella magnifica regione, capace di efferatezze mostruose e scrupolose, la lingua osservi una cerimoniosa cortesia. Anzi penso che l’estremismo e la brutalità di certi atti spieghi la cerimoniosità della lingua e viceversa. Così, penso che la estremità verbale del toscano stia in proporzione inversa a una moderazione degli atti (relativa certo, ché una violenza becera è anche toscana). Si sa che ci sono paesi che per bestemmiare prendono in prestito lingue straniere, come faceva la Jugoslavia con l’italiano, e non è che la Jugoslavia difettasse di una ferocia pratica. A parte le proverbiali bestemmie, mi chiedo quante altre lingue conoscano quelle espressioni toscane: “In culo al mondo” e “In culo a Dio” –che in fondo, con tutto il rispetto, hanno molto a che fare con la sua invettiva. C’è bensì un gran romanzo di António Lobo Antunes che si intitola proprio così, “In culo al mondo”, ma in portoghese era “Os Cus de Judas” (1983) e l’efficace titolo einaudiano dev’essere farina di Antonio Tabucchi, cioè di un altro toscano, appunto. La Toscana –soprattutto Siena e Firenze, direi- ha la palma dell’improperio e del vituperio nella nostra letteratura. Cecco Angiolieri, “a tutti mozzerei lo capo a tondo”, la tenzone tra Dante e Forese, “Bicci novel, figliuol di non so cui”, ma soprattutto la Commedia. Stare in esilio e giudicare e dannare e maledire la città amata e perduta e vendicarsi del mondo: questo è Dante, prima di lei a Manhattan, e –non dirò preparandole la strada, ma certo coprendole le spalle. C’è una tradizione, c’è una grandiosità che trattiene dalla liquidazione facile: una che insulta Firenze in nome della sua Firenze, che grida sul puzzo e sulle strie di piscio sui marmi del Battistero, è una che si prende per Dante. Posizione rischiosa: c’è una mania di grandezza, è vero, ma è vero anche che il primo a prendersi per Dante fu Dante. Perfino la sua megalomania madornale, di lei Oriana, la prima persona singolare che si annette ogni evento mondiale come per fatto personale, risale a Dante. Al Battistero, appunto, da lui chiamato senz’altro il mio bel San Giovanni. Donna, fiorentina, e, ultimo ascendente, azionista. Del Partito d’Azione, intendo. Me l’ha ricordato, se non l’avesse già fatto lei, Giuliano Ferrara, in una puntata televisiva dedicata al suo testo. Non so chi, ad altro riguardo, aveva menzionato l’azionismo, e Giuliano, che lo tiene per sua bestia nera, lo liquidò come estinto, salvo qualche superstite liminare in Torino. Lei invece lo rivendica, l’azionismo, quello di suo padre e il suo proprio, e i suoi antenati risorgimentali: non ne rivendica una politica ma un temperamento e un’educazione, e uno stato d’animo. La tempra: quell’ “avere le palle” che lei ha preso –dico senza ironia- da suo padre. E lo stato d’animo: quella solitudine risentita (ed esiliata, anche solo nel Chianti) che la diaspora degli azionisti prova di fronte alla corruzione della politica e al gregarismo delle “masse”. Mi interessa, oltre che per una simpatia azionista che provo anch’io, perché l’intransigenza aristocratica e il coraggio personale che furono degli azionisti si sono rinsecchiti non raramente, dopo la stagione del fuoco, in una delusione autoritaria. Non so, Randolfo Pacciardi, per dire del più vituperato e addirittura sospetto di golpismo, o il Leo Valiani fautore catonista del fermo di polizia, o, citato anche da lei, l’Ugo La Malfa che invocò alla Camera la pena di morte la mattina del rapimento di Moro e dell’uccisione degli uomini di scorta. Dunque ascriverò il suo “delenda Carthago” dell’islam anche a questa paternità azionista. Non per filologia, né per toglierle quel che è solo suo, ma per un problema grave: che la ragionevolezza, e la razionalità, politica e civile sono ora destinate a passare per moderazione e per mezza misura, a rinunciare alla passione (o a imitarla, che è peggio). E’ questa in fondo la questione del buonismo, che altrimenti sarebbe inattaccabile, dato che la bontà è un dono splendido. Il buonismo sa di mezza misura, di dissimulazione e di anestesia. Non sta da una parte –non più, o perché era la parte sbagliata, o perché non si ricorda più che parte era, o perché non ne trova un’altra. Riconosce il problema che l’altro ha posto, ma lo riduce e lo smussa. Nei casi migliori, cerca un equilibrio. Nei più frequenti rincorre l’altro, a volte lo sorpassa per zelo. Ora in Italia c’è un moderatismo estremista, cui non si riesce a trovare un nome: populismo, in genere, espressione grossista. Per questo lei se li mangia in pinzimonio. Lei non è Borghezio. Però lei sta a Borghezio come un bombardamento d’alta quota sta alle truppe di terra. Lei ha le bombe intelligenti con parecchio danno collaterale; gli altri vengono avanti sgozzando. Lei stessa però è persona dagli effetti facili. Lei scende dall’auto col cric in mano. Senta, lei loda l’America meticcia, che prende tutti e li tramuta in patrioti americani. Il suo vasto territorio e la sua storia breve glielo consentono, dice. Ma che faremo dell’Italia? Corsi di recupero sull’Inno di Mameli, per soli calciatori italiani e africani? Ormai la maggioranza dei miei coinquilini /in carcere/ sono stranieri, maghrebini i più. Giovanissimi quasi tutti. Sono arrivati da clandestini, gli piaceva l’Europa, la vita europea. Una volta arrivati hanno trovato la droga, da spacciare e da consumare, le due cose insieme. Lei lo sa che lo spaccio è fra i lavori degradati che gli italiani non vogliono fare più. Vengono in galera per questo, i ragazzi maghrebini; tranne qualche algerino più all’antica, che fa il borseggiatore. L’islam per loro è una certezza assente, rinviata a un’età più matura. Non si sognerebbero nemmeno di non credere in Allah, o di bestemmiarlo; ma non si sognano nemmeno di pregarlo le cinque volte, tranne pochissimi. Benché l’Italia che sognarono sia ora la galera, non si rassegnano facilmente a non sognarla più; e a fratelli e sorelle scrivono che abitano in Italia –non è una bugia. Fanno il tifo per le squadre italiane, a volte già prima di arrivare: per l’Inter, la Juventus, il Milan, la Fiorentina. Lo fanno anche più degli italiani. Il tifo calcistico è la più facile, e forse l’unica accoglienza che l’Italia offre loro. Sono extracomunitari e irregolari, ma almeno interisti e juventini. Perfino al campionato del mondo oscillano fra la loro nazionale, se c’è, e quella italiana. Sono pronti a quel patriottismo dei nuovi arrivati che l’America seppe promuovere così sagacemente. Se ci fosse una chiamata alle armi, si arruolerebbero per primi e correrebbero alle frontiere. Si potrebbe prendersi qualche cura di loro, non per bontà (non è facile esser buoni, succede a pochi) ma perché in fondo sono spesso il fiore della gioventù dei loro paesi, e ci farebbero comodo. Per fare i lavori che noi non vogliamo più (non solo lo spaccio) e anche per fare il nostro gioco presso il mondo nemico. Perché non so se ho capito che cosa lei pensa di fare con gli stranieri che vengono da noi. Cioè, non può pensare davvero che non vengano affatto. Allora possono succedere tre cose, in sostanza. Che una maggioranza fra loro venga, si trovi un suo posto, si porti la sua famiglia, si tenga i suoi costumi, e viva pacificamente fra noi, senza pretendere esoneri dalle nostre leggi, senza che noi ci illudiamo troppo di assimilarli alla nostra cultura. Che una minoranza fra loro si radichi fa noi, sia aperta e curiosa della nostra cultura, ne apprezzi le cose migliori, e se ne faccia ambasciatrice a casa sua: e quei ragazzi coi quali vivo qui dentro sarebbero spesso candidati idonei a questo proposito. Che un’altra minoranza viva fra noi coltivando un ripudio e un odio per il nostro modo di vita, e si faccia avanguardia militante della guerra islamista contro la nostra parte di mondo. In generale, noi non ci mostriamo interessati a questi possibili esiti. I nostri comportamenti “spontanei” congiurano contro di noi. Con le Torri gemelle, l’11 settembre ha fatto precipitare le cose dal lato dell’inimicizia e del rancore. Dalla parte nostra e dalla loro. Lei che cosa pensa di fare ora? Li vidi anch’io i senegalesi che l’hanno fatta infuriare. /Questa era una mia svista: Fallaci aveva scritto di musulmani somali. Al cui tempo, estate 2000, ero in carcere. La tenda dei senegalesi in piazza Duomo che io ricordavo era stata collocata anni prima, col consenso del cardinale Piovanelli/. Infatti abitavo anch’io a Firenze, anzi nel contado, vicino a un posto consacrato all’esilio, perché ci andò a dorso di mulo, cacciato dalla sua città, Niccolò Machiavelli, e là giocava a trictrac e scriveva il Principe e i Discorsi. Lei lo conosce bene, si chiama Sant’Andrea in Percussina, io ci andavo a piedi coi cani attraverso il bosco. Giorni fa l’ho rivisto in televisione, quel posto, perché era tornata in auge la storiaccia del Mostro detto prima di Scandicci, poi di Firenze, e che proprio nella pineta di fronte a casa mia aveva trucidato una coppia di turisti francesi. Roba locale, il Mostro, di chiunque si trattasse. Nostrana. Dunque, i senegalesi: li avevo già visti tante volte vendere la loro mercanzia sul Ponte Vecchio, infagottarla e squagliarsela all’avvistamento di vigili o poliziotti, tornare dopo dieci minuti, e così via chissà quante volte al giorno. Anch’io non andavo pazzo della chincaglieria sciorinata sul Ponte Vecchio, e con i venditori non mi era capitato di parlare. Li avevo solo visti, grandi e belli come sono, ma muti, salvi i gesti di allarme e di furbizia, e quell’aria di selvaggina cacciata e ripopolata. Poi li rividi alla tenda davanti al Vescovado, quella che suscitò la sua furia, non più sbollita. Non avevano mercanzia, ora, ma discorsi e volantini, gli strumenti di chi si accampa in centro per farsi sentire. Si passavano un megafono e interpellavano le persone, che lì arrivano da tutto il mondo: e parlavano, in francese, in inglese, in italiano, in spagnolo. Stetti a sentirli, più che per quello che rivendicavano, per tutte quelle lingue europee che padroneggiavano a meraviglia. Forse me ne lasciai impressionare troppo, e non vidi quello che vide lei, il Battistero usato come latrina e la piazza mutata in monnezzaio. Ci sono pregiudizi che rendono ciechi, e altri che aguzzano troppo la vista. Intendiamoci: ci tengo anch’io a Firenze. Anche qui dentro, dopo cinque anni di clausura e una breve pausa, sfoglio ogni giorno le pagine fiorentine di Repubblica e tengo il conto delle cose che non vedrò più, ammesso che ne veda più qualcuna. L’ultima è la Libreria Seeber di via Tornabuoni –la chiamo ancora così. Ultima di una serie desolata di chiusure, e i senegalesi non c’entrano. Lo scontro di civiltà, in un certo senso, sì. Firenze è la capitale mondiale della civiltà della scarpa. Naturalmente lei ha ragione quando maledice le meticolose canaglie che hanno annunciato ed eseguito la pena capitale per i Buddha di Bamyan, e ha ragione quando intima di metter giù le mani dall’arte. E quando sente minacciata la “sua” (cioè la “mia”) Torre di Pisa, e il campanile di Giotto, eccetera. Le racconterò una cosa. Poco fa, in una tarda notte di novembre, ero sveglio –dormo poco, ho il sonno leggero e il carcere è orrendamente rumoroso e indiscreto. Ero sveglio e ho sentito un’esplosione fortissima. Era una bomba, non poteva essere che una bomba. Mi intendo un po’ di esplosioni. Ho passato anni sarajevesi di notti bombardate. Dunque sono restato col fiato sospeso ad aspettare se venissero altri scoppi. Poi ho chiamato l’agente di guardia –piano, per non svegliare gli altri, che il sonno ce l’avevano pesante. Aveva una faccia assonnata. Non ho sentito niente, mi ha detto. Mi guardava dubbiosamente. Si capisce che pensava: “Te lo sei sognato”. Era un agente gentile, e non l’ha detto. “Be’, buonanotte”, ha detto. Non mi sono più addormentato. Il fatto è che non potevo fare a meno di arrovellarmi: “Avranno fatto saltare la Torre di Pisa?” Ora io sarò diventato troppo apprensivo, però c’era stato l’11 settembre e le Torri gemelle e il mondo va così, che uno sente un boato e sta in pensiero per la sua Torre storta e bellissima. La mattina dopo ho chiesto a tutti i detenuti e gli agenti e chiunque altri. Nessuno aveva sentito niente. Mi guardavano dubbiosamente. “Te lo sei sognato”, mi hanno detto. Sono convinti che io mi lamenti di non dormire mai, ma che in realtà dorma come un sasso. Ho cominciato a dubitare io stesso. Ci sono sogni che ci sembrano veri, specialmente quelli cattivi, anche dopo che ci siamo svegliati. Alla Torre di Pisa, comunque, non era successo niente. Meno male. E’ passato un altro giorno ed è arrivato il Tirreno con un grosso titolo sulla rapina di qualche centinaio di milioni eseguita a tarda notte, in due minuti, alla cassaforte di un ipermercato pisano, nella periferia vicina al carcere. I rapinatori avevano riempito di aria compressa il caveau della cassaforte, poi l’avevano fatto esplodere. “Il boato si è sentito in tutta la città”, diceva il giornale. In carcere no. Il fatto è che i detenuti sono per lo più giovani, e per lo più rimpinzati di sedativi, e non si svegliano neanche coi bombardamenti. Anche gli agenti, però. Lei ha ragione, credo, anche quando assegna all’islam –benché all’ingrosso- un odio peculiare per la memoria delle altre culture e i loro monumenti. E’, con un tono meno bellicoso del suo, il centro dell’opera di V.S.Naipaul. Naipaul, premio Nobel per la letteratura, nato a Trinidad da genitori indiani e naturalizzato britannico, pubblicò nel 1981 un libro di viaggio in Iran, Pakistan, Malaysia e Indonesia, “Among the Believers: An Islamic Journey” (in italiano “Tra i credenti. Un viaggio nell’islam”). Ne pubblicò un altro nel 1998 che raccontava il ritorno in quei paesi, “Beyond Belief: Islamic Excursions among the Converted Peoples” (“Fedeli a oltranza: un viaggio tra i popoli convertiti all’islam”). E’ questo, l’ostilità alle memorie e i monumenti delle altre culture, anche il centro di alcune pagine finali e difficili dei “Tristi tropici” di Claude Lévi-Strauss (1955), che hanno un tono assai diverso. Prima di citarle però vorrei ricordare a lei la distruzione dello Stari Most, il Ponte Vecchio di Mostar. Il 9 novembre 1993. Però scusi: lei scrive che non le risulta “che quei maestri di civiltà /mussulmani, con due s come lo scrive lei/ abbiano mai costruito un ponte”. Beh, solo fra quelli che ho visto là vicino c’è il ponte sulla Drina di Višegrad, e il ponte di Trebinje… Il ponte di Mostar, dunque. Lei sottolinea che i demolitori dei Buddha di Bamyan “non hanno commesso lo scempio in un impeto di follia, in un improvviso e temporaneo attacco di demenza”. Be’, distruzione è parola benigna per quello che successe davvero a Mostar. Lei avrà in mente il video amatoriale che registrò l’impresa. Un’artiglieria erzegovese (croata, cattolica) agli ordini di un sedicente comandante, Slobodan Praljak, battè il ponte già ferito fino a farlo stramazzare e precipitare nella verde Neretva. Una metodica macellazione. Perché la città si era divisa in due, cattolici di qua e musulmani di là (slavi gli uni e gli altri, del resto, ma l’avevano dimenticato). Il ponte, most, dal quale la città prende il nome, ne era il simbolo mirabile. L’arco in cielo progettato nel 1566 dall’architetto di Solimano il Magnifico, Hajrudin. Dei farabutti erzegovesi ubriachi non bastano certo a trascinare a fondo il cristianesimo o il cattolicesimo, il quale ha serbato il titolo di pontifex, costruttore di ponti, al suo capo supremo. Però è bene ricordarla questa distruzione a parti invertite. Anche perché sono singolarmente inclini a dimenticarla anche i nemici delle cosiddette ingerenze umanitarie. Molti dei quali diedero prova di una straordinaria indulgenza nei confronti del nazionalcomunismo di Milošević e dei suoi sgherri etnici, e di una incaponita avversione al soccorso internazionale nei confronti della popolazione bosniaca. Il soccorso non avvenne: avvenne il contrario, come nel caso dell’oscena complicità degli olandesi delle Nazioni Unite allo sterminio di Srebrenica. Lo invocò, quell’intervento armato, perfino il Papa, e quando finalmente venne, per la decisione americana e con le armi della Nato, mise termine nel giro di giorni a una prepotenza assassina protratta per anni, e nemmeno allora fu ringraziato. Eppure si era trattato di un impiego della forza “imperiale” (in realtà vergognosamente tardivo) a difesa di una gente soprattutto islamica, e in una terra intrisa di sangue ma non di petrolio. Il petrolio, ben più dell’altrui sangue versato, commuove gli interventi imperiali, ma quando non avviene così, è grottesco che se ne indigni il pacifismo. Che, in nome della pace, avrebbe dovuto per primo invocare l’impiego di una forza legittima a difesa delle persone e del diritto. Risale ad allora, alla Sarajevo del 1992 e seguenti, la nuova parola a designare gli odiatori e assassini di città, “urbicidio”, che avrebbe fatto tanta strada, fino all’11 settembre scorso, della sua Manhattan. In nome dello stesso amore per una pace nel diritto si sarebbe dovuto rivendicare per primi l’uso di una forza legittima nell’Afghanistan delle donne recluse e bastonate e delle barbe obbligatorie, quando la “comunità internazionale” ignorava quella barbarie, se non era pronta a sostenerla e a commerciare in oppio oggi e petrolio domani. Nel giugno 1979 ero andato in Polonia, per il primo formidabile ritorno di Karol Wojtyla da papa. Tornando mi fermai a Vienna e mi procurai un biglietto per l’Opera. In onore dell’incontro, il primo, fra il presidente americano Jimmy Carter e il presidente sovietico Leonid Brezhnev vi si rappresentava Il ratto del serraglio, con la direzione del leggendario Karl Böhm. Brezhnev aveva 72 anni ed era al lumicino (durò comunque altri tre anni). Le cronache infierirono sulla sua ebetudine. Lo vidi entrare nel palco imperiale: era mummificato, e guardava verso la parete del palco. I suoi lo voltarono verso la scena come avrebbero fatto con un manichino. Quanto a Mozart, Brezhnev era sordo. La scena si ripeté alla fine del primo atto, poi i due granduomini lasciarono: Brezhnev non era semovente, il giorno dopo doveva firmare il Salt II, e fra pochi mesi avrebbe ordinato l’invasione dell’Afghanistan. Gli applausi erano stati educati per i due ospiti, furono scroscianti per l’opera. Böhm, che di anni ne aveva 85, fu richiamato non so quante volte, e sembrò anche lui un po’ traballante. Ma era allegro e spiritoso, si inchinava al pubblico aggrappandosi al sipario calato, e quasi volteggiava. Era stato nazista. L’anno dopo morì. Lei racconta di essere stata così inorridita dai barbuti afghani che a ogni colpo di mortaio berciavano Allah-akbar da esser grata ai sovietici che avevano invaso l’Afghanistan. “I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio”. Mentre gli americani, “rincretiniti dalla paura dell’Unione Sovietica”, addestravano i barbuti e con loro Bin Laden. I quali ora sono arrivati a New York, e “New York siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi… ed anche noi russi che, coi mussulmani della Cecenia, a Mosca, ci siamo beccati e continuiamo a beccarci la nostra porzione di stragi”. Vorrei mostrarle la faccenda dal lato da cui capitò a me di guardarla. Sull’invasione sovietica del 1979 non ebbi la sua opinione, e francamente mi sembra che lei contragga il lungo intervallo fra quella stagione e l’11 settembre 2001. Per fare un solo esempio, che però non è un dettaglio, e riguarda anzi una mutazione etologica orrenda del genere umano, nella guerra afghana non avevano ancora preso il loro posto i “martiri” omicidi-suicidi. L’invasione sovietica mi sembrò un estremo episodio di quel social-imperialismo (così lo chiamavamo) sui cui nefasti, Ungheria 1956, Praga 1968, Polonia sempre…, ci eravamo formati. Brezhnev andava a riprendersi direttamente l’Afghanistan che i suoi satelliti locali avevano strappato alla monarchia di Zahir Shah, ribadendo laicità e progressismo coi metodi più ferocemente dispotici e suscitandosi contro una ribellione mista di fanatismo islamico, tribalismo e spirito di libertà. Fu una guerra spietata: i civili uccisi furono forse due milioni, i profughi e gli sfollati più di 7 milioni. Fu una guerra pressoché mondiale di quasi dieci anni, e soprattutto una guerra calda fra Urss e Usa per interposto Afghanistan. La sua data finale, all’inizio del 1989, segnò la disfatta sovietica. Pochi mesi ancora e venne il crollo del muro e la fine dell’Urss. Andati via i russi dall’Afghanistan, continuò la guerra civile. Il lato da cui mi capitò di guardarla era quello ceceno. Lei sa che Dzokhar Dudaev, il carismatico leader dell’indipendentismo ceceno, ucciso a 52 anni nel 1996, era stato un generale dell’Armata Rossa? Che aveva una moglie, Alla, ebrea? E che quando era a capo delle truppe sovietiche nella base aerea estone di Tartu ignorò l’ordine di reprimere la ribellione dell’Estonia e degli altri paesi baltici e anzi la favorì, finché fu richiamato nel 1990? Sa che Dudaev aveva partecipato alla guerra russo-afghana, ma non dalla parte dei mujaheddin, bensì nei ranghi dell’Armata Rossa? E che altri ceceni erano stati arruolati in quei ranghi? Sa che Shamil Basaev e i suoi nell’agosto del 1991 circondavano Eltsin a protezione mentre i suoi rivali tentavano il putsch? Racconterò anche a lei una barzelletta che mi raccontò un veterano delle deportazioni e delle guerre caucasiche in un villaggio ceceno. C’è un confronto armato alla frontiera fra Urss e Cina, e al Cremlino si diffonde il panico. In una angosciata riunione del Politburo, uno dice: c’è un’unica speranza, parliamone coi ceceni. Vanno in Cecenia, convocano l’assemblea degli anziani, descrivono la situazione e supplicano il loro aiuto. Il capo degli anziani dice che devono consultarsi. I russi li lasciano soli, e dopo una decina di minuti vengono richiamati. Il capo degli anziani gli chiede: “Una domanda ancora: quanti sono i cinesi?” “Un miliardo”, rispondono i russi. “E dove cazzo li seppelliamo?”
I ceceni sono leggendari combattenti, e i russi se ne sono serviti tante volte per schierarli nelle prime file. Sono quelli che Tolstoj chiamava cosacchi, quelli di Chadži-Murat. Sono anche quelli che, mi spiegò un altro dei loro vecchi, “sono stati creati per stare come un moscerino nell’occhio dei russi”. Insomma, in Afghanistan i ceceni, e con loro una maggioranza nelle centinaia di migliaia di soldati musulmani dell’Urss, finirono per odiare quella guerra e simpatizzare coi mujaheddin che si battevano per la loro terra. Ma allora la loro bandiera non era tanto l’islam quanto un nazionalismo caucasico, il vecchio sogno di una Federazione dei popoli della Montagna. Shamil Basaev, il loro eroe guerrigliero, guidò nel 1992-93 la guerra della piccola Abkhazia contro la Georgia, col sostegno russo. E’ probabile che oggi l’audacia di Basaev e dei suoi sia ormai incorporata senza residui all’Internazionale del terrore islamista. Ma ci fu bisogno di una lunga strada per fare di lui un terrorista islamista. Fra il 1994 e il 1996 Basaev vinse la battaglia di Grozny contro le forze corazzate russe e le cacciò dalla capitale. Perse sotto le bombe moglie, figlio, una sorella e un fratello e altri famigliari. Sequestrò un ospedale in territorio russo, i russi attaccarono e morirono 129 civili, Basaev e i suoi ne uscirono portandosi degli ostaggi e una dose ingente di cesio radioattivo. Durante la soverchiante controffensiva russa su Grozny, dal palazzo della presidenza restarono vivi in 14 su 76, e Shamil fu l’ultimo a uscire. Riconquistata Grozny, i ceceni ottennero la fine negoziata del primo conflitto e l’indipendenza di fatto. Quando io l’ho conosciuto, nel 1996, nel breve intervallo fra le due guerre cecene, Shamil era ministro della repubblica cecena di Ichkeria. L’anno dopo sarebbe diventato vice primo ministro e poi, nel 1998, primo ministro. Ma nel 1998 stava già abbandonando il programma dell’indipendenza per passare alla jihad, e identificandosi con l’emiro Ibn al-Khattab. Nell’agosto del 1999 attaccarono il vicino Dagestan per proclamarvi la repubblica islamica, e ne furono respinti dopo un mese. A settembre una serie di bombe in caseggiati russi ammazzarono quasi 300 persone: sono le stragi di cui lei, Oriana, parla. Basaev negò di esserne l’autore, ma non era più il punto. Cominciava la seconda guerra cecena, e ora toccava a Putin, il quale giurò che li avrebbe stanati uno per uno, “fin dentro i cessi”. L’anno scorso Basaev, braccato sulle montagne, è incappato in una mina: si è fatto riprendere dai suoi mentre gli amputavano un piede, senza anestesia. Poi si è rimesso dritto e ha sfidato a duello Putin. Avevo fatto un viaggio avventuroso, avventurista, nella guerra cecena, nel febbraio 1996. Ero solo, avrei scritto per l’Espresso e filmato per Mixer. Rimasi un mese, andai da Grozny ai villaggi di montagna fino in Dagestan, stetti coi combattenti e con la gente comune, feci perdere le tracce agli spioni russi. I ceceni ritrasmisero il mio documentario nella loro arrangiata tv. Pochi mesi dopo, a settembre, furono rapiti fra l’Inguscezia e la Cecenia tre italiani di Intersos, due medici e un funzionario. Il rapimento si protrasse, gli addetti italiani non cavavano un ragno dal buco, e ripartii per la Cecenia. Lì c’era gente così ottusa da sequestrare e magari assassinare dei volontari andati ad aiutare, però anche gente per la quale amicizia e ospitalità, e riconoscenza, erano davvero sacre. Durante quasi due mesi si mobilitarono per tirare fuori gli italiani. Era un favore che mi dovevano…Le racconto come feci amicizia col famoso Shamil Basaev. Copio dal mio diario. “Ho una gran bronchite, mi riempio di antibiotici. In fondo alla mia miscredenza, c’è una certa fede nell’onnipotenza degli antibiotici. Sputo, ma qui sputano tutti, così, più che catarrosi, sembriamo uomini veri. Viene a prenderci un distinto I., ufficiale portavoce di Shamil, parla un po’ di francese perché si è curato della tubercolosi in Francia. Prima era politologo, è stato di passaggio anche in Italia e mi dice con compitezza: “Veuillez transmettre mon salut à la belle ville de Verona”. Prima era con Maskhadov, ora, dice, c’è bisogno di un atteggiamento più risoluto. Shamil sta in una casetta qualunque in periferia, ha un raffreddore mostruoso, tossisce, tiene il cappello calcato e gli occhi puntati in basso, risponde a malapena. Sembra una specie di losco mullah intimidito –ha appena 31 anni- ma una volta finita l’intervista ufficiale si leva il cappello e resta con una zucca pelata, diventa allegro e spiritoso e non vuole più lasciarci andare via. Si pranza, e lui e i suoi, compreso uno bello, giovane, che ha perso una gamba, sfottono Z. (la mia accompagnatrice di quel giorno, una principessa abkhaza) su storie di quel paese. Ci facciamo una quantità di polaroid. Conosce Celentano, come tutti. Gli regalo, a malincuore, il mio tesoro di antibiotici e di spray. Stiamo fino a tardi, poi ci invita –una specie di ordine- ad andare, senza di lui, che non si fida, al suo villaggio e a filmare anche la sua famiglia. “E’ la prima volta”, dice. Il villaggio è Vedeno, in montagna, uno dei luoghi più bombardati del mondo. Ci andiamo di notte, con un viaggio forsennato in tre auto. Nella casa c’è la sua moglie abkhaza. E’ una ragazza, Indira, timida, carina, malinconica. Si è convertita all’islam, è innamorata di lui e sta col fazzoletto sul capo in quella reclusione domestica, con un bambino vispo e una bambina che dorme nella culla. Indira e Z. parlano in disparte, si tengono la mano, hanno voglia di piangere. C’è un anziano, neanche tanto, che mi racconta vivacemente la battaglia di Shatoj, e quando gli chiedo se è un parente risponde: “No, sono un sasjed, un vicino”. Lo dice solo perché tutti ridano, lui è il padre di Shamil. C’è una bella sorella, che sta per sposarsi. Una madre grassa e scettica. Torniamo molto tardi, dopo aver cenato di nuovo con riso e verdure loro e un pezzo dello storione infinito che ci portiamo dietro da giorni, e una confettura di mele cotogne a fettine, haib… Rivedo Shamil in una campagna vicino all’autostrada Baku-Mosca, dove Dudaev prima d’essere ammazzato stava costruendosi una casa. C’è un raduno per commemorarlo e per la festa della repubblica. Bello, un posto alto su un fiume, pieno di donne, bambini, sidecar, cavalli, cibi da scampagnata e zjukal, girotondi guerrieri. Su un camion scoperto a far da palco stanno i comandanti, ci salgo anch’io, sotto la gente. Le donne, le anziane soprattutto, interrompono gli oratori, fanno domande, ridono, commentano. Shamil è l’eroe di tutte, che lo trattano con una confidenza di madri e figlio. Il giorno dopo, a Grozny, nel giro di Shamil incontro l’emiro arabo Khattab, e gli faccio una lunga intervista. Tiene a dire che è la prima che conceda a un non musulmano. Personaggio da non perdere, e nemmeno da trovare. E’ un combattente leggendario. Non vuole dirmi di dov’è –forse del Kuwait /era saudita/, lo dicono figlio di un ricchissimo. Ha perso tre dita della mano destra, fasciata da un mezzo guanto di cuoio. Ha a che fare col Pakistan, ha imparato il farsi in Afghanistan, il russo in Tagikistan e in Cecenia, l’inglese lo sapeva già. Lo faccio parlare in russo e in arabo –qualcuno tradurrà. Ha con sé un suo fido, un Ramazan-Abdullah. Ha un camion militare che guida lui, dice che è la sua unica auto e vuole che lo filmi. Ha barba e capelli neri, in lunghi boccoli, è vestito con una mimetica e una specie di eskimo, in testa un’alta sciapka (altre volte un basco nero): un’inaspettata vanitosa imitazione del Che. Il suo compagno prende infatti in giro l’abbigliamento, “quasi cubano”: “Moda”, dice lui. Il dettaglio spiazzato è una sciarpa di seta candida, da cui non si separa. E’ un regalo prezioso, dice, gliel’ha fatto Osama bin Laden. (Lei Oriana avrebbe drizzato le orecchie, certo. Be’, io l’avevo sì e no sentito nominare). Parla a lungo, dell’Afghanistan e della Cecenia, che darà il colpo di grazia alla Russia, e poi, garantisce, si passerà agli americani. Deplora le donne che vanno in giro mostrando le gambe e a testa scoperta. Alla fine raccomando anche a lui, come a tutti, gli italiani rapiti. Devi aver paura di muoverti assieme a me –dice. Anche tu assieme a me –rispondo. Sbruffone per sbruffone. E’ di stanza a Vedeno con Shamil. M., che è il giovane intelligente consigliere di Maskhadov, mi dirà poi che sarà difficile per la Cecenia convivere con persone come lui. Anche altri lo dicono: “Finché si tratta di combattere, ma poi…” /…/ Con Shamil ceno di nuovo la sera dopo, al posto telefonico. /C’era solo un posto a Grozny per fare e ricevere telefonate/. Il giovane abkhazo mutilato amico di Shamil mi regala una sua fotografia. Shamil mi chiede se al ritorno in Italia potrò occuparmi di un altro dei suoi che è cieco per un’esplosione, ma gli hanno detto che potrebbe recuperare la vista se fosse operato. /…/ E’ saltato un palazzo a Mahackala, in Dagestan, e Basaev ha fatto sapere che loro non c’entrano niente: “Non siamo terroristi”. /…/ Domenica. Di mattina presto al dormitorio di Shamil, già sede del FSB /il servizio segreto russo, successore del KGB/, e da lì per tutta una giornata elettorale al confine nord, sul Terek. Siamo un corteo di auto cariche di armati che si divertono a sorpassarsi e a far andare musiche terribili a tutto volume. Carcasse di aerei e di tank. C’è un raduno in una caserma con la gente del luogo –i vecchi seduti, gli uomini e i giovani in piedi, le donne e le ragazze dietro a tutti, ma senza soggezione. Si svolge una lunga e lenta discussione, finché interrompo la registrazione e chiamo Shamil, dal capo della lunga tavola dove siamo seduti. Hanno una reazione sorpresa, che cresce quando S. /un giovane che aveva studiato in Inghilterra/, con qualche esitazione, traduce le mie parole: Non pensi di fare un errore candidandoti alla presidenza? Sei giovane, sei l’eroe della tua gente, sei il simbolo dell’aspirazione a una federazione dei popoli del Caucaso del Nord. In lizza per la presidenza diventi un politico come gli altri. E le elezioni sono altra cosa dalle battaglie o dagli ideali: nelle elezioni la gente vota per candidati maturi, affidabili, normali, come Maskhadov… L’assemblea resta in un silenzio sbalordito, anche Shamil, che mi guarda fisso per un po’, poi si mette a ridere. Libera tutti, tutti si mettono a ridere. Rivolto più all’uditorio che a me, dice che accetta la “provocazione” –così traduce S.- e anzi ringrazia per la franchezza. Ma io non conosco abbastanza la situazione, dice. Iandarbiev /il presidente in carica/ ha semplicemente ereditato la presidenza quando è stato ucciso Dudaev, perché era il suo vice. Iandarbiev ha firmato un ukaz che vieta ai generali – “cioè a tutti”- di candidarsi. Noi, dice, favoriamo la candidatura di Ruslan Khasbulatov /ceceno, era allora presidente del Soviet Supremo/, perché farà disperdere voti al primo turno, e al ballottaggio io vincerò nel confronto diretto con Maskhadov… (Le perse, naturalmente, le elezioni, nel gennaio 1997, senza secondo turno: prese il 23 per cento contro il 60 di Aslan Maskhadov e il 10 di Iandarbiev). Poi ci trasferiamo tutti nella piazza dov’è pronto un palco, c’è un vento forte e gelido, le donne di nuovo prendono i primi posti e interloquiscono vivacemente col discorso di Shamil, ai bordi qualcuno assiste a cavallo. Shamil suscita anche risate forti e allegre. Poi rientriamo al chiuso, e ora l’atmosfera è solo festosa. Shamil mi fa registrare una sua solenne dichiarazione di scuse all’Italia, in nome del popolo ceceno, per il rapimento dei nostri connazionali. Chiama vicino a sé un bambino, scherza sui suoi grandi progetti di combattente. Il bambino dice che vuole traghettare la gente da una sponda all’altra del Terek. Con me Shamil si vendica, dice che diventeremo tutti e due presidenti di repubbliche. Vuole convincermi che ho bisogno di una moglie cecena. Mi dico onorato –gli uomini ceceni sono gelosi delle loro donne… Ma ho già una donna, la amo, l’ho lasciata sola a Firenze, come tu con Indira a Vedeno. E sono contrario alla poligamia. Ma non è poligamia, dice, solo due. Due è la misura giusta, una moglie sola è fastidiosa, due si zittiscono a vicenda. Mannaggia… Torniamo a Groznij a tarda sera, Shamil scrive ancora una lettera per l’ambasciatore italiano a Mosca”. Questo, il futuro terrorista islamista numero uno. Le vite possono prendere le pieghe più diverse. Tornato in Italia andai difilato in galera, e poco dopo ebbi ragione di temere che quei bravi ceceni stessero lì a rimuginare su come venire a tirarmi fuori. Non scherzo, Oriana, fui preoccupato davvero per la nostra, mia e sua, Torre di Pisa. Mi sbrigai a scrivere ai ceceni che c’ero venuto di mia volontà, e che ci stavo bene. Più o meno. /Shamil Basaev restò ucciso nel 2006 in Inguscezia. In quegli anni aveva capeggiato una guerriglia antirussa ormai connotata come una jihad islamista. Rivendicò di aver organizzato e autorizzato imprese di terrore come quella al teatro Dubrovka di Mosca nel 2002 e, la più orrenda, alla scuola elementare di Beslan nel 2004, anche se di questa parlò come di una terribile tragedia e la imputò all’intervento delle forze russe. Ibn al-Khattab fu ucciso nel 2002 in Cecenia, con una lettera avvelenata, ed è oggi venerato come un gran santo dai seguaci del sedicente califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. I figli di quei ceceni sono oggi il nerbo militare del califfato/. A proposito, i tre italiani li liberammo, grazie ai miei amici ceceni, e nonostante le autorità italiane. Ma è un’altra storia, e non è il luogo di tornarci su. Le dirò solo, perché lei saprà apprezzare, che in Russia ufficialmente, e perfino in Italia, si sostenne che io ero in realtà l’organizzatore dei sequestri, in combutta con i terroristi ceceni, per soldi, o per scampare alla galera, o per qualche altra buona ragione. Lo apprezza, vero? Eravamo ai “Tristi tropici”, dunque: che ha un ultimo capitolo intitolato “Il ritorno”. Sono una quarantina di pagine avvincenti. Le dico subito che non me ne ricordavo, e mio fratello Gianni mi ha spinto a ritrovarle. Esso muove da un dilemma cruciale per la vita personale di Lévi-Strauss, e per la professione dell’etnologo che tanto gli deve. Ma lo stesso dilemma attraversa il rapporto di tutti noi con le culture straniere, e specialmente le sue versioni politiche, così importanti: il terzomondismo, per esempio, e le sue variazioni. E ora l’islam. Stia a sentire allora che cosa scrive Lévi-Strauss: “Se egli /l’etnografo/ è in buona fede, un interrogativo gli si pone: il valore che attribuisce alle società esotiche – tanto più grande, sembra, quanto più sono tali - non ha un fondamento proprio; esso è in funzione del disprezzo, e talvolta dell’ostilità, che gli ispirano i costumi in vigore nel suo ambiente. Spesso sovversivo fra i suoi e ribelle agli usi tradizionali, l’etnografo appare rispettoso fino al conservatorismo, appena la società in questione si trova ad essere diversa dalla sua”. Non ho paura di banalizzare additandone la lettura attuale, e accostando il militante di sinistra europeo, o “occidentale”, all’etnografo. Della nostra cultura laica occidentale si dice che sia l’unica che accoglie la critica se non la denigrazione di se stessa come fondamento del proprio rapporto con le altre. A controprova, si protesta che di fronte alle non rare conversioni di cristiani all’islam stanno le rarissime, se non nulle, conversioni di musulmani al cristianesimo. E ancora: c’è l’arrischiata questione della “reciprocità” nel riconoscimento dei diritti alle minoranze fra paesi occidentali e islamici. Qui si costruiscono moschee (lei non vuole, lo so), e in Arabia Saudita si incarcera chi detenga una Bibbia. Non c’è parità, ma noi siamo noi proprio per questo. Noi vorremmo credere – noi del cosiddetto Sessantotto, adesso intendo: ma ormai ogni “noi” diventa arbitrario, e forse è meglio così - che l’interrogativo di Lévi-Strauss abbia la sua risposta provvisoria in una specie di ritorno a casa, ma a porte aperte. Nel serbare con cura, cioè, simpatia e solidarietà per tutti i confratelli in umanità e per tutte le vittime di violenze e dolori e ingiustizie, senza più pretendere o aspettarsi che nelle vittime di oggi stia la promessa del riscatto di domani. Era bello confidare che gli ultimi della terra fossero i primi del cielo cristiano, o dell’avvenire socialista, liberatori, con se stessi, dell’intera umanità. Poi ci rassegnammo ad ammettere che i proletari, delle metropoli o del terzo mondo, non avrebbero salvato l’altro mondo né questo. Neanche i ragazzini di Elsa Morante avrebbero salvato il mondo, neanche le donne. Il mondo non ha salvatori predestinati, nemmeno gli ultimi di turno. Per l’etnografo come per il militante di sinistra, il ritorno a casa è una sconfitta. Mi sembra improbabile che Lévi-Strauss non si sia accorto dell’affinità profonda fra il suo etnografo –lui- e il militante di sinistra. Era la prima metà dei ’50, e la “società diversa” e a suo modo esotica cui il militante di sinistra europeo andava in pellegrinaggio era ancora l’Unione Sovietica. Fra poco sarebbe stata sostituita dal Terzo Mondo. In questa espressione, Terzo Mondo, è ancora più evidente la somiglianza fra l’esotismo dell’etnologo e quello del rivoluzionario. Anzi, la constatazione stupita e autocritica di Lévi-Strauss circa il doppio binario dell’etnografo suona ancora più incisiva se la si adatti al militante di sinistra. Basta sostituirlo all’etnologo nel brano citato sopra, così: “Se egli è in buona fede, un interrogativo gli si pone: il valore che attribuisce alle società esotiche –tanto più grande, sembra, quanto più sono tali- non ha un fondamento proprio; esso è in funzione del disprezzo, e talvolta dell’ostilità, che gli ispirano i costumi in vigore nel suo ambiente. Spesso sovversivo fra i suoi e ribelle agli usi tradizionali, il militante di sinistra appare rispettoso fino al conservatorismo, appena la società in questione si trova ad essere diversa dalla sua”. Con una complicazione in più, quanto al “ritorno”. Che anche quando sia tornato in pieno, e a volte con una voracità vendicativa, a vantaggi e privilegi della vita europea, il militante di sinistra non gliela dà vinta, magari reinventa la sovranità nazionale, e l’ “Occidente” resta per lui il titolare dell’iniquità e della violenza del pianeta. Il dannato Occidente poi, nella sua quintessenza, è l’America e la sua dépendance israeliana. Anche in questo settembre. Costretto a smettere di simpatizzare con l’Urss, magari soltanto perché l’Urss non c’è più, puoi ritrovarlo a simpatizzare con la Russia, che faccia da contrappeso all’America gendarme del mondo. Un bel giro, per ritrovarsi più o meno nella stessa trincea dalla quale la destra non si è mai mossa: nazionalismo, antiamericanismo, cospirazionismo, e antisemitismo. C’è una cosa molto importante e molto semplice che non vogliono capire: che gli islamisti –io dico gli islamisti, non i musulmani- ci odiano e ci attaccano non per le nostre colpe, ma per i nostri meriti. Per la libertà delle donne, per la libertà di parola, per l’ironia. Comunque, io non ce l’ho tanto con chi sputa nel piatto dove mangia: ce l’ho con chi sputa nel piatto dove mangio. La storia è vecchia come quella del buon selvaggio. Il meccanismo mimetico di quella politica militante (e di quella etnografia…) riproduceva l’imbroglio della dialettica del transfuga e del rinnegato. L’intellettuale che avesse tradito le file della borghesia da cui proveniva per entrare in quelle proletarie si chiamava, graziosamente, “transfuga”; chi avesse fatto il tragitto contrario era, brutalmente, un “rinnegato”. Persona senza classe e senza radici, le avrebbe trovate solo altrove, offrendosi o vendendosi. Una volta riconosciuto l’inganno di questa teologia, avrebbe potuto ricostruire faticosamente se stesso e le proprie radici, al costo di una solitudine, ma anche col vantaggio, se non avesse avuto la debolezza di buttarlo via, della memoria del viaggio compiuto. Spero di averle così spiegato perché, in mezzo a un centinaio di dissensi, io approvo senza riserve il suo disprezzo per “il conformismo o meglio la vigliaccheria che in nome della Diversità (sic) chiama ‘usanza locale’ l’infibulazione ossia la bestiale pratica che molti mussulmani impongono alle giovinette per impedir loro d’avere rapporti sessuali e gioirne”. Con due aggiunte. La prima, che come lei deve sapere, la pratica di mutilare i genitali delle bambine è precedente all’islam e diffusa anche oltre l’islam, benché in molti paesi islamici sia più tenace. La seconda aggiunta riguarda gli uomini. Gli uomini hanno spinto la paura di perdere la presa sulle donne fino a mutilarle della loro sessualità. E così facendo –vedo che quest’altra metà dell’orrore è ignorata- hanno mutilato anche se stessi di una vera felicità sessuale, che non può che essere reciproca. Trasformando così il sesso, imbecilli, in una strabuzzata mungitura. Lei è arrivata a scrivere: “Secondo me v’è qualcosa, negli uomini mussulmani, che disgusta le donne di buon gusto”. E’ troppo o troppo poco. Troppo, perché “gli uomini mussulmani” non esistono. Troppo poco, perché a concedersi l’iperbole si poteva dire “gli uomini” e basta. Ho usato questa formula così comune del “ritorno a casa” (era l’incubo di Franz Kafka) perché appunto quell’ultimo capitolo di Lévi-Strauss s’intitola “Il ritorno”. Ci sono pagine, fra queste finali, sui viaggi in Kashmir, India e Pakistan, dedicate all’islam. “Già l’Islam mi sconcertava per un atteggiamento verso la storia contraddittorio al nostro e contraddittorio in se stesso: la preoccupazione di fondare una tradizione si accompagnava alla frenesia di distruggere tutte le tradizioni anteriori”. Naipaul ha riscosso la lunga rendita di questo pensiero, formulato con un rancore ignoto a Lévi-Strauss. Del quale troverà, se le importa, in quelle pagine, osservazioni penetranti e allarmanti sul semplicismo legalista musulmano, sulla promiscuità maschile e la rimozione delle donne (“il burkah moderno, simile a un apparecchio ortopedico…”), sulla convinzione di professare i grandi principii universali, inficiata dalla dichiarazione di essere i soli a praticarli, sulla povertà del loro ripudio delle immagini… E troverà suggestioni folgoranti sull’islam come Occidente dell’Oriente e come barriera alla ricomposizione della scissione fra Oriente e Occidente. Su Napoleone, “questo Maometto dell’Occidente”, sulla Francia, “in via di diventare musulmana”, conservatrice nostalgica dopo il fallimento e il pentimento della rivoluzione. Riprendo qui invece una domanda che Lévi-Strauss si faceva allora, senza darsi una risposta certa: “Se una Francia di 45 milioni di abitanti si aprisse largamente sulla base dell’uguaglianza dei diritti, per ammettere 25 milioni di cittadini Musulmani, anche se analfabeti in gran numero, essa non adotterebbe un procedimento più audace di quello a cui l’America deve di non essere rimasta una piccola provincia del mondo anglosassone… Potremo mai farlo? Può accadere che due forze aggressive, sommandosi insieme, invertano la loro direzione?” La Francia ha oggi /nel 2001, quando scrivevo; oggi ne ha 67/ 59 milioni di abitanti più o meno, credo: potrebbe ammettere 33 milioni di musulmani –in aggiunta ai 4 milioni che ha già? L’Italia ne ha più o meno 58 milioni: potrebbe ammetterne 30 milioni a sua volta? Lei risponde come se si potesse (e si dovesse) fermare l’arrivo degli stranieri. Non si può, e credo che non si debba. D’altra parte io non riesco a enunciare principii che non facciano i conti con l’accumulazione di detriti –la discarica della storia, sulla quale cresce il futuro. Per esempio: il principio del Ritorno dei discendenti dei palestinesi profughi da Israele è giusto: la sua attuazione però segnerebbe ipso facto la cancellazione dello Stato di Israele. C’è stata una coincidenza, attorno al periodo di uscita della sua sfuriata sul Corriere. Sulla Stampa, Barbara Spinelli ha pubblicato a sua volta un lungo articolo che ha fatto un suo proporzionale scalpore, dedicato alla tragedia israelo-palestinese /Si intitolava “Ebraismo senza mea culpa”, 28 ottobre 2001/. Lo scandalo stava nell’accusa mossa all’ebraismo, di Israele e della diaspora, di non saper chiedere perdono. Io stesso ho trovato assurda quella sortita, ma non è di questo che voglio parlare. Piuttosto del fatto che, in un momento in cui era all’ordine del giorno un’assenza o un silenzio delle donne –di donne prigioniere in Afghanistan o di donne estraniate in Occidente- due interventi fra i più aggressivi (forse il secondo emulava il primo) erano di donne. Le quali prendevano ambedue per il collo la questione, procurandosi, lei Fallaci, l’accusa di razzismo antislamico, l’altra, Spinelli, di antisemitismo addirittura. Indebite forse ma provocate; e ambedue, deliberatamente, “di sinistra”, se posso dire così. Cioè rivendicatrici di un retaggio di antifascismo democratico e liberale, laico e intransigente. In ambedue i casi con un effetto che chiamerò di “troppa grazia”. Ora la coincidenza (e l’eventuale emulazione, se ci sia stata) fra due irruzioni pubblicistiche ciascuna a proprio modo “eccessiva”, sarebbe un aneddoto effimero se proprio quella sensazione di “troppa grazia” non coinvolgesse una questione decisiva per l’esistenza, o l’inesistenza, della sinistra alla data di oggi. La sinistra ufficiale contemporanea sembra condannata alla dose modica. Essa si chiama “centrosinistra”, più che per un’alleanza, per una suddivisione meramente elettorale: la comica evoluzione attraverso cui le due parole sono diventate una sola, compresa la disputa sul trattino o no, è un segno dell’assimilazione di posizioni. La loro identità è soprattutto una progressiva distanza dal passato, e si ridurrà alla fine a una generica sobrietà –dunque al centro, fisico e metafisico- contro la smodatezza di altre posizioni. In Italia la cosa è specialmente chiara: presentandosi ora il centrodestra come un’associazione fra estremismi reazionari, xenofobi e clericali. Al capo opposto, un estremismo di sinistra meramente conservatore rifiuta le questioni di misura, com’è inevitabile, in nome degli aut-aut. Così per l’alternativa fra pace e guerra, che sostituisce la ricerca di un diritto internazionale e degli strumenti per prevenirne le violazioni e sanzionarle. Basta chiamare guerra ogni uso della forza per essere contrari, con tanto di Costituzione pro domo propria. “Troppa grazia”: e se no grigiore e mediocrità. E’ inevitabile? Forse. Sembrerebbe dirlo l’esito di interventi come il suo, che si tramutano, al di là o contro le intenzioni, in bombardamenti d’alta quota sul deserto dei quali si avventeranno le truppe di terra dell’avarizia civile. E’ inevitabile? Lo sguardo estremo è prezioso e pericoloso come lo sguardo geloso. Vede dettagli che sfuggono all’occhio normale, e li sopravvaluta. Un fazzoletto può portare a strozzare Desdemona, l’amata. Oggi, il fazzoletto di Desdemona dell’estremismo è la globalizzazione. Movimento formidabile e inarrestabile, essa è però dichiarata compiuta. Tutto il mondo è già paese. A questa fretta di dare per avvenute tutte le cose non opporrei il freno della moderazione, o la sopravvalutazione di ciò che a quel movimento resiste, tardandone l’adempimento. Mi interessa la coesistenza mutevole ma perenne di ciò che avanza e ciò che resiste, del nuovo vecchio e del vecchio nuovo. Al nostro proposito importa la questione degli spostamenti umani sulla terra. Il corollario della mondializzazione compiuta è la rivendicazione di una piena libertà di movimento degli umani sulla terra. Essa è erede di antichi universalismi (e di uno dei più belli fra loro, l’internazionalismo originario) ma si vuole fondata sulla dottrina della libertà di circolazione: se essa deve valere per tutte le merci, perché non prima di tutto per l’uomo e la donna? Tuttavia, né le merci circolano davvero in piena libertà, né uomini e donne sono merci alla stregua delle altre. L’avvento di genti nuove in comunità più o meno tradizionali suscita tensioni più delicate che non l’invasione di armamenti, droghe o bevande con le bollicine. I confini del mondo non si sono sciolti né allentati: o piuttosto, si sono irrigiditi e incattiviti almeno quanto si siano attenuati e ingentiliti. Non era vero che i proletari non avevano da perdere che le loro catene. Avevano da perdere le loro donne. Ed è venuto il momento. Le guerre che il mondo cova non sono lo scontro fra il nuovo che avanza e il vecchio che resiste. Il vecchio scalzato, spodestato e minacciato nel suo patrimonio ultimo, la proprietà delle donne, reagisce con una nuova energia, e reinventa e rimodella un islam che faccia al suo scopo. I movimenti di popoli saranno sempre più fughe dentro i varchi lasciati aperti da questi due fronti. Le donne verranno a cercare salva la vita, e poi libera…Adriano Sofri
Un pugno in faccia a chi ancora contesta la Fallaci, scrive Vittorio Feltri, Mercoledì 23/03/2016, su "Il Giornale". A volte il caso è beffardo. Mentre ieri arrivavano notizie angosciose dal Belgio, attentati che hanno ridotto in tocchi Bruxelles, decine e decine di morti ammazzati e centinaia di feriti dai bastardi, e sottolineo bastardi islamisti, apprendevamo dalla lettura di alcuni quotidiani di casa nostra che le teorie della Fallaci sono ancora oggetto di dotte (si fa per dire) discussioni: Oriana aveva ragione o torto nel sostenere, nei suoi libri scritti con il fegato e con l’anima, che i musulmani integralisti sono semplicemente degli assassini capaci di dettare la linea ai loro popoli? Titolo sulla Terza pagina del Corriere della Sera: «E Firenze voltò le spalle a Oriana. La parabola di un amore tradito». Il pezzo annuncia l’uscita d’un saggio polemico di Riccardo Nencini sulla scrittrice, ovviamente controversa. Perché? Ella aveva previsto quello che sarebbe successo, e che continua a succedere, ma parecchi – quasi tutti – gli intellettuali si rifiutano di dargliene atto, fiorentini o no che siano. D’altronde si sa: nemo propheta in patria. Non è finita. Il Foglio, sempre di ieri, avverte che sabato prossimo sarà pubblicata sul quotidiano fondato da Giuliano Ferrara una «Lettera inedita a Oriana Fallaci» vergata da Adriano Sofri. L’argomento della quale è in una sorta di sommario: «Oggi sono in molti a dirsi che Oriana Fallaci aveva ragione, a tal punto da potersi permettere di avere platealmente torto. Il problema è: benché avesse molte ragioni, aveva torto? O: benché avesse molti torti, aveva ragione?». Chiedo scusa: ma che razza di domande sono? È vero o no che dal 2001 (abbattimento delle Torri Gemelle) i terroristi compiono stragi di gente comune che non dà loro alcun fastidio? Gente che lavora e che si occupa dei fatti propri senza offendere nessuno, tantomeno Allah e Maometto dei quali non le importa nulla? È vero o no che l’ottima giornalista toscana nelle analisi del fenomeno più violento, dopo le guerre mondiali, abbia colto nel segno, documenti alla mano? E allora dov’è il problema? Quali sarebbero i motivi per sospettare che Oriana abbia commesso errori di valutazione? Gli islamisti uccidono gratuitamente uomini e donne, cioè senza un perché sia pure abietto. Puntano a sterminare anche coloro che li accolgono nelle proprie città (offrendo loro lavoro e brandelli di benessere); pretendono di convertire il mondo e indurlo a praticare una religione discutibile, come tutte le religioni, per altro. È altresì assodato che l’Europa (e gli Stati Uniti) sono affollati di musulmani a cui ci viene spontaneo rivolgere alcuni quesiti: non vi garba la nostra civiltà? Vi fa orrore il nostro modo di vivere? Preferite la dittatura degli imam alla democrazia, il Corano alle leggi votate dal Parlamento? Che sarà mai? Invece di venire qui a soffrire, rimanete lì nel deserto a fare compagnia ai cammelli, frequentate assiduamente le vostre moschee, lontani dalle chiese cristiane, dai cani e dai maiali. Chi vi obbliga a lasciare le terre e i costumi che amate per risiedere a Parigi, a Bruxelles o a Londra? Ciò che risulta incomprensibile, sulla base di una logica elementare, è questo: perché rinunciare ai vostri paradisi per piombare nei nostri inferni? Non vi piacciono i nostri stili esistenziali? Rifiutateli pure. Ma non siete autorizzati a fare secco chi, viceversa, li ha adottati, più o meno felicemente. Con tutta la buona volontà, non afferriamo il senso delle carneficine di cui siete responsabili. Non osiamo maltrattare Nencini e Sofri solo perché non digeriscono in toto i discorsi di Oriana Fallaci. Aspettiamo per farlo di aver letto i loro interventi. Ma entrambi ci consentano di segnalarne la intempestività, che fa quasi ridere, visto che le loro opere escono nei giorni in cui a Bruxelles si raccolgono le prove che la defunta signora era nel giusto allorché di scagliava contro i tagliatori di teste e gli stragisti ubbidienti al Corano. Oriana era dotata di una intelligenza che i suoi detrattori non hanno, di un intuito prodigioso. Di quanto ha divulgato non c’è da cambiare una virgola. Lei ne sapeva più di coloro che intendono integrare chi non vuole essere integrato, perché persuaso di essere comandato da dio, e che aspirano a un multiculturalismo contrastante con l’integrazione stessa. Comunque, per quel che ci riguarda, prediligiamo avere torto con la Fallaci che non avere ragione con chi confonde la realtà con i propri sogni ingenui. Vittorio Feltri
"I bastardi confratelli e criminali": Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano” il 27 luglio 2016. Definitivo, l'attacco all'islam. Non ci scoraggiamo. Siamo sempre in attesa di un segnale che però tarda venire. Non demordiamo. Negli ultimi giorni i terroristi ci hanno tenuti svegli ammazzando qua e là. Nizza ha registrato un numero di morti abbastanza elevato. A Monaco di Baviera l’iraniano solitario si è dato da fare e ne ha stecchiti una cifra. Ieri abbiamo appreso che in Normandia due esaltatati armati di coltello hanno aggredito in una chiesa il prete e un fedele, sgozzandoli entrambi con abilità da macellai professionisti. Insomma non passa giorno senza che qualcuno uccida qualcun altro con la stessa disinvoltura con cui una persona calpesta, magari involontariamente, una formica. L’indomani i giornali pubblicano la notizia, le televisioni mandano in onda accurati servizi; poi i fatti tragici vengono dimenticati - anzi archiviati - e le emozioni si spengono rapidamente. Ci si abitua a tutto, anche ai crimini più efferati. Tra poco tempo un attentato terroristico, a prescindere dal numero dei cadaveri, non desterà più scalpore e sarà commentato con lo stesso tono distaccato con cui si racconta un tamponamento sull’autostrada. Di questo non abbiamo dubbi. Negli anni Settanta, i sequestri di persona erano all’ordine del giorno. I primi casi del genere occuparono pagine e pagine di giornale e furono seguiti nei dettagli fino alla conclusione, sia che l’ostaggio venisse liberato sia che fosse eliminato dai rapitori. Mesi dopo, dato il ripetersi pressochè quotidiano di simili odiosi reati, le cronache che li narravano furono ridotte ad alcune colonne interne e comunque liquidate in un mucchietto di righe sbrigative. Ecco. Temiamo che le imprese sempre più frequenti compiute dagli assassini islamisti facciano la stessa fine: trattate quali normali fatti di nera, per usare il gergo dei redattori. Così fosse sarebbe un guaio. Significherebbe che l’opinione pubblica, avendo fatto indigestione di sangue, non reagisce più ed ha imparato a digerire qualsiasi nefandezza. Il prete sgozzato in Normandia è un’indicazione importante: quella dei terroristi evidentemente è guerra di religione, se non di civiltà, altrimenti essi non si sarebbero azzardati ad agire con armi da taglio addirittura in parrocchia, oltretutto nella chiesa di Giovanna d’Arco, un simbolo non secondario della cristianità. Due morti sgozzati sotto l’altare non possono essere inseriti nell’elenco delle vittime di incidenti ordinari. Immagino che anche a un laico non sfugga il senso emblematico di un delitto del genere. Ciò detto rimane da fare una considerazione fondamentale. Di fronte all’ecatombe provocata dai farabutti in questione, ci si domanda perché la comunità dei cosiddetti islamici moderati - che sarebbero la maggioranza secondo i saggi intellettuali che predicano convintamente l’esigenza di accogliere i musulmani e di integrarli - non abbia organizzato neanche lo straccio di una manifestazione ostile alla violenza dell’Isis e affini. Essa non ha fiatato, non ha mosso un dito, non ha marciato né deplorato, è stata zitta, neppure una parola di biasimo verso i bastardi confratelli criminali. Come mai i figli di Allah non condannano i correligionari che massacrano coloro che li ospitano e li nutrono? È noto che chi tace acconsente. Se i moderati maomettani non aprono bocca dopo gli attentati commessi dai figli di puttana, forse hanno la stessa mamma. Forse. Diversamente ce lo facciano sapere, dimostrino di essere perbene, possibilmente in fretta. Alzino la voce, se ne hanno una con cui esprimersi in modo chiaro e netto. Vittorio Feltri
La storia di Oriana Fallaci, quella vera. Chi era la giornalista italiana più conosciuta e apprezzata al mondo, raccontato un po' meglio che in tv, scrive “Il Post” il 17 febbraio 2015. Oriana Fallaci si può definire così, a essere brevi: la giornalista italiana più conosciuta e apprezzata al mondo. Ebbe una vita straordinaria, di cui i più giovani sanno pochissimo e quel che sanno è per via delle cose che scrisse e disse negli ultimi dieci anni della sua vita – dall’11 settembre 2001 in poi – e che furono oggetto di critiche e polemiche, ma era stata moltissimo altro. Inventò un modo tutto suo di scrivere e intervistare, fu una delle prime donne a farsi strada in un mondo che fino ad allora alle donne sembrava precluso, ebbe posizioni radicali, fu molto poco politically correct e per questo divenne oggetto di attacchi e pesanti contestazioni (da cui seppe difendersi con energia). A un certo punto della sua vita diventò un personaggio, a prescindere dalle storie che raccontava e che aveva raccontato: fotografata e intervistata dai più importanti giornali internazionali, con i suoi occhialoni, le sigarette, i suoi cappelli e il suo pessimo carattere. «Sono nata a Firenze il 29/6/1929 da genitori fiorentini: Tosca ed Edoardo Fallaci. Da parte di mia madre, tuttavia, esiste un “filone” spagnolo: la sua bisnonna era di Barcellona. Da parte di mio padre, un “filone” romagnolo: sua madre era di Cesena. Connubio pessimo, com’è ovvio, nei risultati temperamentali. Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa». Così Oriana Fallaci raccontò la sua famiglia in “La vita di Oriana narrata da Oriana stessa per i lettori dell’Europeo”: un testo destinato, appunto, ai lettori della rivista con cui collaborava. La sua era una famiglia di antifascisti militanti. Il padre era iscritto al Partito socialista italiano (PSI) da quando aveva 17 anni: «Ho avuto la fortuna di essere stata educata da due genitori molto coraggiosi. Coraggiosi fisicamente e moralmente. Mio padre, si sa, era un eroe della Resistenza e mia madre non gli è stata da meno». Nonostante le condizioni della famiglia non fossero agiate, i pochi risparmi venivano investiti nell’acquisto di libri. Oriana Fallaci ebbe per tutta la vita una grande passione per i libri («Quando sono in una stanza senza libri mi sembra d’essere in una stanza vuota»); negli anni acquistò anche molti libri antichi creando una collezione che prima della sua morte donò alla Pontificia Università Lateranense di Roma. Dopo la caduta del regime fascista, nel luglio del 1943, suo padre entrò nella Resistenza e portò con sé la figlia che aveva 14 anni. Con la sua bicicletta e il nome di battaglia “Emilia”, Oriana Fallaci affiancò il padre in varie operazioni, fece da staffetta consegnando ai compagni partigiani armi, giornali clandestini e messaggi e accompagnando i prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di concentramento italiani dopo l’8 settembre verso le linee degli Alleati. I grandi classici della letteratura pagati a rate dai genitori e la partecipazione alla Resistenza furono i due elementi fondamentali della sua formazione: «La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura» (“Se il sole muore”, 2010). Nonostante la militanza nella Resistenza non perse nemmeno un anno di scuola, anzi: ne saltò uno, sostenne un esame per passare dalle magistrali al liceo classico e si diplomò con un anno di anticipo nel giugno del 1947. A settembre si iscrisse alla facoltà di Medicina e iniziò a lavorare per il quotidiano di Firenze Il Mattino dell’Italia centrale (il fratello del padre, Bruno Fallaci, era uno stimato giornalista e anche le due sorelle di Oriana, Neera e Paola, iniziarono a fare questo mestiere collaborando con Oggi e il Tempo). All’inizio Oriana Fallaci si occupò di cronaca nera. Poi lasciò l’università e iniziò a scrivere di cronaca giudiziaria e anche di argomenti di costume: è molto famoso un suo articolo del 7 dicembre del 1948 in cui descrisse le sfilate di Dior a Firenze. Il suo obiettivo era diventare «scrittore» e il giornalismo per lei era inizialmente solo un modo per guadagnare dei soldi: «Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore. Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: “Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?”» (Archivio privato Oriana Fallaci, Appunto dattiloscritto). Nel 1951 un suo articolo fu pubblicato sul settimanale L’Europeo, uno dei più prestigiosi del tempo. Il pezzo si intitolava “Anche a Fiesole Dio ha avuto bisogno degli uomini” e raccontava la storia di un cattolico comunista di Fiesole a cui erano stati negati i sacramenti e i cui compagni vestiti da prete avevano inscenato un funerale religioso. Negli anni Cinquanta lavorò per Epoca (diretto dallo zio) e scrisse per L’Europeo altri articoli trasferendosi a Roma (dal settimanale verrà poi assunta nella redazione di Milano continuando le collaborazioni fino al 1977). Come le altre sue colleghe si occupò di temi considerati adatti a delle giornaliste: costume e spettacolo. Intervistò gli attori stranieri che lavorano a Cinecittà e i grandi attori e registi del cinema italiano: Fellini, Mastroianni, Totò, Anna Magnani. Nel frattempo partecipò a diversi viaggi organizzati per la stampa nel mondo. Nel 1954 andò per esempio a Teheran e intervistò Soraya, la moglie dello Scià, e poi negli Stati Uniti: da quel viaggio nacque il reportage “Hollywood vista dal buco della serratura” che divenne anche il suo primo libro (“I sette peccati di Hollywood”). A questa pubblicazione ne seguirono altre: “Il sesso inutile” (1961), nato da un reportage sulla condizione della donna in Oriente e Medio Oriente; “Penelope alla guerra”, il suo primo romanzo pubblicato nel 1962; “Gli antipatici” del 1963. Ebbero tutti un grande successo in Italia e vennero tradotti in diverse lingue. Oriana Fallaci poté a quel punto permettersi di comprare una grande casa in Toscana per i suoi genitori e di comprare per sé una casa a Manhattan, New York, dove si trasferì nel 1963. Diventata ormai famosa e riconosciuta, in quegli anni che cercò di occuparsi di cose che non fossero divi e mondanità: chiese a L’Europeo di poter andare in California e in Texas nelle basi della NASA per vedere da vicino come si preparavano gli astronauti e scrisse sull’argomento diversi articoli e due libri, anche questi di grande successo: “Se il sole muore” e “Quel giorno sulla Luna”. Il 1967 e il 1968 furono gli anni più importanti per la carriera di Oriana Fallaci. Chiese e ottenne di essere inviata in Vietnam e fu l’unica giornalista italiana presente al fronte. Tornò più volte fino alla fine del conflitto, nel 1975, raccontando la vita quotidiana a Saigon, i bombardamenti, gli interrogatori dei prigionieri, le rappresaglie e realizzando molte interviste esclusive e reportage comprati e tradotti da importanti giornali internazionali. La sua posizione fu critica sia nei confronti dei soldati americani e sudvietnamiti sia nei confronti dei vietcong. Dalla guerra in Vietnam nacque il libro “Niente e così sia” (1969). In Vietnam conobbe François Pelou, giornalista francese direttore dell’Agence France Presse di Saigon, che diventò per alcuni anni il suo compagno. Nel 1968 era a Città del Messico alla vigilia delle Olimpiadi e restò ferita gravemente da un colpo di pistola nella repressione di una manifestazione studentesca di protesta (la credettero morta, poi dall’obitorio la trasferirono in ospedale). Tra gli anni Sessanta e Settanta Oriana Fallaci si affermò come grande giornalista politica: raccontò la rivolta di Detroit dopo l’uccisione di Martin Luther King, il conflitto arabo-palestinese, le guerriglie contro le dittature del Sudamerica, la morte di Bob Kennedy, i conflitti in Asia. Soprattutto riuscì a realizzare molte interviste a personaggi politici che nessuno era mai riuscito ad avvicinare: Ali Bhutto in Pakistan, Haile Selassie in Etiopia, Indira Gandhi in India, Golda Meir, prima donna premier di Israele, Reza Pahlavi, penultimo Scià di Persia, Yassir Arafat, storico leader palestinese, Henry Kissinger e molti e molte altre. Le interviste furono pubblicate su L’Europeo e anche sul Corriere della Sera, con cui aveva nel frattempo iniziato a collaborare. La tecnica con cui Oriana Fallaci conduceva le interviste era per l’epoca molto innovativa e la resero nota e apprezzata in tutto il mondo. In molti l’hanno paragonata a quella di un vero e proprio interrogatorio; le domande venivano preparate e studiate a tavolino nei minimi dettagli, registrate, e poi scritte e riscritte più volte, smontate e poi rimontate. Erano lontane – e per questo criticate da alcuni – dal cosiddetto giornalismo oggettivo e sempre filtrate dalle proprie posizioni e ideologie («Per esser buona un’intervista deve infilarsi, affondarsi, nel cuore dell’intervistato», dirà nel 2004 in “Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse”). Ventisei di queste interviste furono raccolte nel 1974 in “Intervista con la storia”, edito da Rizzoli, diventato a quel punto il suo editore di riferimento. Negli anni Settanta Oriana Fallaci pubblicò altri due libri: “Lettera a un bambino mai nato” (1975), proprio mentre in Italia si discuteva di legge sull’aborto, e “Un uomo” (1979). Entrambi parlavano di lei, dei suoi due aborti spontanei e del suo rapporto con Alexandros Panagulis, conosciuto come Alekos, uno dei leader della Resistenza greca alla dittatura dei Colonnelli che fu per per tre anni il suo compagno. Alekos era stato incarcerato nel 1968 dopo un attentato fallito a Papadòpoulos. Dopo la liberazione Oriana Fallaci lo incontrò, lo intervistò e se ne innamorò. Nel maggio del 1976 Alekos morì ad Atene in un incidente automobilistico le cui cause non furono chiarite: si pensò a un complotto, sul quale la Fallaci indagò per molto tempo. I libri nati in quegli anni furono tradotti e pubblicati in tutto il mondo. Il libro successivo di Oriana Fallaci arrivò undici anni dopo: “Insciallah”, nel 1990. Fallaci tornò a occuparsi di guerre – soprattutto quella civile del Libano a partire dagli attentati di Beirut – ma anche di fondamentalismo islamico e delle storie dei soldati che componevano il contingente militare italiano. Nel frattempo, dopo la morte di Panagulis e della madre, aveva lasciato L’Europeo e era tornata a scrivere piuttosto raramente per riviste o quotidiani, continuando comunque a realizzare soprattutto interviste (a Khomeini, il leader religioso che aveva instaurato in Iran la Repubblica islamica: l’intervista durante la quale polemicamente si tolse il velo che le copriva la testa; a Muammar Gheddafi, dittatore della Libia; a Lech Walęsa agli inizi di Solidarność). Nel 1992 Oriana Fallaci scoprì di avere il cancro e ne parlò in un’intervista alla RAI: «Io non capisco questo pudore, questa avversione per la parola cancro. Non è neanche una malattia infettiva, non è neanche una malattia contagiosa. Bisogna fare come si fa qui in America, bisogna dirla questa parola. Serenamente, apertamente, disinvoltamente. Io-ho-il-cancro. Dirlo come si direbbe io ho l’epatite, io ho la polmonite, io ho una gamba rotta. Io ho fatto così, io faccio così e a far così mi sembra di esorcizzarlo». Il suo rapporto con la malattia fu comunque piuttosto complicato (spesso vi faceva riferimento chiamandolo l' “Alieno”) soprattutto perché temeva le avrebbe impedito di finire il suo ultimo progetto editoriale: un grande romanzo storico che raccontasse la storia della sua famiglia dal Settecento al Novecento. Fallaci ci lavorò per più di quindici anni, facendo dettagliate e approfondite ricerche storiche. Non lo finì e venne pubblicato dopo la sua morte, avvenuta il 15 settembre del 2006, con il titolo “Un cappello pieno di ciliege” (2008). Il lavoro di scrittura del romanzo familiare fu interrotto nel 2001. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York Oriana Fallaci scrisse un lungo articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 29 settembre, intitolato “La rabbia e l’orgoglio”, con cui accusò l’Occidente e l’Europa di non avere avuto abbastanza coraggio nei confronti dell’Islam. L’articolo era molto originale e politicamente molto violento, e generò intorno reazioni altrettanto violente e un grande dibattito: per il Corriere fu un successo editoriale notevolissimo. Per Fallaci fu un rientro nella discussione giornalistica e politica molto intenso, che implicò litigi e tensioni personali con molti e il ritorno sulla scena del suo leggendario pessimo carattere. Quel testo fu accolto da molti come uno sfogo razzista e poco lucido privo di capacità di analisi equilibrata, e da altri come la liberazione di pensieri semplici ma fondati e troppo trattenuti da retoriche di correttezza politica. Fu in ogni caso un prodotto giornalistico di straordinario impatto e successo, cosa che dovette riconoscere anche chi non ne condivise niente. I successivi tre anni Fallaci li trascorse ad argomentare la sua posizione pubblicando una trilogia (“La rabbia e l’orgoglio”, “La forza della ragione”, “Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse”), schierandosi contro l’eutanasia sul Foglio in seguito alla vicenda di Terri Schiavo e sul Corriere della Sera contro il referendum per estendere la ricerca sulle cellule staminali. Conclusa questa fase in cui si occupò molto di attualità, riprese la scrittura del romanzo familiare: ma solo per un anno. Nell’estate del 2006, gravemente malata, volle tornare a Firenze dove morì il 15 settembre. Oriana Fallaci è sepolta nel cimitero degli Allori accanto ai suoi genitori; sulla sua lapide c’è scritto, per sua volontà: «Oriana Fallaci – Scrittore». L’ultima intervista la dette al New Yorker il 30 maggio del 2006 in un lungo articolo intitolato “The Agitator”: parlò della sua vita, attaccò di nuovo l’Islam, criticò sia Berlusconi che Prodi e concluse con una conferma alla sua lunga carriera: «Apro la mia boccaccia. E dico quello che mi pare».
L’ISLAM ED IL COMUNISMO E LA FINE DELLA CIVILTA’ EUROPEA.
Nostradamus: “La Guerra inizierà in Francia e poi tutta l’Europa sarà colpita, Italia compresa”. Nostradamus, veggente e visionario, nel suo libro pubblicato nel 1555 “Le Profezie” ha predetto tantissimi eventi che sono avvenuti nei secoli successivi come l’avvento di Adolph Hitler, la Rivoluzione Francese, la bomba atomica, gli attacchi del 11 Settembre 2001 ed una terza guerra mondiale. E anche quello che è accaduto in questi giorni in Francia e nel mondo sarebbe determinante per grandi sconvolgimenti in arrivo. Secondo molti esegeti, ovvero coloro che hanno interpretato e cercato di comprendere il messaggio criptico contenuto nelle quartine e sestine del famoso profeta, gli avvenimenti descritti nel libro arrivano fino al 2025 dove un nuovo mondo di pace sorgerà dalle ceneri della distruzione del mondo come lo conosciamo oggi. Nel libro ci sono almeno 20 profezie che parlano dell’invasione araba dell’Europa (Italia compresa) e dell’Occidente con la distruzione di Parigi, Roma e altre città. Vediamone alcune che sono molto chiare: “LA GRANDE GUERRA INIZIERÀ IN FRANCIA E POI TUTTA L’EUROPA SARÀ COLPITA, LUNGA E TERRIBILE ESSA SARÀ PER TUTTI…POI FINALMENTE VERRÀ LA PACE MA IN POCHI NE POTRANNO GODERE”. “PER LA DISCORDE NEGLIGENZA FRANCESE SARÀ APERTO PASSAGGIO A MAOMETTO: DI SANGUE INTRISO LA TERRA ED IL MARE, IL PORTO DI MARSIGLIA DI VELE E NAVI COPERTO.” Secondo il profeta la tendenza a favorire a tutti i costi l’Islam rinunciando alle tradizioni è stato determinante per l’attacco arabo alla nostra cultura. Poiché la Francia è la nazione dove questo è avvenuto di più sarebbe il luogo dove inizierebbe la terza guerra mondiale. Ma la preoccupazione cresce se si considera anche cosa abbia scritto di Roma: CI SARANNO TANTI CAVALLI DEI COSACCHI CHE BERRANNO NELLE FONTANE DI ROMA […] CHE SPARIRÀ E IL FUOCO CADRÀ DAL CIELO E DISTRUGGERÀ TRE CITTÀ. E in questo caso, in relazione a una profezia retroattiva, si potrebbe pensare al racconto dei sopravvissuti del Bataclan, prima i colpi come se facessero parte della scenografia, poi le parole pronunciate dai terroristi. Nostradamus ha sempre affermato di basare le proprie profezie sull’astrologia giudiziaria, ma fu duramente criticato dagli astrologi dell’epoca, considerandolo incompetente in materia. Gli studi recenti hanno rilevato come egli stendesse la parafrasi di elementi escatologici derivati dalla Bibbia, integrandoli con fatti storici e testi antologici in cui erano raccontati presagi e predizioni. Si pensi per esempio al finale della città di Roma, con l’avvento della terza guerra mondiale: ROMA PERDERÀ LA FEDE E DIVENTERÀ IL SEGGIO DELL’ANTICRISTO […] I DEMONI DELL’ARIA, CON L’ANTICRISTO, FARANNO DEI GRANDI PRODIGI SULLA TERRA E NELL’ARIA E GLI UOMINI SI PERVERTIRANNO SEMPRE DI PIÙ. Un destino per la città eterna che non si addice al suo nome, in considerazione anche delle minacce dell’Isis, annoverata come prossimo bersaglio, generando non poche polemiche sull’eventualità della cancellazione del Giubileo. Il Papa però non ha intenzione di fare marcia indietro. Prepariamoci quindi alle prossime profezie, presenti fino al 3797, considerando anche che alcune predizioni non si sono avverate. Fonte: AttivoTV
L'islam vuole sostituirsi al cristianesimo. Radio Maria lancia il monito "L'islam punta a farci fuori". Padre Fanzaga sulla strage di Nizza: "Pericolo grave: più che politico è un problema soprattutto religioso", scrive Fabio Marchese Ragona, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Non usa mezzi termini e non sembra avere alcun dubbio Padre Livio Fanzaga, storico direttore di Radio Maria, finito spesso al centro delle polemiche per le sue esternazioni radiofoniche da molti considerate troppo «spinte» per un uomo di Chiesa. Contro ogni coro islamofilo, il religioso bergamasco questa volta ha affidato i suoi pensieri senza filtri a un breve messaggio scritto sul sito web della radio cattolica: parlando della recente strage di Nizza, il padre scolopio ha infatti detto: «È doveroso chiedersi che cosa i musulmani pensino di noi e della religione cristiana; l'obbiettivo dell'islam di qualsiasi tendenza è quello di sostituirsi al cristianesimo e ad ogni altra espressione religiosa. I mezzi per farlo dipendono dalle circostanze storiche». Un messaggio chiaro, un sasso lanciato nello stagno che apre di certo un dibattito sulla questione islam, considerato anche che a pronunciare queste parole non è stato un sacerdote sconosciuto nel corso di un'omelia in una chiesetta di campagna, ma l'ormai celebre Padre Livio, seguito ogni giorno da milioni di ascoltatori e di cybernauti che visitano il suo sito. «Il terrorismo di matrice islamica - scrive Don Fanzaga - rappresenta uno dei pericoli più gravi che incombono sulla nostra società. Il problema non è soltanto politico, ma anche e soprattutto religioso. Non vi è dubbio che la grande maggioranza di musulmani che vive in Occidente sia gente che vuole fare una vita tranquilla, ma l'obiettivo dell'Islam è di sostituirsi al cristianesimo». A sostegno di queste parole, il religioso ha pubblicato a seguire un breve estratto del suo volume «Non praevalebunt. Manuale di resistenza cristiana», in cui il direttore di Radio Maria, riporta alla luce una vecchia pubblicazione di Stefano Nitoglia secondo cui, nonostante le differenze tra Islam moderato, radicale e di matrice terrorista, i fini appaiono sempre gli stessi: «La soggezione di tutto il mondo all'islam, considerato il sigillo e il compimento di tutte le rivelazioni, con il mondo (secondo la dottrina classica dell'islam, accettata da tutti i musulmani) suddiviso in due parti, il territorio dell'islam, dove vige la legge dell'islam e il territorio di guerra dove sono gli infedeli. Quest'ultimo territorio dev'essere conquistato e assoggettato all'Islam». Parole che Padre Livio ha fatto sue, ritenendo peraltro inutile un ipotetico dialogo interreligioso con l'Islam in cui i cristiani proporrebbero la visione della fede cristiana ai musulmani «perché per essi il cristianesimo è quello che viene interpretato dal Corano e nessun argomento umano potrebbe cambiare quella che per loro è una rivelazione divina». Una posizione, quella espressa da don Fanzaga, secondo cui l'islam vuole sostituirsi al cristianesimo, in netto contrasto con quella ufficiale del Vaticano, con il cammino intrapreso da Papa Francesco, impegnato sin dall'inizio del suo pontificato in un dialogo con l'islam sunnita e con quello sciita, convinto che «con i musulmani si può convivere». Proprio qualche giorno fa, ad esempio, uno stretto collaboratore del Papa, il vescovo spagnolo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ed esperto di Islam, è volato al Cairo per un incontro all'Università di Al-Azhar, uno dei maggiori centri d'insegnamento dell'Islam sunnita, retto dalla guida suprema, lo sceicco Muhammad Ahmad al-Tayyib. Nell'incontro, l'inviato papale ha discusso i termini e le modalità per un prossimo incontro che «segna la ripresa del dialogo tra Santa Sede e Al-Azhar per rafforzare i legami tra cristiani e musulmani». Nonostante ciò, Radio Maria e il suo direttore rimangono di un altro avviso: l'islam è un pericolo per i cristiani e in un altro editoriale intitolato «La donna e il drago» pubblicato qualche giorno fa, Fanzaga, parlando di terrorismo islamico ha ribadito: «Per quanto gli Stati si diano da fare, difficilmente verranno a capo di questo scatenamento infernale dell'impero delle tenebre. Per uscire vincitori di questo tremendo passaggio storico non bastano i mezzi umani, per quanto necessari».
Con la Rivoluzione Francese abbiamo diviso lo Stato dalla Chiesa e questi ci vogliono imporre un nuovo tipo di regime teocratico ideologico?
Per non turbare i musulmani via i crocifissi e la festa di Natale. Concerto di Natale cancellato e crocifisso rimosso. Succede all’Istituto comprensivo Garofani di Rozzano (provincia di Milano), dove i vertici della scuola hanno imposto la linea laica, scrive Luisa De Montis, Venerdì 27/11/2015, su "Il Giornale". L'ennesimo scandalo in una scuola italiana. Concerto di Natale cancellato e crocifisso rimosso. Succede, come riporta Il Giorno, all’Istituto comprensivo Garofani di Rozzano (provincia di Milano), dove i vertici della scuola hanno imposto la linea laica. Un gruppo di genitori ha puntato il dito contro il dirigente scolastico reggente Marco Parma (già candidato sindaco per una lista civica e per il M5S a Rozzano) sulla cancellazione della Festa di Natale. Fino a oggi, ogni anno si teneva la "Festa musicale di Natale": canti e cori, non solo natalizi, frutto del lavoro dei bambini con i maestri dell’Associazione 11 Note. L’anno scorso i bimbi cantarono canzoni natalizie stile "Jingle Bells". Quest’anno un paio di genitori ha chiesto al preside di inserire anche canti più propriamente religiosi come "Tu scendi dalle stelle", "Adeste fideles" e "Stille Nacht". La risposta del dirigente scolastico è stata un secco "no" in nome della laicità della scuola pubblica. E il saggio musicale verrà svolto il 21 gennaio. A feste finite. E non si chiamerà più Festa di Natale, ma festa d'Inverno. Certo, le festicciole natalizie nelle aule del Garofani ci saranno, ma la decisione finale dei vertici scolastici, in accordo con l’Associazione 11 Note, è stata quella di far slittare il saggio musicale dopo Natale, il 21 gennaio. E l’appuntamento è stato ribattezzato: da "Festa di Natale" a "Festa d’Inverno". La motivazione del rinvio? "Il rispetto delle diversità". Insomma, la paura era che qualche genitore di religione musulmana potesse lamentarsi o essere in imbarazzo.
Il sottosegretario all'Istruzione: "Sì al presepe a scuola; vietarlo non aiuta l'integrazione". Gabriele Toccafondi, coordinatore regionale Ncd Toscana, sottosegretario di Stato all’Istruzione, e l'intervento su La Nazione: "Non interrompiamo le nostre tradizioni". Caro direttore, ho seguito con attenzione le inchieste dedicate da La Nazione ai “presepi vietati” nella nostra città. Questo tema ci permette di affrontare un dibattito sul rapporto tra identità e cultura nei Paesi occidentali secolarizzati e multiculturali, sui concetti di accoglienza e di dialogo. L’idea che per rispettare le altre culture e religioni sia necessario rinunciare alle proprie tradizioni, o rinnegarle, è un’idea decisamente bizzarra, che mai ha fatto parte della storia delle civiltà, e che si è affacciata nel mondo occidentale solo da pochissimi anni. Vietare il presepe non aiuta né il dialogo né l’integrazione, ma anzi sottolinea le differenze, allontana mondi che invece dovrebbero conoscersi e avvicinarsi. Come facciamo a dialogare con gli immigrati di altre culture e tradizioni, che vengono a vivere da noi, se non siamo in grado di trasmettere loro la nostra civiltà, le nostre usanze e le nostre credenze, ciò che abbiamo di bello? Il Natale è la memoria di un fatto storico e non solo un avvenimento di fede per molti credenti. E’ talmente un fatto riconosciuto e universale che ai bambini non puoi nascondere che si festeggia qualcosa durante Dicembre e così pur di nascondere la nascita di Gesù dentro una grotta in alcune scuole ci si inventa qualcosa da festeggiare: dall’albero di natale, alla neve fino a bizzarre creazioni come il topolino che porta i doni ai poveri o al pesciolino rosso dentro l’acquario. Non sarebbe più semplice dire le cose come stanno? E poi, sono davvero così sicuri, questi presidi e insegnanti che vietano il presepe, che gli alunni stranieri e le loro famiglie siano contrarie alla realizzazione della capannuccia negli istituti educativi? Io ricordo che proprio qui, a Firenze, esponenti di rilievo della comunità islamica locale dissero, qualche anno fa, che era opportuno e formativo che i loro figli potessero conoscere usanze e tradizioni del Paese in cui erano venuti a vivere. Impedire la realizzazione di un presepe in una scuola è un atto che reputo privo di ragioni, di un malinteso senso di laicità, che si nasconde dietro la presenza di alunni stranieri o di altre religioni, ma che nulla ha a che vedere con una sana laicità positiva, in grado di accogliere e valorizzare, non di censurare. Come stabilito anche dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2011, neppure il crocifisso esposto nelle aule scolastiche viola il principio della laicità degli istituti educativi. Che male può fare un simbolo come il presepe? Mi auguro che i docenti e dirigenti scolastici che hanno impedito a tanti bambini di avere una capannuccia nelle loro scuole, riconsiderino la loro decisione, in questi ultimi giorni prima del Natale: perché un vero dialogo con chi appartiene a tradizioni culturali diverse si può impostare solo valorizzando e facendo conoscere le radici più profonde della nostra identità.
Il presepe, bersaglio sbagliato, scrive Edoardo Crisafulli su “Avanti On line”. Un Preside ha vietato il Presepe, “un focus cerimoniale e rituale che può risultare soverchiante”: gli alunni di origine straniera, cospicua minoranza nella sua scuola, subirebbero l’imposizione di “ciò che non appartiene” loro. Concordo sul fatto che “la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione.” Ma questa decisione mi pare assurda. Il Presepe fa parte della cultura italiana come l’arte sacra, la musica barocca e la Divina Commedia. Non è un mero simbolo di fede. Sarebbe folle pretendere che l’alunno islamico (o buddista o quel che è) si converta al cristianesimo. Ma chi vuole integrarsi in Italia deve assimilare la nostra cultura. Altrimenti sarà un cittadino privo di un’identità. Non c’è bisogno di credere nella resurrezione di Cristo per ammirare la pittura di Giotto e la poesia di Dante, così come non occorre compiere sacrifici a Giove per apprezzare la mitologia classica. Il cristianesimo, inteso come fenomeno culturale, non deve apparire estraneo, o alienante, a chi ha scelto di vivere a casa nostra. I cristiani d’Oriente non studiano forse il Corano, un vero e proprio capolavoro linguistico, nonché testo di base della civiltà arabo-islamica, cui anche loro appartengono? Nessun cristiano colto nega che l’arabo classico — la koiné di tutti gli arabi – è, essenzialmente, una lingua coranica. Se c’è un simbolo più religioso che culturale, quello è il crocefisso. Ma il Preside, che ha “cose più importanti” di cui occuparsi, ha deciso di lasciarlo “appeso ai muri”. Se lo togliesse, i credenti ne farebbero “una questione di Stato”. Più facile bandire l’innocuo Presepe, che spunta a ridosso del Natale, per poi svanire subito dopo l’Epifania. Una volta affermato il principio demenziale che il Presepe offende la sensibilità islamica, dove arriveremo? Proibiremo la lettura a scuola del Canto XXVIII dell’Inferno dantesco, perché il Profeta Maometto vi compare nella veste sommamente offensiva di un dannato squarciato dal mento fin dove si “trulla”; punizione vergognosa, riservata agli scismatici, ai seminatori di discordia, come erano reputati i musulmani nel Medioevo? E metteremo alla berlina il Manzoni cristiano in quanto credente in una divinità falsa e bugiarda? No, non è questo il compito di una scuola laica, che forma i cittadini della polis secolare. Il vero laico è un liberale, un libertario. La laicità è una neutralità attiva: lo Stato laico non propaganda né una singola religione né l’ateismo; crea semplicemente le condizioni politiche che garantiscono la libertà di culto. La censura del Presepe non è un’affermazione di laicità, e non è neppure frutto della degenerazione di uno spirito laico intollerante. È piuttosto figlia del politically correct saccente e confusionario che imperversa da anni negli Stati Uniti, e che ora è approdato sulle nostre coste. Un multiculturalismo di bassa lega, con una spruzzata di giacobinismo a senso unico (l’unica tradizione da azzerare è la nostra), viene spacciato come una riedizione dell’Illuminismo progressista. I sacerdoti del politically correct, in nome della tolleranza verso lo straniero e il diverso, impongono forme subdole di censura o di auto-censura: chi non si adegua ai loro dettami subisce una gogna mediatica. Il multiculturalista serio è fatto di tutt’altra pasta: ama la diversità, perché è consapevole che il pluralismo religioso/culturale arricchisce la società civile. A una condizione, però: che venga rispettata la libertà e la dignità di tutti. Solo così il principio liberale è adattabile al mondo cosmopolita d’oggi. La cifra del laico autentico, peraltro, è la coerenza: anche quando degenera nella polemica anti-religiosa, ha il coraggio di prendersela ex aequo con preti, rabbini, imam e monaci: per lui, tutte le religioni positive sono ricettacoli di superstizione e di fanatismo. Mica rinnega la sua tradizione culturale per esaltarne una straniera, esotica, perché così va di moda nei circoli radical-chic! In certi ambienti di sinistra invece si usano due pesi e due misure: si insorge (giustamente) quando viene offeso l’islam, ma si tace o si gongola se qualcuno dissacra il cristianesimo o inveisce contro il Papa (da questo punto di vista, Oriana Fallaci non aveva tutti i torti). Agli apostoli del multiculturalismo suggerisco la lettura di Innamorato dell’Islam, credente in Cristo, di Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito dai jihadisti in Siria, il quale ha dedicato la sua vita al dialogo interreligioso basato sulla reciprocità. Se noi dobbiamo rispettare l’islam, i musulmani devono fare altrettanto con noi. Il dialogo interreligioso è una faccenda maledettamente seria: Dall’Oglio, forse, ci ha rimesso la pelle. Ho avuto l’onore di conoscerlo a Damasco, nel 2011. È stato lui a insegnarmi una grande verità, valida anche per chi non è credente: per confrontarmi con chi crede in un Dio diverso dal mio, non devo rinnegare la mia religione. Tutt’altro: la devo professare (o difendere) con orgoglio. Cosa fare, allora? Abolire l’insegnamento del cattolicesimo nella scuola pubblica (unico vero vulnus alla laicità), oppure garantire, per equità, la medesima importanza a tutte le religioni professate dai cittadini italiani? A mio avviso, l’educazione religiosa, fatto di coscienza individuale, spetta alle famiglie, non allo Stato. Sarebbe sbagliato inaugurare una sorta di carnevale variopinto di tutte le fedi. Lo Stato, però, ha il dovere di insegnare la storia del cristianesimo, quale disciplina curricolare. Che sia un docente di lettere o di storia a insegnarla, laicamente. La nostra civiltà ha radici cristiane, oltreché pagane (greco-romane) – e qui consiglio, a chi pencola verso le tesi dei teocon, il saggio di Luciano Pellicani, Le radici pagane d’Europa. Il vero scandalo, oggi, non è il Presepe: è l’ignoranza: i nostri figli non conoscono le parabole evangeliche e le narrazioni bibliche. Senza quei codici culturali, tanta parte della nostra letteratura e della nostra tradizione artistica risulta incomprensibile. Anche la polemica sui crocefissi la risolverei in chiave culturale: sostituiamo quelli bruttissimi di plastica con riproduzioni di Giotto o di Cimabue. Che ogni classe adotti una croce dipinta della tradizione pittorica italiana. Trasformare un fenomeno artistico, qual è il Presepe, in un simbolo religioso, è anche un grave errore politico. I fascio-leghisti non si sono fatti sfuggire l’occasione per specularci sopra: “Ecco la sinistra che plaude all’Eurabia islamizzata!’ Non lasciamo la difesa delle nostre tradizioni alla Lega e a Casa Pound: la rappresentazione della natività – l’espressione più poetica della religiosità popolare italiana – fu inventata da San Francesco d’Assisi. Per testimoniare, ogni anno, la nascita in assoluta povertà e umiltà di Cristo. Un messaggio formidabile per i creso-cristiani d’ogni tempo, che difendono a parole la cristianità mentre la tradiscono trescando con i potenti di turno. Riappropriamoci, noi socialisti, del Presepe e denunciamo l’uso politico distorto che ne fanno coloro che annacquano lo spirito rivoluzionario, sovversivo del cristianesimo. Ecco perché io, agnostico e laico-socialista, amo il Presepe e lo voglio esposto nei luoghi pubblici, così com’è: un bambino adagiato in una mangiatoia, in una grotta. E a chi sparge a piene mani il seme dell’odio e dell’intolleranza ricordo i bei versi di Trilussa “Ve ringrazio de core, brava gente/ pe’ ‘sti presepi che me preparate,/ ma che li fate a fa? Se poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…”.
La sinistra a favore dei mussulmani contro i cristiani. L'Islam astio al principio di reciprocità.
La persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, scrive Salvatore Lazzara. Gesù nel Vangelo, ricorda ai discepoli: “Beati voi quando, vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. La promessa di Gesù non prevede per i suoi seguaci vita facile. E’ il mistero della sequela, un cammino che costa a quanti aderiscono, un prezzo altissimo. In alcuni casi è richiesto il dono della vita, per testimoniare la fede nel Signore morto e Risorto. Già nel nuovo testamento sono registrati i primi attacchi contro i cristiani: dopo la morte in croce del maestro, i discepoli ebbero paura ad annunciare ciò che avevano visto e udito, per paura di essere uccisi. E’ necessario che il Risorto stesso indichi ai discepoli con le apparizioni nel giorno dopo il sabato, la via da seguire. Durante una riunione a porte chiuse, presente la Madre di Gesù Maria, ricevono il dono dello Spirito Santo, il quale li abilita a proclamare che Gesù è il Signore, e quanti ascoltano la loro parola, gli abitanti di Tiro, di Sidone, della Cappadocia, intendono nella loro lingua il messaggio del Dio fatto carne e crocifisso per la salvezza degli uomini. Da questo punto in poi, i discepoli vivranno incomprensioni, delusioni, tradimenti, fino a versare il sangue per la fede. Il primo martire di cui abbiamo notizia è Stefano, il quale viene ucciso brutalmente perché si rifiutava di rinnegare Gesù. Sono esemplari le ultime parole pronunciate da questo discepolo del Signore, che ricalcano quelle dette da Gesù sulla croce prima di morire. La tradizione dei primi secoli ha tramandato alcuni atti dei primi martiri della fede, molto suggestivi e pieni di spunti di riflessione. Le persecuzioni si scatenano contro i cristiani quando non vogliono cedere ai compromessi o alle false divinità. Tutto ciò produce odio, perché la parola di Dio condanna il male e ciò che di brutto il mondo possiede. Cito per tutti san’Ignazio di Antiochia, il quale catturato non volle essere liberato per diventare nelle mandibole dei leoni frumento di Cristo macinato per la salvezza del mondo. Certamente non possiamo analizzare i motivi e le lunghe persecuzioni cruente dei cristiani nell’arco dei 2000 anni, ma possiamo sintetizzare i vari periodi per comprendere il faticoso annuncio della Parola di Dio all’umanità. Fino al quarto secolo, i vari imperatori romani nel vasto territorio sotto la loro giurisdizione, tentarono in tutti i modi di eliminare il Cristianesimo che si diffondeva sempre più attraverso le vie commerciali, con la complicità di alcuni ufficiali militari, che avendo sentito ciò che Gesù aveva fatto ad alcuni colleghi, come ad esempio la guarigione del figlio del centurione, -il quale prima dell’ingresso del Signore nella sua casa esclamò-: “Guarda io non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito…”-, suscitava in quanti ascoltavano sentimenti profondi di commozione e di partecipazione. La “nuova fede”, fece breccia sugli schiavi, i quali vedevano nel Cristianesimo, la liberazione dalla condizione di oppressi. Sappiamo dai racconti, che molti di essi erano a servizio dei potenti del tempo. Venendo a contatto con loro, cominciarono a convertirsi per la fedeltà che i servi mostravano verso la nuova religione. Tutto ciò turbava gli equilibri politici, sociali e religiosi del tempo. Sentendo odore di minaccia al potere costituito il cristianesimo, cominciò ad essere perseguitato in tutto l’impero con le grandi campagne messe in atto da Diocleziano, Tito, Nerone, il quale accusò i cristiani di essere responsabili del famoso rogo-incendio di Roma, che lui stesso aveva fatto appiccare. Per giustificare le efferate esecuzioni e sbarazzarsi di questa nuova forma di religiosità, Nerone non ebbe scrupoli ad addebitare ai cristiani un atto che non avevano commesso, soltanto per placare la sua coscienza ed affermare il personale potere nei confronti dei sudditi. Con la conversione di Costantino al cristianesimo, cominciò un era di pace e di libertà. Cominciarono le costruzioni delle Basiliche, e il culto era permesso alla luce del sole. Il cristianesimo a poco a poco cominciò a diventare parte strutturale della società, arrivando a permeare la vita dei fedeli in modo totalizzante. Certamente non siamo qui ad esaminare tutti gli aspetti positivi e negativi del processo storico descritto, ciò che conta e comprendere la difficoltà in cui ad esempio si trova oggi l’espansione dell’Islam, alla luce di quanto ho affermato. Ai tempi di Costantino, il potere sociale e religioso erano uniti indissolubilmente. L’imperatore era il depositario, il custode del creato, perché da Dio riceveva la potestà di governare. Dunque dalla religione partiva ogni input per regolare la vita della società. Ogni cosa era subordinata alla Bibbia, e dalla Scrittura si prendeva ispirazione per stabilire le leggi etiche e morali. Questo sistema naturalmente ha subito parecchie modifiche nel tempo, fino ad arrivare ai tempi odierni, portando dietro di se integralismi, fondamentalismi, e tante volte scelte sbagliate che hanno causato la morte di tanta gente innocente. Dobbiamo purtroppo dire che lo schema citato, ha portato a persecuzioni accanite contro i cristiani e viceversa. Questa struttura ancora oggi è usata dall’Islam nei paesi a maggioranza musulmana. E’ il Corano con le sue leggi a determinare il corretto svolgimento della vita dei cittadini. Ogni cosa prende spunto e trae ispirazione dalla parola di Allah. Tutto ciò che non coincide con il predicato religioso islamico, deve essere abbattuto con ogni mezzo. Ogni musulmano è chiamato ad osservare il Corano, e da esso prendere spunto per la vita familiare e relazionale. Le società islamiche oggi vengono classificate in moderate e radicali. E’ una divisione che a me personalmente crea diverse perplessità e problemi. Cosa significa essere moderati? Forse non usare la violenza per convertire? Oppure cosa significa radicali? Usare la violenza come via per raggiungere la conversione degli infedeli a scapito del dialogo e della civile e pacifica convivenza con chi non accetta l’Islam? Sono domande complicate, da cui nasce la confusione e la persecuzione di cui noi oggi siamo testimoni contro i cristiani in generale e le minoranze religiose. Nei paesi musulmani, generalmente ai cristiani è riconosciuta la libertà di professare la loro fede, ma con limitazioni in alcuni paesi. In Arabia Saudita è formalmente vietata ogni religione che non sia quella musulmana; la presenza di stranieri cristiani è tacitamente tollerata, ma essi non possono in alcun modo manifestare la propria fede. Persino il possesso della Bibbia è considerato un crimine. In generale nei paesi arabi i cristiani sono oggetto, da parte della popolazione musulmana, di forme di discriminazione più o meno gravi, che negli ultimi decenni hanno portato molti di loro a emigrare o a convertirsi all’Islam. La popolazione cristiana è in calo pronunciato in tutti i paesi del Medio Oriente. La conversione di musulmani al cristianesimo è poi vista come un crimine (apostasia) e, anche nei paesi in cui la legge la consente, i convertiti sono spesso oggetto di minacce e vendette da parte della popolazione. Mentre in Occidente si combatte ogni forma di religiosità di carattere cristiano in nome di una falsa laicità aggressiva, in alcuni paesi a maggioranza islamica il percorso è inverso. I musulmani al potere cercano in tutti i modi di “islamizzare” gli stati in cui sono a maggioranza con leggi che favoriscono lo sviluppo dell’Islam, ma che penalizzano di molto le altre religioni, le quali strette nella morsa della persecuzione diventano sempre più minoritarie. In Europa la confusione ideologica porta allo smantellamento culturale, causando effetti devastanti: la costruzione di moschee, il Real Madrid ha dovuto togliere la croce della scudetto perché il maggiore azionista della squadra è diventato un famoso emiro musulmano, le continue polemiche contro l’allestimento dei presepi, l’insegnamento della religione nelle scuole, il crocifisso nelle aule pubbliche, le difficoltà relazionali in alcune città europee importanti a maggioranza musulmana che avanza silenziosa, la natalità, gli investimenti economici, fanno parte di una persecuzione precisa e metodica contro i cristiani portata avanti dai cosiddetti moderati, che pur non prevedendo il sacrificio cruento con lo spargimento del sangue, condiziona la libertà del cristianesimo in nome della tolleranza e dell’accoglienza. A questo punto possiamo fare un accenno all’epoca delle Crociate, considerate a torto come persecuzioni contro i non cristiani, ma il tempo a disposizione è poco. Contrariamente a quanto è stato affermato dai libri di storia foraggiati dai nemici del cristianesimo, -come possiamo vedere dall’immagine- (foto 1), avevano uno scopo chiaro e limpido: difendere i luoghi santi dalle invasioni islamiche. Mentre le conquiste musulmane avevano ed hanno come obiettivo la conquista dei territori, per convertire all’Islam gli infedeli, contrariamente i crociati difendevano e riconquistavano con la forza i luoghi santi. Certamente non tutto è stato rose e fiori…. Ma permettetemi di dire che bisognerebbe rivedere con onestà queste pagine di storia senza i pregiudizi di quanti avversano in tutti i modi la presenza cristiana nel mondo. I cristiani a Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2 per cento, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano. Se ne contano approssimativamente il 35 per cento, ma in diminuzione rispetto a qualche anno fa. “Più i cristiani lasciano il Paese, più i cristiani diventano un’esigua minoranza, più alcuni principi della modernità, come ad esempio i diritti umani, vengono a cadere”, avverte il gesuita egiziano padre Samir, esperto di questioni mediorientali. “Con la diminuzione degli elementi cristiani si fa un passo indietro nell’economia ma, ancor di più nella politica, e soprattutto in tutto ciò che è legato ai diritti umani: la situazione della donna, la libertà religiosa, la libertà tout court, il progresso sociale, i diritti sociali per i più poveri e i deboli”. Anche per questo motivo sentiamo tra i musulmani – intellettuali e non solo, politici e anche gente di media cultura – dire: “Per favore, non andatevene! Rimanete! Abbiamo vissuto insieme per secoli!”. Dal 2000 ad oggi i cristiani vittime di persecuzioni sono stati 160.000 ogni anno. Ogni 5 minuti un cristiano viene ucciso a causa della propria fede.
Don Salvatore Lazzara - Sacerdote da 17 anni, è cappellano militare all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Da Cappellano Militare ha svolto i seguenti incarichi: Maricentro (MM) La Spezia, Nave San Giusto con la campagna addestrativa nel Sud Est Asiatico, X° Gruppo Navale in Sinai per la missione di Pace MFO. Successivamente trasferito alla Scuola Allievi Carabinieri di Roma. Ha partecipato alla missione in Bosnia con i Carabinieri dell’MSU. Di ritorno dalla missione è stato trasferito alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Dopo l’esperienza nei Carabinieri è tornato a Palermo presso i Lanceri d’Aosta (Esercito). Per Da Porta Sant’Anna curava inizialmente la rubrica “Al Pozzo di Sicar”; da Luglio 2014 ha assunto il ruolo di Direttore del Portale.
E poi c'è lei. Peppa Pig. Oggetto di strali dei benpensanti.
E' attualmente il cartone animato più famoso e visto al mondo, ma anche dai genitori che, in caso di stanchezza giornaliera, piazzano i figli davanti alla tv, incantati dal maialinio super star. Ma ora Peppa Pig finisce nell'occhio del ciclone. Tutto per una presunta parolaccia pronunciata dal maialino in un nuovo episodio. E ora le mamme protestano: "Siamo scioccate". A denunciare l'episodio è Natalie, una mamma inglese di 30 anni che si è resa conto del turpiloquio di Peppa Pig dopo che la sua bambina aveva ripetuto una strana parola. L'episodio incriminato è in un DVD in cui si fa un riferimento a una band. Da "Rocking Gazzelle" diventano "Fucking Gazelle", almeno secondo quanto ha capito la mamma. "Sono scioccata", ha detto la donna al Daily Mail. "Quando ho sentito mia figlia dire certe parole l'ho rimproverata ma poi mi sono resa conto che era tutta colpa del cartone". La donna si sente responsabile e colpevole e conclude dicendo che non permetterà mai più ai suoi bambini di vedere il cartone. Anche Peppa Pig potrebbe rimanere vittima dell’elevato livello di attenzione per la prevenzione degli attentati. La simpatica maialina rosa potrebbe essere messa al bando. Le nuove linee guida della Oxford University Press, la casa editrice dell'ateneo inglese che pubblica testi scolastici e prodotti editoriali educativi. Secondo queste indicazioni c’è il divieto di pubblicazione di riferimento al maiale e alla sua carne per non offendere i musulmani e gli ebrei. L’Università è un’autorità negli ambienti culturali inglesi e, se dovessero essere accolti i suggerimenti, il cartone animato che fa impazzire i bambini di tutto il mondo potrebbe essere messo al bando. La censura dell’Università arriva subito dopo gli attentati di Parigi. Sulla questione sono intervenute perfino le comunità ebraiche e musulmane che hanno definito la vicenda un tentativo “politically correct senza senso”.
Presepi vietati e minacce di morte: le scuole italiane sottomesse all’Islam, scrive il 6 dicembre 2015 “Riscatto Nazionale”. Succede qualcosa, tra il 24 e il 26 dicembre, ma è meglio non parlarne. Per non turbare i bambini figli degli immigrati che non sono di religione cristiana, presidi e dirigenti scolastici cancellano il Natale con furia iconoclasta. Alberi banditi, crocifissi nascosti, presepi vietati. Canti e poesie, neanche a parlarne. Capitava anche in passato, per carità, ma, dopo gli attentati di Parigi, la tensione è tale che, per ogni Re Magio che finisce nel cassetto, scoppia un caso politico. A Golfo Aranci, la dirigente scolastica Raimonda Cocco ha deciso di proibire l’allestimento del presepe e l’insegnamento dei canti natalizi. I genitori si sono offesi e il sindaco Giuseppe Fasolino (Forza Italia) ha risposto mettendo a disposizione locali alternativi per il festeggiamento del Natale. Sempre rimanendo in Sardegna, ma a Sassari, i genitori della scuola San Donato (250 bambini di cui 122 non cattolici) avevano contestato la direttrice perché aveva chiuso le porte dell’istituto alla visita prenatalizia dell’arcivescovo. Per par condicio, avrebbe dovuto ospitare anche l’imam o il messia del dio di pasta e polpette della chiesa pastafariana. Allora non se n’è fatto più nulla. Non solo Rozzano – Ad Agrigento c’è stato un caso simile a quello di Rozzano: quest’anno nell’istituto comprensivo Esseneto, di rosso c’è soltanto il numero 25 sul calendario. Niente albero, niente addobbi, niente presepe, niente canti e zero recita. Una tristezza, insomma. Celebrare la festività cristiana offende i bambini musulmani, si sono sentite dire le mamme dai dirigenti scolastici. «La preside», racconta il coordinatore di Noi con Salvini, Giuseppe Di Rosa, all’AdnKronos, «ha pure imposto di togliere i crocifissi e alcune maestre entrano in aula, prendono il crocifisso dal proprio armadietto, lo appendono e poi lo tolgono a fine lezione». Casi di fede a intermittenza anche in Versilia. A Viareggio l’insegnante ha chiesto al bambino di levarsi il rosario che aveva al collo e di riporlo in cartella. Quel simbolo religioso poteva infastidire i compagni che pregano Allah. I genitori del bimbo sono rimasti sconvolti, hanno denunciato il caso e meditano di ritirare il figlio dalla scuola. Hanno già chiesto il nullaosta per il trasferimento. L’insegnante, però, contesta la versione data dalla famiglia, come spiega Il Tirreno. Al bambino è stato solo chiesto se conoscesse il significato di quel simbolo che portava al collo. Tutto qui. Nessuno l’ha obbligato a sfilarlo e nasconderlo. Sempre in Toscana, il sindaco di Castiglion Fiorentino Mario Agnelli ha disposto il collocamento obbligatorio del crocifisso in tutte le scuole comunali, appellandosi a una sentenza del Consiglio di Stato: «Il crocifisso può svolgere una funzione simbolica altamente educativa, al di là della sua connotazione prettamente religiosa». Il primo cittadino, inoltre, ricorda che «il calendario scolastico è modellato in base alle festività religiose cristiane». Per cui, insegnanti che professano il «relativismo culturale» e bambini non cattolici il 25 possono pure presentarsi a scuola e fare lezione. Chi dissente se la vede brutta. È successo al sindaco di Romano, Rossella Olivo. Aveva protestato perché un istituto comprensivo della sua città, nel vicentino, aveva organizzato un concerto con musica “esotica”. Metà delle canzoni erano in arabo. Neanche un “Tu scenti dalle stelle”. Risultato: Olivo è stata minacciata di morte, come scrive Il Giornale di Vicenza. Eppure c’è un posto a Milano dove gli scolari islamici sono affascinati da tutto l’apparato natalizio. Vogliono scrivere il biglietto d’auguri a papà e mamma, guardano affascinati il presepe e l’albero. È l’Ics Morosini-Manara. Anche se, ammette la maestra, le poesie su Gesù bambino che andavano a memoria vent’anni fa, non si portano più. Relativismo – A Torpignattara, quartiere romano ad alta densità di stranieri, gli scolari italiani sono quasi in minoranza. Per cui all’istituto Pisacane fanno così: non festeggiano il Natale, celebrano il giorno dell’anti-razzismo. Ai canti tradizionali si sostituiscono i balli indù. A Ladispoli, sul litorale di Roma, c’è una fusione. Il crocifisso è «tollerato», ma gli scolari delle elementari, pure gli italiani, leggono il Corano in classe. Che male c’è?, domanda il preside Riccardo Agresti, in passato malmenato da un genitore che lo accusava di privilegiare i rom a discapito degli italiani.
IL NATALE COME TRADIZIONE E CULTURA: GENESI ED EVOLUZIONE.
IL NATALE. LA PIU' BELLA FESTA DEL MONDO E' CRISTIANA.
Il Presepe e quell’iconoclastia del laicismo anticristiano che ignora l’arte e lo spirito, scrive Aldo Vitale il 5 dicembre 2018 su L’Occidentale. «Nella fredda stagione, in luoghi avvezzi all’afa/ più che al gelo, e a piatte distese più che ai monti,/ nacque un bambino per salvare il mondo, in una grotta;/ turbinava il vento, come può solo nel deserto d’inverno./ Enorme tutto gli sembrava; il seno della madre, le nari/ del bue fumanti di vapore, i re Magi; quei doni/ da Gaspare, Melchiorre e Baldassarre fin lì portati./ Il bimbo era un punto solamente. E un punto era la stella./ Con gran circospezione, senza neppure un battito/ di ciglia, tra rade nubi, di lontano, dalle profondità/ del Cosmo, giusto dall’altro estremo, la stella fissava/ nella grotta il bimbo nella greppia. Di un padre era lo sguardo»: così il celebre poeta russo Iosif Brodskij ha “dipinto” in versi la sua visione del Presepe, quello stesso Presepe che, come oramai puntualmente e tristemente avviene ogni anno, molti dichiarano di voler cancellare per non recare offesa a quella parte crescente della società italiana che non è cristiana, come per esempio i musulmani, o che è anti-cristiana, come per esempio gli atei. Si moltiplicano, infatti, le maestre che preferiscono cancellare la parola “Gesù” dalle canzoni natalizie per elementari o i docenti che decidono di non autorizzare gli studenti alla composizione del tradizionale Presepe di classe. Proprio alle porte delle festività natalizie, in una febbrile e turbinante isteria generale volta a rimuovere crocifissi, censurare canzoni e nascondere presepi, da parte di pochi, ma agguerriti e rumorosi “gran sacerdoti” del laicismo contemporaneo si mette in scena la tragicomica ondata di persecuzione iconoclasta ai danni dei simboli cristiani. Sarebbe interessante sapere, tuttavia, con quali rocamboleschi metodi tutti costoro, spesso insegnanti di ogni ordine e grado, riescano a giustificare una ventina di giorni di assenza dal proprio posto di lavoro e, soprattutto, come possano dar conto della sospensione delle attività scolastiche ai propri allievi senza spiegare che le vacanze natalizie tali sono proprio per celebrare la nascita del Dio cristiano incarnato nella persona di Gesù Cristo. Se simili iniziative dovessero essere prese sul serio, come ci si augura che si attendano i loro stessi promotori, allora non ci si dovrebbe limitare alla banale modifica di qualche canzoncina natalizia, ma alla ben più impegnativa ristrutturazione degli stessi programmi scolastici dato che l’intera cultura occidentale è intrisa della presenza dei simboli cristiani come il crocifisso o la natività. Senza troppa fatica si pensi proprio alle arti figurative come la pittura in cui il tema della crocifissione campeggia quasi universalmente nelle opere di tutti i grandi autori occidentali, sia in quelli più tradizionali come per esempio Antonello da Messina, Beato angelico, Cimabue, Donatello, Giotto, Guido Reni, Lorenzo Lotto, Masaccio, Tintoretto, Michelangelo, Piero della Francesca, Raffaello, sia in quelli più moderni e perfino non esattamente rientranti nell’alveo di una cultura prettamente cattolica, come per esempio Renato Guttuso, Salvador Dalì, o Marc Chagall. Il tema della natività, inoltre, è stato oggetto di riflessione artistica, in senso pittorico, tra gli altri, da parte di Durer, Mantegna, Rubens, Caravaggio, Botticelli, Tiziano, e in senso letterario da parte di poeti e scrittori quali Saba, Turoldo, Grande, Pirandello, Tasso, Manzoni, Gozzano, D’Annunzio, Leopardi, Pascoli, Quasimodo, Jacopone da Todi. Occorre chiedersi, dunque, se i solerti docenti che intendono rimuovere crocifissi e presepi siano altresì disposti ad eliminare tutti i suddetti uomini d’arte e d’intelletto dai loro programmi di studio arrecando, con una tale omissione, un grave vulnus culturale e umano ai propri allievi, ma dimostrandosi coerenti con le proprie premesse e con la serietà presunta delle proprie teorie. Tuttavia, alcuni interrogativi si impongono quasi naturalmente. Perché dare importanza al Presepe? Perché è necessario difenderlo? Perché è necessario che non sia censurato? Lungi dall’eseguire una semplicistica interpretazione di difesa aprioristica delle tradizioni popolari – messa spesso in atto da un conservatorismo ideologico non attento al problema della realtà e alla realtà del problema –, occorre precisare subito che proprio il Presepe, e dunque la conservazione dello stesso ne costituisce una garanzia, esprime – diversamente da quanto ritengono i suoi detrattori – il momento apicale di concretizzazione del principio di tolleranza e all’un tempo di affezione alla razionalità. Ben oltre, infatti, l’elevato aspetto artistico che spesso si accompagna alla rappresentazione della natività, e che per quanto rilevante ed apprezzabile ed ugualmente degno di essere tutelato pur sempre secondario, è necessario considerare che proprio nel Presepe, anche se espressione del Cristianesimo (come se fosse una colpa!), si raffigurano quei valori di moralità che erroneamente vengono attribuiti ad altre fenomenologie o tradizioni di pensiero non cristiane o addirittura al Cristianesimo risolutamente opposte. Era la notte di Natale del 1223 quando San Francesco d’Assisi diede ufficialmente inizio alla tradizione, comunque già affermata e ben più risalente di almeno duecento anni, di rappresentare la natività del Figlio di Dio, poiché in quella rappresentazione si riviveva un momento, cioè la nascita del Cristo, la cui assoluta efficacia si sarebbe estesa nei secoli addietro e venturi. Dinnanzi alla mangiatoia, infatti, la storia come mero aggregato insensato di eventi si ferma per cedere il passo al riconoscimento della propria anima, riscoprendo il proprio spirito. Davanti alla mangiatoia l’uomo incontra per la prima volta se stesso nel Figlio di Dio, compiendosi quel miracolo tutto cristiano della redenzione, del dono (il secondo dopo la creazione) di Dio per l’uomo, di quel Dio che non abbandona l’uomo al cieco destino della propria creaturalità, ma che all’uomo si appropinqua incarnandosi, rendendo possibile il ricongiungimento dell’uomo con la propria stessa origine e con la propria stessa destinazione, cioè con la propria sostanza, con la dimensione spirituale e meta-terrena, solo in apparenza irrimediabilmente perduta dopo l’aspra cacciata dall’eden e in seguito alla severa condanna terrestre. La rappresentazione della natività significa proprio non solo ricostruire tutto ciò, ma rivivere plasticamente il momento della seconda opportunità concessa all’umanità. Oltre a ciò nel Presepe si esplicita la possibilità di integrazione delle culture, delle classi sociali, della varietà umana ontologicamente accomunata dall’essere tutti figli e fratelli del Figlio di Dio, fuori da ogni logica ingenuamente socialista di una unità sociale ottenuta con la rivoluzione e con la violenza, lungi da ogni ipocrita e mistificante tentazione di una massificazione multiculturale. Nel Presepe, dinanzi alla mangiatoia, si ritrovano, infatti, pastori e sovrani, civili e militari, contadini e artigiani, donne e uomini, bambini e anziani: tutti integri nella loro sana e naturale diversità terrena, ma uniti tutti nella loro comune prospettiva creaturale. Il coacervo di valori di cui è foriero il Presepe, dunque, dovrebbe essere riconosciuto valido anche per chi si appella agli schemi della nuda ragione, quella scissa dalla fede per intendersi, ragione che, tuttavia, viene tradita proprio da coloro che la invocano contro il Presepe senza comprenderne l’importanza culturale, umana e spirituale. La eliminazione del Presepe è, allora, all’un tempo un grave atto di intolleranza e di stoltezza non soltanto nei confronti della religione cristiana – paradosso ulteriore nell’era dell’onnipresente richiamo alla tolleranza –, quanto specialmente nei confronti della stessa ragione. In questo senso, e in conclusione, risuonano ancora vivide le parole di Papa Francesco nell’Udienza generale dello scorso 27 dicembre 2017: «Ai nostri tempi, specialmente in Europa, assistiamo a una specie di “snaturamento” del Natale: in nome di un falso rispetto che non è cristiano, che spesso nasconde la volontà di emarginare la fede, si elimina dalla festa ogni riferimento alla nascita di Gesù. Ma in realtà questo avvenimento è l’unico vero Natale! Senza Gesù non c’è Natale; c’è un’altra festa, ma non il Natale. E se al centro c’è Lui, allora anche tutto il contorno, cioè le luci, i suoni, le varie tradizioni locali, compresi i cibi caratteristici, tutto concorre a creare l’atmosfera della festa, ma con Gesù al centro. Se togliamo Lui, la luce si spegne e tutto diventa finto, apparente».
Il sottosegretario all'Istruzione: "Sì al presepe a scuola; vietarlo non aiuta l'integrazione". Gabriele Toccafondi, coordinatore regionale Ncd Toscana, sottosegretario di Stato all’Istruzione, e l'intervento su La Nazione: "Non interrompiamo le nostre tradizioni". Caro direttore, ho seguito con attenzione le inchieste dedicate da La Nazione ai “presepi vietati” nella nostra città. Questo tema ci permette di affrontare un dibattito sul rapporto tra identità e cultura nei Paesi occidentali secolarizzati e multiculturali, sui concetti di accoglienza e di dialogo. L’idea che per rispettare le altre culture e religioni sia necessario rinunciare alle proprie tradizioni, o rinnegarle, è un’idea decisamente bizzarra, che mai ha fatto parte della storia delle civiltà, e che si è affacciata nel mondo occidentale solo da pochissimi anni. Vietare il presepe non aiuta né il dialogo né l’integrazione, ma anzi sottolinea le differenze, allontana mondi che invece dovrebbero conoscersi e avvicinarsi. Come facciamo a dialogare con gli immigrati di altre culture e tradizioni, che vengono a vivere da noi, se non siamo in grado di trasmettere loro la nostra civiltà, le nostre usanze e le nostre credenze, ciò che abbiamo di bello? Il Natale è la memoria di un fatto storico e non solo un avvenimento di fede per molti credenti. E’ talmente un fatto riconosciuto e universale che ai bambini non puoi nascondere che si festeggia qualcosa durante Dicembre e così pur di nascondere la nascita di Gesù dentro una grotta in alcune scuole ci si inventa qualcosa da festeggiare: dall’albero di natale, alla neve fino a bizzarre creazioni come il topolino che porta i doni ai poveri o al pesciolino rosso dentro l’acquario. Non sarebbe più semplice dire le cose come stanno? E poi, sono davvero così sicuri, questi presidi e insegnanti che vietano il presepe, che gli alunni stranieri e le loro famiglie siano contrarie alla realizzazione della capannuccia negli istituti educativi? Io ricordo che proprio qui, a Firenze, esponenti di rilievo della comunità islamica locale dissero, qualche anno fa, che era opportuno e formativo che i loro figli potessero conoscere usanze e tradizioni del Paese in cui erano venuti a vivere. Impedire la realizzazione di un presepe in una scuola è un atto che reputo privo di ragioni, di un malinteso senso di laicità, che si nasconde dietro la presenza di alunni stranieri o di altre religioni, ma che nulla ha a che vedere con una sana laicità positiva, in grado di accogliere e valorizzare, non di censurare. Come stabilito anche dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2011, neppure il crocifisso esposto nelle aule scolastiche viola il principio della laicità degli istituti educativi. Che male può fare un simbolo come il presepe? Mi auguro che i docenti e dirigenti scolastici che hanno impedito a tanti bambini di avere una capannuccia nelle loro scuole, riconsiderino la loro decisione, in questi ultimi giorni prima del Natale: perché un vero dialogo con chi appartiene a tradizioni culturali diverse si può impostare solo valorizzando e facendo conoscere le radici più profonde della nostra identità.
Il presepe, bersaglio sbagliato, scrive Edoardo Crisafulli su “Avanti On line”. Un Preside ha vietato il Presepe, “un focus cerimoniale e rituale che può risultare soverchiante”: gli alunni di origine straniera, cospicua minoranza nella sua scuola, subirebbero l’imposizione di “ciò che non appartiene” loro. Concordo sul fatto che “la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione.” Ma questa decisione mi pare assurda. Il Presepe fa parte della cultura italiana come l’arte sacra, la musica barocca e la Divina Commedia. Non è un mero simbolo di fede. Sarebbe folle pretendere che l’alunno islamico (o buddista o quel che è) si converta al cristianesimo. Ma chi vuole integrarsi in Italia deve assimilare la nostra cultura. Altrimenti sarà un cittadino privo di un’identità. Non c’è bisogno di credere nella resurrezione di Cristo per ammirare la pittura di Giotto e la poesia di Dante, così come non occorre compiere sacrifici a Giove per apprezzare la mitologia classica. Il cristianesimo, inteso come fenomeno culturale, non deve apparire estraneo, o alienante, a chi ha scelto di vivere a casa nostra. I cristiani d’Oriente non studiano forse il Corano, un vero e proprio capolavoro linguistico, nonché testo di base della civiltà arabo-islamica, cui anche loro appartengono? Nessun cristiano colto nega che l’arabo classico — la koiné di tutti gli arabi – è, essenzialmente, una lingua coranica. Se c’è un simbolo più religioso che culturale, quello è il crocefisso. Ma il Preside, che ha “cose più importanti” di cui occuparsi, ha deciso di lasciarlo “appeso ai muri”. Se lo togliesse, i credenti ne farebbero “una questione di Stato”. Più facile bandire l’innocuo Presepe, che spunta a ridosso del Natale, per poi svanire subito dopo l’Epifania. Una volta affermato il principio demenziale che il Presepe offende la sensibilità islamica, dove arriveremo? Proibiremo la lettura a scuola del Canto XXVIII dell’Inferno dantesco, perché il Profeta Maometto vi compare nella veste sommamente offensiva di un dannato squarciato dal mento fin dove si “trulla”; punizione vergognosa, riservata agli scismatici, ai seminatori di discordia, come erano reputati i musulmani nel Medioevo? E metteremo alla berlina il Manzoni cristiano in quanto credente in una divinità falsa e bugiarda? No, non è questo il compito di una scuola laica, che forma i cittadini della polis secolare. Il vero laico è un liberale, un libertario. La laicità è una neutralità attiva: lo Stato laico non propaganda né una singola religione né l’ateismo; crea semplicemente le condizioni politiche che garantiscono la libertà di culto. La censura del Presepe non è un’affermazione di laicità, e non è neppure frutto della degenerazione di uno spirito laico intollerante. È piuttosto figlia del politically correct saccente e confusionario che imperversa da anni negli Stati Uniti, e che ora è approdato sulle nostre coste. Un multiculturalismo di bassa lega, con una spruzzata di giacobinismo a senso unico (l’unica tradizione da azzerare è la nostra), viene spacciato come una riedizione dell’Illuminismo progressista. I sacerdoti del politically correct, in nome della tolleranza verso lo straniero e il diverso, impongono forme subdole di censura o di auto-censura: chi non si adegua ai loro dettami subisce una gogna mediatica. Il multiculturalista serio è fatto di tutt’altra pasta: ama la diversità, perché è consapevole che il pluralismo religioso/culturale arricchisce la società civile. A una condizione, però: che venga rispettata la libertà e la dignità di tutti. Solo così il principio liberale è adattabile al mondo cosmopolita d’oggi. La cifra del laico autentico, peraltro, è la coerenza: anche quando degenera nella polemica anti-religiosa, ha il coraggio di prendersela ex aequo con preti, rabbini, imam e monaci: per lui, tutte le religioni positive sono ricettacoli di superstizione e di fanatismo. Mica rinnega la sua tradizione culturale per esaltarne una straniera, esotica, perché così va di moda nei circoli radical-chic! In certi ambienti di sinistra invece si usano due pesi e due misure: si insorge (giustamente) quando viene offeso l’islam, ma si tace o si gongola se qualcuno dissacra il cristianesimo o inveisce contro il Papa (da questo punto di vista, Oriana Fallaci non aveva tutti i torti). Agli apostoli del multiculturalismo suggerisco la lettura di Innamorato dell’Islam, credente in Cristo, di Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito dai jihadisti in Siria, il quale ha dedicato la sua vita al dialogo interreligioso basato sulla reciprocità. Se noi dobbiamo rispettare l’islam, i musulmani devono fare altrettanto con noi. Il dialogo interreligioso è una faccenda maledettamente seria: Dall’Oglio, forse, ci ha rimesso la pelle. Ho avuto l’onore di conoscerlo a Damasco, nel 2011. È stato lui a insegnarmi una grande verità, valida anche per chi non è credente: per confrontarmi con chi crede in un Dio diverso dal mio, non devo rinnegare la mia religione. Tutt’altro: la devo professare (o difendere) con orgoglio. Cosa fare, allora? Abolire l’insegnamento del cattolicesimo nella scuola pubblica (unico vero vulnus alla laicità), oppure garantire, per equità, la medesima importanza a tutte le religioni professate dai cittadini italiani? A mio avviso, l’educazione religiosa, fatto di coscienza individuale, spetta alle famiglie, non allo Stato. Sarebbe sbagliato inaugurare una sorta di carnevale variopinto di tutte le fedi. Lo Stato, però, ha il dovere di insegnare la storia del cristianesimo, quale disciplina curricolare. Che sia un docente di lettere o di storia a insegnarla, laicamente. La nostra civiltà ha radici cristiane, oltreché pagane (greco-romane) – e qui consiglio, a chi pencola verso le tesi dei teocon, il saggio di Luciano Pellicani, Le radici pagane d’Europa. Il vero scandalo, oggi, non è il Presepe: è l’ignoranza: i nostri figli non conoscono le parabole evangeliche e le narrazioni bibliche. Senza quei codici culturali, tanta parte della nostra letteratura e della nostra tradizione artistica risulta incomprensibile. Anche la polemica sui crocefissi la risolverei in chiave culturale: sostituiamo quelli bruttissimi di plastica con riproduzioni di Giotto o di Cimabue. Che ogni classe adotti una croce dipinta della tradizione pittorica italiana. Trasformare un fenomeno artistico, qual è il Presepe, in un simbolo religioso, è anche un grave errore politico. I fascio-leghisti non si sono fatti sfuggire l’occasione per specularci sopra: “Ecco la sinistra che plaude all’Eurabia islamizzata!’ Non lasciamo la difesa delle nostre tradizioni alla Lega e a Casa Pound: la rappresentazione della natività – l’espressione più poetica della religiosità popolare italiana – fu inventata da San Francesco d’Assisi. Per testimoniare, ogni anno, la nascita in assoluta povertà e umiltà di Cristo. Un messaggio formidabile per i creso-cristiani d’ogni tempo, che difendono a parole la cristianità mentre la tradiscono trescando con i potenti di turno. Riappropriamoci, noi socialisti, del Presepe e denunciamo l’uso politico distorto che ne fanno coloro che annacquano lo spirito rivoluzionario, sovversivo del cristianesimo. Ecco perché io, agnostico e laico-socialista, amo il Presepe e lo voglio esposto nei luoghi pubblici, così com’è: un bambino adagiato in una mangiatoia, in una grotta. E a chi sparge a piene mani il seme dell’odio e dell’intolleranza ricordo i bei versi di Trilussa “Ve ringrazio de core, brava gente/ pe’ ‘sti presepi che me preparate,/ ma che li fate a fa? Se poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…”.
Presepi vietati e minacce di morte: le scuole italiane sottomesse all’Islam, scrive il 6 dicembre 2015 “Riscatto Nazionale”. Succede qualcosa, tra il 24 e il 26 dicembre, ma è meglio non parlarne. Per non turbare i bambini figli degli immigrati che non sono di religione cristiana, presidi e dirigenti scolastici cancellano il Natale con furia iconoclasta. Alberi banditi, crocifissi nascosti, presepi vietati. Canti e poesie, neanche a parlarne. Capitava anche in passato, per carità, ma, dopo gli attentati di Parigi, la tensione è tale che, per ogni Re Magio che finisce nel cassetto, scoppia un caso politico. A Golfo Aranci, la dirigente scolastica Raimonda Cocco ha deciso di proibire l’allestimento del presepe e l’insegnamento dei canti natalizi. I genitori si sono offesi e il sindaco Giuseppe Fasolino (Forza Italia) ha risposto mettendo a disposizione locali alternativi per il festeggiamento del Natale. Sempre rimanendo in Sardegna, ma a Sassari, i genitori della scuola San Donato (250 bambini di cui 122 non cattolici) avevano contestato la direttrice perché aveva chiuso le porte dell’istituto alla visita prenatalizia dell’arcivescovo. Per par condicio, avrebbe dovuto ospitare anche l’imam o il messia del dio di pasta e polpette della chiesa pastafariana. Allora non se n’è fatto più nulla. Non solo Rozzano – Ad Agrigento c’è stato un caso simile a quello di Rozzano: quest’anno nell’istituto comprensivo Esseneto, di rosso c’è soltanto il numero 25 sul calendario. Niente albero, niente addobbi, niente presepe, niente canti e zero recita. Una tristezza, insomma. Celebrare la festività cristiana offende i bambini musulmani, si sono sentite dire le mamme dai dirigenti scolastici. «La preside», racconta il coordinatore di Noi con Salvini, Giuseppe Di Rosa, all’AdnKronos, «ha pure imposto di togliere i crocifissi e alcune maestre entrano in aula, prendono il crocifisso dal proprio armadietto, lo appendono e poi lo tolgono a fine lezione». Casi di fede a intermittenza anche in Versilia. A Viareggio l’insegnante ha chiesto al bambino di levarsi il rosario che aveva al collo e di riporlo in cartella. Quel simbolo religioso poteva infastidire i compagni che pregano Allah. I genitori del bimbo sono rimasti sconvolti, hanno denunciato il caso e meditano di ritirare il figlio dalla scuola. Hanno già chiesto il nullaosta per il trasferimento. L’insegnante, però, contesta la versione data dalla famiglia, come spiega Il Tirreno. Al bambino è stato solo chiesto se conoscesse il significato di quel simbolo che portava al collo. Tutto qui. Nessuno l’ha obbligato a sfilarlo e nasconderlo. Sempre in Toscana, il sindaco di Castiglion Fiorentino Mario Agnelli ha disposto il collocamento obbligatorio del crocifisso in tutte le scuole comunali, appellandosi a una sentenza del Consiglio di Stato: «Il crocifisso può svolgere una funzione simbolica altamente educativa, al di là della sua connotazione prettamente religiosa». Il primo cittadino, inoltre, ricorda che «il calendario scolastico è modellato in base alle festività religiose cristiane». Per cui, insegnanti che professano il «relativismo culturale» e bambini non cattolici il 25 possono pure presentarsi a scuola e fare lezione. Chi dissente se la vede brutta. È successo al sindaco di Romano, Rossella Olivo. Aveva protestato perché un istituto comprensivo della sua città, nel vicentino, aveva organizzato un concerto con musica “esotica”. Metà delle canzoni erano in arabo. Neanche un “Tu scenti dalle stelle”. Risultato: Olivo è stata minacciata di morte, come scrive Il Giornale di Vicenza. Eppure c’è un posto a Milano dove gli scolari islamici sono affascinati da tutto l’apparato natalizio. Vogliono scrivere il biglietto d’auguri a papà e mamma, guardano affascinati il presepe e l’albero. È l’Ics Morosini-Manara. Anche se, ammette la maestra, le poesie su Gesù bambino che andavano a memoria vent’anni fa, non si portano più. Relativismo – A Torpignattara, quartiere romano ad alta densità di stranieri, gli scolari italiani sono quasi in minoranza. Per cui all’istituto Pisacane fanno così: non festeggiano il Natale, celebrano il giorno dell’anti-razzismo. Ai canti tradizionali si sostituiscono i balli indù. A Ladispoli, sul litorale di Roma, c’è una fusione. Il crocifisso è «tollerato», ma gli scolari delle elementari, pure gli italiani, leggono il Corano in classe. Che male c’è?, domanda il preside Riccardo Agresti, in passato malmenato da un genitore che lo accusava di privilegiare i rom a discapito degli italiani.
Arcore, presepe con il barcone. E Gesù nasce tra gli immigrati. Polemica ad Arcore per il presepe sul barcone con i migranti. La Lega Nord insorge: "Qualcuno cammina su sentieri non in linea con la storia della Chiesa", scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 22/12/2017, su "Il Giornale". Ancora una polemica sul presepe. Mancano appena tre giorni a Natale e ancora si combatte sui presepi realizzati da amministrazioni comunali e parrocchie. Questa volta succede ad Arcore, in Brianza. La parrocchia di Sant'Eustorgio, infatti, ha messo la natività in un barcone. E non solo un gommone, come successo a Castenaso in Emilia Romagna: stavolta oltre al bue e all'asinello ci sono anche i migranti. "Gesù è profugo tra i profughi, ultimo tra gli ultimi", hanno scritto gli autori vicino alla Natività. "Possiamo anche immaginare che al di là delle finestre in queste case ci siano dei presepi certamente belli, ma pur sempre finti. Il dramma in realtà accade fuori, il presepe vero è fuori". Dura la risposta della Lega Nord locale, che ha provocatoriamente realizzato un gazebo per esporre un piccolo presepe "tradizionale": capanna, Gesù, Giuseppe e Maria, pastorelli e via dicendo. Nessun migrante, insomma. "Non si può negare che il presepe predisposto nella parrocchia di Sant'Eustorgio ci abbia un po' intristito - scrivono su un post su Facebook i leghisti - Qualcuno sta camminando su sentieri che, a nostro parere, non sembrano essere in linea con la storia della Chiesa". E ancora: "Il presepe che abbiamo visto nella nostra chiesa non ha i nostri valori simbolici, quelli con cui siamo cresciuti e il messaggio che si vuole veicolare sembra non accorgersi che i poveri ci sono anche molto vicino a noi. Noi non crediamo che il messaggio della barca sia un messaggio di solidarietà, ci vediamo invece della strumentalizzazione politica da cui prendiamo le distanze".
Il don che boicotta il presepe fa i milioni con l'accoglienza. Favarin gestisce una coop che è un piccolo impero: ha case, ristoranti, produce dolci e fattura 2,3 milioni, scrive Serenella Bettin, Venerdì 07/12/2018, su "Il Giornale". Eccolo, il parroco che boicotta il presepe per rispetto dei poveri e poi fattura milioni di euro all'anno. Dunque secondo don Luca Favarin, della diocesi di Padova, gli italiani sono una banda di ipocriti perché non vogliono l'accoglienza, ma poi mettono le statuette sul presepe. «Quest'anno non fare il presepio credo sia il più evangelico dei segni aveva scritto don Favarin su Facebook domenica scorsa -. Non farlo per rispetto del Vangelo e dei suoi valori, non farlo per rispetto dei poveri...». Già i poveri. E allora capiamo chi sono i poveri e chi è don Luca Favarin. Il Giornale ha indagato. Don Favarin dal 2012 non fa più il prete di parrocchia ma si occupa di accoglienza migranti. A Padova gestisce nove comunità con 140 ragazzi africani. È lui che ha fondato la cooperativa sociale Percorso Vita Onlus. Una cooperativa che vanta 12 case aperte che ospitano 140 richiedenti asilo, due ristoranti, il The Last One e Strada Facendo, ristorante etico con tanto di annunci su Facebook per le prenotazioni di Natale; un frutteto di 450 alberi a Saccolongo nel padovano, un ex-seminario con un orto biologico di 4mila metri quadri; una linea di confetture, creme e succhi di frutta, la «Dulcis in mundo», realizzata dagli ospiti; un'unità di strada per le vittime della prostituzione e il progetto di un villaggio dell'inclusione sociale, con cinque ettari di terreno in via Adige a Padova. Questo il bilancio in tre anni di attività, come scriveva meltingpot.org nel 2017. «È un impianto che dobbiamo sempre mettere a verifica», aveva detto don Favarin. E infatti, la linea «Dulcis in mundo» è ampiamente pubblicizzata con cofanetti a 20 o a 30 euro per il Natale 2018. Non solo, in cantiere c'è anche il Kidane Campus. «Un progetto - si legge nel sito - fortemente voluto da Percorso Vita Onlus (appoggiato da uno studio di architettura e da una impresa di costruzioni, ndr) che prevede la realizzazione di un complesso di edifici, costruiti interamente in legno, che daranno vita all'intero campus». Sorgerà nella periferia di Padova Ovest. «Da quando abbiamo iniziato aveva detto a meltingpot.org don Favarin - abbiamo cambiato idea cento volte. Siamo partiti con la micro-accoglienza, poi ci siamo resi conto che questa modalità non era quella migliore, soprattutto per i ragazzi, e siamo passati alla media accoglienza con la costruzione di piccole comunità». E sarà perché la media accoglienza frutta di più. Da una visura effettuata, Favarin è il presidente del cda della cooperativa con ricavi da vendite e prestazioni nel 2017 di 2.317.352 euro. Nel 2016: 1.881.232 euro. L' utile netto 2017 è di 504.207 euro. La onlus inizia a seguire l'arrivo dell'ondata dei migranti nel 2014, quando arrivano i bandi di 35 euro al giorno a persona. Una bozza di un atto poi, sul sito del ministero dell'Interno, riguarda un protocollo d'intesa tra la prefettura di Padova, il comune di Baone, la Percorso Vita e rullo di tamburi la ora plurindagata Ecofficina Educational. «Nessuna impresa riesce a raggiungere il 25% dell'utile netto - tuona Federica Pietrogrande, ex presidente Consiglio comunale di Padova (Lega) . Nel 2015 manifestava contro Bitonci, oggi critica il decreto Salvini. Protesta come sacerdote o come responsabile di una cooperativa che potrebbe veder ridotti i suoi fondi?».
Natale, chi dice “no” a presepe, canzoni e recite. Tutte le provocazioni di preti, e scuole in nome del buonismo e della tolleranza verso gli altri, scrive Eleonora Lorusso il 5 dicembre 2018 su "Panorama". Le polemica scoppia puntuale ogni anno e ogni anno diventa sempre più aspra: questa volta a scatenare la bufera è stato Don Luca Favarin, prete “di strada” di Padova, che ha detto “no” al presepe, per “rispettare il Vangelo e i poveri”. La bufera sollevata dalle sue parole, però, è stata accompagnata anche da quelle di una dirigente che, sempre in Veneto, ha negato il presepe a scuola per “mancanza di fondi”. Che dire, poi, dell’insegnante che ha modificato il testo di una canzoncina natalizia, togliendo la parola “Gesù” per non offendere la sensibilità di alcuni alunni non cattolici? Nel suo caso, però, l’insegnante si è trovata a fronteggiare una bambina che, ad appena 10 anni, si è rifiutata di seguire le sue indicazioni e ha organizzato una vera e propria petizione tra i compagni, ottenendo alla fine di poter cantare “senza censure”. Ecco i casi più clamorosi di “no presepe”, “no recite”, “no canzoncine natalizie”, che si concentrano soprattutto nel nord est, dove però la Lega Islamica ha chiarito: “Ai musulmani il presepe nelle scuole non dà fastidio”.
L’"anticrociata" di Don Luca. Sono lontani i tempi nei quali i crociati partivano alla volta della Terra Santa. Ora le battaglie si consumano direttamente in patria a colpi di “no”: il “no presepe” è lo slogan più diffuso, che ha sostituito le armi vere e proprie. Nel caso di Don Luca Favarin, però, si tratta di una provocazione. Capelli lunghi, biondi e sciolti, occhiali colorati, il giovane sacerdote che rifiuta di indossare la tonaca e porta invece sciarpe color arcobaleno è diventato anche volto noto in tv. E’ soprannominato il “Don Gallo veneto" perché è lì che opera con la sua onlus, Percorso Vita, occupandosi di nove centri di accoglienza per profughi, soprattutto africani. Già protagonista di un acceso scontro con l'ex Sindaco leghista di Padova, Bitonci, per motivi legati proprio alla gestione dei migranti, Don Luca quest’anno ha lanciato una provocazione: “Credo che un Natale senza presepio sia più coerente con questa pagina volgare e infame della storia del nostro Paese” con riferimento alla legge Sicurezza appena approvata in Parlamento. “Va in scena il teatrino del Natale e poi si lascia morire la gente per strada” ha spiegato il religioso, che ha aggiunto: “Oggi fare il presepio è ipocrita. Il presepe è l’immagine di un profugo che cerca riparo e lo trova in una stalla. Esibire le statuette, facendosi magari il segno della croce davanti a Gesù bambino, quando poi nella vita di tutti i giorni si fa esattamente il contrario, ecco tutto questo lo trovo riprovevole». Nel mirino è finito il ministro dell’Interno Matteo Salvini: «Ci vuole una coerenza umana e psicologica. Applaudire il decreto sicurezza di Salvini e preparare il presepe è schizofrenia pura. Come dire: accolgo Dio solo quando non puzza, non parla, non disturba. Lo straniero che incrocio per strada, invece, non lo guardo e non lo voglio».
Niente presepe, mancano i “fondi”. Il pensiero del sacerdote è strettamente legato al suo curriculum che parte dal suo servizio come cappellano presso il carcere di Padova e arriva a un periodo in Africa, e in particolare in Sudan, per poi tornare nella sua terra veneta, dove gestisce un caffè e un ristorante, nei quali lavorano alcuni rifugiati. Ma è proprio dal Veneto che sono arrivati altri “no”, come quello a realizzare il presepe nell’Istituto comprensivo “Ilaria Alpi”, dove la dirigente Elisabetta Pustetto ha spiegato: “Aderire al progetto della Regione avrebbe comportato una mole di lavoro in più per la segreteria che, essendo sotto organico, non sarebbe riuscita a svolgere”. Il Consiglio regionale veneto, infatti, aveva stanziato appositi fondi, come spiegato su Facebook dall’Assessore veneto all’Istruzione, Elena Donazzan, per “concedere 250 euro alle scuole che avessero realizzato il presepe. Ben 546 scuole hanno concorso al bando indetto dall’Ufficio scolastico regionale del Veneto: di queste 281 sono statali, 247 paritarie, 18 i centri di formazione professionali”. In realtà, a spingere la dirigente a declinare l’offerta è anche una ragione che ha a che fare con i progetti multiculturali dell’istituto: “Si lavora sulla multiculturalità, sull’aspetto educativo che non è né laico, né religioso, si approfondiscono aspetti storici, si parla di musica, di accoglienza e di tante altre cose - ha detto Pustetto - Quando ho prospettato al corpo docenti l’idea di realizzare il presepe secondo i canoni stabiliti dal bando regionale, ho capito che gli insegnanti già si erano premuniti di “coprire” il periodo natalizio in modo diverso”. Caso chiuso? Nient’affatto, perché in alcuni casi l’orientamento multiculturale e le intenzioni di non ferire la sensibilità di alcuni si sono scontrati con la reazione di una bambina di 10 anni, che ha condotto una sua singolare battaglia “pro Gesù”.
Niente “Gesù” nella canzoncina. Se in qualche caso è l’intero presepe ad essere messo in discussione, a Riviera del Brenta è stato “Gesù” a scomparire, stavolta da una canzoncina. Tutto è nato quando le insegnanti di una scuola elementare del comune veneto hanno deciso di far imparare e poi cantare “Buon Natale in allegria” in occasione della recita natalizia. Il testo, però, è stato “epurato” dalla parola “Gesù” e così il ritornello “Su, brindiamo! Festeggiamo! Questo è il giorno di Gesù” è stato modificato per rispetto nei confronti di alcuni alunni non cattolici. Ma l’idea delle maestre, per non urtare la sensibilità di alcuni bambini musulmani, ha finito con l’urtare quella di un’alunna di 10 anni, che si è ribellata: ha preso carta e penna, e ha scritto una petizione consegnata all’insegnante e firmata dalla maggioranza dei compagni di classe.
Il precedente: il divieto anche al cimitero. Le polemiche sul presepe non sono nuove: già due anni fa aveva fatto scalpore la presa di posizione di un cappellano a Cremona, se non altro perché il divieto riguardava un cimitero. Don Sante Braggiè si era opposto alla realizzazione della Sacra Rappresentazione, invertendo le disposizioni del suo predecessore, in considerazione del fatto che “un piccolo angolo del camposanto è riservato alle tombe degli islamici. Sono molti quelli che vengono qui a ricordare i loro cari - aveva spiegato - Un presepio collocato in bella vista com’era quello potrebbe essere una mancanza di rispetto per i fedeli delle altre religioni, urtare la sensibilità dei musulmani, ma anche degli indiani e pure degli atei. Insomma, sarebbe un pasticcio”.
La Lega Islamica veneta: “Il presepe non ci dà fastidio”. Il caso di Riviera del Brenta, così come quelli dei presepi, hanno fatto ben presto il giro del web e hanno spinto la comunità islamica veneta a chiarire: “Vedere un Presepe, cantare il Natale o ascoltare il nome di Gesù e di Maria a noi non dispiace, anzi” ha spiegato il presidente della Lega Islamica, Bouchaib Tanji. A riprova di cì è stato ricordato come negli anni passati i fedeli islamici abbiano fatto gli auguri a quelli cristiani, abbiano donato presepi e persino, in qualche occasione, abbiano partecipato alla Santa Messa in una chiesa cattolica. ''Ci piacerebbe che si creassero occasioni per far conoscere a tutti, bambini e giovanissimi compresi, i fondamenti della nostra fede, i nostri luoghi di preghiera, le nostre tradizioni" ha aggiunto Tanji, che confida in ''più dialogo e meno (infondate) polemiche".
Le risposte di Salvini e Bussetti. Nel caos che è seguito alle diverse prese di posizione è intervenuto anche il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che ha detto: “Non penso che Gesù Bambino o Tu scendi dalle stelle possa dar fastidio a qualcuno. Il Natale è un festa così bella che penso possa abbracciare tutte le fedi e tutte le religioni. Chi tiene Gesù Bambino fuori dalla porta della classe non è educatore”. D’accordo il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, che aveva già preso posizione: “Crocifisso e presepe sono simboli dei nostri valori, della nostra cultura, delle nostre tradizioni e della nostra identità. Non vedo che fastidio diano a scuola. Chi pensa che l'inclusione si faccia nascondendoli, è fuori strada”.
Tradizioni natalizie a scuola, le polemiche danneggiano gli studenti. Aumentano gli istituti che rinunciano a presepe e cerimonie. Quali sono le reazioni dei bambini? L'intervista alla psicologa e il nostro sondaggio, scrive Nadia Francalacci il 2 dicembre 2015 su "Panorama". “Intervenire sulle regole scolastiche in modo da neutralizzare la ricorrenza del Natale è fuori tempo e dannoso, oltre che elemento di strumentalizzazione negativa verso i musulmani". Sono le parole del leader delle comunità islamiche di Treviso e vice presidente della consulta regionale per l'immigrazione, Abdallah Khezraji, dopo le polemiche che hanno seguito alla scelta del preside della scuola paritaria di Rozzano. "O c'è un progetto di scuola laica come, ad esempio, in Francia, dove nonostante questo abbiamo osservato le conseguenze del fanatismo - rileva Khezraji - oppure occorre affrontare un progetto di convivenza come avvenuto in diverse scuole in cui il Natale è diventata una ricorrenza abituale anche per gli studenti di altre religioni". Per Khezraji, non devono essere azzerate le differenze ma accettate reciprocamente. Ma le polemiche sembrano non spegnersi. Anzi. Dopo l’eliminazione dei canti natalizi e del presepe, in una scuola di San Donato di Sassari un preside rifiuta la benedizione del Vescovo, scatenando nuove discussioni e tensioni anche con la Curia. Ma proprio in Italia, secondo un’indagine commissionata alla Doxa dal festival natalizio “Magico Paese di Natale” di Govone (CN), per 1 italiano su 2 (55%) il vero simbolo del Natale è il presepe che batte, anzi sarebbe meglio dire surclassa, l'Albero di Natale. Quale può essere il “contraccolpo” psicologico su bambini che lo hanno sempre fatto e vivono questi momenti come parte integrante delle loro tradizioni? “Parlare di contraccolpo psicologico forse è esagerato - spiega a Panorama.it, Tania Fiorini, psicologa infantile e psicoterapeuta - la vita è piena di cambiamenti a cui è importante imparare a farvi fronte. Se una scuola ha sempre organizzato il presepe e quest’anno decide di non farlo deve prepararsi a rispondere alle inevitabili domande che da questa decisione arriveranno, ma questo vale anche per quelle scuole che decidano di fare un presepe o un albero laddove questa tradizione non fosse esistita. Di fronte ad una tradizione che viene cambiata, doppiamo aspettarci delle domande ed essere pronti a rispondere in modo pacato. Esercitare l’accoglienza non implica la soppressione delle tradizioni esistenti, quanto piuttosto un ampliamento delle medesime. Come si affrontano le cose fa la differenza molto più delle cose in sé. Come deve essere affrontato, se è possibile, l'argomento con i bambini? Dove si dovesse presentare la situazione di una scuola che non organizzi il presepe o l’albero è necessario parlare con i bambini per spiegare le ragione di questa decisione. Non dare nessuna spiegazione è pericoloso, perché si lasciano soli alla mercé di tutte le possibili interpretazioni, non ultima che “sia colpa” della presenza di altri bambini se è stata presa la decisione di non allestire gli addobbi simboli tipici del Natale. Non ci dimentichiamo che gli essere umani sanno adattarsi ai cambiamenti, ed è compito degli adulti favorire questo processo nei bambini. Quali sono gli atteggiamenti che gli adulti non devono avere per evitare che nei giovani studenti nasca una sorta di risentimento verso i compagni musulmani? La nostra società è sempre più multiculturale e multietnica ed è indispensabile trovare un modo per stare tutti insieme. Sono in aumento non solo i bambini musulmani, ma anche quelli di altre religioni (si pensi alla comunità cinese) e, perché no, anche i bambini figli di atei o agnostici ed è importante che non si costruiscano sterili contrapposizioni “noi contro loro”, quanto piuttosto si colgano tutte le occasioni per aprire un dialogo e un confronto. Le tradizioni delle differenti culture dovrebbero rappresentare una ghiotta occasione per iniziare la conoscenza reciproca piuttosto che un’occasione per accentuarle o costruire pericolose contrapposizioni.
Non c'è più religione: ma il Presepe è multietnico – La recensione. Claudio Bisio e Alessandro Gassman protagonisti della nuova commedia divertente e garbata di Luca Miniero. Con un Bambinello da trovare ad ogni costo, scrive Claudio Trionfera il 7 dicembre 2016 su Panorama. In Italia si nasce talmente poco che diventa impossibile perfino trovare un bambino adatto a fare il Bambinello. Così bisogna ingegnarsi. E andarlo a scovare altrove, in barba alla tradizione più cristallizzata. Parte da questa osservazione, impietosa ma realistica, il disegno di Non c’è più religione (dal 7 dicembre in sala), ottavo film di Luca Miniero, l’altro cineasta-prodige del cinema italiano accanto a Paolo Genovese col quale, forse non casualmente, ha condiviso la regia delle sue prime tre esperienze (Incantesimo napoletano, Nessun messaggio in segreteria e Questa notte è ancora nostra fra il 2002 e il 2008).
Un’eredità troppo “pesante”. Così, tra la palese constatazione demografica e il suo rovescio grottesco e semidolce, nasce la storia di un presepe vivente e assai movimentato che dovrebbe rispettare la costumanza di Porto Buio, isoletta mediterranea inventata e al tempo stesso vera nel cuore delle Tremiti; e che, invece, rischia di schiantarsi sotto il peso di quel ragazzino chiamato per anni a fare il Gesù in culla ma diventato adesso troppo grande e grosso per essere utile alla bisogna. Tanto che la culla-mangiatoia, appunto, si squarcia al primo impatto con i suoi chili, proprio al culmine della “prova generale”. Naturalmente, niente sostituti. Perché gl’isolani, da tempo, non proliferano. Che cosa escogita, allora, il neosindaco Cecco (Claudio Bisio) per dribblare il guaio? Si rivolge alla comunità araba, che al contrario fa il suo dovere in tema di procreazioni, chiedendo in “prestito” un pargolo destinato a portare con sé tutt’altra coreografia rispetto a quella convenzionale. Impresa non proibitiva, visto che a capo di quella comunità c’è una vecchia conoscenza di Cecco, l’amico d’una volta Marietto (Alessandro Gassman) che s’è convertito all’Islam e adesso si chiama Bilal.
Scambio di riti e di ruoli. Scaramucce e bisticci. Ma l’affare si fa. Nonostante i sospetti degli islamici, la mezza rivolta degli isolani più esterofobi e la comprensibile resistenza di Suor Marta (Angela Finocchiaro), che prima di diventare tale s’era sentimentalmente intruppata sia con Cecco sia con Marietto. Insomma: un pasticcio che ne genera altri, tipo un lama al posto del bue, un Ramadan praticato dai cristiani, riti incrociati in chiesa (profetici, però, della domenica di condivisione), naturalmente un Bambinello musulmano e ancora nel grembo della moglie di Bilal-Marietto, Aida (Nabiha Akkari). Ma la giostra multietnica non si ferma qua. Perché anche sulla figura della Vergine c’è parecchia confusione e le Madonne diventano tre, di diversa intonazione religiosa: la cristiana designata Addolorata (Paola Casella), naturalmente l’avente-diritto Aida, a sorpresa Maddalena (Laura Adriani), figlia del sindaco tornata incinta da un viaggio in Oriente e diventata buddhista.
Tra antagonismi e contrasti. Come finirà? Varrà la pena, com’è giusto, di nascondere l’epilogo. E ragionare su una commedia che sviluppa tutta la sua energia e il suo sistema comico sul costante gioco delle collisioni, dei contrasti, degli antagonismi ad ogni livello: razziale, di culto & cultura, sentimentale, sociale. Un processo realizzato con intelligenza e capacità critica attraverso una sceneggiatura (oltre Miniero firmata da Sandro Petraglia e Astutillo Smeriglia) che concede ampio spazio all’azione, al movimento al dialogo strutturato, tagliente e rivelatore. Con un occhio, si capisce, alle sue conseguenze comiche sui tracciati di commedia colorata e chiassosa: mai dozzinale o popolaresca, però, sempre rispettosa di valori, etnìe e culture differenti fra loro.
Insieme: per amore o per forza. A volte le diverse comunità si guardano in cagnesco. Con diffidenza e sospetto, senza rancori nefasti. Il cinema, qua, sa farsi specchio della realtà generando, alla fine, una sorta di ensemble eterogeneo e trasversale, zeppo d’intime contraddizioni ma paradigmatico di una società multirazziale capace di convivere, per amore o per forza, in – possibilmente allegra – sintonia. Differenze già accese, su scala locale e regionale, quindi su distanze linguistiche e culturali più contenute, in Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord: modelli ai quali, dopo averne meritatamente assunto la paternità da regista, Luca Miniero si rifà, recuperando toni e modi felicemente sperimentati. Senza però ricalcarne i percorsi, piuttosto aggiornandoli, perfezionandoli e sviluppandoli con una certa delicatezza, mai rimuovendo l’area dei sentimenti. Il film è amabile, garbato e divertente. Decorato di panorami suggestivi e cromatismi accesi nella fotografia di Daniele Ciprì. Agli attori già citati, in particolare ai tre più evidenti come personaggi e qualità di recitazione (Bisio, Gassman, Finocchiaro) va aggiunto Roberto Herlitzka nella parte di un vescovo stralunato e spettrale cui è assegnato il compito di approvare e “benedire” quell’inedita espressione di presepe vivente. Senza capirne fino in fondo tutti i caotici intrecci.
Le 10 canzoni di Natale più belle (e famose). Da John Lennon a David Bowie, senza dimenticare Mariah Carey e gli Wham. Ecco i brani natalizi più belli degli ultimi quarant'anni, scrive su Panorama Gabriele Antonucci il 22 dicembre 2017. Tutti i big del pop si sono cimentati almeno una volta in carriera con i classici del natale. Il Natale è il periodo dell’anno in cui la musica è assoluta protagonista, grazie soprattutto agli album di canzoni natalizie, genere in cui tutti i big si sono cimentati almeno una volta in carriera. Gli album natalizi "classici", come ad esempio quelli di Bing Crosby, Frank Sinatra, Dean Martin e Elvis Presley, sono inarrivabili, ma negli ultimi trenta/quarant’anni sono state pubblicate canzoni che sono diventate dei nuovi classici, tanto da poter essere accostate ai brani di questi artisti leggendari senza alcun complesso di inferiorità. Vediamo quali sono, nella nostra classifica, le 10 canzoni natalizie più belle degli ultimi decenni.
1) John Lennon – Happy Xmas (War is over). Una canzone natalizia, per giunta a sfondo pacifista, che rischiava di affogare nella melassa della retorica. La genialità di John Lennon, a cui dobbiamo diversi capolavori dei Beatles, ha scongiurato questo pericolo, regalandoci un evergreen senza tempo.
2) Wham – Last Christmas. Ok, il video è un compendio dell’edonismo degli anni Ottanta. Certo, il testo non è propriamente alla Bob Dylan o alla Neil Young. Dal punto di vista musicale alcuni suoni, in particolare quelli delle tastiere, sono datati. Eppure questa canzone, grazie alla straordinaria voce di George Michael, è un piccolo capolavoro, anche se l'ex voce degli Wham l'aveva rinnegata per intraprendere, negli ultimi anni della sua carriera, un raffinato percorso pop-jazz. Ascoltare oggi Last Christmas, a un anno di distanza dalla morte del cantante, ha un sapore dolceamaro.
3) Mariah Carey – All I want for Christmas is you. Nel 1994 Mariah Carey rivaleggiava ad armi pari con Whitney Houston e Celine Dion come ugola d’oro della musica internazionale. Il suo album natalizio Merry Chistmas, uno dei più venduti di sempre, è stato trascinato da questa splendida canzone che, a differenza della maggior parte dei brani natalizi, è divertente e ballabile. Chi non vorrebbe, poi, un Babbo Natale con le sembianze di Mariah?
4) Band Aid – Do they know it’s Christmas? Nel 1984 Bob Geldof e Midge Ure hanno messo insieme un supergruppo britannico per combattere la piaga della fame in Etiopia. Paul McCartney, David Bowie, Sting, George Michael e Boy George sono alcuni dei grandi artisti che hanno impreziosito Do they know it’s Christmas?, prodotta dal mago dei suoni Trevor Horn.
5) Michael Bublé - Jingle bells. Pubblicato per la prima volta nel 2011 e aggiornato con tre nuovi brani nel 2012, Christmas di Michael Bublé si è imposto in pochi anni come il nuovo classico delle festività natalizie, vendendo oltre 7 milioni di copie. Tra i 19 successi della setlist, spicca questa originale versione di Jingle bells dove il crooner canadese è accompagnato dal vocalese delle Puppini Sisters.
6) Donny Hathaway – This Christmas. Poco conosciuto in Italia, se non dagli appassionati di musica black, Donny Hathaway è stato uno degli artisti soul più influenti, classificato dalla rivista Rolling Stone al numero 49 tra i 100 cantanti più grandi di sempre. This Christmas, scritta dallo stesso Hathaway insieme Nadine McKinnor, è la prima canzone natalizia composta da un afroamericano.
7) Al Jarreau – Winter wonderland. Se amate il jazz e i virtuosismi vocali , allora Christmas di Al Jarreau è l’album natalizio che fa per voi. Tra le tante perle del disco spicca il classico Winter wonderland, che acquista groove e nuovi colori nell’interpretazione del compianto vocalist americano.
8) Chris Rea - Driving home for Christmas. Incisa nel 1986 e coverizzata innumerevoli volte (ottima la recente versione di Mario Biondi), Driving home for Christmas è stata pubblicata da Rea come singolo, ispirato da un viaggio insieme alla moglie, a bordo di una Mini, da Londra a Middlesbrough.
9) Paul McCartney - Wonderful Christmas time. Scritto e prodotto dallo stesso McCartney, Wonderful Christmas timeè stato pubblicato come singolo in occasione del Natale 1979. Il video è stato girato alla Fountain Inn di Ashurst, West Sussex. La canzone, caratterizzata da un singolare synth, rivela tutta l’abilità melodica del Macca.
10) David Bowie e Bing Crosby- The little drummer boy/Peace on Earth. Difficile pensare a un accostamento più curioso tra l’androgino re del glam rock inglese e il grande crooner americano. Eppure il duetto funziona alla grande in The little drummer boy/Peace on Earth, eseguito per la prima volta nella trasmissione Bing Crosby's Merrie Olde Christmas del 1977. Crosby morì un mese dopo quest’incisione, lasciandoci così l’ultimo testamento della sua straordinaria carriera.
Il brano delle feste di Natale? Da 23 anni nessuno riesce a creare il nuovo «classicone». È dai tempi di "All I want for Christmas" della Carey che non nascono hit. Flop dell'intelligenza artificiale, scrive Anna Muzio, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". Vecchie ma pur sempre valide. Anzi, meglio delle nuove. Sono le canzoni di Natale, che anche quest'anno sono tornate per creare atmosfera assieme all'albero e alle lucine colorate, familiari ma in fondo fresche come il primo giorno in cui le abbiamo sentite, anni fa. Al netto dei «veri» classici, «tille Nacht e Jingle Bells, composti nel XIX secolo, e soprattutto White Christmas, anno di nascita 1942 che nella versione di Bing Crosby è il singolo più venduto al mondo, sono gli anni dai '60 agli '80 del Novecento che ci hanno regalato i nuovi classici, diventati presto degli evergreen. Una «mano fatata», quella degli autori dell'epoca, che non è più stata recuperata in anni recenti. Intanto il Daily Mail ha fatto i conti in tasca proprio a loro, le vecchie glorie, pop e rockstar viventi che con i diritti delle loro hit natalizie, scritte decine di anni fa, si stanno assicurando pensioni d'oro. Perché queste canzoni ogni anno tornano non solo nelle nostre orecchie, ma anche in cima alle classifiche. Shane McGowan, ad esempio, sdentato ed etilico leader degli irlandesi Pogues, grazie all'intramontabile Fairy Tale of New York si porta a casa 440mila sterline ogni anno (450mila euro). La ballata del 1987 ha appena vinto su Twitter «La coppa del mondo delle canzoni natalizie» indetta dal presentatore della Bbc Richard Osman. Ed è anche la più trasmessa dalle radio britanniche negli ultimi cinque anni, secondo PRS for Music (la Siae inglese). Mariah Carey con la relativamente recente (si fa per dire, è del 1994 quando raggiunse il numero 2) All I Want for Christmas Is You ha venduto milioni di copie e ancora guadagna 376mila sterline l'anno (423mila euro). Entrambe battono il successo del 1984 Last Christmas, indimenticabile inno degli Wham! di George Michael, scomparso un anno fa proprio il giorno di Natale. Quest'anno la sua canzone ha raggiunto il terzo posto in classifica. Sempre del 1984 è il tormentone e numero uno dell'epoca Do they know it's Christmas? del supergruppo Band Aid, il secondo singolo più venduto della storia. È strano pensare come il cambio radicale dei costumi, delle abitudini, della società in genere non abbia prodotto una colonna natalizia più in linea con i tempi. Del resto Natale è la festa della tradizione per eccellenza, e, come ha detto alla Bbc Paul Clements di PRS for Music «quando una stagione legata alla nostalgia occupa le radio non c'è niente che possa battere un buon classico». Forse dobbiamo rivolgerci all'intelligenza artificiale per trovare la prossima canzone natalizia perfetta. Ci ha provato l'artista e programmatrice californiana Janelle Shane usando una rete neurale, quelle che imitano il cervello umano e sono usate per guidare le automobili senza pilota, tradurre e compiere transazioni finanziarie. Partendo dall'analisi di 240 «carole» natalizie. Il risultato? Una deludente accozzaglia di parole senza senso, o decisamente ridicole. Per questa volta dunque è ancora l'uomo a vincere sulla macchina. Ma non garantiamo per il futuro. Sta di fatto che quell'alchimia unica che crea una canzone di successo in grado di restare sulla cresta dell'onda per innumerevoli stagioni, evidentemente, non è ancora stata svelata. Ma non è detto che non alberghi in uno dei tormentoni di questo finale di 2017, come Perfect di Ed Sheeran, numero uno nella classifica dei singoli della settimana di Natale in Italia e Regno Unito anche grazie al duetto con Andrea Bocelli. Questo però solo il tempo saprà dircelo.
Quella notte che impiccarono Babbo Natale…, scrive Daniele Zaccaria il 22 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Superstizione pagana, icona del benessere consumista, ma anche castigamatti e maschera proletaria. Malgrado i suoi mille nemici (nel 1951 venne addirittura giustiziato in una chiesa di Digione!) il mito di Santa Claus resiste e splende più luminoso che mai. Babbo Natale giustiziato sulla pubblica piazza! È successo davvero, domenica 23 dicembre del 1951. L’hanno impiccato all’inferriata del Duomo di Digione e poi l’hanno arso sul sagrato, ad assistere al supplizio 250 bambini, chiamati a raccolta dalla diocesi locale assieme a una folla di parrocchiani invasati. «Abbiamo bruciato Babbo Natale, lo abbiamo sacrificato in olocausto. Non è un evento spettacolare ma un atto simbolico. La sua menzogna non risveglia nei piccoli nessun sentimento religioso e non può essere educativa. Per i cristiani il Natale resta la ricorrenza che celebra la nascita del Salvatore», recitava il comunicato congiunto delle chiese cattoliche e protestanti della Borgogna. La macabra esecuzione del fantoccio di Santa Claus, al di là dei suoi risvolti pittoreschi, suscitò la viva curiosità di uno studioso già all’epoca molto noto: Claude Levi-Strauss. Il padre dell’antropologia strutturale, che due anni prima aveva pubblicato Les Structures élémentaires de la parenté, rimase davvero colpito dalla veemenza della messa in scena, tanto che quella rappresentazione fanatica gli ispirò la scrittura di Père Noel Suplicié. Si tratta di un saggio breve in cui recupera la radice pagana di un culto che da una parte sembra uscito dai Saturnali dell’antica Roma e dall’altra assolve una centrale funzione di scambio presente in ogni società organizzata, una «transazione onerosa» in cui i vivi regolano i conti con i morti attraverso una profferta di doni. Proprio come facevano gli spiriti dei defunti venerati dagli indiani Pueblo del New Mexico, i katchina, personaggi mascherati portatori di regali ai bambini del villaggio per lenire il dolore del trapasso. Per l’antropologo francese, «appartengono alla stessa famiglia di Babbo Natale, dell’Orco, dell’Uomo nero e del Castigamatti». Lo stesso discorso, seppur in chiave rivoltata, vale per la più moderna festa di Halloween, dove sono direttamente i morti a bussare alle nostre porte di casa per ricevere un piccolo dono che addolcisca il loro simbolico passaggio a miglior vita. Il fatto che sia una festa d’importazione americana è soltanto un dettaglio. Ma non a caso la Chiesa ha più volte liquidato come «nefaste superstizioni» le zucche illuminate nel buio, gli zombie grondanti di sangue (finto) e i maghetti che affollano come sciami la notte delle streghe. Se l’intruso pagano è detestato dagli integralisti cristiani, non gode certo di miglior fama tra gli intellettuali laici “di sinistra” che in lui vedono un’icona deleteria della società del consumo e quindi un simbolo da combattere. Nessuno sospetta che l’odio per Babbo Natale sia la reazione a una paura atavica, una paura che precede la nostra civiltà e che, in qualche modo, le attraversa tutte quante. Con un’ambiguità di fondo che lo rende indecifrabile, una specie di divinità ibrida e quindi ancora più inquietante: «Si chiama “Babbo” ed è un vegliardo, incarnando l’aspetto bonario di una remota autorità. Tutto molto chiaro. Ma in quale categoria ordinarlo, dal punto di vista religioso? Non è un essere mitico, poiché non c’è mito che renda conto della sua origine e delle sue funzioni; e non è nemmeno un personaggio di leggenda, poiché non è collegato a nessun racconto semistorico. Di fatto, questo essere soprannaturale e immutabile eternamente codificato nella forma, e definito da una funzione esclusiva e a una periodica ricomparsa, appartiene piuttosto alla famiglia delle divinità. Del resto, gli è riservato un culto da parte dell’infanzia, in una precisa epoca dell’anno, sotto forma di lettere e preghiere. Premia i buoni e punisce i cattivi. E’ la divinità di una classe d‘ età del nostro mondo (una classe che la credenza in Babbo Natale basta a definire), e l’unica differenza tra Babbo Natale e una divinità autentica è che gli adulti non credono in lui, benché incoraggino i propri figli a prestarvi fede e ne alimentino la leggenda», conclude Levi-Strauss. Eppure, nonostante i suoi mille detrattori, lui resiste inossidabile nel tempo, capace di scrollarsi dalle spalle le cattiverie dei nemici come si fa con un mucchietto di neve appena fresca, di adattarsi ai cambiamenti sociali e culturali e di eccitare a mano a mano la fantasia delle nuove generazioni. È così che lo abbiamo addomesticato e integrato nella comunità. Annunciato da un trillo leggero di campanellini verso la mezzanotte la silhouette scivolerà giù dai tetti, per i lucernari e lungo i camini, tra sospiri di bimbi, occhi sgranati, soffici fiocchi di neve, fragranze domestiche e buoni sentimenti. Più di ogni altra cosa Babbo Natale ci ricorda che il nostro mondo è ancora qui, rotondo, rassicurante e uguale a se stesso. Con i suoi rituali mielosi, le sue mitologie di paccottiglia, i suoi ingenui tributi alla normalità. Con le renne e la slitta, il pellicciotto di montone, la giubba rossa e i sacchi gonfi di regali. Santa Claus, l’anti- apocalittico per antonomasia, quel vecchio signore che gli snob e gli annoiati accusano da mezzo secolo di ogni nefandezza, dipinto come uno che ruba l’anima ai nostri figli, un malefico traviatore della gioventù. Allegoria orwelliana del totalitarismo consumista che si addentra nel cuore di panna dei focolari per corrompere e traviare la gioventù. Addirittura un colonizzatore dell’immaginario collettivo, cavallo di Troia del capitalismo made in Usa che nel tempo lo ha fatto diventare l’onnipresente testimonial della Coca Cola. Che poi, a guardarlo da vicino, e senza dover far proprie le sofisticate intuizioni di Levi- Strauss Babbo Natale non è mai stato un tipo tranquillizzante. Al contrario: un brivido corre lungo la schiena dei piccoli quando sentono i passi frusciare nel soggiorno e provano a carpirne l’ombra sbirciando da dietro la porta. A debita distanza però, perché, come gli orchi delle favole, Santa Claus e la sua cera scarlatta smuovono inquietudini e smarrimenti annidati nell’inconscio. Avete presente quei bambini costretti dai genitori a farsi una foto con il Babbo Natale di turno? Li puoi vedere nei centri commerciali che piangono terrorizzati tra le braccia di figuranti sgraziati, sopraffatti dall’abbraccio di un beniamino bolso che dovrebbe rimanere nell’ombra, racchiuso unicamente nelle sue rappresentazioni stilizzate o nelle rarefatte fantasie dell’infanzia. Un pupazzo rubicondo e bonario che fa l’occhiolino dai cartoncini delle feste, un buonuomo che sorvola i comignoli delle case con la slitta volante in una scia di aromi muschiati. E invece no! Babbo Natale non è solo un’astrazione metafisica. Come nel dogma della trinità cristiana, Santa Claus possiede una forte dimensione “incarnata” e un’intensa vita mondana, vive e lotta insieme a noi, rumina nel fango e digrigna i denti nelle notti glaciali d’inverno. Ed ecco le catene di piccoli Santa Claus arrampicati come edere per le ringhiere disadorne delle case popolari, contrappunto sgualcito di un’esistenza ai margini del benessere. Ecco ancora le riproduzioni dozzinali offerte a pochi centesimi nei bazar di cianfrusaglie dei commercianti asiatici. Oppure un costume sgualcito che riposa sul termosifone di un monolocale di periferia, in attesa del prossimo umiliante turno di lavoro. Il beniamino più amato dai nostri figlioli, capace di sfornare nella sua fabbrica segreta miliardi di scintillanti regali per i piccoli di tutto il mondo si trasforma così in una patetica immagine della precarietà lavorativa. Specialmente in tempi di crisi il rovesciamento stride come un unghiata sull’ardesia: il simbolo di abbondanza e regalìe diventa l’allegoria triste dell’impoverimento collettivo. Ma non bisogna farne un dramma: c’è una logica in questa nemesi. Ogni anno durante le festività centinaia di migliaia di poveri cristi si travestono da Babbo Natale per svoltare una paga da fame, esibendosi agli angoli delle strade o davanti ai negozi stipati di compratori, uomini dalle barbe posticce e ammuffite che si cimentano in un’improbabile cacofonia di cornamuse. A volte barcollano intontiti dal freddo e dai cicchetti consumati nei peggiori bar della città. Altri ancora, in un estremo esercizio di trasfigurazione, come veri e propri “babbi bastardi” nascondono il mitra sotto lo sgargiante costume per dedicarsi al crimine puro; basta spulciare le cronache dei giornali per farsene un’idea: nel mondo occidentale il costume di Santa Claus è il più impiegato per compiere rapine in banca, per svaligiare gli uffici postali o realizzare semplici furti negli appartamenti di vecchiette tremebonde che mentre ti offrono il tè si fanno svuotare il comodino con l’argenteria di famiglia. Ma è proprio questo lato oscuro della luce, questa nemesi terrena che rende “umanissimo” il mito di Babbo Natale, un ornamento allo stesso tempo fantastico e iperrealistico, ipersonificazione paffuta della civiltà del benessere, ma anche una vivida e sofferente maschera proletaria, qualcosa che allo stesso tempo ci rassicura e che ci spaventa. Un po’ come la vita.
Voyager, su Raidue puntata speciale dedicata a Babbo Natale, scrive il 25/12/2017 Paolo Sutera su "Notizie tv". L’appuntamento natalizio di Voyager, quest’anno, cade proprio il 25 dicembre: questa sera, alle 21:15 su Raidue, andrà infatti in onda una puntata speciale del programma condotto da Roberto Giacobbo, dedicato alle tradizioni del Natale. In particolare, la puntata andrà a scoprire le origini di Babbo Natale, conosciuto in numerosi Paesi stranieri come Santa Claus: un viaggio che porterà il conduttore fino in Turchia, dove 1.700 anni fa è nato proprio San Nicola, il vescovo che diede il via alla tradizione dello scambio dei doni. Proprio nelle ultime settimane, alcuni ricercatori avrebbero scoperto la vera tomba di San Nicola, che si troverebbe in Turchia e non, come sostengono alcune teorie, a Bari. Giacobbo, poi, si sposterà negli Stati Uniti ed in Lapponia, per scoprire come un personaggio come San Nicola si sia trasformato, nel tempo, nell’uomo paffuto e barbuto che tutti oggi conoscono come Babbo Natale. Non mancherà uno spazio dedicato alla fantasia ed all’indagine sulle leggende sulle fate, gli elfi e gli gnomi. Ci si chiederà, infatti, se questi sono davvero solo frutto dell’immaginazione o se ci sia qualcosa di vero dietro i numerosi racconti.
Esiste davvero Babbo Natale? Scopritelo con Roberto Giacobbo, scrive il 25 dicembre 2017 Valentina Gambino su "Il Sussidiario". Il viaggio di Roberto Giacobbo, in onda nel prime time della seconda rete di Casa Rai, si aprirà con una emozionante indagine alla ricerca di Babbo Natale. Lo speciale di stasera, lunedì 25 dicembre, si aprirà raccontando la figura di Santa in giro per il mondo. Lo straordinario viaggio di Voyager ai confini della conoscenza, partirà dalla Turchia, perché ultimamente diversi archeologi locali hanno sostenuto di aver trovato proprio il luogo di sepoltura di San Nicola, in origine Santa Claus che si festeggia abitualmente il 6 di dicembre. La prova della reale esistenza di Babbo Natale, pare si trovi in una piccolissima chiesa ubicata nella provincia di Adalia a pochi passi dal Mediterraneo. San Nicola è venuto alla luce in Turchia nel Settecento e per la sua nascita la tradizione imponeva di portare regali ai piccoli. Da questo, dovrebbe essere nata la figura di Santa Claus, il nonno universale di tutti i bambini. Giacobbo poi, continua in Lapponia, meta d’obbligo per il Natale, dove esiste la casa di Santa. In questa puntata speciale in ultimo, si parlerà anche di fate, gnomi ed elfi: si tratta solo di esseri irreali o c’è qualche cosa di vero dietro i racconti popolari?
Voyager puntata 25 dicembre sulle tracce di Babbo Natale. Roberto Giacobbo si occupa della figura simbolo del Natale e cerca di spiegarne le origini, scrive Federica Simonetti. Lunedì, 25 Dicembre 2017 su "MaridaCaterini”. Anche quest’anno Voyager - ai confini della conoscenza dedica una puntata speciale al Natale. Roberto Giacobbo, nell’appuntamento in onda proprio il 25 dicembre su Rai 2, in prime time, accende i riflettori sulla figura leggendaria simbolo della festività: Babbo Natale o per meglio dire Santa Claus. Giacobbo, alla sua maniera, conduce una vera e propria inchiesta su questa figura leggendaria e tenta di illustrare ai telespettatori quali sono state le origini. La prima tappa è la terra dove ha avuto origine il mito di Santa Claus, ovvero la Turchia. Tutte le versioni del Babbo Natale moderno, chiamato Santa Claus nei paesi anglofoni, derivano dallo stesso personaggio storico: san Nicola, vescovo di Myra. L’odierna Demre, città situata in Turchia. Del santo si racconta che ritrovò e riportò in vita cinque fanciulli, rapiti ed uccisi da un oste, e che per questo era considerato il Protettore dei bimbi. L’appellativo Santa Claus deriva da Sinterklaas, nome olandese di san Nicola. Proprio in Turchia, 1700 anni fa, nasceva San Nicola, uno dei più grandi santi della Cristianità, venerato in ogni angolo del pianeta. San Nicola ha dato vita alla tradizione di portare doni ai bambini nel periodo natalizio. Nella puntata di questa sera, Giacobbo anticipa che, proprio nelle ultime settimane, un team di archeologi ha annunciato di essere vicino alla scoperta della vera tomba di San Nicola, i cui resti potrebbero trovarsi ancora in Turchia e non a Bari, come invece, raccontavano le cronache medievali alle quali si presta fede ancora oggi. Il babbo Natale di oggi riunisce le rappresentazioni premoderne del portatore di doni, di ispirazione religiosa o popolare, con un personaggio britannico preesistente. Quest’ultimo risale almeno al XVII secolo, e ne sono rimaste delle illustrazioni d’epoca in cui è rappresentato come un signore barbuto e corpulento, vestito di un mantello verde lungo fino ai piedi e ornato di pelliccia. Rappresentava lo spirito della bontà del Natale, e si trova nel Canto di Natale di Charles Dickens sotto il nome di Spirito del Natale presente. L’inchiesta di Giacobbo continua. Voyager si sposta negli Stati Uniti e, successivamente, in Lapponia, per capire in che modo un uomo di chiesa si sia trasformato, nell’immaginario collettivo, in un signore, anche anziano, con la lunga barba bianca. L’atmosfera natalizia impregna tutta la puntata speciale. Giacobbo ferma la sua attenzione su altri personaggi immaginari del periodo festivo. Si parlerà, infatti, di fate, gnomi ed elfi: si tratta solo di creature fantastiche o potrebbe esserci qualche addentellato con la realtà dietro ai racconti popolari diffusi in molti paesi?
«San Nicola riposa sotto il cielo d'Irlanda». Una disputa mai sopita per le reliquie del venerato santo: «Le ossa furono trasferite qui dall'Italia 800 anni fa da cavalieri delle Crociate», scrive il 27 Dicembre 2017 Armando Fizzarotti su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Sotto il cielo d’Irlanda (che «è Dio che suona la fisarmonica... si muove con te... è dentro di te» canta Fiorella Mannoia) riprende quota il fronte nordico della disputa sull’«autentica» sepoltura di San Nicola. Una nuova offensiva mediatica, dopo quella turca di alcuni mesi fa, che sembra insidiare il primato della cripta della Basilica di Bari, nella quale tutto il mondo cristiano (cattolico e ortodosso) venera le spoglie attribuite al Vescovo di Myra, Patrono del capoluogo pugliese, vissuto fra il 270 e il 343, ossa portate a Bari nel 1087 dai marinai baresi. Una sepoltura di epoca medioevale, finora mai esplorata dagli archeologi, è rivendicata come «tomba di San Nicola» in Irlanda, nella contea di Kilkenny, nel Parco Jerpoint a 120 chilometri a sud ovest di Dublino. Pochi giorni fa ha rilanciato questa ipotesi dalle colonne del giornale “Irish Examiner” il contadino Joe O’Connell («scarpe grosse e cervello fino» commenterebbe qualcuno... ) che 12 anni fa acquistò il terreno sul quale è stata scoperta la lapide, vicino al castello di Belmore House, appena fuori la cittadina di Thomastown. O’Connell, che lealmente non nasconde i suoi fini turistici, ha dichiarato di «vedere con interesse» l’ipotesi di effettuare indagini scientifiche fra la tomba e le reliquie custodite in Italia (quindi a Bari) e in Usa (riferendosi all’osso pelvico «scoperto» da ricercatori dell’Università di Oxford in una chiesetta dell’Illinois). Stando alla storiografia ufficiale della Chiesa, a Bari risulta sepolto il 60 per cento delle spoglie del Santo (come dichiarò l’ex priore Ciro Capotosto alla vigilia dell’invio della reliquia in Russia in primavera); il secondo «lotto» più importante è nella chiesa di San Nicolò a Venezia; infine altre reliquie più piccole risultano sparse in altre località. Ma non in Irlanda né in Turchia. Torniamo nella contea di Kilkenny, dove da 12 anni la lapide è stata mèta già di centinaia di visitatori. Il folklore locale narra che i resti terreni di San Nicola furono segretamente prelevati da Bari, ad opera di cavalieri di ritorno dalle Crociate in Terra Santa, che li portarono a Newtown Jerpoint 800 anni fa. Una storia suggestiva, che costituirebbe un nuovo «legame» fra la nostra chiesa Romanica e le Isole del Nord, seconda solo alla vecchia ipotesi, considerata possibile dalle fonti della Basilica barese, secondo la quale sul Portale dei Leoni gli scultori del Medioevo abbiano raffigurato una scena del ciclo narrativo di Re Artù. Ma torniamo al 2017. In ordine cronologico abbiamo registrato la primavera scorsa lo storico «prestito» della reliquia barese a Mosca e San Pietroburgo, al Patriarcato ortodosso russo, evento che ha fatto affluire nelle due metropoli dell’Est oltre due milioni di fedeli. In ottobre l’«offensiva» dalla Turchia. Dalla città di Demre (che sorge sui resti dell’antica Myra) gli archeologi locali hanno dichiarato che nella loro antica chiesa dedicata a San Nicola c’è la «vera sepoltura» del Patrono di Bari, aggiungendo però che sono necessari scavi e analisi sotto l’antico pavimento e che questa tesi costituisce un’ottima attrattiva turistica per la loro comunità. Quindi, all’inizio del mese, la notizia della volontà di confrontare l’osso già custodito e venerato in Illinois (nella cittadina di Morton Grove) con gli altri resti in Italia. Infine, ora, il contadino irlandese...Va detto che tutto ciò non ha implicazioni riguardanti solo preghiere e richieste di grazia, ma anche voli charter, soggiorni, pasti nei ristoranti e donazioni. Esiste già, presso il Consiglio d’Europa, il progetto «La Via Nicolaiana» che in Italia vede coinvolti Basilica e Comune di Bari (oltre che le città di Ostia e Vasto) e all’estero Russia, Ucraina, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Austria e Israele. Forse dal resto del mondo queste «rivendicazioni» potrebbero anche rappresentare richieste di partnership, pur velate da campanilismo. Ma eventuali progetti congiunti non potranno mai prescindere né da dati storico-scientifici attendibili, né tanto meno dal fatto che la venerazione di un Santo per un credente è solo uno dei tanti modi per cercare di vivere la fede. «Il cielo d'Irlanda è Dio che suona la fisarmonica... ».
Conosciamo davvero Gesù? Libro di Roberto Giacobbo. Di Gesù ricordiamo la sofferenza, la Passione, la croce. Ma per una volta vorrei provare a pensare a un'altra immagine. Quella di un uomo che prima di morire ha vissuto, è cresciuto, ha sorriso. Una persona che, anche prescindendo dalla fede, ha cambiato la storia dell'uomo, dalle cose grandi a quelle di tutti i giorni. Un uomo scomparso in giovane età, a soli trentatré anni. Poco più di un ragazzo. Ma chi era Gesù? È realmente esistito? Quali prove ci sono? Cosa ha realizzato nella sua vita? Cosa conosciamo di lui? Cosa ci arriva dalla storia e cosa dalla fede? Quello che stiamo per compiere con questo libro è un viaggio denso di emozioni, tra fede, scienza, storia e archeologia. E lo faremo con la stessa curiosità di quei greci che un giorno si presentarono a Filippo, il discepolo, dicendo: "Vogliamo conoscere Gesù". In questa ricerca saremo aiutati da molti strumenti: i testi della Bibbia ufficiale e quelli apocrifi; le fonti della letteratura antica, riscoperte grazie ai ritrovamenti di antichi papiri in Medio Oriente; i calcoli astronomici, che forniscono alcuni riferimenti temporali preziosi; infine le scoperte archeologiche, che permettono di verificare l'attendibilità dei testi sacri e di individuare e ricostruire i luoghi in cui ha realmente vissuto e operato Gesù. Ripercorrendo la sua vita in senso cronologico, indagheremo sui misteri della nascita (dove e quando è nato veramente? era figlio di una vergine?), della vita (ha avuto fratelli? e una moglie?).
«Conosciamo davvero Gesù?» Libro di Roberto Giacobbo, scrive Giovanna Giraudi il 24-12-2013. Roberto Giacobbo, conduttore di Voyager, ci propone, come tanti altri autori, un’indagine su Gesù. Per il giornalista l’input è venuto dalla piccola figlia Margherita che, al tempo del catechismo, gli aveva fatto notare quante immagini ritraessero Gesù serio, triste, sofferente. Eppure anche Gesù è stato bambino, è cresciuto e chissà quante volte ha sorriso. Da qui parte l’indagine del giornalista, lo studio su un personaggio riguardo al quale, nel mondo, è stata scritta un’infinità di libri e ancor oggi tanto si discute. C’è ancora molto da scoprire su Gesù e Giacobbo, pur volendo fare un’indagine storico - scientifica, parte comunque dallo studio dei Vangeli e cita spesso le parole di Benedetto XVI. Partendo dai sinottici, l’autore mette in rilievo che, se più fonti scritte molto antiche, risalenti al tempo in cui la popolazione era quasi totalmente analfabeta, riportano, anche se con alcune discordanze, gli stessi episodi, ciò significa che tali eventi hanno grandi probabilità di essere realmente avvenuti. Si pone, in particolare, domande sul Vangelo di Giovanni che, come testimonia il papiro Rylands, frammento che riporta alcune parti di passi di quel Vangelo, pare molto antico. Vengono poi affrontati tanti argomenti, innanzitutto l’esistenza di altri Vangeli. Perché, si chiede Giacobbo, scegliere quelli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni come testi di riferimento? Perché erano gli scritti più autorevoli, più diffusi mentre quelli apocrifi non garantivano la stessa attendibilità ed aderenza al messaggio di Cristo. Nonostante ciò, puntualizza l’autore, a diversità di coloro che hanno differenti punti di vista, non ci fu ostruzionismo da parte della Chiesa che, anzi, fece in modo che questi scritti non andassero perduti. Ecco poi i capitoli dedicati a Gesù visto dai romani, dagli ebrei e all’importanza dell’opera dei francescani, i frati che più hanno collaborato, in Terra Santa, agli scavi archeologici e allo studio della vita al tempo di Gesù, proprio come desiderava il fondatore del loro ordine monastico. La seconda parte del libro è dedicata al periodo e al luogo in cui Gesù è nato. Quale l’anno esatto? A Betlemme o a Nazareth? L’autore ricerca, con metodo preciso ma distaccato dal credo religioso le possibili risposte. Non c’è, infatti, una vera e propria certezza ma quel che si capisce è che, oltre ad essere stata annunciata molto tempo prima, la nascita del “figlio di David” viene attesa da popoli diversi, che in Lui, anche se non riconoscono un Dio, trovano comunque una presenza superiore. La terza parte è dedicata all’infanzia di Gesù, definita “gli anni perduti” poiché i Vangeli ben poco raccontano di questo periodo. Si fa menzione di un Gesù autodidatta e si fanno ipotesi su come sia avvenuta la sua formazione così profonda già quando, a dodici anni, si ritrova a discutere tra i dottori nel Tempio. Tutta la vita del Nazareno viene rivista con estrema attenzione dall’autore: egli fa ricerche sul periodo pubblico, sulle parabole, sui miracoli e poi sul processo e sulla condanna a morte. Qui possiamo leggere alcuni capitoli salienti che rivelano le ultime scoperte sia sul Titulus, la scritta apposta sopra la Croce, sia sulla Sacra Sindone che sul Santo Graal. “Gesù è veramente il Messia?” si chiede ancora l’autore. Certo è colui che, nei contemporanei, suscitò veri terremoti spirituali: da molti fu amato, ma i suoi avversari lo giudicarono duramente e le autorità romane lo fecero uccidere come un criminale, mentre i suoi discepoli lo riconobbero come Figlio di Dio. Insomma, Gesù di Nazareth non suscitò tiepidi entusiasmi e simpatie superficiali, fu odiato o amato, senza mezze misure. Questa diversità di vedute si ripropone, anno dopo anno, secolo dopo secolo e, quasi sicuramente, non troverà risposta univoca. Profonda, comunque, è stata la ricerca di Giacobbo che si è valso dell’aiuto di storiografi, di studiosi della Bibbia, di archeologi, di scienziati. Questo libro non lascia insensibile il lettore alla figura di Gesù: certo, ognuno di noi è poi libero di giudicare, di pensare, di credere oppure di rimanere su posizioni lontane dalla visione cristiana. Lo stesso autore esprime il coinvolgimento e l’interesse che egli stesso prova per questa figura, così narrando uno degli episodi più conosciuti: “La moltiplicazione dei pani aveva illuso la gente che questo Gesù avesse in tasca una soluzione facile per risolvere tutti i problemi e forse anche per liberare Israele; ma quando egli prova a portare la discussione su un altro livello la folla se ne va delusa. In questo momento sono i Dodici a rimanere al suo fianco, fedeli al Maestro con cui hanno scelto di condividere uno stile di vita precario e senza punti di riferimento. Ma nel momento più difficile, di fronte allo scandalo della Croce, anche loro lo abbandoneranno decretando il fallimento completo di un profeta incompreso. Incompreso perché unico. Il problema è che Gesù sfugge ad ogni categoria: non ce n’è uno uguale, né prima né dopo di lui”.
GESÙ NON È NATO L'ANNO 0, scrive il 25 Dicembre 2013 Daniele Picconi. Pubblicato in Teologia per tutti. Gesù è nato prima di quanto generalmente si pensi. Iniziamo con il dire che ciò che leggerete potete trovarlo nei testi di Insegnamento Religione Cattolica (in versione estesa) e in ogni Bibbia recente nella tavola cronologica (in versione numerica semplificata).
1) L’anno 0. Nel momento in cui esce questo articolo nel calendario leggete: 25 Dicembre 2013. Cioè siamo 2013 anni dopo la nascita di Gesù Cristo. “Il calcolo dell’anno 0 è dovuto a un monaco del 6° secolo dopo Cristo di nome Dionigi il piccolo”.
2) Perché non può essere l'anno 0. Leggendo i vangeli notiamo che Gesù Cristo nacque sotto il regno del re Erode il grande. Il re Erode il grande è lo stesso che nel vangelo cercherà di uccidere Gesù e ordinerà la strage degli innocenti. “Il re Erode il grande però muore il 4 a.C. (avanti Cristo)”. Quindi il re Erode il grande è morto prima della nascita ipotizzata da Dionigi il piccolo!! Di conseguenza Gesù non può essere nato l’anno 0!! Semplice no? Riepilogo perché è importante: se Gesù è nato sotto il regno di re Erode il Grande e quest’ultimo è morto il 4 a.C., allora Gesù deve essere nato prima del 4 a.C. e al massimo il 4 a.C.!
3) Quando è nato? Informazioni secondo il vangelo di Luca. Prendiamo come riferimento Lc 2, 1-7: In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. Alcune informazioni: “Quirinio fu legato della Siria dal 6-9 d.C. Augusto non risulta che abbia mai ordinato un censimento globale di tutto l’impero. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio parla di un censimento per le tasse che scatenò la rivolta guidata da Giuda il galileo (6-7 d.C.). Sempre Giuseppe Flavio ci dice che Erode come diretto rappresentante di Cesare Augusto in Galilea chiese a tutti i sudditi un giuramento di fedeltà all’imperatore e non è da escludere che il censimento citato da Luca si riferisca a questa dichiarazione sotto forma di giuramento che si sarebbe verificata tra il 6-7 a.C. L’anno precedente Augusto aveva ordinato un censimento di tutti i cittadini romani (iscrizione Monumentum Ancyranum) ritrovato in Ankara, in Turchia. Tertulliano che scrive nei primi anni del 200 ci dice che il censimento sotto Augusto non fu fatto da Quirinio bensì da Senzio Saturnino il quale fu legato in Siria tra il 7-9 a.C. Saturnino partendo per una campagna militare sia stato sostituito da Quirino (per un breve periodo) il quale ricopriva cariche importanti già in Asia minore e nord Africa. Scuola di Madrid: ci sarebbe un errore di traduzione! Non: “Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio…” bensì: “questo censimento fu fatto prima che Quirino diventò.” Dunque in Siria abbiamo prima Saturnino tra il 7-9 a.C e poi Quirino tra il 6-9 d.C. E’ probabile che Luca abbia sintetizzato in un unico diversi censimenti di Augusto per dimostrare che stava per nascere il messia dell’umanità intera!!
4) Quando è nato? Informazioni secondo fenomeni astronomici. Nel vangelo di Matteo (2,2) i magi domandano a Erode: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. La stella in questione è stata oggetto di studio e vi sono diverse possibilità anche se una sembra prevalere sulle altre! La soluzione di Keplero: nel 1604 lo studioso si accorse che nel 7 a.C vi fu una triplice congiunzione di Giove-Saturno!! Questa congiunzione è molto rara e avviene ogni 805 anni!! I magi osservando il cielo associarono a ogni pianeta dei significati: Giove: suggeriva la nascita di un grande re. Saturno: pianeta spesso associato al popolo ebraico. Dunque i magi da questa congiunzione avevano un’informazione preziosa: “un grande re stava per nascere nel popolo degli ebrei!”. Reperti archeologici come: un papiro (oggi a Berlino) e una tavoletta di argilla di Sippar (nord Babilonia) ci tano la spettacolare congiunzione giove-saturno nell’anno 7 a.C. La cometa di Halley: considerando che questa cometa passa ogni 77 anni, passò il 12 a.C. Data troppo lontana rispetto ai censimenti. La stella-scopa: Ovvero una cometa, è stata avvistata e registrata negli annali degli astronomi cinesi nel 5 a.C. Tuttavia questa ipotesi è da scartare perché le comete nell’antichità erano considerate presagi di sventura e sempre associati ad eventi negativi! La stella-cespuglio: Po-hsing è il suo nome coreano dove è stata avvista nella costellazione dell’Aquila il 4 a.C. e registrata. Sarebbe un’esplosione stellare che rilascia una nebulosa di gas, formando per un periodo di tempo limitato un oggetto molto luminoso nel cielo. Sciame di meteore: Ipotesi di Patrick Moore. Uno sciame di meteore è possibile ma non databile”.
5) Conclusioni. Gesù deve essere nato dal 4 a.C. in dietro e quindi non può essere nato l’anno 0. Due “censimenti” sono molto interessanti: quello di Saturnino (citato da Tertulliano) 7-9 a.C. e quello di Erode (sotto ordine di Augusto) 6-7 a.C. A livello astronomico la congiunzione di giove - saturno si colloca il 7 a.C.!
Mettendo insieme i dati possiamo dire che Gesù è nato o il 6 o il 7 a.C.!! Partendo da questo dato non siamo nel 2013 d.C. bensì 2019 0 2020 dopo Cristo!! Logico no?? Se Gesù è nato 6-7 anni prima di quello che si pensava il nostro calendario va spostato di 6-7 anni. Per i più giovani non cambia nulla! Ognuno continua ad avere la sua stessa età. Semplicemente conosciamo meglio il Gesù storico e tutte le implicazioni nella sua vita da adulto! Perché non viene cambiato il calendario? Bisogna dire che abbiamo 6/7 e quindi non una data certa ma due date! Bisognerebbe fare due calendari ed è impossibile senza contare il fatto che molto del nostro sistema è fondato sul calcolo dell’anno 0.
Una precisazione: Vi sono molte altre teorie ma affrontarle in questo articolo diventava complesso.
Nascita di Gesù. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Natività del Signore. Tipo di festa: religiosa. Data: 25 dicembre per la Chiesa cattolica, 7 gennaio per la Chiesa ortodossa. Religione: Cristianesimo. Oggetto della celebrazione: Nascita di Gesù a Betlemme. Altri nomi: Natale «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Vangelo secondo Giovanni, I,14)
La narrazione della nascita o natività di Gesù (o soltanto Natività, per antonomasia) è contenuta nei vangeli secondo Matteo e secondo Luca oltre che nel Protovangelo di Giacomo. La valutazione sulla valenza storica dei racconti evangelici sulla Natività è oggetto di controversie. I testi di Matteo e Luca concordano su due eventi centrali, che verificano, secondo l'interpretazione cristiana, due profezie dell'Antico Testamento: la nascita di Gesù a Betlemme (Michea, 5,1), da una vergine (Isaia 7,14). Entrambi i vangeli raccontano inoltre della nascita al "tempo di re Erode", riferiscono il nome dei genitori (Maria, promessa sposa di Giuseppe) e attribuiscono il concepimento verginale all'opera dello Spirito Santo. Le due narrazioni differiscono per quanto riguarda diversi particolari, i quali vengono specificati o meno. Per questo motivo gli studiosi ritengono che questo sia uno degli indizi della redazione indipendente dei due vangeli (la cosiddetta teoria delle due fonti). La tradizionale datazione della nascita all'anno 1 a.C. è con ogni probabilità un errore compiuto nel VI secolo dal monaco Dionigi il Piccolo. Oggi la maggior parte degli studiosi colloca la nascita di Gesù tra il 7 e il 6 a.C. L'istituzione formale della festa liturgica del Natale, come ricorrenza della nascita di Gesù, e la sua collocazione al 25 dicembre è documentata a Roma dal 336, e la si riscontra nel Chronographus, redatto intorno alla metà del IV secolo dal letterato romano Furio Dionisio Filocalo.
Narrazione dei vangeli sinottici. Tra i libri del Nuovo Testamento, gli unici a descrivere la nascita di Gesù sono il Vangelo secondo Matteo e Vangelo secondo Luca. Gli altri due vangeli (Marco e Giovanni) iniziano infatti descrivendo il ministero pubblico di Gesù nell'età adulta, tralasciando la sua infanzia. Sia Matteo che Luca concordano su alcuni punti:
Giuseppe e Maria, i genitori di Gesù, erano fidanzati ma non sposati quando Maria restò incinta (Matteo 1,20, Luca1,27 e 2,4);
in entrambi i vangeli la nascita di Gesù è annunciata da un angelo (Matteo 1,20-23 descrive l'annuncio dell'angelo a Giuseppe, Luca 1,30-35 quello a Maria);
il bambino è concepito per intervento divino (Matteo 1,20, Luca 1,34);
un angelo afferma che il suo nome sarà Gesù e che sarà il Salvatore (Matteo 1,21, Luca 2,11);
la nascita avviene al tempo di Erode il Grande (Matteo 2,1, Luca 1,5);
Gesù trascorre gli anni da adolescente a Nazaret (Matteo 2,23, Luca 2,51).
Vangelo secondo Matteo. Il Vangelo secondo Matteo (1-2) inizia con la genealogia di Gesù, quindi accenna brevemente al concepimento verginale di Maria per opera dello Spirito Santo. A questo segue un annuncio di un angelo allo sposo Giuseppe, il quale aveva pensato a un concepimento adulterino, e lo rassicura sull'origine soprannaturale del bambino. Maria partorisce il bambino, cui viene dato il nome Gesù. Successivamente arrivano a Gerusalemme dei magi dall'oriente, i quali avevano letto nel sorgere di un "astro" l'annuncio della nascita del re dei Giudei. Il legittimo re, Erode, resta turbato, e li invia a Betlemme sulla base della profezia di Michea (Mi5,1) con l'intento di avere informazioni su questo re illegittimo. Guidati dall'astro, i magi arrivano "nella casa" e offrono a Gesù bambino "oro, incenso e mirra". Avvertiti quindi in sogno di non tornare da Erode, che aveva intenti omicidi verso il possibile usurpatore, i magi tornano nel loro paese. Un angelo intanto informa in sogno Giuseppe di fuggire in Egitto per sottrarsi all'ira di Erode. Questi infatti, non conoscendo l'identità del re neonato, fa uccidere tutti i bambini di Betlemme sotto i due anni (l'episodio è noto come strage degli innocenti). La famiglia ritorna dall'Egitto solo alla morte di Erode, ma a causa della presenza sul trono del figlio Erode Archelao, in sogno un angelo indica loro di recarsi a Nazaret, in Galilea, affinché si avveri la profezia secondo la quale «sarà chiamato Nazareno», profezia però inesistente. Infatti, anche se il Vangelo secondo Matteo riporta che "... Avvertito poi in sogno, si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno»."[9], in realtà questa profezia non è presente in nessun libro dell'Antico Testamento.
Vangelo secondo Luca. Il Vangelo secondo Luca (1,26-2,39) inizia narrando l'annunciazione, fatta dall'angelo Gabriele a Maria, del concepimento per opera dello Spirito Santo di un figlio, il cui nome sarà Gesù. Di fronte all'incredulità di Maria, l'angelo le indica la sua parente Elisabetta, la quale vecchia e sterile sta aspettando un figlio (Giovanni Battista) per grazia di Dio ed è già al sesto mese. Maria dice il suo "sì" dichiarandosi serva del Signore, quindi si mette in viaggio "in fretta" per andare a visitare Elisabetta (Visitazione), che abita presso Gerusalemme, a circa 120 chilometri di distanza (1,26-56). Dopo aver raccontato la nascita di Giovanni (1,57-80), il Vangelo secondo Luca riporta la notizia di un "primo censimento", voluto da Cesare Augusto in tutto l'impero romano, secondo il quale ciascuno doveva tornare con la propria famiglia nella città dei propri avi (censimento di Quirinio). Giuseppe, discendente del re Davide che era nato a Betlemme, lascia Nazaret con Maria incinta e si reca nella città dei suoi avi. A Betlemme Maria dà alla luce Gesù, lo avvolge in fasce e lo depone in una mangiatoia degli animali. Successivamente avviene l'adorazione dei pastori: avvertiti da un angelo, alcuni pastori si recano a rendere omaggio al bambino appena nato (2,1-20). All'ottavo giorno dopo la nascita avviene la circoncisione di Gesù; successivamente il neonato è portato al tempio per la consacrazione, dove è riconosciuto come messia da Simeone e dalla profetessa Anna. Al termine dei riti, Giuseppe e la sua famiglia tornano alla loro casa, a Nazaret (2,21-39).
Sinossi evangelica. Vangelo secondo Matteo. Vangelo secondo Luca. Annunciazione a Giuseppe (1,18-25): in una località imprecisata un angelo gli comunica che Maria è incinta per opera dello Spirito Santo, adempimento di Is7,14. Annunciazione a Maria (1,26-38): "al sesto mese" (dal concepimento di Giovanni Battista, avvenuto "al tempo di re Erode") a Nazaret l'angelo Gabriele comunica a Maria che concepirà e partorirà per opera dello Spirito Santo. Visitazione di Maria a Elisabetta e nascita di Giovanni (1,39-80). Giuseppe e Maria lasciano Nazaret per raggiungere Betlemme in occasione del "primo censimento" di Quirinio (2,1-5). Nascita di Gesù (1,25-2,1): a Betlemme, al tempo di re Erode. Nascita di Gesù (2,6-20): a Betlemme, Gesù è deposto in una mangiatoia ed è adorato dai pastori indirizzati da un angelo. Epifania (2,1-12): alcuni magi vengono da oriente al cospetto di Erode a Gerusalemme vedendo "l'astro", si dirigono a Betlemme sulla base di Mi5,1 e portano a Gesù "nella casa" oro, incenso e mirra. Circoncisione e presentazione al tempio (2,22-39): nel tempio di Gerusalemme Gesù infante viene riconosciuto dai vecchi Simeonee Anna come il Messia atteso, ritorno della famiglia a Nazaret. Fuga in Egitto e strage degli innocenti (2,13-23): un angelo in sogno dice a Giuseppe di fuggire perché Erode vuole uccidere il re degli Ebrei neonato annunciatogli dai Magi, fuggono in Egitto (in adempimento di Os11,1), Erode ordina l'uccisione dei bimbi di Betlemme sotto i due anni (adempimento di Ger31,15).
Citazioni dell'Antico Testamento. Entrambi gli evangelisti sottolineano come le rispettive narrazioni della nascita di Gesù comportino il soddisfacimento di alcune profezie o riferimenti dell'Antico Testamento: concepimento verginale = Is7,14; nascita a Betlemme = Mi5,1;
Matteo cita anche: "il suo astro" = Nm24,17; adorazione dei magi = Is60,3; Sal72,10;68,29; fuga in Egitto = Os11,1; strage degli innocenti = Ger31,15.
Paralleli con l'Antico Testamento. Alcuni autori hanno visto un parallelo tra il racconto della nascita di Samuele nell'Antico Testamento (raccontata nel Primo libro di Samuele) e il racconto dell'annunciazione e della nascita di Gesù elaborato da Luca e ritengono che il racconto di Samuele abbia costituito per Luca un modello.
Vangeli apocrifi. La nascita di Gesù è descritta anche in alcuni vangeli apocrifi, dove è arricchita di particolari e aspetti miracolistici. Data la tarda età di composizione e il prevalere dell'interesse magico-fiabesco, il valore storico di questi testi è limitato ma possono aver raccolto qualche particolare storicamente fondato.
Il Protovangelo di Giacomo (metà II secolo) armonizza la narrazione di Matteo (Magi e persecuzione di Erode) e Luca (censimento). Quanto al luogo, la nascita avviene a Betlemme in una grotta (cc. 17 - 18), non in una stalla come suggerito da Lc2,7. Questo particolare, assente nei vangeli canonici, è diventato un elemento importante nella rappresentazione del presepe. L'architettura della Basilica della Natività di Betlemme conferma questa tradizione. Tale particolare non deve essere necessariamente visto come in antitesi con l'altra diffusa tradizione popolare della nascita in una stalla basata su Luca: l'orografia della Palestina è caratterizzata da numerose piccole grotte che venivano spesso usate come dispense o piccole stalle, sovente ampliate e incorporate in costruzioni in muratura. Il Protovangelo aggiunge poi tre elementi leggendari. Nel primo episodio, Giuseppe racconta in prima persona che al momento della nascita il tempo si fermò (c. 18). Il secondo episodio coinvolge due levatrici che, chiamate da Giuseppe, arrivarono alla grotta immediatamente dopo la nascita e testimoniarono la verginità di Maria (cc. 19-20). Il terzo elemento, che a differenza degli altri due ha avuto una certa fortuna nella devozione e nella tradizione artistica successiva, riguarda la grotta che fu avvolta da "una nube luminosa". La presenza del bue e dell'asinello è testimoniata dal Protovangelo di Giacomo (18).
Il tardo Vangelo arabo dell'infanzia (probabilmente VIII-IX secolo) riprende dal Protovangelo diversi elementi, tra i quali la nascita a Betlemme in una grotta (c.2).
Nel tardo Vangelo dello pseudo-Matteo (VIII-IX secolo) la tradizione della grotta del Protovangelo viene armonizzata con quella della stalla dei vangeli canonici: a Betlemme Maria partorisce il bambino in una grotta (c. 13), quindi il terzo giorno si trasferiscono in una stalla (c.14) dove sono presenti l'asino e il bue. Questi due "personaggi", diventati elemento ricorrente delle rappresentazioni artistiche della natività e del presepio, derivano probabilmente da Is1,3, ma nessun'altra fonte ne parla.
Storicità dei racconti. Per la presenza di elementi soprannaturali e di alcune possibili imprecisioni, e per la diversità dei racconti dei due evangelisti, peraltro scritti a decenni di distanza dagli eventi narrati, i testi di Matteo e Luca hanno dato luogo a molte discussioni fra studiosi e biblisti. Secondo gli studiosi moderni, gli autori delle due fonti non avrebbero appreso le notizie da testimoni diretti, ma dal racconto di terze persone e da fonti indirette[15], inoltre non disponevano di archivi o di registri ufficiali: quest'ultima limitazione è comune a tutto il mondo antico e crea inevitabilmente ampi margini di incertezza per gli studiosi moderni. Anche se la storicità di certi eventi è incerta, è possibile comunque individuare un nucleo di informazioni fattuali, come ad esempio i nomi dei genitori (Giuseppe e Maria) e la nascita di Gesù al tempo di re Erode e dell'imperatore Augusto.
Interpretazione tradizionale. Sito tradizionale della nascita di Gesù nella Basilica della Natività di Betlemme. Secondo l'interpretazione tradizionale, gli elementi contenuti nelle narrazioni evangeliche sono storicamente fondati. Le differenti versioni della natività tramandate in Luca e Matteo rispecchiano infatti due diverse esigenze catechistiche dei redattori. Le prime comunità cristiane cui era rivolto il testo di Matteo erano infatti composte da ebrei e per tale motivo l'autore non avrebbe citato alcuni dettagli (come il censimento) che per gli ebrei non erano importanti. I diversi passi dell'Antico Testamento citati nel Vangelo secondo Matteo che sono esplicitamente collegati alla nascita di Gesù sono stati ispirati dallo Spirito Santo secoli prima in vista proprio della sua nascita, e per questo motivo non possono essere utilizzati per dedurne la non storicità del racconto evangelico. I destinatari del Vangelo secondo Luca erano invece i Gentili, ragione per cui nel suo vangelo, ed in particolare nel racconto della natività, vi sono alcuni riferimenti all'"attualità" dell'epoca (il censimento decretato da Augusto) ben comprensibili da parte di una comunità alla quale, al contrario, sarebbero risultate totalmente oscure le citazioni dell'Antico Testamento che caratterizzano il testo di Matteo. Esiste anche l'ipotesi che certi eventi siano stati narrati solo da uno dei due evangelisti perché l'altro non li conosceva; ad esempio, Luca non sarebbe stato a conoscenza della fuga in Egitto, mentre Matteo non avrebbe saputo che Giuseppe e Maria vivevano già a Nazaret prima della nascita di Gesù ed è questo il motivo per cui non avrebbe parlato del censimento e del viaggio da Nazaret a Betlemme. Secondo l'interpretazione tradizionale, anche gli elementi storicamente più discussi, come "il suo astro" e la nascita durante il censimento di Quirinio, potrebbero essere fondati. Circa l'"astro" (tradizionalmente e impropriamente chiamato stella cometa) visto dai magi e interpretato come annuncio della nascita del "re dei Giudei", un'interpretazione che risale a Keplero lo identifica come una triplice congiunzione di Giove e Saturno nella costellazione dei pesci avvenuta nel 7 a.C. Anche la nascita durante il "primo" censimento di Quirinio non sarebbe in contrasto con la storicità della nascita "al tempo di Erode", in quanto non si tratterebbe del "secondo" censimento organizzato da Quirinio mentre era governatore della Siria nel 6 d.C., quando Erode il Grande era morto da 10 anni (4 a.C.). I tradizionali tentativi di armonizzazione hanno ipotizzato un precedente mandato di governatore durante il regno di Erode, al quale seguì un secondo mandato con un secondo censimento nel 6 d.C. Una diversa armonizzazione possibile vede Quirinio non come il governatore vero e proprio della Siria ma come il funzionario che gestì il suo primo censimento durante il governatorato di Gaio Senzio Saturnino, al tempo di re Erode, in occasione del censimento universale ("su tutta la terra") indetto da Augusto nell'8 a.C. Per conciliare i due Vangeli sulle modalità e il tempo del ritorno a Nazaret, alcuni studiosi hanno ipotizzato che la visita dei Magi sia avvenuta non subito dopo la nascita di Gesù ma in un momento successivo, dopo la presentazione al Tempio; al termine della cerimonia religiosa, la Sacra Famiglia sarebbe rientrata a Betlemme, dove sarebbe avvenuto l'evento. Gli stessi studiosi hanno proposto un'integrazione degli episodi narrati da Matteo e Luca con la seguente successione cronologica: viaggio da Nazaret a Betlemme; nascita di Gesù; adorazione dei pastori; circoncisione e presentazione al Tempio; adorazione dei Magi; fuga in Egitto; ritorno a Nazaret. Tale successione cronologica è, comunque, considerata da molti studiosi inconciliabile con i resoconti evangelici; Luca, infatti, dice esplicitamente che la Sacra Famiglia, poco oltre un mese dalla nascita di Gesù e l'adorazione dei pastori — fatti la circoncisione e i riti della purificazione con la presentazione al Tempio in Gerusalemme — si stabilì subito a Nazaret:"Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret.". Questo rende, di fatto, temporalmente impossibile l'episodio dell'adorazione dei magi e la seguente fuga e permanenza in Egitto, prima di giungere a Nazaret, come riportato invece dal resoconto di Matteo. La tradizione cristiana ha conservato la memoria del luogo della nascita in un punto preciso sito all'interno della Basilica della Natività di Betlemme, costruita nel IV secolo.
Interpretazione critica. Molti studiosi contemporanei, sia di formazione laica sia cristiana, considerano i racconti evangelici della Natività non fondati storicamente. Secondo questa interpretazione, i principali eventi delle narrazioni sarebbero elaborazioni tardive, a carattere simbolico o leggendario, redatte sulla base delle profezie messianiche contenute nell'Antico Testamento, che vengono espressamente o implicitamente citate in particolare in Matteo. Seguendo queste premesse il luogo di nascita a Betlemme, patria del messia atteso, dovrebbe quindi essere rifiutato anche se è citato da entrambi i racconti, e sono state proposte altre località, in primis Nazaret dove Gesù risiedeva da adulto. Un discorso analogo si può fare per il concepimento verginale: Matteo lo riporta per dimostrare che si è avverata la profezia di Isaia, Luca per dimostrare che Gesù è il Figlio di Dio; queste motivazioni sono interessate e rendono improbabile la storicità di quanto raccontato. La storicità dei racconti evangelici è messa in dubbio, secondo questa interpretazione, da incoerenze sia esterne sia interne ai racconti. Ad esempio, in Luca la nascita di Gesù è collocata sia durante il regno di Erode (morto probabilmente nel 4 a.C.), sia in occasione del censimento di Quirinio (Giuseppe Flavio ne attesta uno nel 6 d.C.), eventi difficili da conciliare, e in Matteo si racconta della strage degli innocenti, episodio non confermato da nessun'altra fonte, neppure evangelica. I due racconti sono inoltre in disaccordo riguardo alle motivazioni per cui Gesù nacque a Betlemme (in base a quanto scritto in Matteo, Giuseppe e Maria sembrano risiedere nella cittadina sin dall'inizio, per l'autore di Luca vi giungono solo per rispettare i dettami del censimento), per gli annunci dell'angelo (in Matteo appare a Giuseppe, in Luca a Maria), per le modalità e i tempi di trasferimento a Nazaret (per Matteo vi si trasferiscono dopo la fuga in Egitto perché a Betlemme regna il figlio di Erode, secondo Luca vi ritornano dopo la presentazione al Tempio di Gesù, circa 40 giorni dopo la sua nascita). Inoltre, nessuna delle informazioni date nei due racconti della nascita di Gesù riappare chiaramente nel seguito dei vangeli, neanche negli stessi Matteo e Luca. Secondo la maggioranza degli studiosi, anche di formazione cristiana, l'incongruenza più rilevante tra i due resoconti evangelici resta, comunque, la datazione del 6 d.C. relativa al censimento di Quirinio, che si è tentato a più riprese di retrodatare per conciliarlo con il periodo storico antecedente alla morte di Erode del 4 a.C.. Questi tentativi non sono stati, al momento, confermati da adeguate fonti storiche. In ogni caso, il fatto che il censimento obbligasse a registrarsi nella città di origine della famiglia e non in quella di residenza - come consuetudine dei Romani - è considerato da molti storici inverosimile e visto come un espediente dell'evangelista Luca per adempiere alla profezia della nascita a Betlemme, città di Davide. I Romani facevano infatti registrare la popolazione nel luogo di residenza, dove si produceva il reddito tassabile, e non di origine che, come in questo caso, avrebbe inutilmente obbligato le persone ad un lungo ed oneroso viaggio - oltretutto interrompendo la propria attività produttiva, anche a scapito degli stessi Romani - per tornare ad una città da cui venivano i loro antenati secoli o, come nel caso di Giuseppe, millenni prima. Gli studiosi della École biblique et archéologique française (i curatori della cattolica Bibbia di Gerusalemme), ad esempio, considerano questi due resoconti inconciliabili e fanno rilevare come anche negli Atti degli Apostoli si sottolinei la concomitanza di tale censimento con la prima insurrezione di Giuda il Galileo, provocata proprio da questo evento nel 6 d.C.. Date queste premesse, vari studiosi ritengono che questi racconti vadano letti essenzialmente in senso teologico, senza ricercarne l'esattezza storica intesa dai positivisti europei[35]. Un'interpretazione psicoanalitica che risale a Otto Rank (Il mito della nascita dell'eroe, 1909) evidenzia come i principali elementi della nascita di Gesù siano riscontrabili anche in altre biografie mitologiche, in particolare l'origine semi-divina (v. p.es. Gilgameš, Eracle) e la persecuzione del neonato da parte di un'autorità (v. p.es. Sargon, Mosè, Romolo e Remo). Per Gesù come per gli altri eroi mitologici l'origine di questi elementi narrativi non sarebbe quindi da trovare in eventi storici ma nell'identificazione dell'io con l'eroe e nella proiezione su questo di elementi della propria storia personale (il desiderio di essere speciale o divino, il timore della persecuzione del padre).
Il giorno e l'anno di nascita di Gesù. La maggior parte dei biblisti colloca la nascita dopo il censimento di Augusto (8 a.C.) e prima della morte di Erode (4 a.C.), con una maggiore preferenza per il 7-6 a.C. Dalla inesatta datazione della natività di Dionigi il Piccolo, che la fissò nell'anno 753 dalla fondazione di Roma, decorre in occidente a partire dal VI secolo la datazione della cosiddetta "era cristiana". I testi evangelici sembrano suggerire uno scarso interesse degli evangelisti per tramandare l'esatto giorno di nascita di Gesù, elemento estraneo agli obiettivi del loro testo. Tale ritrosia era condivisa dai primi cristiani, che tendevano a festeggiare il Battesimo di Gesù o l'Epifania (considerati "equivalenti" e collocati spesso nella stessa data, in quanto punti d'avvio della rivelazione della divinità di Gesù). Le prime notizie risalgono circa all'anno 200, ma sono rare, contraddittorie o di difficile interpretazione. Solo Ippolito di Roma assegnava sin da allora la nascita al 25 dicembre. La festa liturgica del Natale è piuttosto tarda e perciò la sua collocazione al 25 dicembre sarebbe dovuta, secondo la maggioranza degli storici, a considerazioni pratiche. L'innesto delle nuove credenze cristiane nel corpus del calendario e delle tradizioni popolari romane avrebbe fissato la commemorazione della natività di Cristo nelle antiche feste invernali dedicate a Saturno, i Saturnali, forse perché erano feste che segnavano la fine di un tempo, ed anche perché caratteristica dei Saturnalia era la temporanea abolizione delle differenze sociali e l'inversione dei ruoli tra schiavi e padroni. Secondo alcuni studiosi la data del 25 dicembre potrebbe comunque almeno avvicinarsi a quella vera calcolata grazie al Calendario di Qumran e al ritrovamento del Libro dei Giubilei (II secolo a.C.) a Qumran uno studioso Israeliano Shemarjahu Talmon è stato in grado di ricostruire le turnazioni sacerdotali degli ebrei e applicarle al calendario gregoriano. L'evangelista Luca riferisce infatti che l'arcangelo Gabriele annunciò al Zaccaria la nascita del figlio Giovanni mentre stava svolgendo le sue funzioni sacerdotali davanti a Dio nel tempio, nel turno di Abia. Ora, questa classe, come tutte le altre, svolgeva il turno due volte l'anno. Una di queste due volte, secondo il nostro calendario solare, corrispondeva all'ultima decade di settembre. In questo modo risulterebbe quindi giustificata anche la data tradizionale di nascita del Battista (24 giugno), avvenuta nove mesi dopo l'annuncio di Gabriele al Zaccaria. Ma ne consegue che un fondamento storico ha anche la data dell'annunciazione a Maria, "sei mesi dopo" ("e questo mese è il sesto per lei"), quindi nel marzo dell'anno successivo. Questo fatto implicherebbe, secondo l'indagine di Nicola Bux, che "è storica anche la data del 25 dicembre, nove mesi dopo", per determinare la nascita di Gesù. La data del 25 dicembre sarebbe però in contrasto con l'episodio dell'adorazione dei pastori del Vangelo secondo Luca, in cui si racconta che i pastori pernottavano nei campi vegliando di notte sul loro gregge; secondo alcuni autori, ciò avveniva nel periodo compreso tra la festa della Pasqua Ebraica e la festa delle capanne, cioè tra marzo e ottobre, ma non in inverno, perché ci sarebbe stato troppo freddo (oltretutto, Betlemme si trova ad un'altitudine di circa 800 metri sul livello del mare). Inoltre l'identificazione più probabile della stella di Betlemme, di cui parla il Vangelo secondo Matteo, è una tripla congiunzione tra Giove e Saturno, che nel 7 a.C. sarebbe avvenuta in maggio, ottobre e dicembre; confrontando la descrizione del Vangelo con il fenomeno astronomico, alcuni studiosi ritengono probabile che i Magi si siano messi in viaggio in maggio (all'inizio del fenomeno) e siano arrivati in ottobre, quindi Gesù sarebbe nato in settembre, data compatibile con il pernottamento all'aperto dei pastori.
Vaticano, Antonio Socci sull'omelia di Natale: "Papa Francesco è ossessionato dai migranti", scrive il 25 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Più che un'omelia, quella di Papa Francesco alla Messa di Natale nella Basilica di San Pietro è sembrato un comizio politico. Non ha dubbi Antonio Socci che su Twitter ha commentato: "Non ci si può credere! È veramente ossessionato! Anche nell’omelia di questo Natale il comiziante peronista obamiano invece di parlare di Gesù Cristo, parla dei migranti. Solo e sempre politica! Gli hanno ordinato di martellare su questo punto e lui da cinque anni bombarda quotidianamente". Pur di tirare in ballo il tema dell'immigrazione, Bergoglio incappa anche in alcuni errori nel citare il Vangelo: "Oltretutto colpisce l’ignoranza - ha aggiunto Socci - Qualcuno gli spieghi che Giuseppe stava portando la sua famiglia non in un Paese straniero per motivi economici, ma nel suo stesso Paese per il censimento, perché lui era originario di Betlemme. Quindi era a casa sua. E il versetto “non c’era posto per loro” si riferisce al fatto che nel caravanserraglio dove erano tutti non c’era un luogo appartato per partorire. Come si può distruggere così l’annuncio del Natale con un banale comizietto populista?". "Maria e Giuseppe si videro obbligati a partire". È il monito di Papa Francesco durante l'omelia della messa della notte di Natale, celebrata nella basilica di San Pietro con centinaia tra cardinali, vescovi e sacerdoti. "Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi. Vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire - afferma il Pontefice - In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri, questa partenza ha un nome solo: sopravvivenza. Sopravvivere agli Erode di turno che per imporre il loro potere e accrescere le loro ricchezze non hanno alcun problema a versare sangue innocente". Secondo Bergoglio, Giuseppe e Maria "dovettero lasciare la loro gente, la loro casa, la loro terra e mettersi in cammino per essere censiti. Un tragitto per niente comodo né facile per una giovane coppia che stava per avere un bambino: si trovavano costretti a lasciare la loro terra - insiste il pontefice - Nel cuore erano pieni di speranza e di futuro a causa del bambino che stava per venire; i loro passi invece erano carichi delle incertezze e dei pericoli propri di chi deve lasciare la sua casa". Riflette Francesco nel corso dell'omelia: "Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza. Colui che nella sua povertà e piccolezza denuncia e manifesta che il vero potere e l’autentica libertà sono quelli che onorano e soccorrono la fragilità del più debole". E ancora: "Piccolo Bambino di Betlemme, ti chiediamo che il tuo pianto ci svegli dalla nostra indifferenza, apra i nostri occhi davanti a chi soffre. La tua tenerezza risvegli la nostra sensibilità e ci faccia sentire invitati a riconoscerti in tutti coloro che arrivano nelle nostre città, nelle nostre storie, nelle nostre vite - prosegue il Papa - La tua tenerezza rivoluzionaria ci persuada a sentirci invitati a farci carico della speranza e della tenerezza della nostra gente". In occasione della Veglia di Natale, Papa Francesco cita infine l'omelia della messa d'inaugurazione del Pontificato di San Giovanni Paolo II. "Ce lo ricordava San Giovanni Paolo II: 'Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo'", dice il pontefice. "Natale è tempo per trasformare la forza della paura in forza della carità, in forza per una nuova immaginazione della carità - si sofferma Papa Francesco - La carità che non si abitua all'ingiustizia come fosse naturale, ma ha il coraggio, in mezzo a tensioni e conflitti, di farsi casa del pane, terra di ospitalità".
Vaticano, l'attacco a Papa Francesco da Diego Fusaro: "La sua omelia per lo Ius soli ispirata da Soros", scrive il 26 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". L'omelia di Papa Francesco durante la Veglia di Natale ha scatenato polemiche roventi tra intellettuali e commentatori. All'attacco di Antonio Socci, che su Facebook ha puntato il dito contro "l'ossessione politica" di Bergoglio, si è aggiunto il filosofo marxista Diego Fusaro che accusa il papa di continuare a fare propaganda per lo Ius soli, ormai naufragato in Parlamento. Secondo Fusaro Bergoglio parte male già dal confronto con il suo predecessore: "Papa Ratzinger aveva il coraggio di criticare la mondializzazione e lo sradicamento capitalistico. Papa Francesco, ci spiace ricordalo, sta sempre più mettendosi al loro servizio". A proposito del confronto ardito da parte di papa Francesco tra "Maria e Giuseppe" con gli immigrati, Fusaro poi chiarisce, a modo suo: "Legge del cuore (Hegel) e batticuore per l'umanità (ancora Hegel) non servono a nulla, senza considerare gli obiettivi rapporti di forza: i quali ci dicono che dare la cittadinanza a tutti è il primo passo per annichilire il concetto di cittadinanza e renderci tutti schiavi apolidi e migranti". Il sospetto insomma del filosofo è che il pontefice ormai non prenda più spunto dai testi sacri e dalla teologia della Chiesa cattolica, ma da altri oscuri punti di riferimento, tanto attuali quanto inquietanti: "Insomma - conclude - l'omelia di Francesco, stavolta, sembra ispirarsi a Soros più che a Cristo".
Papa Francesco, Matteo Salvini contro l'omelia pro-immigrati: "Mi ricordo una frase di Ratzinger...", scrive il 26 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Contro l'omelia di Papa Francesco - in cui il Pontefice ha chiesto di accogliere milioni di immigrati - prende una durissima posizione anche Matteo Salvini. Lo fa su Facebook, dove scrive: "Cristianamente parlando, non penso che l’Italia possa offrire casa e lavoro a milioni di immigrati, anche perché quasi cinque milioni italiani vivono in povertà. Meglio aiutare tutti a vivere bene a casa loro, anche perché l'intera Africa in Italia non ci sta". Dunque, una citazione di Ratzinger: "Come diceva Papa Benedetto, prima del diritto a emigrare viene il diritto a non emigrare. Sbaglio?". Touché.
Vaticano, Luigi Bisignani contro Papa Francesco: "In soffitta la messa di Natale. Che nostalgia degli altri pontefici", scrive il 27 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Un Natale difficilissimo per Papa Francesco, che non solo deve fare i conti con le fronde sempre più agguerrite in Vaticano, ma anche con le dure critiche incassate per l'omelia in cui è tornato a predicare la politica delle porte spalancate per gli immigrati. E così, dopo l'affondo di Antonio Socci, ecco quello di Luigi Bisignani, il cui pensiero corre in prima pagina su Il Tempo. L'uomo che sussurrava ai potenti parla della "notte santa", la Notte di Natale, che "fino ad appena due-tre anni fa", sottolinea, "riempiva le strade di Roma di persone che, dopo la cena natalizia, andavano in chiesa per la messa di mezzanotte". Per Bisignani è "tutto finito. Trovare una messa di mezzanotte a Roma, la notte di Natale, è diventato un rebus. Persino quella in San Pietro, cuore ed 'esempio' per la cristianità, è iniziata quest'anno alle 21.30: i fedeli, per ovvie ragioni di sicurezza, dovevano essere in basilica già dalle 19. E infatti la navata era semideserta". Il punto è che per Bisignani "il Natale sta abbandonando le nostre terre". Dito puntato contro il Papa, "che ha 'accorciato' la formula delle benedizione urbi et orbi alzando la mano, al momento di benedire per dare ai presenti l'indulgenza, e sbrigandosela con un padre, Figlio e Spirito Santo come per un Angelus domenicale". Dunque, nella parte finale del commento, l'attacco al Pontefice si fa più duro, perché secondo Bisignani "questo Natale andrà, nei nostri pensieri, a raggiungere le regioni della nostalgia". Quali regioni? Presto detto: quella per Paolo VI che "impavido" e sofferente, "celebrava a mezzanotte i riti della tradizione millenaria". Dunque Giovanni Paolo II, altro esempio di abnegazione nella sofferenza, e anche Benedetto XVII, che celebrò la messa anche quando, nel 2007, fu buttato a terra da una ragazza. "Altri esempi e, forse altri cattolici. Che tristezza però", conclude Bisignani.
"Così Bergoglio ha cambiato il rito del Natale". Bergoglio avrebbe stravolto il rito del Natale. Dimenticanze nella benedizione "Urbi et Orbi" e perdita generale di sacralità. Le accuse di Bisignani, scrive Giovanni Neve, Mercoledì 27/12/2017, su "Il Giornale". Bergoglio avrebbe stravolto il rito del Natale. Trovare una messa di mezzanotte a Roma, poi, nel giorno in cui si celebra la nascita di Gesù, sarebbe diventata un'"impresa". A sostenerlo è Luigi Bisignani, che in un lettera al direttore del Tempo ha elencato una serie di "difetti" che, secondo la sua visione delle cose, hanno riguardato le ritualità natalize nella Capitale. "Fino ad appena due tre anni fa - ha scritto Bisignani - la Notte Santa riempiva anche le strade di Roma di persone che, dopo la cena natalizia, andavano in chiesa per la messa di mezzanotte, quella della nascita di Gesù, che faceva echeggiare nei cieli notturni di tutto il mondo cattolico...". Adesso - invece - la situazione sarebbe cambiata: la ricerca di una messa in notturna a Roma si sarebbe trasformata in un "rebus", ma è la celebrazione tradizionale di Piazza San Pietro ad aver sollevato le principali critiche del "faccendiere". Il rito - infatti - avrebbe perso qualcosa in termini di solennità e tradizionalità. Secondo il "manager del potere nascosto", la celebrazione in Vaticano "è iniziata quest' anno alle 21,30" e i fedeli - per motivi di sicurezza - "dovevano essere in basilica già dalle 19,00". "E infatti" - continua Bisignani - "la navata era semideserta perché tra la famiglia, riunita per la cena, e la Messa i fedeli hanno scelto la prima. E così, tra chiese semivuote, campane mute, e messe natalizie sbrigate nella prima serata (tra le 20,00 e le 22,00: poi, buio, silenzio e strade deserte) - ha specificato Bisignani - come fastidiose pratiche burocratiche da timbrare senza fatica". Il Natale - inteso nel senso spirituale del termine - starebbe "abbandonando le nostre terre", ha chiosato l'ex capo ufficio stampa del ministro Stammati. E ancora, i canti del rito sarebbero stati affidati ad un "coretto di stonati verosimilmente registrati in una non meglio precisata versione live", con una regia "concentrata sulle uniformi della banda dei carabinieri". Fine della sacralità, in nome del tanto chiacchierato modernismo. Ma la "stoccata" principale viene riservata al pontefice: Luigi Bisignani ha scritto che Papa Francesco, durante la messa del 25 mattina, ha "accorciato" la formula della benedizione Urbi et Orbi: Bergoglio - infatti - si sarebbe limitato ad alzare la mano - nel momento di benedire - "sbrigandosela" con un "Padre, Figlio e Spirito Santo". L'Urbi et Orbi contiene una formula - pronunciata in latino - tesa all'indulgenza e alla remissione dei peccati con un valore impetratorio e non assolutivo. Una parte che Bergoglio avrebbe dimenticato. Questo cerimoniale - in sintesi - sarebbe stato svuotato di significato rituale a causa di una dimenticanza del capo di Santa Romana Chiesa. E Bisignani finisce per criticare anche la "scenografia" della messa vaticana della mattina di Natale: "Il 25 dicembre, poi, la diretta in mondovisione della Rai, tra l' infinita scelta di musiche natalizie offerta dal patrimonio culturale cristiano, si è aperta con un Last christmas in versione chitarrata e tamburelli - viene sottolineato nella lettera - cantata da un coretto di stonati verosimilmente registrati in una non meglio precisata versione live, con una regia concentrata sulle uniformi della banda dei carabinieri e quelle delle guardie svizzere...". Bisignani - insomma - rimpiange le ritualità e lo stile dei tempi andati, quelli di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ritualità natalizie - che per qualcuno - è meglio finiscano presto nel dimenticatoio della cristianità.
Vaticano, Antonio Socci mette a confronto il Natale di Papa Francesco e Benedetto XVI: "Con Ratzinger c'era la folla", scrive il 27 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Le celebrazioni per il Natale di Papa Francesco sono state ricche omelie al limite del comizio politico e non poche gaffe. Antonio Socci ha sottolineato già dalla Veglia natalizia come il pontefice fosse "ossessionato" dal tema dell'immigrazione, tanto da paragonare Giuseppe e Maria ai migranti economici che oggi sbarcano sulle coste dell'Europa. Peccato però, come ricorda lo stesso Socci, che Giuseppe non fosse in cerca di una vita migliore, ma fosse semplicemente tornato a casa sua per il censimento. Passi anche per gli errori inanellati da Bergoglio nel corso della benedizione del 25 dicembre, quel che invece in pochi hanno notato è il triste spettacolo che il papa aveva davanti a sé quella mattina. Sulla sua pagina Facebook, Socci ha fatto un confronto impietoso, pubblicando la foto scattata su piazza San Pietro durante la benedizione natalizia di Benedetto XVI e un'altra fatta durante il pontificato di Bergoglio: "Il Natale di Benedetto XVI - scrive Socci - aveva la piazza strapiena di gente, quello di Bergoglio ha la piazza semivuota. La cosiddetta Chiesa in uscita se n'é andata... del resto ieri (il 25 dicembre) Bergoglio ha sbagliato pure la benedizione (eppure doveva solo leggere). Manco le basi del mestiere...".
Papa Francesco "scaricato" pure dalla Caritas. Lo ius soli non attira simpatie in Vaticano. Il problema principale non è l'immigrazione, ma la povertà. Invece il Pontefice tira dritto, scrive Luigi Bisignani il 23 Agosto 2017 su "Il tempo". Caro direttore, sullo ius soli, Bergoglio e Gentiloni sono proprio rimasti soli e le loro uscite a favore della cittadinanza per i figli degli immigrati, a ridosso della strage di Barcellona, si sono rivelate un autogoal. Entrambi sono stati messi all'angolo dai loro apparati della comunicazione, che hanno anticipato interventi previsti per momenti successivi. Il Premier deve infatti schivare tutto quello che rischia di far precipitare la situazione verso elezioni anticipate, mentre Francesco, oltre alla solita contrarietà della Curia, si è trovato ad affrontare il silenzio, nuovo ed inaspettato, non soltanto della Caritas italiana ma, soprattutto, di quella internazionale presieduta dal cardinale filippino Luis Antonio Tagle, considerato oggi il suo delfino. Del resto lo stesso Tagle, recentemente in visita in Libano, è stato contestato proprio per non aver messo l'indigenza al centro dei suoi interventi. Non è comunque un mistero che lo ius soli non attiri simpatie in Vaticano: il più tifoso della materia, monsignor Gian Carlo Perego, da capo della Fondazione cattolica Migrantes è stato spedito a fare il vescovo di Ferrara mentre il capo della Caritas italiana, il cardinale di Agrigento Francesco Montenegro, con giurisdizione anche su Lampedusa, sa bene come il problema principale non sia più l'immigrazione ma la povertà, aumentata fino a raggiungere l'impressionante cifra di oltre 4 milioni. E il grido d'allarme viene anche dal responsabile della sezione romana, Enrico Feroci, che sforna oltre 500 mila pasti l'anno. Insomma, la povertà è tale da risultare nemica delle aperture verso gli immigrati. Ma a chi gli sussurra che sull'immigrazione bisogna andarci piano il Papa rilancia, potenziando il nuovo contestato Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, che addirittura guida ad interim perché ancora non ha trovato un prelato sufficientemente misericordioso per dirigerlo. Il conte Gentiloni sa bene che per durare non deve rilanciare, soprattutto se non vuole fare un regalo grande come Palazzo Chigi a Salvini.
I "lati oscuri" del presepe di San Pietro. Il presepe in Vaticano sarebbe stato donato da un'Abbazia cara ai devoti della comunità LGBT. Critiche anche per il posizionamento di Gesù bambino, scrive Giovanni Neve, Martedì 26/12/2017, su "Il Giornale. Il presepe presente quest'anno a piazza San Pietro continua a far parlare di sè. Dopo le accuse secondo cui l'opera raffigurerebbe "situazioni e personaggi ambigui" tanto da essere definiti "spettrali", ieri la solita incursione delle Femen è stata bloccata dalla gendarmeria vaticana. L'attivista - che è riuscita ad arrivare all'opera in questione - ha "prelevato" solo temporaneamente Gesù dalla composizione. Mai come quest'anno - insomma - il presepe di piazza San Pietro è protagonista delle cronache giornalistiche. Il vaticanista Aldo Maria Valli ha scritto che Gesù - all'interno dell'opera - "sembra quasi un intruso". Ha specificato il giornalista del TG1: "...devo dire che l’uomo nudo si impone su tutto. Sta proprio lì davanti, in primissimo piano, roseo, ben tornito, depilato, con tutti i muscoli disegnati. Ha ragione l’amico pizzaiolo: non sembra per niente un povero, bisognoso di essere rivestito. Sembra piuttosto un modello che si compiace delle sue fattezze". Valli - nella frase citata - si riferisce ad un suo amico pizzaiolo di Borgo Pio che lo ha invitato caldamente a visitare la composizione, la stessa che avrebbe relegato Gesù in ruolo di secondo piano rispetto ad altri, discutibili, personaggi. Un'opera d'arte che - in fin dei conti - finirebbe per "spaventare" piuttosto che per ispirare relativamente alle opere di Misericordia. Un'altra "accusa" - poi - arriva da Lifesite News. Secondo un articolo di Diane Montagna, la composizione presepepiale sarebbe stata donata al Vaticano da un'abbazia nota per essere un luogo di "devozione" della comunità LGBT. Si legge qui al riguardo:"Il presepe inaugurato lo scorso 7 dicembre 2017, realizzato dalla Bottega d’Arte presepiale Costabile e Cantone di Napoli, che ha come tema le sette opere della Misericordia, è stato, per l’appunto, donato dall’Abbazia di Montevergine, un santuario in provincia di Avellino, caro ai devoti omosessuali e transgender, in quanto al suo interno è venerata la cosiddetta "Madonna gay friendly", un’icona nera conosciuta come anche come "Mamma Schiavona" per via delle sue fattezze orientali". Antonello Sannino - presidente dell'Arcigay di Napoli - ha effettivamente commentato in maniera molto positiva la funzione della "Mamma Schiavona", la "Mamma che tutto perdona": "Per la comunità omosessuale e transessuale di Napoli è un importante simbolo di inclusione e integrazione". E ancora - riferendosi alla Madonna di Montvergine - "c’è una forte devozione popolare tra i credenti" (…) Il pellegrinaggio annuale della Candelora è una sorta di "orgoglio gay ancestrale" e un "modo di accogliere nella cultura della città (Napoli n.d.r.), la figura del femminiello che è dirompente in una società binaria "maschile – femminile". Il presepe - in sintesi - sarebbe stato donato al Papa da un'Abazia che avrebbe tra i devoti molti degli esponenti più celebri e mediatici della comunità LGBT. Troppi addominali, un'origine "insolita" e la figura di Cristo non posta in rilievo: queste, in sintesi, i lati "oscuri" del presepe in Vaticano.
Il presepe choc: famiglia di colore (e musulmana), scrive Rachele Impero, Mercoledì 27/12/2017, su "Il Giornale". La provocazione è decisamente forte: Giuseppe e Maria hanno la pelle nera e, nella vita di tutti i giorni, invece di andare in chiesa vanno alla moschea. Infatti il padre e la madre di Gesù sono interpretati da una coppia senegalese di religione musulmana che vive in provincia di Pisa da più di vent'anni. Il bambinello, invece, è la loro Diarra, una bambina di cinque mesi nata lo scorso agosto. La rappresentazione del presepe vivente è andata in scena ieri pomeriggio a San Miniato Basso, paesone della provincia di Pisa, dove già alcuni anni fa un presepe, non quello vivente però, aveva fatto discutere e non poco per la presenza di due pastori che si davano teneramente la mano in prossimità della capanna: una presenza gay friendly che sollevò un polverone e fece storcere il naso ai più tradizionalisti della Curia locale, visto che l'allestimento era stato fatto proprio nelle stanze del Seminario vescovile. Quella provocazione non piacque. Stavolta i protagonisti però sono veri, in carne ed ossa, figuranti principali in mezzo ad uno stuolo di pastori, pastorelle e centurioni romani che in tutto mette all'opera 250 persone richiamandone più del doppio tra il pubblico. Articolata in più «quadri», accompagnati da canti e da un testo di commento, la rappresentazione ha inizio sul sagrato della chiesa di San Martino, lungo la Tosco Romagnola, con la scena dell'Annunciazione; procede poi nel piazzale antistante la nuova chiesa della Trasfigurazione con le scene della Visitazione e dell'arrivo di Maria e Giuseppe a Betlemme, per il censimento; quindi la drammatica scena delle locande, la Natività con l'annuncio della lieta novella ai pastori e ma solo per la rappresentazione del 6 gennaio l'arrivo dei Magi per distribuire calze e dolcetti ai bambini. Una rievocazione storica con un fascino cui è difficile resistere. Quest'anno capace anche di far discutere, nonostante il vescovo, Andrea Migliavacca, presente alla manifestazione, abbia difeso la scelta: «L'organizzazione è interamente della parrocchia - sottolinea - tuttavia mi è sembrata una scelta che richiama i valori dell'accoglienza e dell'integrazione cari anche a Papa Francesco».
Presepe con Gesù "nero" a Viareggio, scrive "ANSA" il 26/12/2017. Fa discutere, soprattutto sui social, il presepe allestito dal Comune inpiazza Mazzini a Viareggio (Lucca) con Gesù Bambino nero. Il sindaco, Giorgio Del Ghingaro spiega la scelta su fb: “visto chei Gesù bambini bianchi qualche genio se li portava via appena messi, un’anima buona ne ha portato uno nero, per vedere serubano anche quello. Magari un ladro pentito, o un cittadino anticonvenzionale che ha visto la culla vuota”. “A Viareggio la tradizione ha dovuto cedere alla strumentalizzazione”, dice la consigliera regionale della LegaNord, Elisa Montemagni. “Mi chiedo se sia giusto strumentalizzare così una tradizione della nostra cristianità”, aggiunge. Diversa la posizione del coordinatore di FI in Comune, Alessandro Santini: “A me il Bambin Gesù nero non dispiace affatto, anche perché un bambino nato a Betlemme da genitori di Nazareth, morto a Gerusalemme, sicuramente non era di carnagione bianca, non aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri”.
Cucine in chiesa, scrive Luca Nannipieri il 27 dicembre 2017 su “Il Giornale”. E allora mettete le cucine nelle chiese. Sono arrivati centinaia di commenti al mio pezzo di ieri in cui dicevo che le chiese non possono trasformarsi in ristoranti, seppure di carità. Un mare di repliche che mi ribadiscono che gli edifici di culto, dalle cattedrali agli edifici moderni, debbono ospitare pranzi e cene per barboni, poveri, diseredati, immigrati, perché così il Cristianesimo ritorna alle origini del suo fondatore, con tanto di lezioncina filologica sulla messa, durante la quale, come sappiamo tutti, con l’ostia si mangia il corpo e il sangue di Cristo. Dunque, se le chiese devono diventare ristoranti della carità per 200-300 persone a pasto, occorre che si attrezzino ad essere veramente ristoranti, ovvero devono allestire cucine, fornelli, friggitrici, lavapiatti, detersivi, accanto ad altari, confessionali, polittici, reliquari, tabernacoli, pulpiti, e, dove non è possibile, anche al loro posto. Ci sarà fumo che intossica gli affreschi trecenteschi? Non importa. L’importante è aiutare il prossimo. Ci saranno fiamme e fuochi accanto a Michelangelo o Raffaello? Non importa. Una vita umana che soffre e viene accudita vale più di tutta la storia dell’arte. Il grande rischio di simili iniziative, apparentemente francescane, è quello di mettere in opposizione, in conflitto, due valori positivi: da una parte, l’aiuto agli affamati e, dall’altra parte, la preservazione dell’arte come secolare testimonianza della grandezza dell’uomo che si innalza a Dio tributandogli splendore e bellezza. Quando due cose giuste vengono messe in conflitto, vi è sempre una sconfitta. Ed è quanto accade se riduciamo una chiesa monumentale a luogo di ristoro. I due valori positivi – donare e preservare la grandezza – devono essere esaltati entrambi, senza però farli entrare reciprocamente in guerra.
Francesco riscopre il Natale: "È soltanto quello di Gesù". Il Papa si scaglia contro il santino buonista: "Si assiste allo snaturamento per rispetto di chi non è cristiano", scrive Stefano Zurlo, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". Sorpresa e scandalo per gli antibergogliani: il Natale non è un santino buonista. Anzi. Non c'è Natale senza Gesù. I regali, le luci, e pure le formule sentimentali buone per tutte le stagioni sono solo un contorno, ma la festa ha un solo perché: l'arrivo del Salvatore su questa terra. Qualcuno non se l'aspettava: Bergoglio che tuona contro le mode alla Bergoglio, prende le distanze da un cristianesimo timoroso e sconfessa di fatto le riduzioni del suo magistero a questo o quell'aspetto. Questa volta il Papa parla forte e chiaro sul significato del Natale e non lascia spazio a interpretazioni sartoriali, vestite sull'attualità. No, il Natale è il giorno di Gesù, anche se il mondo dimentica la verità più semplice: «Assistiamo a una specie di snaturamento del Natale in nome di un falso rispetto di chi non è cristiano». Altra sorpresa, il pontefice che secondo i tradizionalisti sarebbe troppo accomodante, perennemente genuflesso verso le altre culture e religioni, il Papa presunto terzomondista, non è disposto ad annacquare in nome di un vago ecumenismo la forza dei Vangeli. Anzi, Bergoglio va all'attacco: chi camuffa o nasconde la propria identità non può dialogare con gli altri. E l'identità del Natale sta tutta nella figura del Bambino venuto al mondo 2mila anni fa, nella notte di Betlemme: «Senza Gesù non c'è Natale. E se al centro c'è lui, allora anche tutto il contorno, cioè i suoni, le luci, le varie tradizioni locali, compresi i cibi caratteristici, tutto concorre a creare l'atmosfera della festa». Non il contrario: si fa festa perché è nato Gesù, il figlio di Giuseppe non è solo una bella statuina in un presepe pagano. Tutto il buonismo alla maniera di Bergoglio viene contraddetto dal vero Bergoglio. E neanche la predica all'Udienza generale del mercoledì può essere catalogata come un atto d'accusa contro il consumismo. No, le parole del Papa non si fermano alla superficie ma toccano la questione decisiva: senza Gesù il Natale è solo un'illusione. «Se togliamo lui - prosegue Bergoglio - la luce si spegne e tutto diventa finto, apparente». Nei giorni scorsi il Papa aveva ricordato che Maria e Giuseppe non trovarono posto in albergo a Betlemme e aveva aggiunto che è «Gesù a darci la cittadinanza». Quel discorso, arrivato mentre s'incendiava la disputa sullo ius soli, era stato letto nel recinto italiano come un segnale politico inequivocabile. La conferma di un Bergoglio schierato a sinistra e pronto a infilare profughi e immigrati in ogni ragionamento. Non è così. Il Papa spiega che Gesù è venuto per i peccatori, i deboli, gli ultimi, i naufraghi ai bordi della ricchezza. Ma prima ancora mette Gesù al centro di tutto il suo pensiero: è Cristo a portare il Natale e la speranza che il Natale accende in tutte le case. Per questo Francesco introduce la categoria dell'avvenimento, caro a tanta tradizione e ripreso da don Luigi Giussani, uno dei maestri del Novecento. Le parole del Papa acquistano, se possibile, un peso specifico maggiore per il fatto di essere rivolte ai gruppi di fedeli arrivati da Siria, Iraq, Terra Santa e Medio Oriente. Luoghi che sono una somma di contraddizioni e aspirazioni irrisolte, luoghi in cui Gesù porta il dialogo. Non la resa.
Papa Francesco: "Stanno snaturando il Natale per un falso rispetto di chi non è cristiano". Il duro monito di Bergoglio: "Per un falso rispetto dei non cristiani si elimina Gesù". E difende le luci, i suoni e i cibi della festa: "Tutto concorre a creare l'atmosfera", scrive Sergio Rame, Mercoledì 27/12/2017, su "Il Giornale". "Assistiamo a una specie di snaturamento del Natale: in nome di un falso rispetto di chi non è cristiano". Nell'Udienza Generale di oggi papa Francesco punta il dito contro questo falso rispetto che, come lui stesso ha sottolineato, "spesso nasconde la volontà di emarginare la fede "eliminando" dalla festa ogni riferimento alla nascita di Gesù". "Ma in realtà questo avvenimento - ha spiegato il Papa - è l'unico vero Natale! Senza Gesù non c'è Natale. E se al centro c'è Lui, allora anche tutto il contorno, cioè le luci, i suoni, le varie tradizioni locali, compresi i cibi caratteristici, tutto concorre a creare l'atmosfera della festa". Dunque, ha scandito il Santo Padre, "se togliamo Lui, la luce si spegne e tutto diventa finto, apparente". "Oggi assistiamo al fatto che spesso l'umanità preferisce il buio, perché sa che la luce svelerebbe tutte quelle azioni e quei pensieri che farebbero arrossire o rimordere la coscienza. Così si preferisce rimanere nel buio e non sconvolgere le proprie abitudini sbagliate". Nel corso dell'Udienza Generale in Aula Paolo VI, Bergoglio ha voluto incentrare la propria meditazione sul vero significato del Natale. Significato che, nel corso degli anni, si sta sgretolando per un chiaro disegno che si nasconde dietro la tolleranza di chi non è cristiano. Per questo il Santo Padre ha invitato i fedeli presenti in Vaticano a chiedersi cosa significhi per loro accogliere il dono di Dio che è Gesù. "Il Cristo - ha spiegato Bergoglio - ci ha insegnato con la sua vita, significa diventare quotidianamente un dono gratuito per coloro che si incontrano sulla propria strada. Ecco perché a Natale ci scambiamo i doni". Ai fedeli provenienti dalla Siria, dall'Iraq, dalla Terra Santa e dal Medio Oriente, papa Francesco ha spiegato che "la nascita di Gesù è il compimento delle promesse divine". "Dio non ama a parole, il Suo amore non si limita all'invio di profeti, messaggeri o testi, ma Lo porta ad ab bracciare la nostra debolezza e la nostra condizione umana per sollevarci alla dignità filiale perduta - ha continuato durante l'Udienza Generale - l'incarnazione di Dio è la prova certa dell'autenticità del Suo amore, Chi ama veramente si immedesima con l'amato". "Il vero dono per noi - ha, quindi, insistito il Pontefice - è Gesù, e come Lui vogliamo essere dono per gli altri. La grazia di Dio è apparsa in Gesù, volto di Dio, che la Vergine Maria ha dato alla luce come ogni bambino di questo mondo, ma che non è venuto dalla terra, è venuto dal Cielo, da Dio". "In questo modo - ha, infine, concluso - con l'incarnazione del Figlio, Dio ci ha aperto la via della vita nuova, fondata non sull'egoismo ma sull'amore".
Antonio Socci, il volantino di Cl: dal presepe via Gesù, dentro i profughi, scrive il 27 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Ha fatto clamore il caso della scuola siciliana dove sono state rimosse le immagini della Madonna e di Gesù Cristo - ed è stata cancellata la preghiera del mattino - in nome della laicità della scuola. È la legge. Però, per lo stesso motivo, si dovrebbero bandire dalla scuola pubblica tutti gli indottrinamenti ideologici, di ogni genere (che purtroppo ci sono). E poi se fosse riconosciuta davvero la libertà di educazione non sorgerebbero questi problemi: in un Paese dove ci sono varie proposte educative, ognuno può scegliere la scuola che preferisce (anche quella che ha la preghiera del mattino). Ma in Italia non c’è questa libertà. E si può scommettere che quello siciliano è solo l’antipasto delle polemiche relative al prossimo Natale che ogni anno divampano puntualmente per il presepio, per la messa natalizia e quant’altro. Fare o non fare il presepio? Offende qualcuno il ricordo della nascita di Gesù a Betlemme? Perché si fanno quindici giorni di vacanza a scuola? Il presepe nei luoghi pubblici è una rappresentazione religiosa o anzitutto un richiamo culturale alle nostre comuni radici cristiane? Prima di rispondere a queste domande c’è da segnalare qualcosa che nessuno finora ha notato. Sta accadendo un evento di enorme portata nella Chiesa: è anzitutto lì - non nelle scuole - che viene progressivamente cancellato Gesù Cristo o posto in secondo piano. L’annuncio dell’Incarnazione di Dio, l’annuncio della salvezza, da cinque anni a questa parte, è stato sostituito da una specie di predicazione sociale o socialista che vede al centro i migranti (possibilmente islamici), insieme alla predicazione ecologista sul riscaldamento globale.
LA «SOSTITUZIONE». La «sostituzione» è anzitutto quantitativa: l’insistenza ossessiva con cui papa Bergoglio ripropone continuamente i migranti (e l’ecologia) a tutte le ore, tutti i giorni, per Natale, per l’Assunta e per Pasqua, un tempo - nei predecessori - riguardava l’annuncio di Cristo, la vita eterna e la dottrina cattolica. Ma è in corso anche una sostituzione concettuale, perché il povero in genere e il migrante in particolare (specie musulmano) è diventato, con Bergoglio, una categoria teologica e ha progressivamente sostituito il Salvatore. Una volta, il 15 novembre 2015, Bergoglio arrivò a dire che, per salvarsi, non è importante se «sei andato a messa», ma se ti sei occupato dei poveri «perché la povertà è al centro del Vangelo». Quindi l’azione sociale è più importante del sacrificio di Cristo e dell’Eucaristia: ne deriva che gli esempi da seguire sono sindacalisti come Landini o la Camusso, non santa Teresina di Lisieux che visse sempre in clausura. È di pochi giorni fa l’affermazione di Bergoglio per cui nei poveri c’è la «forza salvifica», essi «aprono la via al cielo, sono il nostro passaporto per il Paradiso». Ecco lo scivolamento verso la Teologia della liberazione che fu bocciata solennemente dalla Chiesa. Al contrario la Chiesa ha sempre predicato che «Cristo è l’unico Salvatore» (Giovanni Paolo II) e - come diceva san Pietro - «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12). Chi ha interpretato perfettamente il nuovo verbo bergogliano è l’attuale capo di Comunione e Liberazione, Julian Carron, che, buttando alle ortiche l’insegnamento di don Giussani (e buttando alle ortiche pure CL che ormai è ridotta ai minimi termini), ha lanciato per il Natale 2017 un «volantone» in cui non c’è più Gesù bambino, ma un campo profughi. È una bella foto artistica, ma Gesù è del tutto assente, dunque rappresenta il Natale bergogliano, non il Natale cristiano.
IL VERO INTERPRETE. Chi invece ha interpretato perfettamente l’annuncio cristiano è stato san Francesco d’Assisi che amava i poveri e la povertà molto più di Bergoglio e di Carron, ma che nel presepe (che lui stesso inventò) celebrò e adorò il Dio fatto uomo, non «i poveri» o i migranti. Madre Teresa visse come san Francesco e vedeva come la peste la Teologia della liberazione. La deriva «umanitaria» o socialisteggiante, è presente nella Chiesa dagli anni Settanta. Il cardinale Giacomo Biffi ne parlava così: «Il grande pericolo del cristianesimo dei nostri giorni è quello di venire a poco a poco ridotto, magari per la generosa preoccupazione di accordarsi con tutti, a un insieme di impegni umanitari e all’esaltazione di valori che siano “smerciabili” anche sui mercati mondani». Don Giussani, che era amico di Biffi e condivideva questa preoccupazione, per far capire la velenosa insidia contenuta in questa degenerazione umanitaria del cristianesimo, fece conoscere e diffondere Il racconto dell’Anticristo di Vladimir Solovev che aveva al centro proprio questo stravolgimento del cristianesimo. Il protagonista del racconto, l’Imperatore, diceva di stimare la figura di Gesù, ma si riteneva migliore di Lui perché avrebbe portato finalmente la pace e l’amore: «Il Cristo è stato il riformatore dell’umanità, predicando e manifestando il bene morale nella sua vita; io invece sono chiamato ad essere il benefattore di questa umanità (…). Darò a tutti gli uomini ciò che è loro necessario. Il Cristo, come moralista, ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi. Sarò il vero rappresentante di quel Dio che fa sorgere il suo sole per i buoni e per i cattivi e distribuisce la pioggia sui giusti e sugli ingiusti. Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace. Egli ha minacciato alla terra il terribile ultimo giudizio. Però l’ultimo giudice sarò io e il mio giudizio non sarà solo un giudizio di giustizia, ma anche di misericordia». Con questa pretesa l’Imperatore prometteva ai cristiani - purché si prostrassero a lui - qualunque cosa volessero: cultura cristiana, valori sociali e morali...
«QUEL CHE È PIÙ CARO». Ma la risposta gli arrivò da un santo monaco, lo starets Giovanni: «Grande sovrano, quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente la pienezza della divinità (…). Confessa qui e ora davanti a noi Gesù Cristo…». Lo starets Giovanni rappresenta il vero cristiano davanti alla seduzione del potere che manipola la fede, spiegava don Giussani. Oggi invece l’Imperatore sembra vincere. Abbiamo un Natale in cui i cattolici per primi sostituiscono Gesù con il valore della solidarietà, con la questione sociale dei migranti. Peraltro i poveri migranti di Bergoglio o del «volantone» di CL non sono nemmeno i «poveri cristiani perseguitati», che sono davvero i più derelitti perché abbandonati da tutti (anzitutto dal Vaticano). Ma sono possibilmente i migranti musulmani: non a caso quando Bergoglio andò nel campo profughi di Lesbo, dove c’erano diverse famiglie cristiane, portò a Roma con sé una famiglia di musulmani, non di cristiani. L’attuale vescovo di Roma non vede nessun problema nell'ondata migratoria musulmana in Italia e in Europa, ma i problemi ci sono. Enormi. Proprio in questi giorni si è saputo che Giovanni Paolo II - che viveva fenomeni mistici - ebbe una visione soprannaturale drammatica che riguardava il futuro dell’Europa. In tempi non sospetti, nel marzo 1993, confidò a un amico: «Ricordalo a coloro che tu incontrerai nella Chiesa del terzo millennio. Vedo la Chiesa afflitta da una piaga mortale. Più profonda, più dolorosa rispetto a quelle di questo millennio: si chiama islamismo. Invaderanno l’Europa. Ho visto le orde provenire dall’Occidente all’Oriente». A questo punto il papa fece la descrizione dei paesi: dal Marocco alla Libia all’Egitto e così via. Quindi aggiunse: «Invaderanno l’Europa… Voi, Chiesa del terzo millennio, dovrete contenere l’invasione. Ma non con le armi, le armi non basteranno, con la vostra fede vissuta con integrità». Sostituire Gesù con i migranti non sembra una fede integra, ma la resa totale, scrive Antonio Socci il 26 dicembre 2017
Filippo Facci anti-islam: palme e porte islamiche, Natale del cacchio, scrive il 17 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Quest' anno l'ambito premio "Genio di Natale" vede vincitori ex aequo: 1) L' autentico suq tunisino ricostruito nella piazza della Stazione Centrale di Milano, sì, proprio lì; 2) Le gigantesche luminarie a evidentissima forma di pene comparse nella piazza principale di Civitanova Marche, ottenute involontariamente (che forse è peggio) ricoprendo di lucine i tronchi delle palme e il rigonfiamento a cappella da cui il fogliame si diparte. I due vincitori strappano finalmente lo scettro all' ambigua e mai ben individuata scritta "Buon Natale un cazzo" situata presumibilmente in Roma (scritta nobilitata da una citazione letteraria nel romanzo "La scuola cattolica" di Edoardo Albinati) e in campo internazionale se la battono con le vecchie luminarie situate nella città di Zabrze (Polonia meridionale, vedi foto) le quali, al proteso corpo penico, corredavano anche un paio di evidenti attributi alla sua base. Ma torniamo ai vincitori di quest' anno. La genialata dura solo due giorni (finisce questa sera) e origina da una promozione dell'Ente turistico della Tunisia che "ha cambiato l'aspetto di Piazza Duca d' Aosta" e dove appunto è stato "allestito un piccolo e colorito suq. Dai loro banchi, artigiani e piccoli produttori tunisini inviteranno i visitatori ad avvicinarsi per scoprire manufatti, tessili e artigianali, e prodotti tipici attraverso i racconti delle tradizioni e dimostrazioni dal vivo". Che bello.
IL SUQ IN CENTRO. Ma ecco che le obiezioni e le battute si trovano a coincidere: ma proprio adesso, a Natale? Seconda domanda: ma non c' era già, proprio lì, a suo modo, una specie di suq tunisino dove gruppetti di immigrati ben educati si mischiavano a spacciatori e borseggiatori, tunisini pure quelli? Insomma: proprio lì e proprio adesso, si doveva fare questo scambio con l'Ente tunisino? Diciamo "proprio adesso" perché questo è il periodo natalizio - dicono - e l'idea che questa festività fosse ridotta a un gigantesco suq era già sufficientemente presente tra le nostre consapevolezze: non è che il centro di Milano o il quadrilatero della moda non siano agli effetti dei suq occidentali, ma sono i nostri suq, lasciateci almeno l'illusione di una supremazia cultural-consumistica. Diciamo "proprio lì", poi, perché da un lato la piazza della Stazione è già un suq africano disordinato e illegale (dalla merce contraffatta esposta a terra allo spaccio di droghe varie) anche se è vero che ai "commercianti" tunisini andrebbero aggiunti anche marocchini, algerini e libici: si attendono contatti coi rispettivi enti turistici; d' altro lato, stiamo parlando del crocevia ferroviario più internazionale del Paese, e un turista appena uscito dalla stazione potrebbe credere di essersi addormentato in carrozza per troppo tempo. Se poi prende la metro e scende in Piazza Duomo (facile) il turista vedrebbe anche il noto giardino di palme peraltro decisamente mal tenuto (nelle aiuole è pieno di rifiuti e piante morte) oltre a un sacco di venditori africani (abusivi) che non risulta facciano parte di un accordo con enti turistici, e soprattutto tra due giorni saranno ancora lì. Insomma: il nostro turista potrebbe pensare che Milano, da metropoli mitteleuropea, sia divenuta mittelafricana.
LE PENE DI CIVITANOVA. La maggioranza almeno ha ammesso l'errore, e non ha cercato - come alcuni - di additare un eccesso di malizia o addirittura di sostenere che «no, sembrano funghi»: come se certi funghi non sembrassero appunto dei peni. Sta di fatto che il giorno dell'accensione, un venerdì, in piazza XX settembre, sono rimasti tutti di sale: giganteschi peni ovunque, con l'aggravante che molte palme erano state completamente potate e sembravano un monumento a Rocco Siffredi. Finire nelle cronache nazionali è stato un attimo: «Meglio suscitare una sana risata che aumentare malessere e arrabbiature», ha cercato di metterla giù l'assessore. «L' errore ormai è stato fatto, si può sempre fare di meglio e in futuro faremo parlare di noi in altro modo». C' è da tremare. Tuttavia «abbiamo solo regalato un sorriso. Se alcuni per criticare la giunta si attaccano alle luminarie, significa che di altro non c' è da parlare». Cioè: a Civitanova Marche non c' è niente di cui parlare se non di luminarie a forma di cazzo. Filippo Facci
"I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale". Intervista HuffPost a Massimo Cacciari: "Le omelie di molti preti, spesso, sono delle lezioni di anti religione", scrive Nicola Mirenzi, Giornalista e blogger, il 25/12/2017 su "L'Huffington Post". La parola del Vangelo l'ha ascoltata fuori dal tempio: "Le Chiese sono diventate delle grandi scuole di ateismo. Nella gran parte di esse, la forza paradossale del verbo di Cristo viene trasformata in un discorso catechistico e ripetitivo, un piccolo feticcio consolatorio e rassicurante, un idoletto. È l'opposto di ciò che insegnava Gesù domandando ai suoi discepoli: 'Chi credete che io sia?'". Massimo Cacciari era ancora uno studente al secondo anno di liceo quando, tra lo Zarathustra di Nietzsche e le prime letture di Hegel, aprì le pagine del Nuovo Testamento: "Fu entusiasmante sentire la straordinarietà di quel testo, la bellezza di una storia che induce ad andare alla ricerca, senza certezze, rischiando. Al novanta per cento, i preti sono incapaci di rendere la potenza di quel racconto. Le loro omelie, spesso, sono delle lezioni di anti religione". Negli anni sessanta e settanta, mentre erano di moda i capelloni, Marx, i pantaloni a zampa d'elefante, Marcuse, l'eros e la civiltà, Kerouac, la Cina e Janis Joplin, Cacciari leggeva i testi della teologia cristiana: "Nelle riviste della sinistra non organiche al partito comunista – "Quaderni Rossi", "Contropiano" – discutevamo della Santa Romana Chiesa insieme a Giorgio Agamben, Mario Tronti, Giacomo Marramao. Avevamo idee diverse, ma condividevamo le stesse letture: tutte abbastanza eretiche". Il Natale degli alberi in pivvuccì, degli acquisti online e i centri commerciali aperti tutto il giorno; il Natale della neve luccicante incollata sulle vetrine, delle barbe bianche, delle renne e delle slitte, non lo scandalizza: "Basta sapere che la nascita di Cristo non ha niente a che vedere con quello che vediamo intorno a noi. Il Natale è diventato un festa per bambini e adulti un po' scemi. Non c'è da levare alti lai contro il consumismo. C'è solo da riflettere, meditando con sobrietà e disincanto". Nel suo libro, "Generare Dio" (Mulino), mostra – da laico – che nel mistero dell'incarnazione di Dio c'è un personaggio che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi, eppure non siamo stati ancora in grado di vedere nella sua interezza: Maria.
Perché, professore?
«Maria è stata pressoché ignorata anche dai filosofi che hanno interpretato l'Europa e la Cristianità, come Hegel e Schelling. Il discorso ha privilegiato il rapporto del padre con il figlio. Maria è stata ridotta a una figura di banale umiltà, un grembo remissivo e ubbidiente che si è fatto fecondare dallo spirito santo senza alcun turbamento».
Invece?
«Quando l'Arcangelo Gabriele le annuncia che concepirà e partorirà un figlio e che egli sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, Maria ha paura. Si ritrae, dubita, è assalita dall'angoscia, medita. Il suo sì non è affatto scontato. Nel momento in cui lo pronuncia, è un sì libero e potente, fondato sull'ascolto della parola. Perché Maria giunge a volere la volontà divina».
Nessuno se n'era accorto prima?
«Nel pensiero, solo pochi autori – penso a Baltasar – hanno riflettuto sulla figura di Maria. È nella pittura – nella grande pittura occidentale – che Maria si innalza al ruolo di protagonista assoluta. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui l'espressione figurativa è andata molto più in profondità del linguaggio».
Cosa riesce a mostrare?
«Che se si toglie alla nascita di Cristo la scelta di questa donna che accoglie nel suo ventre il figlio di Dio e il suo Logos, l'incarnazione diventa una commedia. Maria è libera. Anzi, di più: il suo libero donarsi all'ascolto è in realtà un'iper libertà».
Perché iper?
«Quando – nel giardino dell'Eden – Adamo mangia il frutto dell'albero della conoscenza obbedisce al proprio desiderio. La sua libertà è la libertà di soddisfare i propri impulsi. Maria, invece, riflette, s'interroga, soffre. Poi, fa la volontà dell'altro. La sua libertà è quella di far dono di sé. È come suo figlio: fa la volontà del padre. E qual è la libertà maggiore: quella che ti incatena a te stesso; oppure quella che ti libera dall'amor proprio?»
Ma la libertà può essere slegata da ciò che si desidera?
«Ma perché non si dovrebbe desiderare di donare se stessi agli altri? Perché non può essere questo l'oggetto del desiderio, anziché quello di soddisfare le proprie pulsioni?»
Possiamo riuscirci?
«Gesù, Maria, Francesco ci hanno dato degli esempi della libertà intesa come dono. È oltre umano seguirli? Può darsi. E può anche darsi che proprio qui s'incontrino la radicalità del messaggio cristiano e il super uomo di cui parlava l'anti cristiano Nietzsche: nell'impossibile».
Ma se è impossibile, perché provarci?
«Perché l'impossibile non è una fantasia, un gioco inutile e vano. L'impossibile è l'estrema misura del possibile. E, se non orienti la tua vita in quella direzione, rimarrai prigioniero del tuo tempo. È questo il messaggio di Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità».
Se non possiamo essere come lui, perché Cristo si è fatto uomo?
«Perché è necessario avere come misura qualcosa che ci oltrepassa per riuscire a spingerci altrove. Cristo non predicava nei templi: predicava fuori, nelle strade. I suoi discepoli dicevano: "È fuori". Nel senso: "È fuori di testa, è pazzo". Eppure, Gesù ha segnato un prima e un dopo nella storia dell'uomo, ha creato il mondo culturale e antropologico in cui viviamo. C'è qualcosa di più realistico di questo? Senza quell'impossibilità niente ci spingerebbe a uscire da noi, a ri-orientare diversamente le nostre vite».
Perché dovremmo farlo?
«Per liberare il nostro tempo dalle sue miserie. Più la nostra epoca ci rinserra dentro di essa, più servono grandi idee, pensieri limite, parole ultime. Sono le uniche cose che ci possono sradicare dal tempo in cui ci viviamo».
Come lo definirebbe?
«Osceno, nel senso letterale del termine: un tempo in cui tutto deve essere posto sulla scena: i nostri pensieri, le nostre fotografie, i nostro segreti. Niente deve stare in una zona scura. Invece, è proprio dal buio che proviene la luce che illumina e rivela. Pensi alla pittura d'Europa, la terra del tramonto: cosa raffigurerebbe senza il gioco dell'ombra?»
È tutto davvero così esposto?
«Al contrario. Quella della trasparenza è solo un'ideologia. Mai come oggi le potenze che governano il mondo sono state così nascoste. Al di là dell'apparenza, la nostra è l'epoca dell'occulto, dei poteri anonimi, di ciò che non si vede. Mentre, nel caso di Maria, la luce divina si copre d'ombra per manifestarsi nella realtà, nel nostro tempo l'oscuro si nasconde dietro la luminosità. Lucifero è negli inferi, però finge di essere portatore di chiarore. La nostra epoca è attraversata dallo spirito dell'anti-Cristo. Ci sono stati momenti in cui esso si è manifestato nella sua forma pura. Oggi, invece, circola mascherato».
Anche la politica avrebbe qualcosa da imparare da Maria?
«Maria è una figura della libertà, non è il santino che raccontano i preti. La sua humilitas è meditazione e ascolto. Se leggessero ancora, i politici potrebbero imparare anche da lei. Se non altro, per essere più consapevoli della storia in cui si collocano. Il dramma, però, è che c'è stata una completa divaricazione tra il sapere e il potere».
Per quel che riguarda le figure religiose, i cristiani non potrebbero aiutarli?
«I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale, smettendo di predicare la paradossalità del verbo».
Anche il Papa?
«Il discorso è più complesso. Francesco si inscrive nella tradizione ignaziana, dove l'etica della fede si coniuga alla volontà di potenza e l'assoluta dirittura morale ed etica si combina a una grande capacità di catturare il mondo nelle proprie reti».
Perché neanche le femministe hanno riflettuto su Maria?
«Perché anche loro – benché protagoniste dell'ultima vera rivoluzione degli ultimi decenni – sono rimaste vittime della lettura maschilista dell'incarnazione. Hanno guardato Maria come un figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c'è oltre».
Non c'è nessun problema di coerenza, occorre tenere assieme ciò che assieme non può stare.
Santo Stefano, perché il 26 dicembre si festeggia il primo martire cristiano
Santo Stefano è il primo Martire cristiano. Viene celebrato il 26 dicembre, giorno dopo il Natale, scrive il 26 dicembre 2017 "Il Corriere della Sera". Il giorno di Santo Stefano è una festa cristiana celebrata il 26 dicembre dalla Chiesa cattolica e da alcune Chiese protestanti. La Chiesa ortodossa lo celebra il 27 dicembre. Santo Stefano è stato il primo martire del cristianesimo secondo il Nuovo Testamento. Intorno all’anno 36 d.C. fu accusato di blasfemia dal sinedrio e condannato alla lapidazione. Uno dei suoi principali inquisitori fu Saulo di Tarso, che poi diventerà San Paolo. Il giorno di Santo Stefano è una festa nazionale in Austria, Città del Vaticano, Croazia, Danimarca, Germania, Irlanda, Italia, Romania, San Marino e Svizzera italiana. In Italia è festa nazionale dal 1947. La Chiesa cattolica lo celebra come festa religiosa, ancorché non di precetto, come succede invece in Germania e altri Paesi germanofoni.
Niente Adeste Fideles a scuola: "È troppo cristiana". Il brano della tradizione natalizia “Adeste fideles”? "Troppo cristiano, non si può suonare". La pensa così, almeno, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Casazza, la professoressa Maria Antonia Savio, che, nell’imminenza del consueto appuntamento annuale della festa della scuola, ha fatto pervenire i suoi rilievi al Corpo parrocchiale musicale che sarà protagonista dell’appuntamento, riservato ai ragazzi e alle loro famiglie, scrive Mario Valenza Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Il brano della tradizione natalizia “Adeste fideles”? "Troppo cristiano, non si può suonare". La pensa così, almeno, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Casazza, la professoressa Maria Antonia Savio, che, nell’imminenza del consueto appuntamento annuale della festa della scuola, ha fatto pervenire i suoi rilievi al Corpo parrocchiale musicale che sarà protagonista dell’appuntamento, riservato ai ragazzi e alle loro famiglie. Una presa di posizione, quella della preside, che naturalmente non ha mancato di suscitare polemiche nel paese bergamasco. "Cosa significa “troppo cristiano”?", sbotta qualche anziano nella piazza all’ombra del campanile della chiesa. "Dovremo forse chiedere il permesso a qualcuno per intonare i nostri canti di Natale? E un concerto di Natale se non è cristiano cosa è?". Secondo la dirigente Savio, bisogna attingere a un repertorio meno legato alla sensibilità cristiana, visto che l’istituto è frequentato anche da figli di immigrati. Una spiegazione che tuttavia appare poco convincente. Così come la preside appare più realista del re, visto che nessuno tra le famiglie degliu alunni aveva sollevato il problema. "Ci è stato fatto presente - dice Silvia Micheli, 28enne componente del consiglio direttivo della banda al Giorno - che, siccome Casazza è un paese multiculturale, occorre non urtare la sensibilità di nessuno. La richiesta ci ha un po’ sorpresi perché noi siamo una banda parrocchiale. In ogni caso, essendo ospiti, abbiamo deciso, senza polemica, di optare per “Jingle bell rock”, meno connotato". Infine il consigliere regionale della Lega Nord, Silvana Santisi Saita, ha subito rilanciato la notizia sulla propria pagina Facebook rilevando che "La scuola, che dovrebbe formare e integrare, dopo il Presepe adesso censura anche la musica".
Da san Nicola a Santa Claus: la vera storia di Babbo Natale. Come un severo vescovo proveniente dall'attuale Turchia è diventato il gioviale dispensatore di doni natalizi che cala dal Polo Nord, scrive Brian Handwerk su "Nationalgeographic.it" il 24 dicembre 2015. Tutti i bambini lo sanno: Babbo Natale viene dal Polo Nord, è barbuto e sovrappeso e la notte tra il 24 e il 25 dicembre porta i regali ai piccoli di tutto il mondo viaggiando su una slitta trainata da renne. Ma la storia di questo amato personaggio del folklore è lunga e affascinante quasi come la sua leggenda. Babbo Natale nasce sulle rive del Mediterraneo, si evolve nell’Europa del Nord e assume la sua forma definitiva (Santa Claus) nel Nuovo Mondo, da dove poi si ridiffonde quasi in ogni parte del globo. In principio era san Nicola, un greco nato intorno al 280 d.C. che divenne vescovo di Mira, cittadina romana del sud dell’Asia Minore, l’attuale Turchia. Nicola si guadagnò la reputazione di fiero difensore della fede cristiana in anni di persecuzioni e trascorse molti anni in prigione finché, nel 313, Costantino emanò l’Editto di Milano che autorizzava il culto. L’iconografia ha tramandato diverse sue immagini, ma nessuna somiglia troppo all’omone allegro, sovrappeso e dalla barba bianca che oggi attribuiamo a Babbo Natale. Catherine Wilkinson, un’antropologa forense della University of Manchester, ha cercato di ricostruirne il vero aspetto basandosi sui resti umani conservati nella cripta della Basilica di san Nicola di Bari, dove le presunte reliquie del santo furono portate nel 1087 da un gruppo di marinai e sacerdoti baresi che era andato fino a Myra per impadronirsene. Quando, negli anni Cinquanta del secolo scorso, la cripta fu restaurata, il cranio e le ossa del santo furono accuratamente misurate, fotografate e radiografate. Wilkinson ha esaminato questi dati alla luce delle moderne tecniche dell’antropologia forense, aiutandosi con un software di ricostruzione facciale e aggiungendo dettagli dedotti dalle fattezze delle popolazioni mediterranee dell’epoca. Il risultato – un uomo anziano, dalla pelle olivastra, il naso rotto forse nel corso delle persecuzioni, e barba e capelli grigi – è stato illustrato nel documentario della BBC The Real Face of Santa. Dopo la morte (avvenuta il 6 di dicembre di un anno imprecisato alla metà del IV secolo), la figura del santo divenne popolarissima in tutta la cristianità, grazie anche ai tanti miracoli che gli furono attribuiti. Molte professioni (ad esempio i marinai), città e intere nazioni lo adottarono e ancora lo venerano come loro patrono. Ma perché diventò anche protettore dei bambini e mitico dispensatore di doni? La ragione, spiega Gerry Bowler, storico e autore del libro Santa Claus: A Biography, sta soprattutto in due leggende che si diffusero in Europa intorno al 1200. La prima, e più nota, racconta del giovane vescovo Nicola che salva tre ragazze dalla prostituzione facendo recapitare in segreto tre sacchi d’oro al padre, che così può salvarsi dai debiti e fornire una dote alle figlie. Nella seconda, Nicola entra in una locanda il cui proprietario ha ucciso tre ragazzi, li ha fatti a pezzi e li ha messi sotto sale, servendone la carne agli ignari avventori. Nicola non si limita a scoprire il delitto, ma resuscita anche le vittime: “ecco uno dei motivi che lo resero patrono dei bambini”, commenta Bowler. Resta da spiegare come questo santo mediterraneo si sia spostato al Polo Nord e sia stato associato al Natale. In realtà per molti secoli il culto di san Nicola – e la tradizione di fare regali ai bambini - si continuò a celebrare il 6 dicembre, come avviene tuttora in diverse zone dell’Italia del Nord e dell'arco alpino, fino in Germania. Col tempo al santo vennero attribuite alcune caratteristiche tipiche di divinità pagane preesistenti, come il romano Saturno o il nordico Odino, anch’essi spesso rappresentati come vecchi dalla barba bianca in grado di volare. San Nicola era anche incaricato di sorvegliare i bambini perché facessero i buoni e dicessero le preghiere. Ma la Riforma protestante, a partire dal Cinquecento, abolì il culto dei santi in gran parte dell’Europa del Nord. “Era un bel problema”, commenta Bowler. “A chi far portare i doni ai bambini?”. In molti casi, risponde lo studioso, il compito fu attribuito a Gesù Bambino, e la data spostata dal 6 dicembre a Natale. “Ma il piccolo Gesù non sembra in grado di portare troppi regali, e soprattutto non può minacciare i bambini cattivi. Così gli fu spesso affiancato un aiutante più forzuto, in grado anche di mettere paura”. Nacquero così nel mondo germanico alcune figure a metà tra il folletto e il demone. Alcune, come i Krampus, servono da aiutanti dello stesso san Nicola; in altre il ricordo del santo sopravvive nel nome, come Ru-klaus (Nicola il Rozzo), Aschenklas (Nicola di cenere) o Pelznickel (Nicola il Peloso). Erano loro a garantire che i bambini facessero i buoni, minacciando punizioni come frustate o rapimenti. Per quanto possa sembrare strano, anche da questi personaggi nasce la figura dell’allegro vecchietto in slitta. Gli immigrati nordeuropei portarono con sé queste leggende quando fondarono le prime colonie nel Nuovo Mondo. Quelli olandesi, rimasti affezionati a san Nicola, diffusero il suo nome, "Sinterklaas". Ma nell’America delle origini il Natale era molto diverso da come lo consideriamo oggi. Nel puritano New England era del tutto snobbato, mentre altrove era diventato una specie di festa pagana dedicata soprattutto al massiccio consumo di alcol. “Era così anche in Inghilterra”, spiega Bowler. “E non c’era nessun magico dispensatore di doni”. Poi, nei primi decenni dell’Ottocento, diversi poeti e scrittori cominciarono a impegnarsi per trasformare il Natale in una festa di famiglia, recuperando anche la leggenda di san Nicola. Già in un libro del 1809, Washington Irving immaginò un Nicola che passava sui tetti con il suo carro volante portando regali ai bambini buoni; poi fu la volta di un libretto anonimo in versi, The Children’s Friend, con la prima vera apparizione di Santa Claus, associato al Natale “ma privato di qualsiasi caratteristica religiosa, e vestito nelle pellicce tipiche dei buffi portatori di doni germanici”, spiega Bowler. Questo Santa porta doni ma infligge anche punizioni ai bambini cattivi, e il suo carro è trainato da una sola renna. Le renne diventano otto e il carro diventa una slitta nella poesia A Visit From St. Nicholas, scritta nel 1822 da Clement Clark Moore per i suoi figli ma diventata subito “virale”. Per molti decenni Santa Claus viene rappresentato con varie fattezze e con vestiti di varie forme e colori. Solo verso la fine del secolo, grazie soprattutto alle illustrazioni di Thomas Nast, grande disegnatore e vignettista politico, si impone la versione “standard": un adulto corpulento, vestito di rosso con i bordi di pelliccia bianca, che parte dal Polo Nord con la sua slitta trainata da renne e sta attento a come si comportano i bambini. Una volta standardizzata (grazie anche alle pubblicità della Coca-Cola, nota del trad. it) la figura di Santa Claus torna in Europa in una sorta di migrazione inversa, adottando nomi come Père Noel, Father Christmas o Babbo Natale e sostituendo un po’ ovunque i vecchi portatori di doni. A diffonderla sono anche i soldati americani sbarcati durante la Seconda mondiale, e l’allegro grassone finisce per simboleggiare la generosità degli USA nella ricostruzione dell’Europa occidentale. Naturalmente, c'è anche chi nel Babbo Natale di origine yankee vede nient'altro che il simbolo della deriva consumista del Natale. Altri lo rifiutano o lo snobbano semplicemente in nome della tradizione, come i non pochi italiani ancora affezionati a santa Lucia, alla Befana o al vecchio, originale san Nicola.
Greccio, il primo presepe della storia è italiano. Per la prima volta, San Francesco d'Assisi rappresentò la natività di Gesù in una grotta vicino a Greccio (Rieti), scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 25/12/2015 su "Il Giornale". Lo hanno relegato in un angolo. Lo hanno chiuso in un cassetto. Messo sotto chiave negli armadietti scolastici. Hanno detto essere solo un simbolo confessionale. Ma il presepe è anche un segno culturale. E’ parte integrante della tradizione italiana. Tradizione che abbiamo esportato in tutto il mondo. Il primo presepe della storia, infatti, è stato realizzato in Italia. Per capire i perché della grotta, del bue e dell'asinello, siamo andati a Greccio, un piccolo centro in provincia di Rieti (Lazio). Il luogo dove venne rappresentata per la prima volta la nascita di Gesù. San Francesco d'Assisi arriva a Greccio nel 1209. Come d'abitudine andò ad abitare in un luogo isolato, da eremita, sul Monte Lacerone a qualche chilometro dal castello della città. Dopo alcuni anni di predicazione, la popolazione del luogo comprese la santità di quell’uomo. Il castellano di Greccio, Giovanni Velita, ne divenne amico sincero, tanto da chiedergli di avvicinarsi alla città per permettere a tutti di andarlo ad ascoltare. La leggenda vuole che per scegliere il luogo della nuova dimora, San Francesco si affidò ad un bambino di quattro anni. Al quale venne fatto lanciare un tizzone di fuoco, che cadde in una località piena di grotte. Quelle stesse grotte al cui interno venne rappresentata la natività e che ora ricorrono in tutti i presepi del mondo. Il desiderio di rievocare la nascita di Gesù viene a Francesco durante un viaggio in Palestina. Quando nell’autunno del 1223 si reca a Roma da papa Onorio III, chiede al Santo Padre di poterla realizzare. Ottenuto il permesso, San Francesco torna in quella Greccio che gli “ricordava Betlemme” e disse a Giovanni Velita: “Voglio celebrare teco la notte di Natale. Scegli una grotta dove farai costruire una mangiatoia ed ivi condurrai un bove ed un asinello, e cercherai di riprodurre, per quanto è possibile la grotta di Betlemme! Questo è il mio desiderio, perché voglio vedere, almeno una volta, con i miei occhi, la nascita del Divino infante”. E così, il 24 dicembre 1223, viene messa in scena la nascita di Gesù bambino. C'erano la grotta, il bue e l'asinello. Nessuno dei presenti prese il ruolo di Giuseppe e Maria, perché Francesco non voleva si facesse "spettacolo" della nascita di Gesù. Solo successivamente nei presepi del mondo sono stati aggiunti gli altri personaggi. Il biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, scrisse che uno dei presenti vide il bambinello di terracotta prendere vita. Da questi momenti trae origine il tradizionale presepio, poi tramandato e esportato in tutto il mondo cristiano. A Greccio, ogni anno, viene messo in scena il ricordo di questo evento. Non un semplice presepe vivente, ma la rievocazione dei momenti che hanno spinto San Francesco a realizzare la natività di Gesù. Le tradizioni rimangono vive solo se le si coltivano. Chiudendole in un cassetto si finisce per dimenticarle. Un simbolo che dal lontano 1223 viene esposto in tutti i luoghi d’Italia e d’Europa non può essere abbandonato con la scusa di non “offendere” le altre religioni. Oppure, ed è ancor più grave, in nome della laicità dello Stato. Il presepe è un simbolo culturale. E come tale va difeso.
Il Presepe oggi. San Francesco e la storia di una tradizione natalizia, scrive “Frati Cappuccini”. Chi ha inventato il Presepe? Perché lo ha fatto? Che c’entra San Francesco con la storia del presepe? Che significato ha? Perché una tale tradizione resiste nel tempo? Per conoscere e approfondire la storia del Presepe e la sua attualità anche nel mondo moderno dell’oggi, ZENIT ha intervistato Padre Pietro Messa Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum.
Che c’entra San Francesco con il presepio?
«Nel 1223, esattamente il 29 novembre, papa Onorio III con la bolla Solet annuere approvò definitivamente la Regola dei frati Minori. Nelle settimane successive Francesco d'Assisi si avviò verso l'eremo di Greccio dove espresse il suo desiderio di celebrare in quel luogo il Natale. Ad uno del luogo disse che voleva vedere con gli "occhi del corpo" come il bambino Gesù, nella sua scelta di abbassamento, fu adagiato in una mangiatoia. Quindi stabilì che fossero portati in un luogo stabilito un asino ed un bue - che secondo la tradizione dei Vangeli apocrifi erano presso il Bambino - e sopra un altare portatile collocato sulla mangiatoia fu celebrata l'Eucaristia. Per Francesco come gli apostoli videro con gli occhi del corpo l'umanità di Gesù e credettero con gli occhi dello spirito alla sua divinità, così ogni giorno mentre vediamo il pane ed il vino consacrato sull'altare, crediamo alla presenza del Signore in mezzo a noi. Nella notte di Natale a Greccio non c'erano né statue e neppure raffigurazioni, ma unicamente una celebrazione eucaristica sopra una mangiatoia, tra il bue e l'asinello. Solo più tardi tale avvenimento ispirò la rappresentazione della Natività mediante immagini, ossia il presepio in senso moderno».
Perché lo ha fatto?
«Francesco era un uomo molto concreto e per lui era molto importante l'Incarnazione, ossia il fatto che il Signore fosse incontrabile mediante segni e gesti, prima di tutto i Sacramenti. La celebrazione di Greccio si colloca proprio in questo contesto».
Come si spiega la popolarità e la diffusione dei presepi?
«Francesco morì nel 1226 e nel 1228 fu canonizzato da papa Gregorio IX; fin da quel momento la sua vicenda fu narrata evidenziandone la novità e, grazie anche all'opera dei frati Minori, la devozione verso il Santo d'Assisi si diffuse sempre più e in modo capillare. Di conseguenza anche l'avvenimento del Natale di Greccio fu conosciuto da molte persone che desiderarono raffigurarlo e replicarlo, iniziando a rappresentare e diffondere il presepio. In questo modo divenne patrimonio della cultura e fede popolare».
Che significato ha e perché la Chiesa invita i fedeli a rappresentare, costruire, tenere presepi in casa e in luoghi pubblici?
«La Chiesa ha sempre dato importanza ai segni, soprattutto liturgico sacramentali, sorvegliando però che non sconfinassero in una sorta di superstizione. Alcuni gesti furono incentivati perché ritenuti adatti per la diffusione dell'annuncio evangelico e tra questi si segnala proprio il presepio nella cui semplicità indirizza tutto alla centralità di Gesù».
Quale rapporto tra il presepe e l’arte? Perché tanti artisti lo hanno dipinto, scolpito, raccontato, ….?
«Proprio per la sua plasticità il presepio si presta a rappresentazioni in cui il particolare può diventare segno della concretezza della quotidianità della vita. E proprio tali particolari della vita umana - i vestiti dei pastori, le pecore che brucano l'erba, il fanciullo attaccato alla gonna di mamma, eccetera - sono stati rappresentati anche come ulteriori indizi del realismo cristiano che scaturisce proprio dall'Incarnazione».
Cosa pensa della devozione popolare nei confronti del presepe ancora molto diffusa tra la gente? Va incoraggiata o limitata?
«Come san Francesco ogni uomo e donna ha bisogno di segni; alcuni risultano ormai incomprensibili mentre altri per la loro semplicità e immediatezza hanno ancora un'efficacia. Tra questi possiamo porre il presepe e quindi ben venga la sua diffusione».
Il Presepe. La storia, scrive "Proloco Greccio". Betlemme e Greccio sono due nomi inseparabili nei ricordi natalizi di ogni anno poiché, se a Betlemme si operò il mistero della divina incarnazione del Salvatore del Mondo, a Greccio, per la pietà di San Francesco di Assisi, ebbe inizio, in forma del tutto nuova, la sua mistica rievocazione. La prima volta che San Francesco venne a Greccio fu intorno al 1209. In quegli anni la popolazione di Greccio era esposta a grave flagello: la zona infatti era infestata da grossi lupi che divoravano anche le persone, ed ogni anno campi e vigneti erano devastati dalla grandine. “E accadde, per disposizione divina e grande ai meriti del padre Santo, che da quell'ora cessassero le calamità”. Egli non abitò nel castello, ma si costruì una povera capanna tra due carpini sul Monte Lacerone, detto appunto di San Francesco, monte alto 1204 mt., ove sorse nel 1712 una cappellina Commemorativa. San Francesco da lì si recava, durante la giornata, a predicare alle popolazioni della campagna. Gli abitanti di Greccio presero ad amare Francesco e giunsero a tale punto di riconoscenza, per la sua grande opera di rigenerazione, da implorarlo perché non abbandonasse i loro luoghi e si trattenesse sempre con loro. Tra coloro che andavano a sentire la parola del piccolo frate, c'era Giovanni Velita, il castellano di Greccio che divenne un “innamorato” del Santo. Dal 1217, Giovanni divenne uno dei migliori amici di Francesco e si prodigò per onorare nel miglior modo possibile quest' uomo, che già aveva manifestato i segni della santità. E mentre Francesco dimorava nella misera capanna ebbe le visite di Giovanni Velita, il quale, un po' grosso di costituzione, un giorno gli chiese di scegliere una dimora più vicina per confortare lui e il suo popolo con la sua parola. Francesco comprese la sincerità di tale proposta e l'accettò volentieri dicendo che avrebbe rimesso la scelta della nuova dimora, non alla sua volontà, ma ad un tizzo lanciato in aria da un fanciullo. La leggenda o verità non accertata, racconta che trovato un fanciullo di quattro anni lo si invitò a lanciare il tizzo in aria. Obbedì il fanciullo: "et el focoso tizzone, si come un dardo dall'arco scoccato, volando veloce se ne andò ad incendiare una selvaggia selva, sopra da un monticello, il quale d'appartenenza era del Velita, et tutto questo fece, alla lunghezza de uno bon miglio et più". Stupiti i Grecciani di tanto miracolo si recarono, con Francesco e con Giovanni Velita, al luogo ove era caduto il tizzo. Questa località ripida e scoscesa fu scelta come nuova dimora del Santo. Francesco amava l'eremo di Greccio, e aveva una predilezione anche per gli abitanti di quella terra, per la loro povertà e semplicità, perciò si recava spesso a soggiornare lì, attirato inoltre da una celletta estremamente povera ed isolata dove il Padre santo amava raccogliersi. A proposito degli uomini di Greccio soleva dire tutto felice ai frati: " non esiste una grande città dove si sono convertiti al Signore tante quante ne ha un paese così piccolo." Nell'autunno del 1223 Francesco si trovava a Roma in attesa dell'approvazione della Regola definitiva scritta per i suoi frati e presentata al Pontefice Onorio III°. Il 29 Novembre di detto anno ebbe la gioia di avere tra le mani la regola munita di bolla pontificia. Siamo ormai alle porte dell'inverno e un pensiero assillante dominava la mente di Francesco: l'avvicinarsi della ricorrenza della nascita del Redentore. Il poverello di Cristo, nella sua innata semplicità si fece audace, e durante l'udienza pontificia, concessagli per lo scopo suddetto, umilmente chiese al Papa la licenza di poter rappresentare la natività. Infatti, dopo il viaggio in Palestina, Francesco, rimasto molto impressionato da quella visita, aveva conservato una speciale predilezione per il Natale e questo luogo di Greccio, come dichiarò lui stesso, gli ricordava emotivamente Betlemme. Tormentato dal vivo desiderio di dover celebrare quell’anno, nel miglior modo possibile, la nascita del Redentore, giunto a Fonte Colombo, mandò subito a chiamare Giovanni Velita, signore di Greccio, e così disse: "Voglio celebrare teco la notte di Natale. Scegli una grotta dove farai costruire una mangiatoia ed ivi condurrai un bove ed un asinello, e cercherai di riprodurre, per quanto è possibile la grotta di Betlemme! Questo è il mio desiderio, perché voglio vedere, almeno una volta, con i miei occhi, la nascita del Divino infante." Il cavaliere Velita aveva quindici giorni per preparare quanto Francesco desiderava e tutto ordinò con la massima cura ed " il giorno della letizia si avvicinò e giunse il tempo dell'esultanza!". Da più parti, Francesco aveva convocato i frati e tutti gli abitanti di Greccio. Dai luoghi più vicini e lontani mossero verso il bosco con torce e ceri luminosi. Giunse infine il Santo di Dio, vide tutto preparato e ne gode. Greccio fu così la nuova Betlemme! Con somma pietà e grande devozione l'uomo di Dio se ne stava davanti al presepio, con gli occhi in lacrime e il cuore inondato di gioia. Narra Tommaso da Celano: "fu talmente commosso nel nominare Gesù Cristo, che le sue labbra tremavano, i suoi occhi piangevano e, per non tradire troppo la sua commozione, ogni volta che doveva nominarlo, lo chiamava il Fanciullo di Betlemme. Con la lingua si lambiva le labbra, gustando anche col palato tutta la dolcezza di quella parola e a guisa di pecora che bela dicendo Betlemme, riempiva la bocca con la voce o meglio con la dolcezza della commozione". E narrasi ancora come vedesse realmente il bambino sulla mangiatoia, scuotersi come da un sonno tanto dolce e venirgli ad accarezzare il volto. Un cavaliere di grande virtù e degno di Fede, il signore " Giovanni da Greccio" asserì di aver visto quella notte un bellissimo bambinello dormire in quel presepio ed il Santo Padre Francesco stringerlo al petto con tutte e due le braccia. La narrazione della visione di questo devoto cavaliere è resa credibile non solo dalla santità di colui che la vide con i suoi occhi, ma è confermata anche dai miracoli che ne seguirono: come quello della paglia di quel presepio, che serviva per sanare in modo prodigioso le malattie degli animali ed ad allontanare le pestilenze, per la misericordia del Signore. Così ebbe origine il tradizionale Presepio che si costruisce in tutto il mondo Cristiano, per ricordare la nascita del redentore.
Il Consumismo natalizio che ci unisce, dove gli ignoranti vogliono dividerci, scrive Barbara Di il 25 dicembre 2015 su "Il Giornale". Il Natale a Mauritius è una splendida festa che tanti dovrebbero vivere prima di sproloquiare di tolleranza accecati dall’ignoranza. Vedere cattolici, cinesi, indù, tamil, protestanti, musulmani passeggiare allegramente e scambiarsi gli auguri in un’atmosfera gioiosa forse gli farebbe capire come le persone siano molto più intelligenti di loro, che vorrebbero insegnarci a vivere secondo precetti forzati e innaturali. Tutti con qualcosa di rosso addosso, dai creoli con il cappello di Babbo Natale, alle indiane con il sari sgargiante fino alle musulmane con il chador scarlatto che ci prenderebbero per matti se sentissero Boldrini, presidi, sindaci e compagnia ignorante vietarci di festeggiare o di farci gli auguri per una presunta offesa nei loro confronti, semmai si offenderebbero se non ricambiassimo i loro sorridenti Joyeux Noël. Questo piccolo paradiso nell’Oceano Indiano ha tanto da insegnare al resto del mondo in tema di tolleranza, che già è una parola sbagliata, peraltro, perché tollero ciò che in fondo non sopporto. Qui hanno invece imparato la vera convivenza basata sul rispetto reciproco di popoli tanto diversi quanto uniti dal desiderio di stare tutti bene in una Nazione che amano. E una delle basi di questo rispetto ritengo nasca proprio dal fatto che le feste religiose di ciascuno sono considerate festività nazionali, dalla Pasqua al Cavadee, al Diwali, alla fine del Ramadan, al Capodanno Cinese, fino appunto alla più amata, il Natale. Tutti festeggiano, tutti rispettano le usanze altrui, nessuno si sognerebbe di vietarle perché questa sì che sarebbe una mancanza di rispetto. E d’altro canto, che il Natale sia diventato una festa così sentita in tutto il mondo lo deve ad un motivo che è esattamente l’opposto di quanto professa questa specie di Pa-pauperista: il consumismo. Perché il Natale è la festa dei bambini, della frenesia dell’attesa di Santa Klaus, della gioia impareggiabile nei loro occhi quando scartano i regali, di quel puro egoismo interiore psicologico che questa stupida cultura socialista e politicamente corretta ci permette di esprimere solo da piccoli, senza farci sentire sbagliati. Siamo esseri umani perché amiamo il piacere di soddisfare i nostri desideri psicologici e ci distinguiamo dagli animali, abbiamo creato la civiltà, ci siamo evoluti prorio perché non ci accontentiamo di appagare solo i bisogni essenziali e materiali. Il Natale, coi suoi cenoni carichi di prelibatezze per l’olfatto ed il palato, con i regali che appagano tutti i nostri sensi, è proprio la gioia del donare e del ricevere, che grazie all’empatia raddoppia il piacere. Quel piacere, quella ricerca della felicità grazie ai meritati guadagni del proprio lavoro che non a caso è la bestia nera di qualsiasi regime autoritario, statalista e integralista poco cambia, perché trasforma i sudditi soggiogabili in cittadini ambiziosi che lottano, lavorano, producono per essere liberi di soddisfare tutti i propri desideri senza che nessun governante o sacerdote possa imporglieli o reprimerglieli. Ecco perché il modo migliore per combattere qualsiasi fondamentalismo religioso non passa dalla tolleranza vigliacca, ma dal saper mostrare al mondo quanto sappiamo trarre piacere da tutto ciò che ci circonda e che ci possiamo permettere grazie al nostro lavoro, dal più effimero al più lussuoso dei desideri. In fondo, quindi, se il Natale – non importa perché o grazie a chi, se al Santa Klaus della Coca-Cola o a San Nicola – ormai è tanto amato da tutti, atei o credenti di ogni religione, è perché non è altro che la Festa della Libertà. Per questo auguro a tutti un Felice Natale, che vi porti tutti i piaceri che desiderate.
Ecco perché è sbagliato cancellare il Natale (anche per gli islamici). Ripensare al 2015 significa ripensare a un anno in cui il dilagare di una guerra, militare e ideologica, ha interessato ognuno di noi, scrive Luca Steinmann Venerdì 25/12/2015 su "Il Giornale". Natale, un attimo di pace. Natale, periodo di riconciliazione. Oggi come ieri, per i fedeli come per i non credenti, questo momento dell’anno va ad assumere un significato trasversale, che evade la dimensione meramente religiosa: ogni Natale le famiglie si riuniscono, le persone si ritrovano in un momento staccato e lontano dalla frenesia quotidiana e dai problemi che hanno accompagnato i mesi precedenti. Per molti è un’occasione di riflessione e di confronto con l’anno che si sta per chiudere, con le scelte che in questo arco di tempo sono state prese o subite e con le conseguenze che esse hanno avuto sulle proprie persone e sulle proprie storie. Ripensare al 2015 significa ripensare a un anno in cui il dilagare di una guerra, militare e ideologica, ha interessato ognuno di noi. Perché nessuno che viva nella società occidentale può essere immune dal cambiamento che questa sta subendo a seguito dell’inasprimento di uno scontro che ha visto nelle due stragi di Parigi, quella di Charlie Hebdo e del Bataclan, i suoi momenti più emblematici. Uno scontro sanguinoso dichiarato da esponenti di due diversi mondi che, in nome di due religioni considerate contrapposte, si sono posti come portavoce della totalità dei propri fedeli e hanno dichiarato di voler esportare il proprio modello di società e di vita dove esso non è ancora presente. Così, se da una parte l’Occidente ‘cristiano’ già da tempo bombarda i territori musulmani in nome del progresso, dall’altra i terroristi dell’Isis hanno portato la propria guerra in terra europea in nome di Allah. Da una parte come dall’altra è stato invocato lo stesso messaggio: che si tratta di una guerra tra religioni, di uno scontro di civiltà tra Islam e Cristianesimo, di una battaglia tra bene e male. E questo Natale, in quanto festa cristiana, è stato da alcuni considerato come un momento per inasprire questo scontro. Generando, da una parte come dall’altra, sentimenti di rabbia, di emozione, di sfiducia, di diffidenza, di paura per il futuro. Siamo nel pieno di un disordine che non sembra volersi arrestare. E le guerre che l’Europa in passato ha già vissuto non si sono mai concluse fino alla vittoria totale di una parte sull’altra. Interrompendosi però solo in un’occasione: proprio durante il Natale. Nel 1914, per esempio, i soldati tedeschi e inglesi che si combattevano sul fronte occidentale durante la Grande Guerra dichiararono un inufficiale cessate il fuoco, celebrando comuni cerimonie religiose e di sepoltura dei caduti. Solo lo scorso anno, invece, l’esercito ucraino intento a combattere nella città Donetsk, si è accordato con i ribelli filo-russi per una breve tregua natalizia. E’ possibile, dunque, che anche il Natale del 2015 diventi un momento di tregua anche dello scontro di civiltà? Secondo Niyazi Oktem, professore dell’Università di Istanbul, non solo è possibile, ma strettamente necessario. Senza mai dimenticare che la diversità di religione è una delle cause principali dei conflitti internazionali, spiega, va fatto sapere che l’Islam riconosce come sacro il Natale e i suoi protagonisti. Esso, infatti, concepisce sia l’Antico sia il Nuovo Testamento come testi sacri, oltre che tutti i profeti in essi menzionati. Soprattutto la Vergine Maria e suo figlio godano di una considerazione del tutto speciale: menzionati in 100 versetti del Corano, vengono indicati come modelli di retta condotta e di verità. Per questo le celebrazioni cristiane del Natale sono un momento di pace anche per i musulmani. E per questo lo sfruttamento del Natale come occasione per attaccare i musulmani da parte occidentale - e vice versa - è un insulto a entrambe le fedi. Abolire la celebrazione del Natale, dunque, significa cancellare il più importante punto d'incontro tra le due religioni. Ridurre o limitare le festività natalizie significa ridurre anche ciò che gli islamici considerano come sacro nel Cristianesimo. Trasformare questo Natale in uno strumento di battaglia per attaccare un’altra fede farebbe altrettanto male. Da una parte come dall’altra.
Così hanno ucciso il Natale: ecco le tradizioni cancellate. Dalle scuole alla famiglia, ormai il Natale ha perso il suo vero significato. Un modo per estirpare le radici della nostra cultura, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 25/12/2015 su "Il Giornale". “La tradizione - diceva Ezra Pound - è una bellezza da conservare, non un mazzo di catene per legarci”. Un filo rosso che lega la comunità, che unisce le persone intorno ad un sistema di valori. Affermare che il cristianesimo non ha permeato la vita dell’Occidente è (lecitamente) sciocco, eppure quel filo rosso è stato tranciato. Di netto. Con un obiettivo preciso: estirpare le radici cristiane dell’Europa e sostituirle con multiculturalismo, globalismo, buonismo. Tra tutti i simboli della cristianità, il Natale è forse il più rappresentativo. Senza rendercene conto, abbiamo abbandonato (o ci hanno fatto abbandonare) parole, canti, emblemi e gesti dal significato cristiano. Tanto che a stento le giovani generazioni ne conservano i ricordi. Proviamo a ripercorrere le tradizioni dimenticate. E gli attacchi che gli sono stati rivolti. L’enciclopedia Treccani la definisce come la “festa della Natività di Gesù Cristo”. Sembra scontato, ma non lo è. Per fare un esempio, il preside della scuola "Iqbal Masih" di Trieste ha affermato che “il Natale non è solo una festa cristiana”. Non solo. Nella sua ultima pubblicità, la nota casa di moda svedese "H&M" ha sostituito “Merry Christmas” con “buone vacanze”. Escludendo così ogni riferimento alla natività del bambinello. Non c’è probabilmente persona nata nel secolo scorso che non abbia seguito nella sua giovinezza un calendario d’Avvento. Circa 24 caselle da aprire una volta al giorno, dall’inizio del "tempo dell’attesa” fino al giorno di Natale. La tradizione sorge nel Nord Europa e ad inventarlo nei primi anni del 1900 sarebbe stato Gerhard Lang, proprietario di una stamperia di Monaco. La sua stampa con 24 caselle non fece altro che istituzionalizzare una pratica diffusa tra le donne del luogo per rendere più piacevole ai bambini l’attesa della nascita di Gesù. Spesso al dolcetto veniva allegata anche una frase della Bibbia. Ebbene: sono poche, ormai, le famiglie che ne posseggono uno. Se poi lo si cerca al supermercato, è (quasi) impossibile trovarne la versione “cristiana”. Il più di moda di quest’anno raffigura “Masha e l’Orso”. Che per quanto sia un cartone apprezzabile, non ha niente a che fare col Natale. E’ forse ridondante parlare del presepe. L’idea di posizionare in una grotta Gesù, il bue e l’asinello venne a San Francesco d’Assisi nel 1223. Che lo realizzò per la prima volta a Greccio (Rieti). Prima lo hanno bandito dai luoghi pubblici, poi dalle scuole e infine lo hanno realizzato in formato gay (due Giuseppe e in dono i preservativi). Ha creato scalpore il caso dell’asilo di Pietrasanta (Lucca) che ha deciso di escludere la rappresentazione della natività dalle aule. Ma non è un caso isolato. Nella stessa scuola è stata fatta un’eccezione per l’albero di Natale, ammesso tra i banchi. Tra tutti il simboli, infatti, l’abete addobbato è il meno cristiano. Per questo resiste più degli altri. Per risalire alle sue origini bisogna guardare ai germani, che ornavano gli alberi cosmici con i simboli del sole e della luna in onore degli dei. Simbologia poi riletta alla luce della dottrina cristiana. Oggi, invece, le Poste Italiane lo cancellano dall’arredo natalizio asserendo a motivazioni di uniformità aziendale. “Tu scendi dalle stelle” è ormai un canto reazionario. Composto nel dicembre 1754 a Nola dal napoletano sant'Alfonso Maria de' Liguori, è un cult delle feste natalizie. Ma quei riferimenti al Re del Cielo, alla grotta e alle preghiere sono troppo espliciti. Così il preside della scuola di Rozzano ha deciso di annullare il tradizionale concerto di Natale, trasformandolo in una più laica Festa d’Inverno. Perché “un concerto a base di canti religiosi” sarebbe stata “una provocazione pericolosa” dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. Via anche “Adeste fideles”: troppo bigotto. Nel tempo abbiamo detto addio alla corona d’avvento e alle quattro candele delle domeniche che precedono il Natale. L’unico a difendersi egregiamente è San Nicola di Myra (o di Bari). E’ lui il genitore di Babbo Natale. Vescovo del IV secolo, è un santo venerato sia dai cattolici che dagli ortodossi: viene rappresentato dalla tradizione con la barba lunga e la mitra in testa. Per i popoli dei Paesi Bassi era lui a portare i doni. Ora gli è rimasto solo il cappello rosso e una discreta pancia. Risulta difficile stupirsi allora se all'istituto "Carlo Pisacane" di Roma sostituiscono il Natale con la festa antirazzismo. Stanno estirpando le nostre radici, per ripiantarne delle altre. E i preti che fanno? Annullano la Messa natalizia nell’istituto cattolico di Monza perché è un “atto di fede troppo forte” per i non credenti. Anche questo, a suo modo, è segno dei tempi che passano. Portare gli studenti a Messa era del tutto normale, finché qualcuno non s’è ribellato. E allora prontamente abbiamo messo la testa nella sabbia, per non infastidire nessuno. Per paura d’essere reazionari.
Più crimini contro la religione che contro omosex e trans: ma il governo dimentica di tutelare i cattolici. L'Osce che i crimini antireligiosi sono cinque volte superiori a quelli contro gli Lgbt nel 2014. Ma nello stesso anno l'Unar non cita nemmeno le discriminazioni anticattoliche, scrive Giovanni Masini Venerdì 25/12/2015 su "Il Giornale". L'Italia non è un Paese per gay. Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere? Il nostro Paese è arretrato, arretratissimo, medievale (come se poi fosse un insulto). Una macchia nera nell'oceano di luce dell'Europa civile. Non solo isolati quanto a legislazione, ma pure in balìa di una vera e propria ondata di omo e transfobia - contro cui ogni anno protestano migliaia di persone scendendo puntualmente in strada con la bandiera arcobaleno in mano. Eppure, numeri alla mano, scopriamo che l'emergenza omofobia sembra esistere più negli slogan delle manifestazioni che nella realtà. Spulciando il rapporto dell'Osce sui cosiddetti "hate crimes" del 2014, balza subito all'occhio come, su 48 Stati in gran parte europei, l'Italia registri, nel corso dell'anno passato, "appena" 27 crimini d'odio contro persone Lgbt su quasi seicento casi totali. Il numero di reati motivati dall'odio religioso, invece, è di oltre cinque volte superiore: 153. Sebbene si tratti, naturalmente, di un conteggio incompleto perché mancante di tutti i casi non denunciati, fa riflettere notare come proprio in Italia - troppo spesso dipinta come la culla del settarismo religioso fanatico ed omofobo - i crimini legati all'orientamento sessuale siano di gran lunga meno numerosi di quelli causati dall'odio religioso, razziale o xenofobico. E a certificarlo sono dati raccolti da un'organizzazione sovranazionale come l'Osce. Ma non è tutto: c'è una domanda che sorge spontanea: come mai le strutture statali deputate alla lotta contro le discriminazioni - il famoso Unar, l'ufficio Anti Discriminazioni razziali, che già dal nome non dovrebbe occuparsi che di "razze" - profondono sforzi ed energie in mastodontiche campagne per la lotta a quei crimini contro gli Lgbt che, nei dati, sono meno frequenti di tanti altri? Nella relazione presentata a Palazzo Chigi per l'anno 2014, l'Unar dedica ampio spazio alla strategia nazionale per combattere le discriminazioni contro gli Lgbt, peraltro già nota per alcuni controversi casi di cronaca relativi all'insegnamento nelle scuole pubbliche. Nei paragrafi dedicati all'odio per motivi religiosi si citano quasi di sfuggita solo le "minoranze religiose": buddhisti, musulmani, anglicani... Sulle discriminazioni verso i cattolici, i cui diritti pure vengono attaccati, a volte anche quando si trovano in maggioranza, nemmeno una parola. Una mancanza vistosa, sottolineata con amarezza, tra gli altri, anche da Mattia Ferrero, delegato per le attività internazionali dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, che, parlando conProVita ha notato come "gli hate crimes contro le maggioranze, ad esempio fondati sull'odio verso la religione cristiana, vengono sottovalutati. Eppure i crimini motivati dall'odio contro i cristiani, principalmente gli atti di violenza contro luoghi di culto, rappresentano un numero molto significativo, comparabile, e qualche volta superiore, a quelli fondati sull'odio verso altre religioni".
L’ANTICLERICALISMO COMUNISTA.
Anticlericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'anticlericalismo (nella sua accezione più comune) è una corrente di pensiero laicista, sviluppatasi soprattutto in riferimento alla Chiesa cattolica, che si oppone al clericalismo, ossia all'ingerenza degli ecclesiastici e della loro dottrina, nella vita e negli affari dello Stato e della politica in generale. In quanto "tendenza", non convogliata in un manifesto o in qualche movimento principale, l'anticlericalismo ha subito una serie di evoluzioni storiche e si è sviluppato in molteplici sfaccettature, tanto che è difficile darne una definizione condivisa. Per alcuni esso è l'opposizione allo sconfinamento del clero in qualsiasi ambito diverso dalla pura spiritualità (quindi economia, politica, interessi materiali). Questa forma di pensiero si colloca ideologicamente sia nell'ambito del liberalismo, sia delle sinistre radicali ma anche in alcuni partiti socialisti democratici, ed in Italia, storicamente, nei partiti che traggono origine dal pensiero mazziniano (in particolare, il Partito d'Azione ed il Partito Repubblicano Italiano), nel Partito Socialista Italiano e nel Partito Radicale. Dal punto di vista ideologico e filosofico, talvolta l'anticlericalismo si sviluppa parallelamente a quello della non credenza. L'anticlericalismo esplicito o velato da quella che Torquato Accetto chiamava la «dissimulazione onesta» è tanto più diffuso quanto più il clero, in particolare nei suoi vertici cardinalizi e vescovili, tende a sovrintendere alla vita e all'organizzazione politico-civile dello Stato. In Europa, l'anticlericalismo si è sviluppato lungo parte della storia cristiana ed ha avuto come precursori figure di cristiani come Erasmo da Rotterdam, Immanuel Kant, Paolo Sarpi, Gottfried Arnold e Thomas Woolston, che considerava quale vero unico autentico miracolo di Gesù la cacciata dei mercanti dal Tempio. L'anticlericalismo italiano (tra i primi esponenti sono oggi annoverati personaggi come Marsilio da Padova, Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, il Platina e Giordano Bruno), giungerà ad avere i suoi primi "martiri" nella prima metà del settecento con Pietro Giannone, morto in carcere a Torino, e Alberto Radicati di Passerano, morto esule all'Aia. Vanno poi ricordati gli illuministi francesi - tra i quali Voltaire e Diderot - che si opposero a ogni forma di clericalismo. Elementi anticlericali, secondo alcuni, sono presenti nella prima fase della Riforma luterana che abolisce gli ordini regolari, non riconosce né il sacramento dell'ordine, né l'obbligo del celibato ecclesiastico, proclamando il sacerdozio universale di ogni cristiano che ha la sua guida nella sola Sacra Scrittura. In particolare, gli anabattisti riconoscevano Cristo come unico capo della Chiesa, e negavano il valore della gerarchia e del magistero, affidandosi all'insieme dei credenti e dalla loro quotidiana imitazione dell'esempio di Cristo. La Controriforma inaugurata dal Concilio di Trento è stata anche una risposta a tali istanze antigerarchiche presenti, sia pure con grandi diversità e con differenti gradi di intensità, nel mondo protestante e, per Paesi come l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Austria, la Baviera, la Polonia, la Croazia, l'America Latina un'istanza di rinnovata clericalizzazione non solo della vita religiosa, ma anche nella vita socio-politica, in particolare attraverso il controllo della formazione scolastica e del costume femminile. Nel Settecento si diffonde l'anticurialismo, una tendenza giuridica che si ergeva a difesa dello Stato assolutista contro i privilegi della Chiesa e particolarmente contro le prerogative del Tribunale dell'Inquisizione, che sottraeva allo Stato parte del suo ruolo nell'amministrazione della giustizia. L'origine dell'anticurialismo risale alla seconda metà del Cinquecento, quando a Napoli il viceré spagnolo Pedro Afán de Ribera, che pure represse duramente i valdesi in Calabria, si oppose alla pubblicazione dei decreti del Concilio di Trento e all'istituzione dell'Inquisizione spagnola nel Regno di Napoli. Nel Settecento l'anticurialismo assume l'aspetto di una corrente filosofica e giuridica con autori come il sacerdote salernitano Antonio Genovesi, il cavese Costantino Grimaldi, autore delle Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (Napoli, 1708) e delle Discussioni istoriche teologiche e filosofiche (Lucca, 1725) e il foggiano Pietro Giannone, che a Ginevra, patria del calvinismo, già inviso alla Chiesa per la sua opera storica, compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale, che sarà pubblicato postumo solo nel 1895. Nel 1730 Alberto Radicati di Passerano, esule a Londra, pubblicò un opuscolo anticlericale, sotto il titolo A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion, in cui rigetta il cattolicesimo e ne dipinge una mordace caricatura, sulla scorta degli autori illuministi francesi. Nel 1732 pubblicò la Dissertazione filosofica sulla morte, un'opera in cui rivendicava il diritto al suicidio e all'eutanasia. In tutto il secolo si rafforza anche l'antigesuitismo, un movimento di ostilità contro la Compagnia di Gesù, un istituto religioso simbolo della fedeltà al papa, che si riteneva protagonista di ingerenze clericali in politica e nella scienza. Mentre l'aspirazione illuministica alla libertà diveniva il marchio del secolo, la presenza dei gesuiti si faceva via via inaccettabile, tanto che furono espulsi da tutti gli Stati cattolici, a cominciare dal Portogallo (1750). Il primo Stato italiano ad espellere i Gesuiti fu il regno di Napoli (1767), seguito dal ducato di Parma e Piacenza. Nel 1773 papa Clemente XIV con il breve Dominus ac Redemptor decise la definitiva soppressione della Compagnia di Gesù. Nella seconda metà del XVIII secolo l'infante Filippo I di Parma e il suo ministro Guillaume du Tillot adottarono nel ducato di Parma e Piacenza una politica anticlericale, che poneva pesanti limitazioni nella capacità della Chiesa di acquisire e possedere beni immobili e di ereditare. Addirittura gli ecclesiastici furono esclusi della successione ereditaria delle loro famiglie. Ai vescovi furono proibiti impiegati che non fossero laici e fu loro sottratta la giurisdizione sugli ospedali e sulle opere pie. Con Ferdinando di Borbone non cessarono le vessazioni del clero e papa Clemente XIII fece affiggere un breve di protesta (Monitorium), che suscitò tali reazioni che in breve tempo quasi tutti gli Stati d'Europa presero posizione contro il Papa. A Napoli la tendenza anticuriale è rappresentata in politica dal primo ministro Bernardo Tanucci. Con il concordato del 1741, la Santa Sede aveva concesso larghi privilegi ai monarchi napoletani che erano sempre stati vicini al papato, non prima di lunghe trattative condotte dall'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, che agiva come ministro plenipotenziario del Regno di Napoli ed era egli stesso un uomo di cultura, fiancheggiatore delle tendenze anticuriali. Il Tanucci volle applicare il Concordato in una chiave di imposizione di una politica ecclesiastica statale (regalismo), che andava a infrangere la tradizionale armonia tra il potere civile e quello religioso. Sulla scorta delle rivendicazioni gallicane già applicate in Francia, le entrate di episcopati e abbazie vacanti affluirono alla corona, conventi e monasteri superflui vennero soppressi, le decime abolite e nuove acquisizioni di proprietà da parte delle istituzioni ecclesiastiche tramite la manomorta vietate. La pubblicazione delle bolle papali necessitava della previa autorizzazione reale (il cosiddetto exequatur). Anche le nomine vescovili nel Regno caddero, seppure non direttamente ma solo tramite raccomandazioni, grazie anche all'abilità politica del Tanucci, nelle mani del sovrano. Il Re era soggetto soltanto a Dio, gli appelli a Roma erano proibiti a meno che non vi fosse stato l'assenso del re, il matrimonio venne dichiarato un contratto civile. Papa Clemente XIII reagì con la scomunica, al che Tanucci rispose occupando le enclave pontificie nel territorio napoletano di Benevento e Pontecorvo, che saranno restituite alla Santa Sede solo dopo la soppressione della Compagnia di Gesù. Le proteste dei vescovi contro i nuovi insegnamenti nelle scuole a seguito dell'espulsione dei Gesuiti vennero liquidate come non valide. Uno degli ultimi atti di Tanucci fu l'abolizione della chinea (1776), il tributo annuale che i re di Napoli versavano al papa come segno del loro vassallaggio sin dal tempo di Carlo I d'Angiò. Tuttavia, le proteste popolari costrinsero a ritirare il provvedimento di Tanucci e la chinea fu regolarmente corrisposta fino al 1787. Durante il periodo napoleonico, molti dei regni italiani furono trasformati in stati satelliti della Francia e i loro sovrani vennero deposti; lo stesso papa Pio VII fu deportato in Francia. Proclamando a gran voce i principî della Rivoluzione francese, si abolirono i privilegi tanto del clero che della nobiltà. In realtà la rivoluzione fu, a livello locale, spesso condotta da ecclesiastici e nobili subalterni, che talora colsero l'occasione di tentare in tal modo di ottenere una promozione sociale loro preclusa secondo il precedente ordine tradizionale socio-politico. Le autorità napoleoniche appoggiarono all'interno della Chiesa cattolica le posizioni dei gallicani e dei giansenisti contro quelle degli ultramontani. Furono aboliti ed espropriati gli ordini contemplativi, mentre i beni della Chiesa furono a vario titolo espropriati per finanziare lo Stato. Per la prima volta si mise in discussione l'egemonia sociale del clero a favore delle autorità civili. L'anticlericalismo italiano ebbe notevole sviluppo nella lotta al potere temporale del papa, che costituiva oggettivo impedimento all'unificazione sotto la monarchia sabauda ed alla modernizzazione del Paese. Papa Pio VII, rientrato in Italia, tornò a segregare gli ebrei nel ghetto di Roma, dove resteranno fino alla liberazione nel 1870. Papa Gregorio XVI (1831-1846) bollava il treno come "opera di Satana", mentre il suo segretario di Stato, il cardinal Luigi Lambruschini (1776-1854), osteggiava l'illuminazione a gas e instaurava nello Stato pontificio un regime di arbitrio poliziesco, censura e inquisizione. In questo clima, anche tra gli stessi cattolici liberali italiani presero corpo posizioni di stampo anticlericale; ad esempio, una violenta polemica oppose il padre del cattolicesimo liberale italiano, Vincenzo Gioberti (1801-1852), ai gesuiti e ai cattolici reazionari. Giuseppe Garibaldi, l'eroe nazionale italiano, fu il più celebre degli anticlericali del Risorgimento e definì la Chiesa cattolica una «setta contagiosa e perversa», mentre rivolse a papa Pio IX l'epiteto di "metro cubo di letame". La formazione dello Stato nazionale del 1861 fu preceduta e accompagnata dal tentativo di una riforma religiosa di ispirazione cristiana protestante, sul modello della Chiesa nazionale d'Inghilterra, appoggiata dalle chiese valdesi, memori delle persecuzioni, che, nei propositi di alcuni esponenti delle classi dirigenti piemontesi, si proponeva l'ambizioso obiettivo di sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica: la cosiddetta Chiesa Libera Evangelica Italiana. San Leonardo Murialdo scrisse: «Gesù Cristo è bandito dalle leggi, dai monumenti, dalle case, dalle scuole, dalle officine; perseguitato nei discorsi, nei libri, nei giornali, nel papa, nei suoi sacerdoti». Alla Camera, il deputato Filippo Abignente si augurava «che la religione cattolica sia distrutta d'un colpo». Un altro deputato, Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista e patriota durante le insurrezioni del 1848 nel Regno delle Due Sicilie si riprometteva di eliminare con il potere temporale anche il potere spirituale della Chiesa. Il 20 luglio 1862, espresse senza giri di parole la sua avversione contro il Cattolicesimo: «Noi dobbiamo combattere la preponderanza cattolica nel mondo, comunque, con tutti i modi. Noi vediamo, che questo Cattolicismo è uno strumento di dissidio, di sventura, e dobbiamo distruggerlo.... La base granitica della fortuna politica d'Italia deve essere la guerra contro il Cattolicismo su tutta la superficie del mondo». Dopo la presa di Roma, Petruccelli della Gattina promosse l'abolizione della Legge delle Guarentigie e, durante una seduta alla Camera, gridò: «Il principio generale della rivoluzione Italiana è stato l'abolizione del Papato!». Egli voleva fare del sacerdote «un uomo e un cittadino», dargli «la libertà individuale nei limiti dello Stato» e il «diritto d'invocare la protezione della legge comune», il che significava l'abolizione del foro ecclesiastico. Il giornalista fu anche autore di una controversa opera, Memorie di Giuda, in cui l'apostolo viene raffigurato come un rivoluzionario che combatte l'oppressione romana. Il romanzo suscitò un enorme scandalo e trovò problemi di distribuzione, e La Civiltà Cattolica, il maggiore organo di stampa pontificio, lo etichettò «libraccio infame» e l'autore «sporco romanziere». Secondo il laico Giovanni Spadolini, Cavour volle «fissare e delimitare le competenze specifiche della Chiesa nel suo magistero ecclesiastico, escludendola dalla società civile, dal mondo della politica, dall'istruzione, dalla scienza, dove il dominio incondizionato sarebbe stato quello dello Stato e dello Stato soltanto». Tale tentativo prese avvio nel Regno di Sardegna, con la legge del 25 agosto 1848 n. 777 che espelleva tutti i gesuiti stranieri, ne sopprimeva l'ordine e ne incamerava tutti i collegi, convertendoli ad uso militare. Negli anni seguenti i gesuiti furono nell'occhio del ciclone in tutta Italia e dopo il 1848 (durante il quale alcune residenze gesuite furono assaltate da folle inferocite), saranno soppressi in tutti gli Stati italiani (escluso lo Stato pontificio). La legge del 1848 e le analoghe successive saranno caratterizzate da ostilità verso la Chiesa cattolica che, nella visione dei politici di ispirazione liberale (sovente aderenti alla Massoneria), costituiva un freno al progresso civile, ritenendo che la religione non fosse altro che superstizione, mentre la verità andava ricercata avvalendosi del metodo scientifico. Si trattava di un aperto contrasto con la realtà italiana - e soprattutto piemontese - del primo Ottocento, in cui per assenza d'intervento dello Stato era la Chiesa ad organizzare e finanziare scuole, istituzioni sociali e ospedali. Non di rado docenti e scienziati erano essi stessi ecclesiastici. Secondo la studiosa cattolica Angela Pellicciari «la nuova identità che i grandi del mondo progettano per la nazione culla dell'universalismo romano e poi cristiano è anticattolica, mentre la storia, la cultura e la popolazione sono tutte cattoliche.» A partire dal 1850, furono promulgate le leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850, n. 1037 del 5 giugno 1850, e n. 878 del 29 maggio 1855), che abolirono tre grandi privilegi di stampo feudale di cui il clero godeva nel Regno di Sardegna: il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia dello Stato gli uomini di Chiesa oltre che per le cause civili anche per i reati comuni (compresi quelli di sangue), il diritto di asilo, ovvero l'impunità giuridica di chi si fosse macchiato di qualsiasi delitto e fosse poi andato a chiedere rifugio nelle chiese, nei conventi e nei monasteri, e la manomorta, ovvero la non assoggettabilità a tassazione delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici (stante la loro inalienabilità, e quindi l'esenzione da qualsiasi imposta sui trasferimenti di proprietà). Inoltre, tali provvedimenti normativi disposero il divieto per gli enti morali (e quindi anche per la Chiesa e gli enti ecclesiastici) di acquisire la proprietà di beni immobili senza l'autorizzazione governativa. L'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni venne processato e condannato ad un mese di carcere dopo aver invitato il clero a disobbedire a tali provvedimenti. Fu del 29 maggio 1855 la legge che abolì tutti gli ordini religiosi (tra i quali agostiniani, carmelitani, certosini, cistercensi, cappuccini, domenicani, benedettini) privi di utilità sociale, ovvero che «non attendessero alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi», e ne espropriò tutti i conventi (334 case), sfrattando 3733 uomini e 1756 donne. I beni di questi ordini soppressi furono conferiti alla Cassa ecclesiastica, una persona giuridica distinta ed autonoma dallo Stato. L'iter di approvazione della legge, proposta dal primo ministro Cavour, fu contrastato da re Vittorio Emanuele II e da un'opposizione parlamentare agitata dal senatore Luigi Nazari di Calabiana, vescovo di Casale Monferrato, che determinarono le temporanee dimissioni dello stesso Cavour. Con l'avvento del Regno d'Italia avvenuto nel 1861, il Governo adottò nei confronti della Chiesa (che contrastava l'affermarsi di "compiti di benessere" dello Stato a favore dei cittadini) una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive:
La Legge n. 3036 del 7 luglio 1866 con cui fu negato il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l'obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie.
La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 previde la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese. Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati. Nel tentativo di colmare i gravi disavanzi causati dalla terza guerra d'indipendenza, nel 1866 il primo ministro Giovanni Lanza estese l'esproprio dei beni ecclesiastici a tutto il territorio nazionale e, con la legge del 19 giugno 1873 anche a Roma, la nuova capitale. Negli anni Settanta del XIX secolo il ministro dell'istruzione Cesare Correnti abolì le facoltà teologiche, sottrasse gli educandati femminili siciliani al controllo dei vescovi e infine tentò la soppressione dei direttori spirituali nei ginnasi, ma in seguito alle proteste della Destra dovette rassegnare le dimissioni il 17 maggio 1872. Il tentativo mazziniano di instaurare la Repubblica Romana (febbraio-luglio 1849) fu accompagnato da assassinii di sacerdoti, saccheggi di chiese e requisizioni forzose. Nei pochi mesi di vita della Repubblica, Roma passò dalla condizione di stato tra i più arretrati d'Europa a banco di prova delle nuove idee liberali che allora si diffondevano nel continente, fondando la sua vita politica e civile su principi - quali, in primis, il suffragio universale maschile, la libertà di culto e l'abolizione della pena di morte (facendo seguito, in questo caso, all'esempio del Granducato di Toscana che aveva definitivamente abolito la pena capitale nel 1786) e - che sarebbero diventate realtà in Europa solo circa un secolo dopo. Nella difesa di Roma dall'esercito francese, che accorse a sostenere lo Stato pontificio insieme alle armate austriache, borboniche e spagnole, persero la vita numerosi padri della patria tra cui Goffredo Mameli. Tra i politici di maggior spicco in questa fase storica emerge la figura di Camillo Benso Conte di Cavour, che nel 1861, poco dopo la proclamazione dell'Unita d'Italia, formulò, inascoltato, il principio della «Libera Chiesa in libero Stato», tentando con questa principio di regolare la convivenza tra Chiesa e Stato. Nel 1869 quando venne convocato il Concilio Vaticano I, a Napoli si riunì un anticoncilio di liberi pensatori, soprattutto massoni, organizzato dal deputato Giuseppe Ricciardi. Il Concilio Vaticano I fu poi interrotto dalla presa di Roma e non più convocato. Negli anni seguenti Roma divenne teatro di numerosi episodi di anticlericalismo, soprattutto in occasione di manifestazioni pubbliche: «fra il 1870 e il 1881 si possono contare oltre trenta casi gravi di intolleranza, di provocazione, talora scontri fisici». Per lungo tempo il Papa, rifugiatosi in Vaticano, impose ai cattolici di non partecipare alla vita pubblica del Regno d'Italia con un pronunciamento conosciuto come non expedit. Nel 1850 dopo l'approvazione delle leggi Siccardi nel Regno di Sardegna l'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni fu arrestato per un mese e poi mandato, nelle stesso anno, in esilio a Lione per la sua ferma opposizione alle leggi anticlericali. Dopo l'Unità, circa la metà delle diocesi italiane resterà vacante, per il rifiuto del Governo di concedere il necessario 'placet' o 'exequatur' ai vescovi. Nel 1864 ben 43 vescovi erano in esilio, 20 in carcere, 16 erano stati espulsi e altri 16 morti per le vessazioni subite. A metà degli anni sessanta di 227 sedi vescovili, 108 erano vacanti. I motivi di questi arresti erano spesso arbitrari: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, fu arrestato il 13 maggio 1860 per non aver voluto cantare il "Te Deum" per Vittorio Emanuele II. Nel luglio dello stesso anno il vescovo di Piacenza Antonio Ranza e dieci canonici furono condannati dal tribunale a quattordici mesi di reclusione per antipatriottismo. Si trattò di una condanna politica, perché il vescovo si era allontanato dalla città in occasione della visita del re e non aveva celebrato la festa dello Statuto. Nelle province meridionali, dopo la spedizione di Garibaldi con vari pretesti furono arrestati e processati 66 vescovi. Durante i quattro anni successivi subirono la stessa sorte anche nove cardinali. Il problema delle sedi vacanti si avviò verso la soluzione nell'ottobre del 1871, quando furono nominati 41 nuovi vescovi. Altri 61 saranno nominati negli anni successivi. Tuttavia, nel 1875 Minghetti annunciava ancora alla Camera che delle 94 domande di exequatur presentate per la nomina di nuovi vescovi, soltanto 28 erano state accettate dal Governo. Dopo l'Unità d'Italia si verificarono episodi di intolleranza anticlericale come l'assalto al Congresso cattolico di Bologna del 9 ottobre 1876 e i tumulti in occasione della traslazione della salma di Pio IX il 13 luglio 1881. Nel 1889, l'erezione del monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori avvenne in un contesto di violenta lotta politica in cui si confrontarono le posizioni più oltranziste delle fazioni anticlericali e clericali. L'opera fu realizzata dallo scultore Ettore Ferrari, che più tardi divenne gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Fra i promotori non mancarono toni di sfida al Pontefice, che minacciava di lasciare Roma per rifugiarsi in Austria, e il monumento divenne uno dei simboli dell'anticlericalismo. Francesco Crispi ottenne dal re Umberto I un decreto di destituzione nei confronti del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che aveva fatto una visita ufficiale al cardinale vicario Lucido Maria Parocchi, portando un messaggio per papa Leone XIII. Nello stesso periodo a Roma la Massoneria metteva in scena sotto i Palazzi apostolici banchetti nei venerdì di Quaresima, per dileggiare il digiuno cristiano. Gli episodi di violenza continueranno anche nella prima parte del XX secolo: fra questi l'assalto alla processione del Corpus Domini a Fabriano, avvenuto il 21 giugno 1911, condotto da socialisti e anticlericali, terminò in un clamoroso processo. Il principale esponente dell'anticlericalismo in ambito accademico e culturale fu il poeta e poi docente di letteratura italiana Giosuè Carducci. Pubblicò nel 1860 nella raccolta Juvenilia la poesia Voce dei preti: «Ahi giorno sovra gli altri infame e tristo, Quando vessil di servitù la Croce. E campion di tiranni apparve Cristo!» (Giosuè Carducci, Voce dei preti), e nel 1863 l'Inno a Satana, che poi ristamperà nel 1868 in occasione del Concilio Vaticano I. L'anticlericalismo accademico derivò in larga parte dall'adesione di molti docenti al positivismo e allo scientismo. All'università di Torino il positivismo fece la sua comparsa negli anni sessanta del XIX secolo presso la facoltà di medicina, dove insegnava l'olandese Jacob Moleschott. Cesare Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, Salvatore Cognetti de Martiis, professore di economia politica garibaldino, e Arturo Graf, docente di letteratura italiana, furono celebri esponenti di teorie anticlericali. Il darwinismo ebbe come centri di diffusione Torino, Pavia e Firenze. Anche l'associazionismo studentesco risentì della polemica anticlericale e costituì un anello di quella che poteva apparire una «koinè positivista e anticlericale largamente condivisa nel mondo accademico». Nel 1871 i professori dell'Università di Roma furono chiamati a pronunziare il giuramento di fedeltà al re e allo Statuto. I professori della facoltà di teologia furono esentati dal giuramento, ma in maggioranza si rifiutarono di riprendere l'insegnamento in un ambiente ora ostile. Papa Pio IX li ricevette in udienza dicendo loro: «L'Università, quale ora è divenuta, non è più degna delle vostre dottrine e di voi, e voi stessi vi contaminereste varcando quelle soglie, entro le quali si insegnano errori così perniciosi». Appelli analoghi furono rivolti agli studenti e fu dato vita ad un tentativo di un'università alternativa. Quando però il tentativo fallì, agli studenti fu concesso di frequentare le università statali, ammonendoli però ad evitare l'influsso dei cattivi maestri. All'Università di Catania fu professore di letteratura italiana Mario Rapisardi, spirito anticlericale e garibaldino, che considerava le religioni come intralcio al progresso scientifico e morale. Il ritiro dei docenti della facoltà di teologia diede occasione allo Stato di sopprimere le facoltà di teologia con la legge Scialoja-Correnti del 26 gennaio 1873, determinando la scomparsa degli studi ecclesiastici dalle università di Stato. Al di fuori dell'ambito strettamente accademico, ebbe straordinario successo la letteratura di Edmondo De Amicis, che proponeva con il libro Cuore un codice di morale laica e quella di poeti come Antonio Ghislanzoni, librettista di Giuseppe Verdi, Felice Cavallotti, che fu anche un celebre politico e deputato, e Olindo Guerrini, che nel 1899 fu condannato e poi assolto in appello per diffamazione del vescovo di Faenza. Cavalli di battaglia dell'anticlericalismo divennero in questo periodo una ricostruzione storica in stile illuminista, a volte arbitraria, del Medioevo (i secoli bui), la leggenda della Papessa Giovanna, la classificazione della storia delle Crociate come guerra di religione, e della lotta alle eresie in generale e dell'Inquisizione in particolare come fenomeni dell'intolleranza cristiana (vedi Leggenda nera dell'Inquisizione). L'anticlericalismo non restò confinato alle classi dirigenti, ma trovò eco anche nelle società operaie e di mutuo soccorso di fine ottocento, prevalentemente di ispirazione socialista. Secondo questa ideologia, Gesù Cristo era stato il "primo socialista", ma il suo insegnamento era stato corrotto dalla Chiesa ("dai preti") per tornaconto. Un esempio emblematico di questa ideologia fu La predica di Natale del 24 dicembre 1897 di Camillo Prampolini. Diffuse erano anche le rappresentazioni teatrali di spettacoli anticlericali: ad esempio nel 1851 a Vercelli erano in scena due commedie, intitolate "Gli orrori dell'Inquisizione" e "Il diavolo e i Gesuiti". A Roma il primo carnevale dopo Porta Pia fu organizzato dall'associazione anticlericale "Il Pasquino", che propose numerose parodie. Un enorme dito di cartapesta fu fatto sfilare per le vie di Roma: era il "dito di Dio", una formula tipica con cui la stampa cattolica commentava sventure e disgrazie. L'anticlericalismo trovò eco anche in polemiche giornalistiche, che spesso vedevano confrontarsi giornali di tendenze opposte. A Torino la Gazzetta del Popolo diretta dall'anticlericale Felice Govean, che fu anche gran maestro del Grande Oriente d'Italia, battagliava contro l'Armonia cattolica, diretta da Giacomo Margotti. Le vendite vedevano primeggiare il foglio anticlericale, che distribuiva 10 000 copie contro le 2 000 del concorrente. Il Partito Nazionale Fascista, guidato da Benito Mussolini, fortemente anticlericale e ateo in gioventù, presentava inizialmente, influenzato anche dal futurismo, un programma di "svaticanizzazione" dell'Italia, con progetti di sequestri di beni ed abolizione di privilegi. Ma Mussolini, dopo essere diventato duce dell'Italia fascista, resosi conto del gran peso sociale e culturale che la Chiesa cattolica rivestiva nel Paese, cambiò i suoi propositi iniziali e volle concordare un'intesa con la Chiesa al fine di consolidare e accrescere il proprio potere, ancora instabile, ed ottenere un più ampio consenso di popolo. Tuttavia il capo del fascismo intimamente rimaneva un ateo anticlericale, come testimoniano la sua nota avversione a farsi fotografare accanto a religiosi e la conseguente censura di tutti i ritratti in cui era presente qualche prelato o simile e la confidenza che Dino Grandi fece a Indro Montanelli nella quale raccontava come Mussolini, appena uscito dal palazzo Laterano in cui l'11 febbraio 1929 aveva appena firmato il concordato, bestemmiò pesantemente per sottolineare la sua personale avversione alla Chiesa cattolica e ai preti. L'accordo con la Segreteria di Stato vaticana per la stipula dei Patti Lateranensi, formalmente siglati nel1929 avvenne grazie ad un atteggiamento, nonostante le differenti visuali, diplomaticamente dialogante tra le parti. In cambio il dittatore impose una compressione dello spazio di intervento dell'Azione Cattolica, unica organizzazione giovanile non fascista che sopravvisse durante il regime. Con quest'accordo ci furono alcuni membri del clero, a vari livelli, che diedero la loro adesione, come cittadini italiani, al fascismo. Nello stesso Partito Popolare Italiano, una parte dei membri aderì al governo fascista ante-dittatura, contro il parere di don Luigi Sturzo. Il partito subì una forte crisi che fu determinante per l'ascesa del PNF. Ci furono così aspetti, come nel regime franchista spagnolo, di cosiddetto clericofascismo. Alla caduta del fascismo, mentre i gerarchi e i rappresentanti della monarchia fuggivano, le autorità ecclesiastiche rimasero al loro posto, svolgendo, a volte in collaborazione con il CLN, opere caritatevoli e assistenziali a vantaggio della popolazione, esercitando nel contempo un ruolo civile e sociale. Questo interesse degli ecclesiastici per le questioni politiche ed economiche si scontrava sia con la cultura liberale, che riduceva il problema religioso alla sfera individuale, sia con la cultura marxista, che annoverava le religioni fra le forze reazionarie. Se la Chiesa pretendeva di offrire alla società i valori fondamentali su cui costruire la democrazia, marxisti e liberali consideravano un'indebita ingerenza ogni intervento della Chiesa nell'ambito sociale e politico. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'anticlericalismo ebbe le sue espressioni, seppur in forma minoritaria ed incostante, nel Partito Comunista Italiano, nel Partito Repubblicano Italiano e nel Partito Socialista per divenire centrale nell'attività del Partito Radicale a partire dagli anni settanta, in contrapposizione alla Democrazia Cristiana e all'influenza vaticana nella politica italiana. Uno dei punti principali di contrasto fu la scure censoria che si abbatté sulle migliori opere cinematografiche italiane del dopoguerra, accusati di offesa alla morale o vilipendio della religione cattolica, partendo da La dolce vita di Federico Fellini, a La ricotta di Pier Paolo Pasolini, fino a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Gli anticlericali sostennero che questi furono solo alcuni esempi tra i tanti di come la morale cattolica influenzasse ed imponesse il proprio punto di vista anche in materia di arte e spettacolo. Si impegnò in una lunga filmografia anticlericale il regista Luigi Magni, che diresse Nell'anno del Signore (1969), In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990), una trilogia ambientata nella Roma papalina del Risorgimento. Il fronte laico riuscì ad ottenere l'istituzione del divorzio (1970, confermato dopo il referendum abrogativo del 1974) e la legalizzazione dell'aborto (1978). Nel 1984 il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi attuò una revisione dei Patti Lateranensi, rimuovendo la prerogativa di «Religione di Stato» in precedenza accordata alla Chiesa cattolica. Venne mantenuto, seppur rendendolo facoltativo, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, affidato a insegnanti pagati dallo Stato ma nominati dalla Curia, e l'esenzione dal pagamento delle imposte sugli immobili di proprietà della Chiesa cattolica in cui vengono svolte attività "che non abbiano natura esclusivamente commerciale". Contestualmente venne introdotta la destinazione dell'otto per mille del gettito IRPEF dei contribuenti a 7 confessioni religiose, tra cui la Chiesa cattolica. L'otto per mille viene destinato alle varie confessioni in proporzione delle scelte espresse dai soli contribuenti che forniscono un'indicazione al riguardo. La quota del reddito dei contribuenti che non ha espresso alcuna scelta viene, in altre parole, ripartita tra le confessioni religiose che hanno siglato l'intesa con lo stato italiano in misura pari alla percentuale delle scelte espresse. Per esempio, nel 2000 il 35% degli italiani si espresse a favore della Chiesa cattolica, il 5% circa a favore dello Stato o di altre religioni, e il 60% non espresse alcuna scelta. Di conseguenza, l'87% del gettito è stato devoluto alla Conferenza Episcopale Italiana. Dal 1984 gli anticlericali italiani, inizialmente dell'area anarchica e libertaria, in seguito anche i socialisti, i radicali, i liberali e i comunisti si diedero appuntamento per discutere dei maggiori temi politici di confronto e scontro con il Vaticano, ai Meeting anticlericali di Fano presso i quali, nel 1986, venne fondata anche l'Associazione per lo Sbattezzo. Oggi è contestato, da taluni, in una società sempre più secolarizzata, l'intervento della Chiesa cattolica, mediante indicazioni di comportamento ai fedeli e indicazioni di voto ai parlamentari cattolici, sull'azione legislativa e regolamentare dello Stato. Si ricorda la presa di posizione del cardinale Camillo Ruini nel referendum sulla procreazione assistita del 2005, rivolte in particolare contro l'utilizzo delle cellule staminali embrionali, e quelle di vari esponenti e prelati cattolici contro le unioni civili, l'eutanasia e il testamento biologico, oltre che la controversia sull'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Dalla parte della Chiesa invece si rivendica un diritto alla parola e un dovere morale nella guida del cristiano su questioni etiche.
Anticlericalismo in Francia. «La civiltà non raggiungerà la perfezione finché l'ultima pietra dell'ultima chiesa non sarà caduta sull'ultimo prete.» (Émile Zola). Voltaire, illuminista e anticlericale, autore del motto Écrasez l'Infâme ("schiacciate l'infame"), con cui incitò alla lotta contro la Chiesa e il fanatismo religioso. A partire dall'Illuminismo, si sviluppò in Francia una forte corrente anticlericale, che ebbe la sua piena espressione in alcune leggi varate durante la Rivoluzione Francese, come la costituzione civile del clero, l'obbligo di sposarsi o abbandonare i voti per i preti, la trasformazione delle chiese in templi della Ragione, il calendario rivoluzionario francese e il culto dell'Essere Supremo, l'introduzione del matrimonio civile e del divorzio. Anche Napoleone varò una politica di separazione tra Stato e Chiesa.
In un contesto politico anticlericale, il 7 dicembre 1830 i redattori de L'Avenir, giornale cattolico liberale, riassumono le loro rivendicazioni: chiedono libertà di coscienza, separazione tra Stato e Chiesa, libertà d'insegnamento, di stampa, d'associazione, decentramento amministrativo ed estensione del diritto elettorale. L'anticlericalismo è un tema di particolare rilevanza nel contesto storico della Terza Repubblica e nelle divergenze che ne derivarono con la Chiesa cattolica. Gli eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina(1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy, possono essere considerati come gli effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. Tuttavia, prima del 1905, la Chiesa godeva di un trattamento preferenziale da parte dello stato francese (insieme alle minoranze ebraiche, luterane e calviniste). Nel corso dell'Ottocento, sacerdoti insegnavano nelle scuole pubbliche tutte le materie, religione compresa. E inoltre la Chiesa fu implicata in attacchi antisemiti come nell'Affare Dreyfus. Di conseguenza molti appartenenti alla sinistra chiesero la separazione tra Chiesa e Stato e l'imposizione di una reale laicità. Si noti che la divisione tra "clericali" e "anticlericali" non aderisce esattamente alle categorie di "credenti" e "non credenti" poiché alcuni cattolici, come Victor Hugo, pensavano che la Chiesa non dovesse intervenire nella vita politica, mentre non credenti come Charles Maurras favorivano il potere temporale della Chiesa perché ritenevano fosse essenziale per la coesione del Paese e per i loro obiettivi politici (vedi anche reazionario). Dal punto di vista culturale non mancavano rappresentazioni anticlericali nei teatri, come la commedia Pourquoi elles vont à l'église di Nelly Roussel. In definitiva, la separazione del 1905 tra Stato e Chiesa innescò aspre polemiche e forti controversie, la maggioranza delle scuole cattoliche e delle fondazioni educative venne chiusa e molti ordini religiosi furono sciolti. Papa Pio X reagì con tre diverse encicliche di condanna: la Vehementer Nos dell'11 febbraio 1906, la Gravissimo Officii Munere del 10 agosto dello stesso anno e l'Une Fois Encore del 6 gennaio 1907.
Anticlericalismo in Messico. In seguito alla rivoluzione del 1860, il presidente Benito Juárez, appoggiato dal governo statunitense, varò un decreto per la nazionalizzazione delle proprietà ecclesiastiche, separando Chiesa e Stato e sopprimendo gli ordini religiosi. All'inizio degli anni dieci del XX secolo, i Costituzionalisti di Venustiano Carranza denunciarono l'ingerenza clericale nella politica messicana. Protestavano di non perseguitare il Cattolicesimo, ma di voler ridurre l'influenza politica della Chiesa. Tuttavia, la campagna dei Costituzionalisti non sfociò immediatamente in un nessun'azione formale. Il movimento dei Costituzionalisti rappresentava gli interessi degli Stati Uniti d'America e delle sue lobby massoniche. Successivamente Álvaro Obregón e i Costituzionalisti intrapresero delle misure volte a ridurre la profonda influenza politica della Chiesa cattolica. Il 19 maggio 1914, le forze di Obregón condannarono il vescovo Andrés Segura e altri uomini di Chiesa a 8 anni di carcere per la loro presunta partecipazione ad una ribellione. Durante il periodo in cui Obregón ebbe il controllo di Città del Messico (febbraio 1915), impose alla Chiesa il pagamento di 500.000 pesos per alleviare le sofferenze dei poveri. Venustiano Carranza assunse la presidenza il 1º maggio 1915. Carranza e i suoi seguaci ritenevano che il clero sobillasse il popolo contro di lui attraverso la propaganda. Divennero sempre più frequenti le violenze, tollerate dalle autorità, nei confronti dei cattolici: nel 1915 vennero assassinati ben 160 sacerdoti. Subito dopo che Carranza ebbe il totale controllo del Messico, emanò una nuova Costituzione con l'intento di ridurre il potere politico della Chiesa.
La Costituzione del 1917. Nella Costituzione Messicana furono introdotti articoli anticlericali:
L'articolo 3 rese obbligatoria l'istruzione laica nelle scuole messicane.
L'articolo 5 mise fuori legge i voti religiosi e gli ordini religiosi.
L'articolo 24 proibì il culto fuori dagli edifici ecclesiastici.
Con l'articolo 27 alle istituzioni religiose fu negato il diritto di acquisire, detenere o amministrare beni immobili e tutti i beni ecclesiastici, compresi quelli di scuole e ospedali, furono dichiarati proprietà nazionale.
Con l'articolo 130 il clero fu privato del diritto di voto e del diritto di commentare questioni politiche.
Il governo messicano fu estremamente pervicace nel suo intento di eliminare l'esistenza legale della Chiesa cattolica in Messico. La costituzione ebbe il risultato di acuire il conflitto fra Chiesa e Stato. Per otto anni questi provvedimenti non furono rigorosamente messi in atto dal governo messicano. Intanto le violenze continuavano. Nel 1921 un attentatore tentò di distruggere il più importante simbolo del cristianesimo messicano: il mantello con l'immagine della Madonna di Guadalupe, conservato nell'omonimo santuario. La bomba, nascosta in un mazzo di fiori deposto vicino all'altare, produsse gravi danni alla basilica. Questa politica ebbe termine nel giugno del 1926, quando il Presidente del Messico Plutarco Elías Calles (che affermava che "la Chiesa è la sola causa di tutte le sventure del Messico"), emanò un decreto noto come “Legge Calles”, con cui metteva in atto l'articolo 130 della Costituzione. La Chiesa era urtata dalla rapidità della decisione di Calles e in particolare dall'articolo 19, che prevedeva la registrazione obbligatoria del clero, perché permetteva al governo di immischiarsi negli affari religiosi. La Chiesa cattolica prese quindi posizione contro il governo. I cattolici messicani, di concerto con il Vaticano, risposero inizialmente con iniziative di protesta non violente, tra le quali il boicottaggio di tutti i prodotti di fabbricazione statale (ad esempio il consumo di tabacchi crollò del 74%) e la presentazione di una petizione che raccolse 2 milioni di firme (su 15 milioni di abitanti). Il governo non diede alcuna risposta e la Chiesa decise infine un estremo gesto simbolico: la sospensione totale del culto pubblico. A partire dal 1º agosto 1926, in tutto il Messico non si sarebbe più celebrata la Messa né i sacramenti, se non clandestinamente. Il 18 novembre papa Pio XI denunciò la persecuzione dei cattolici messicani con l'enciclica Iniquis Afflictisque. Lo scontento degenerò in aperte violenze quando oltre 5.000 Cristeros diedero inizio ad una ribellione armata. Il governo messicano e i cattolici ingaggiarono un sanguinoso conflitto che durerà per tre anni. Nel 1927 si formò un vero e proprio esercito ribelle, forte di ventimila uomini, che in seguito aumentarono fino a cinquantamila, al comando del generale Enrique Gorostieta Velarde. All'esercito si affiancavano le "brigate Santa Giovanna d'Arco", formazioni paramilitari femminili che giunsero a contare 25000 membri, tra cui anche giovani di soli 14 anni. Tra il 1927 e il 1929 tutti i tentativi di schiacciare la ribellione fallirono; gli insorti anzi presero il controllo di vaste zone nel sud del paese. La Chiesa messicana e il Vaticano, tuttavia, non diedero mai il loro aperto sostegno alla ribellione (il che non impedì al governo di giustiziare anche numerosi sacerdoti che non ne facevano parte), e agirono per giungere ad una soluzione pacifica. Il 21 giugno 1929 furono così firmati gli Arreglos ("accordi"), che prevedevano l'immediato cessate il fuoco e il disarmo degli insorti. I termini dell'accordo, mediati (o piuttosto imposti) dall'ambasciatore degli Stati Uniti, erano però estremamente sfavorevoli alla Chiesa: in pratica tutte le leggi anticattoliche rimanevano in vigore. Questo periodo di anticlericalismo messicano ha ispirato a Graham Greene la scrittura del romanzo Il potere e la gloria.
Anticlericalismo in Portogallo. Nel 1750 il Portogallo fu il primo paese ad espellere i gesuiti.
Una prima ondata di anticlericalismo si verificò nel 1834 sotto il regno di Pietro IV, quando il ministro Joaquim António de Aguiar decretò la soppressione degli ordini religiosi. Parallelamente, alcune delle più note scuole religiose del Portogallo furono obbligate a cessare l'attività. In questo periodo lo scrittore e politico Almeida Garrett pubblicò la commedia anticlericale A sobrinha do Marquês (1848). La caduta della monarchia a seguito della Rivoluzione repubblicana del 1910 causò un'ulteriore ondata di anticlericalismo. La rivoluzione colpì in primo luogo la Chiesa cattolica: vennero saccheggiate le chiese, vennero attaccati i conventi. Furono presi di mira anche i religiosi. Il nuovo governo inaugurò una politica anticlericale. Il 10 ottobre il nuovo governo repubblicano decretò che tutti i conventi, tutti i monasteri e tutte le istituzioni religiose fossero soppresse: tutti i religiosi venivano espulsi dalla repubblica e i loro beni confiscati. I gesuiti furono costretti a rinunciare alla cittadinanza portoghese. Seguirono, in rapida successione, una serie di leggi anticattoliche: il 3 novembre venne legalizzato il divorzio. In seguito passarono leggi che legittimavano i figli nati fuori dal matrimonio, che autorizzavano la cremazione, che secolarizzavano i cimiteri, che sopprimevano l'insegnamento religioso a scuola e che proibivano di indossare l'abito talare. Inoltre al suono delle campane e ai periodi di adorazione furono poste alcune restrizioni e la celebrazione delle feste popolari fu soppressa. Il governo interferì anche nei seminari, riservandosi il diritto di nominare i professori e determinare i programmi. Questa lunga serie di leggi culminò nella legge di separazione fra Chiesa e Stato che fu approvata il 20 aprile 1911. Il 24 maggio dello stesso anno papa Pio X deplorò la legge portoghese con l'enciclica Iamdudum.
Anticlericalismo in Spagna. Già tra il XV ed il XVI secolo si nota nella letteratura e nel teatro spagnolo la presenza di opere, o parti di esse, di contenuto anticlericale, spesso generate dall'ammirazione per Erasmo da Rotterdam. Si nota quindi Alfonso de Valdés, con la sua Discorso de Latancio y del Arcediano, dove si compiace di descrivere la corruzione della Roma papale punita con il sacco di Roma; a causa del controllo esercitato dal Sant'Uffizio, si trovano tracce di anticlericalismo celato, come nella commedia di Luis Belmonte Bermúdez, El diablo predicador, o negli aforismi perduti di Miguel Cejudo. In seguito alla prima guerra carlista del 1836, il nuovo regime chiuse i maggiori conventi e monasteri della Spagna. In questo contesto, il radicale Alejandro Lerrouxsi caratterizzava per un'oratoria violenta e incendiaria. Dal punto di vista economico la Chiesa cattolica in Spagna fu pesantemente colpita dalle leggi di esproprio e confisca dei beni ecclesiastici, che si susseguirono dal 1798 al 1924: il più famoso di questi provvedimenti è noto con il nome di Desamortización di Mendizábal del1835. Circa un secolo dopo, instaurata la Seconda repubblica e approvata la Costituzione del 1931, proseguì la legislazione anticlericale, inaugurata il 24 gennaio 1932con lo scioglimento in Spagna della Compagnia di Gesù e l'esilio della maggioranza dei gesuiti. Il 17 maggio 1933, il governo varò la controversa Legge sulle Confessioni e Congregazioni Religiose (Ley de Confesiones y Congregaciones Religiosas), approvata dal parlamento il 2 giugno 1933, e regolamentata mediante un decreto del 27 luglio[54]. La legge confermava la proibizione costituzionale dell'insegnamento per gli ordini religiosi, mentre si dichiararono di proprietà pubblica i monasteri e le chiese. La legge fu un duro colpo al sistema scolastico (le scuole gestite dagli ordini religiosi contavano 350.000 alunni) in un Paese dove il 40% della popolazione era analfabeta. Reagì contro la legge papa Pio XI, con l'enciclica Dilectissima Nobis del 3 giugno 1933. Durante la guerra civile spagnola del 1936, molti appartenenti all'armata Repubblicana erano volontari anarchici e comunisti fortemente anticlericali e provenienti da varie parti del mondo. Nel corso dei loro assalti, (in risposta all'atteggiamento del clero, che con toni da crociata si era schierato dalla parte dell'insurrezione antirepubblicana di Francisco Franco e che denunciava spesso gli anarchici alle autorità, condannandoli a morte certa) parecchi edifici di culto e monasteri vennero bruciati e saccheggiati. Al termine del conflitto, la stima delle vittime religiose ascende a più di 6.000 religiosi trucidati, tra cui 259 clarisse, 226 francescani, 155 agostiniani, 132 domenicani e 114 gesuiti. Gli episodi raccapriccianti non furono isolati: stupri di suore, fucilazioni rituali di statue di santi, preti cosparsi di benzina e arsi, taglio di orecchie e genitali "papisti" e persino corride con sacerdoti al posto di tori[55]. La stragrande maggioranza della Chiesa cattolica salutò la vittoria di Franco, militarmente sostenuto da Hitler e Mussolini, come un provvidenziale intervento divino nella storia di Spagna. Nonostante la guerra fosse stata per Hitler nient'altro che il banco di prova della tragedia che stava preparando per l'Europa, papa Pio XII nel suo radiomessaggio del 16 aprile 1939, Con immensa gioia, parlò di una vera e propria vittoria "contro i nemici di Gesù Cristo". La Chiesa cattolica, sotto il papato di Giovanni Paolo II, tra il 1987 ed il 2001 ha riconosciuto e canonizzato 471 martiri della guerra civile spagnola; altri 498 sono stati poi beatificati nel 2007 da Benedetto XVI. Recentemente, anche il premier Zapatero è stato avvicinato all'anticlericalismo per le sue politiche laiche.
Anticlericalismo negli Stati Uniti. L'anticlericalismo statunitense (o meglio l'anticattolicesimo) degli anni cinquanta del secolo XIX trovò espressione nel Know Nothing: un movimento xenofobo ("nativista"), che traeva forza dalle paure popolari che il paese potesse essere sopraffatto dall'immigrazione massiccia dei cattolici irlandesi, ritenuti ostili ai "valori americani" e controllati dal papa. Sebbene i cattolici asserissero di essere politicamente indipendenti dal clero, i protestanti accusavano papa Pio IX di aver posto fine alla Repubblica Romana e di essere un nemico della libertà, della democrazia e del protestantesimo. Questi rilievi fomentarono teorie di cospirazione che attribuivano a Pio IX il disegno di soggiogare gli Stati Uniti mediante un'immigrazione continua di cattolici controllati da vescovi irlandesi obbedienti e personalmente selezionati dal Pontefice. Un'eco di anticlericalismo è presente nelle elezioni presidenziali del 1928, in cui il Partito Democratico candidò il governatore dello stato di New York Al Smith, (il primo cattolico candidato alla presidenza da un grande partito), che fu attaccato come "papista". L'elettorato temeva che "se Al Smith fosse eletto presidente, gli Stati Uniti sarebbero governati dal Vaticano". L'anticlericalismo ha trovato anche esponenti laici, non legati al protestantesimo e all'opposizione agli immigrati, in epoca recente: ad esempio il giornalista anglo-americano Christopher Hitchens, accusato spesso di anticattolicesimo, ateo e antislamista; i laici americani riprendono le posizioni del presidente Thomas Jefferson che fu uno dei più forti sostenitori di uno stato non legato alla religione all'epoca della nascita degli Stati Uniti. Uno dei cavalli di battaglia più recenti degli anticlericali statunitensi è la lotta contro l'ingerenza evangelicista nella politica interna nonché la critica contro il clero cattolico per loscandalo pedofilia che ha coinvolto molte diocesi americane.
Anticlericalismo nella Germania nazista. La propaganda nazista ebbe tratti anticlericali. Ad esempio Himmler, capo supremo delle SS e della Gestapo, riprende alcuni motivi cari all'anticlericalismo: la depravazione e perversione del clero, la svalorizzazione della donna, la corruzione della grandezza di Roma: «Sono assolutamente convinto che tutto il clero e il cristianesimo cercano soltanto di stabilire un'associazione erotica maschile e a mantenere questo bolscevismo che esiste da duemila anni. Conosco molto bene la storia del cristianesimo a Roma, e ciò mi permette di giustificare la mia opinione. Sono convinto che gli imperatori romani, che hanno sterminato i primi cristiani, hanno agito esattamente come noi con i comunisti. A quell'epoca i cristiani erano la peggior feccia delle grandi città, i peggiori ebrei, i peggiori bolscevichi che vi possiate immaginare. Il bolscevismo di quell'epoca ha avuto il coraggio di crescere sul cadavere di Roma. Il clero di quella Chiesa cristiana che, più tardi, ha sottomesso la Chiesa ariana dopo lotte infinite, cerca, dal IV o V secolo, di ottenere il celibato dei preti. [...]dimostreremo che la Chiesa, sia a livello dei dirigenti che a quello dei preti, costituisce nella maggior parte un'associazione erotica di uomini che terrorizza l'umanità da 1.800 anni, che esige che questa umanità le fornisca una grandissima quantità di vittime e che, nel passato, si è dimostrata sadica e perversa. Posso soltanto citare i processi alle streghe e agli eretici.» (Testo del discorso segreto tenuto da Heinrich Himmler il 17-18 febbraio 1937 ai generali delle SS in relazione ai "pericoli razziali e biologici dell'omosessualità. Ciononostante, il Partito del Centro Cattolico di Germania, guidato da Franz von Papen, aveva appoggiato l'ascesa del nazismo in Germania e, nel gennaio 1933, la nomina di Hitler a Cancelliere, di cui von Papen divenne vice-Cancelliere. Nel marzo dello stesso anno, il partito di von Papen votò la concessione dei pieni poteri a Hitler in cambio di privilegi che sarebbero stati concessi alla Chiesa nel Concordato con la Germania nazista, che venne firmato nel 4 mesi più tardi dal cardinale Pacelli (futuro papa Pio XII). Hitler stesso aveva dichiarato più volte ai suoi collaboratori la sua ostilità verso la Chiesa: "Ho conquistato lo Stato a dispetto della maledizione gettata su di noi dalle due confessioni, quella cattolica e quella protestante. (13 dicembre 1941) I preti oggi ci insultano e ci combattono, si pensi per esempio alla collusione tra la Chiesa e gli assassini di Heydrich. Mi è facile immaginare come il vescovo von Galen sappia perfettamente che a guerra finita regolerò fino al centesimo i miei conti con lui... (4 luglio 1942) - I preti sono aborti in sottana, un brulichio di cimici nere, dei rettili: la Chiesa cattolica stessa non ha che un desiderio: la nostra rovina- La dottrina nazionalsocialista è integralmente antiebraica, cioè anticomunista ed anticristiana. (Notte tra il 29 e il 30 novembre 1944) - schiaccerò la chiesa come un rospo " e aveva mostrato con fatti concreti il suo anticlericalismo, violando continuamente il Reichskonkordat. Oltre a far togliere i crocefissi dalle aule scolastiche e pubbliche, nella sola Germania più di un terzo del clero secolare e un quinto circa del clero regolare, ossia più di 8000 sacerdoti furono sottoposti a misure coercitive (prigione, arresti illegali, campi rieducativi), 110 morirono nei campi di concentramento, 59 furono giustiziati, assassinati o perirono in seguito ai maltrattamenti ricevuti.
Anticlericalismo in Argentina. Durante il primo periodo peronista, ci furono alcuni atteggiamenti e leggi anticlericali. Inizialmente i rapporti tra il governo di Juan Domingo Perón e di sua moglie Evita e le gerarchie ecclesiastiche furono buoni, e il peronismo non era affatto antireligioso, ma si incrinarono quando Perón legalizzò l'aborto e facilitò il divorzio, introducendo leggi che ostacolavano l'istruzione religiosa. Il governo di Juan Domingo Perón in un primo momento fu legato alle Forze Armate, e l'esercito e la Chiesa erano all'epoca considerati il baluardo contro le ideologie socialiste e comuniste. La Chiesa, inoltre, sosteneva la dottrina politica della "giustizia sociale", e condivideva con il peronismo l'idea che fosse compito dello Stato mediare nei conflitti di classe e livellare le disuguaglianze sociali. Ci furono, tuttavia, settori della Chiesa cattolica, già reduce dai provvedimenti antiecclesiastici del Messico di Calles un ventennio prima, che accusavano il peronismo di statalismo per l'eccessiva interferenza del governo nazionale nella vita privata e in contesti che non gli competevano. Il motivo della critica era dovuto anche al fatto che spesso lo Stato invadeva le sfere tradizionalmente di competenza della Chiesa nel momento in cui si interessava, ad esempio, dei piani di assistenza e della pubblica educazione. Le alte gerarchie ecclesiali argentine erano rimaste alleate dell'oligarchia, nonostante la Costituzione del 1949 trattasse con moltissimo riguardo il cattolicesimo, facendone religione di Stato nell'articolo 2, e affermasse che il Presidente dovesse essere un cattolico. Nel 1946 il Senato approvò una legge che riaffermava e confermava tutti i decreti stabiliti dalla giunta militare del precedente governo dittatoriale. Tra questi decreti c'era anche la legge sull'istruzione religiosa obbligatoria varata nel 1943. Questa legge era stata duramente discussa alla Camera dei Deputati, ed era passata solo grazie al voto dei peronisti. Gli argomenti che apportarono a favore della legge furono nazionalistici ed antiliberali: si sottolineò il legame esistente tra l'identità della nazione e il profondo cattolicesimo della Spagna, e si enfatizzò il ruolo che la religione avrebbe avuto nella formazione delle coscienze e della società. Questa riaffermazione della legge sull'educazione religiosa, tuttavia, limitò i poteri della Chiesa dando ragione a coloro che all'interno della stessa Chiesa tacciavano il peronismo di statalismo: i programmi scolastici e i contenuti dei libri di testo erano responsabilità dello Stato, il quale avrebbe potuto consultare le autorità ecclesiastiche qualora ce ne fosse stato bisogno; le altre materie scolastiche continuarono ad essere insegnate secondo lo spirito della Legge 1420 del 1884, e quindi continuarono a seguire la tradizione laicista dello stile di formazione argentino; l'educazione scolastica divenne un mezzo di propaganda per il culto della personalità del Presidente e di sua moglie Eva; nel giugno 1950, infine, Perón nominò Armando Méndez San Martín, un massone anticattolico, Ministro della Pubblica Istruzione, cominciando a guardare la Chiesa con sospetto. Durante il suo secondo mandato Perón non condivise l'aspirazione della Chiesa di promuovere partiti politici cattolici. Infine, alcune leggi peroniste provocarono malumori tra i vescovi: nel 1954 il governo soppresse l'educazione religiosa nelle scuole, tentò di legalizzare la prostituzione, di far passare una legge sul divorzio, e di promuovere un emendamento costituzionale per separare completamente Stato e Chiesa. Perón, poi, accusò pubblicamente il clero di sabotaggio. Il 14 giugno1955, durante la festa del Corpus Domini, i vescovi Manuel Tato e Ramón Novoa fecero discorsi antigovernativi. Fu il punto di rottura: durante quella stessa notte gruppi di peronisti attaccarono e bruciarono alcune chiese di Buenos Aires. Perón divenne apertamente anticlericale e, due giorni dopo questi fatti, venne scomunicato da papa Pio XII. Perón venne deposto nel 1955, ma tornò al potere nel 1973. Alla sua morte (1974) il potere passò alla terza moglie Isabelita Perón, che venne deposta a sua volta da un golpe militare. La dittatura di Jorge Rafael Videla, sosteneva la religione come mezzo di controllo sociale, anche se vi furono molti preti e religiosi che finirono nel numero dei desaparecidos. Con il ritorno della democrazia, ci sono stati alcuni contrasti fra la Chiesa e il governo di Néstor e Cristina Fernández de Kirchner.
Campagna elettorale per la Costituzione dell'Ecuador. In occasione del referendum costituzionale del settembre 2008, la Chiesa cattolica ha preso posizione guidando il fronte del no e ha invitato gli elettori a votare contro la proposta dell'Assemblea costituente ecuadoriana perché, a giudizio dei vescovi, la nuova Costituzione non avrebbe tutelato il diritto alla vita del concepito, lasciando intravedere il diritto per le donne all'aborto. La nuova Costituzione ecuadoriana, all'articolo 66.3.a, tutela infatti l'integrità fisica, psichica, morale e sessuale di ogni persona, senza specificare, come avrebbe voluto la Chiesa, un primato del concepito sulla madre. L'articolo 66.9 garantisce il diritto di decidere sulla propria sessualità e orientamento sessuale. L'articolo 66.10 garantisce il diritto di decidere quanti figli generare e quando. Secondo i vescovi gli articoli sarebbero vaghi e generici e permetterebbero l'introduzione del diritto all'interruzione di gravidanza e del matrimonio omosessuale. Il governo di Rafael Correa ha reagito fermamente alle critiche avanzate dai vescovi cattolici, invitando gli elettori a non farsi catechizzare dai preti, accusati, senza mezzi termini, di mentire e di esercitare indebite ingerenze nella politica nazionale. Il presidente del Tribunale supremo elettorale, Jorge Acosta, ha invitato pubblicamente la Conferenza Episcopale Ecuadoriana a registrarsi come soggetto politico per continuare la sua «campagna di catechesi costituzionale», accusandola al contempo di non aver rispettato le norme giuridiche e di non aver nominato un tesoriere per il finanziamento della campagna stessa. L'episcopato cattolico ha invocato il diritto di esprimere la propria opinione richiamandosi alla Dichiarazione universale dei diritti umani e ha protestato per gli epiteti offensivi rivolti a vescovi e sacerdoti nella campagna del governo, costata milioni di dollari. Anche il Centro Latinoamericano dei Diritti Umani ha espresso la sua preoccupazione per gli attacchi verbali del presidente Correa contro la Conferenza Episcopale. Gli elettori ecuadoriani hanno poi, nel referendum, approvato la Costituzione con un'ampia maggioranza di circa il 64% contro circa il 29%. Durante la visita ad limina a papa Benedetto XVI nell'ottobre del 2008, i vescovi ecuadoriani hanno espresso disappunto per i rapporti con il governo ecuadoriano, giudicato anticlericale.
Anticlericalismo negli Stati comunisti. Molti governi comunisti, che praticavano l'ateismo di Stato, sono stati violentemente anticlericali, abolendo le festività religiose, imponendo il solo insegnamento dell'ateismo nelle scuole, chiudendo chiese, monasteri, scuole ed istituti religiosi. Il culto privato rimase ufficialmente consentito, tranne nell'Albania, che imponeva l'ateismo anche nella propria Costituzione. A Cuba le manifestazioni religiose pubbliche sono state rese legali solo nel 1993. In alcuni stati fortemente cattolici, come la Polonia, la Chiesa era tollerata fino a quando restava in ambito religioso e non interferiva o criticava il governo comunista. In Russia, poi Unione Sovietica, nel marzo del 1922 viene decisa la requisizione degli oggetti di culto preziosi appartenenti al clero, ufficialmente allo scopo di rimediare agli effetti della carestie che si erano accompagnate durante la guerra. Tuttavia, molti ritengono che tale provvedimento fosse in realtà finalizzato a provocare la reazione degli ecclesiastici (che consideravano i paramenti liturgici sacri), per poterli perseguitare "con ragione". Infatti si ebbero circa un migliaio di episodi di "resistenza", a seguito dei quali i Tribunali rivoluzionari comminarono la pena di morte a 28 vescovi e 1215 preti e la pena detentiva a circa 100 vescovi e diecimila preti. In tutto, durante tale "iniziativa", vennero uccisi circa ottomila membri del clero. In dicembre viene organizzata una campagna pubblica per irridere il Natale; simili manifestazioni si avranno l'anno seguente anche in occasione della Pasqua e della festa ebraica del Yom Kippur. Migliaia di monaci e sacerdoti sono stati condannati a morte o ai lavori forzati nei gulag durante il regime di Stalin. La separazione tra Stato e Chiesa venne decisa nel territorio dell'URSS il 23 gennaio 1918 dai soviet, poco dopo la fine della Rivoluzione russa. Lo Stato divenne laico e ufficiosamente ateo, sostenendo l'ateismo di Stato, anche se ciò non venne mai sancito esplicitamente nelle Costituzioni, che si limitavano a nominare la religione solo affermando la divisione netta tra Chiesa e Stato e la libertà di culto e coscienza; l'ateismo di stato venne attuato in forma di politica governativa anticlericale e antireligiosa, dal punto di vista pratico e culturale, tramite leggi ordinarie e propaganda. La religiosità venne ridotta a semplice scelta privata, secondo l'ideologia di Lenin e del marxismo, da considerare lecita ma da scoraggiare, al di fuori della sfera personale. La chiesa ortodossa russa fu costretta a rinunciare a tutti i privilegi, come l'esenzione dalle tasse e dal servizio militare per i sacerdoti e i monaci, e per un certo periodo perseguitata. Con la Costituzione sovietica del 1918, emanata per la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poi estesa alle altre repubbliche federate, venne permesso di svolgere formalmente "propaganda religiosa e non-religiosa", anche se svolgere attiva propaganda di religione o di idee ritenute "superstizioni" in luogo o edificio pubblico (come la propaganda religiosa nelle scuole, l'esposizione di immagini religiose nei luoghi di lavoro, le processioni, ecc.) poteva essere sanzionato con multe o lavori forzati fino a 6 mesi. Coloro i quali non svolgevano lavori socialmente utili (non solo ecclesiastici, ma anche ex agenti zaristi, privati, ad eccezione di artigiani e contadini dei colchoz, ecc.) venivano esclusi dal voto e non pagati, restrizione poi eliminata nel 1936. Quindi questi ultimi, una volta esaurite le risorse di cui erano dotati, dovettero svolgere un altro lavoro per sostentarsi, secondo il principio "chi non lavora non mangia". Venne introdotto il matrimonio civile e negata validità legale a quello religioso, vennero distrutte alcune chiese che occupavano suolo pubblico, altre vennero convertite in uffici e musei pubblici e vennero inoltre abolite tutte le feste religiose come ad esempio il Natale o lo Yom Kippur ebraico. Con Stalin il processo antireligioso dello Stato fu completato. La costituzione sovietica del 1924 non conteneva esplicitamente norme sulla religione, in quanto era stata votata come integrazione per sancire la nascita dell'unione federale delle repubbliche come Unione sovietica, mentre per quanto riguarda i diritti e doveri dei cittadini, restò in vigore la relativa parte della costituzione del 1918. Infine, solo in alcune località remote venne concesso di svolgere cerimonie religiose. Secondo fonti ortodosse, nel 1917 erano attive circa 80.000 chiese, mentre è stato calcolato che erano circa 20.000 nel 1954 e 10.000 nel 1965. La Costituzione sovietica del 1936 sancì la libertà di culto privato, e autorizzò solo la propaganda antireligiosa, ribadendo nuovamente la netta divisione tra Chiesa e Stato. Restarono valide le normative penali del 1922 contro le "superstizioni religiose" diffuse in pubblico. Nel 1927 venne approvato l'articolo del codice penale che sanciva, tra l'altro, che svolgere propaganda religiosa in tempo di guerra o crisi, se considerato fatto con lo scopo preciso di abbattere il regime comunista o danneggiare direttamente o indirettamente lo Stato, poteva essere punito anche con la pena di morte. Durante la seconda guerra mondiale, nel1943, Stalin diede una tregua alla campagna antireligiosa e chiese al patriarca Sergio I di Mosca (in seguito a un incontro avvenuto tra i due) di supportare moralmente i soldati al fronte contro i nazisti. Nello stesso periodo Sergio I rientrò a Mosca e morì nel 1944. Stalin concederà poi alla Chiesa ortodossa la possibilità di celebrare funzioni religiose, ma solo all'interno delle chiese autorizzate e nel privato. Con Nikita Khruščёv riprendono le misure più restrittive verso la Chiesa, e si riprende la propaganda attiva dell'ateismo di Stato dopo la tregua iniziata nel 1943 e durata sino al 1954. Soltanto negli anni ottanta, dopo la continuazione della politica antireligiosa dei governi Breznev, Andropov e Cernenko, vi fu una nuova tregua nella lotta attiva contro la religione, a partire dall'ascesa al potere diMichail Gorbačëv. La situazione di tolleranza pratica perdurò fino al 1990, quando Gorbačëv permise la libera propaganda religiosa e instaurò la libertà di culto in via ufficiale, al posto dell'ateismo di stato. Istituì inoltre l'Istituto per l'ateismo scientifico di Leningrado, che durò fino allo scioglimento dell'URSS, nel 1991. Nell'Unione Sovietica vennero introdotti il divorzio (1º dicembre 1917) e l'aborto nel 1920 (reso molto più difficile da Stalin nel 1935, poi reintrodotto nel 1955) e negata la validità del matrimonio religioso (dicembre 1917). Anche in Cina l'anticlericalismo ha comportato la soppressione (spesso anche fisica) del clero di varie religioni, compreso anche il monachesimo buddista del Tibet. La libertà religiosa ufficialmente è assicurata, anche se in realtà alcuni movimenti sono perseguitati e la stessa Chiesa cattolica e la nomina dei suoi vescovi sono subordinate all'avallo del Partito Comunista Cinese.
Anticlericalismo negli stati islamici. Influenzati dall'occidente anche alcuni Paesi islamici, principalmente la Turchia negli anni venti e l'Iran negli anni sessanta, vararono provvedimenti anticlericali contro il clero musulmano. «Per quasi cinquecento anni, queste regole e teorie di un vecchio arabo e le interpretazioni di generazioni di religiosi pigri e buoni a nulla hanno deciso il diritto civile e penale della Turchia. Loro hanno deciso quale forma dovesse avere la Costituzione, i dettagli della vita di ciascun turco, cosa dovesse mangiare, l’ora della sveglia e del riposo, la forma dei suoi vestiti, la routine della moglie che ha partorito i suoi figli, cosa ha imparato a scuola, i suoi costumi, i suoi pensieri e anche le sue abitudini più intime. L’Islam, questa teologia di un arabo immorale, è una cosa morta. Forse poteva andare bene alle tribù del deserto, ma non è adatto a uno stato moderno e progressista. La rivelazione di Dio! Non c’è alcun Dio! Ci sono solo le catene con cui preti e cattivi governanti inchiodano al suolo le persone. Un governante che abbisogna della religione è un debole. E nessun debole dovrebbe mai governare.» Mustafa Kemal Atatürk, militare e politico membro del movimento dei Giovani Turchi e della Massoneria, prese il potere nel 1923. Egli era anticlericale e in favore di un forte nazionalismo, il suo modello di riferimento trovava radici nell'Illuminismo. Aveva l'ambizione di creare una moderna forma di civiltà turca. Durante tutto il periodo e anche oltre, l'esercito rimase il pilastro della nazione e la scuola fu riformata in modo da essere laica, gratuita e obbligatoria. La nuova capitale fu posta ad Ankara, scelta a scapito di Istanbul (due volte capitale imperiale: Impero Romano d'Oriente ed Impero Ottomano). La lingua fu riformata nello stile e nell'alfabeto: l'alfabeto ottomano di origine araba venne sostituito dall'alfabeto latino nel 1928. Nello stesso periodo la storia venne riscritta per dare radici alla nazione, e legarla all'occidente. Kemal, la cui ideologia è detta kemalismo, introdusse il cognome al posto del patronimico arabo: a lui il parlamento assegnò il cognome Atatürk, cioè "padre dei turchi". Usanze islamiche, come portare la barba, i baffi alla turca o i copricapi arabi come il fez furono scoraggiate o vietate (ai militari fu proibito di portare i baffi e tuttora devono essere sbarbati). Dalla rivoluzione del 1908, i diritti delle donne uscirono rinforzati. Nel 1919, sotto l'influsso dei militari, furono adottate misure per cambiare lo status delle donne: la parità con gli uomini fu riconosciuta nel codice civile, il matrimonio civile reso obbligatorio per chi volesse sposarsi, fu introdotto il divieto di poligamia, vietati il ripudio (divorzio unilaterale maschile) e l'uso del velo islamico nei luoghi pubblici (possibilità resa nuovamente lecita solo nel 2011), legalizzata la produzione e la vendita delle bevande alcoliche, resa obbligatoria l'iscrizione a scuola per le bambine, incentivata l'assunzione di donne in vari posti di lavoro e così dicendo. Nel 1934 fu riconosciuto alle donne il diritto di votare e nel 1935 furono elette delle donne al parlamento turco. La Turchia kemalista era risolutamente laica. Il califfato fu abolito il 3 marzo 1924. Questo gesto fu considerato come un sacrilegio da parte del mondo arabo-musulmano. Nel 1928, primo paese del mondo musulmano, l'Islam non era più la religione di Stato e, nel 1937, il secolarismo venne sancito nella Costituzione. Fu adottato il calendario gregoriano, e la domenica divenne il giorno settimanale di riposo. Proseguendo la secolarizzazione delle leggi cominciata nel 1839 dalleTanzimat (riforme) dell'Impero Ottomano, il regime kemalista adottò nel 1926, un codice civile sulla base del codice svizzero, un codice penale sulla base del codice italiano e un codice commerciale basato sul Codice tedesco. Furono abolite le pene corporali previste dalla legge islamica, i reati di apostasia e adulterio. L'anticlericalismo del regime era pronunciato, ma lo spiritualismo musulmano non fu mai completamente abbandonato. L'Islam e le altre religioni, compreso il cristianesimo, erano inoltre controllate attraverso l'Organo per la Direzione degli Affari Religiosi, creato nel 1924. Sotto l'influsso del kemalismo anche dopo la morte del leader continuarono le riforme: fu depenalizzata l'omosessualità, anche se i gay turchi vengono tuttora discriminati, non potendo, ad esempio, far parte dell'esercito. In tempi recenti l'avvento al potere di un partito islamico moderato, anche se non ha abolito lo Stato laico, ha incrementato tuttavia la rinascita di movimenti e sentimenti "islamisti". Nel 2008 i militari, guardiani del secolarismo secondo la visione di Atatürk hanno tentato un colpo di Stato, fallito, in difesa della laicità e contro il governo eletto di Recep Tayyip Erdoğan. Mohammad Reza Pahlavi, scià di Persia, varò la cosiddetta rivoluzione bianca, che modernizzò il Paese in senso occidentale; benché egli, a differenza di Atatürk, fosse un fervente praticante musulmano (nonché formalmente capo supremo dell'Islam sciita duodecimano), era fortemente e violentemente avverso al clero e all'influenza dei mullah. Reza proibì, ad esempio, l'uso del velo in luoghi pubblici e perseguitò il clero che si opponeva alle riforme occidentalizzanti, uccidendo, imprigionando o esiliando i mullah e gli imam, compreso l'Ayatollah Khomeini inviato in esilio nel 1964. Lo scià modernizzò il paese con la forza, ma vietò ogni tipo di opposizione alla sua monarchia. Furono resi legali il gioco d'azzardo, la prostituzione, le bevande alcoliche, istituito il suffragio femminile e il matrimonio civile. Tra il fronte di rivolta alle riforme pahlavidi, soprattutto per la loro impronta giurisdizionalista, si schierò soprattutto il clero sciita perché veniva privato dei benefici assolutisti, nonché gruppi religiosi che si erano opposti alla sua riforma agraria e sociale, che venivano espropriati di molti beni di manomorta, controllati dalle gerarchie religiose. Tuttavia, la sua posizione ambivalente nei confronti della religiosità iraniana, della quale era virtualmente anche il capo (incarnando un modello cesaropapistico), lo poneva in difficoltà impedendogli di prendere provvedimenti drastici onde evitare lo scontento aperto e manifesto delle masse popolari. Alla rivoluzione iraniana, nel 1979, Khomeini prese il potere e lo scià dovette fuggire. I religiosi instaurarono un regime clericale ed islamista, la repubblica islamica, che cancellò le riforme del periodo Pahlavi e perseguitò anche la sinistra che aveva contribuito a combattere l'autocrazia dello scià.
Anticlericalismo oggi in Italia. Il potere temporale dei papi ha cessato di esistere, ad esclusione ovviamente del diritto a legiferare e governare nei limiti territoriali della Città del Vaticano, ma rimangono tuttora fortemente contestati, da parte di alcuni ambienti laici, la ripetuta attività di pressione, diretta e indiretta, esercitata dalla Chiesa, in nome dei propri valori e delle proprie finalità, nella società e nella politica, anche attraverso la ramificata presenza delle sue organizzazioni all'interno di partiti, associazioni, enti pubblici e privati. L'anticlericalismo rimane presente in varie forme in alcuni giornali satirici come il settimanale parigino Le Canard enchaîné, e nel dibattito politico e culturale di vari stati, come reazione all'influsso esercitato dalla chiesa sui partiti politici che dichiarano di richiamarsi ai valori cristiani e sui governi degli stati a maggioranza cattolica. Oggi l'anticlericalismo in Italia si esplica nelle tensioni della attualità politica; l'etica e la morale sono ancora terreno vivo e fertile dello scontro tra parti, tra Stato e Chiesa, tra comunità scientifiche. Tra le questioni dibattute sono sicuramente al vertice la libertà di ricerca scientifica, in particolare sulle cellule staminali embrionali, la procreazione medicalmente assistita sia eterologa che omologa, l'eutanasia e la terapia del dolore, le unioni civili, la legalizzazione dell'aborto, la contraccezione e la pillola RU486. L'anticlericalismo contemporaneo spesso focalizza l'attenzione sugli aspetti più arretrati che ritiene presenti, sia pure con diversi livelli di gravità, in diverse religioni, come l'Islam quali, ad esempio, la condizione di subalternità della donna. In questo senso, si potrebbe ritenere come anticlericale la recente legge varata in Francia che vieta l'uso del velo e dei simboli religiosi all'interno delle aule scolastiche. La possibilità che, su invito del rettore, papa Benedetto XVI potesse inaugurare l'anno accademico all'università la Sapienza di Roma, il 17 gennaio 2008, è stata contestata fortemente da alcuni gruppi studenteschi e da 67 professori, in particolare di materie scientifiche. Richiamandosi ad una lettera aperta di Marcello Cini al rettore apparsa su il manifesto, i contestatori ritenevano inopportuna la visita del papa sulla base di una citazione del Pontefice, risalente ad un suo discorso del1990 tenuto a Parma. L'allora cardinale Ratzinger aveva citato il filosofo Feyerabend: «La Chiesa dell'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione». Questa citazione costituiva, secondo i 67 professori (tra cui il presidente del CNR), una minaccia alla laicità della scienza. La contestazione portò all'annullamento della visita del Papa, che preferì declinare l'invito del rettore, in quanto non era condiviso da tutta l'università.
Alla testa dei cattocomunisti ci stanno i comunisti, con i cattolici che fanno da prestanome, pronti ad essere sfrattati quando necessario, scrive Diego Gabutti il 28 ottobre 2015 su “Italia Oggi”. Vittima prima del libro Cuore e della retorica risorgimentale, poi del fascismo, quindi del clericalismo e del comunismo, infine del giustizialismo e del berlusconismo, mai che sull'Italia brilli una buona stella, come sa bene Massimo Teodori. Radicale storico, uno dei rari intellettuali laici e liberali in un paese di bacchettoni, devoti soltanto a ubbìe ideologiche e a idee fisse religiose, Teodori continua la sua esplorazione dell'Italia sotto sortilegio illiberale (e luogo di catastrofi culturali) con il suo ultimo libro, Il vizietto cattocomunista (Marsilio 2015, pp. 176, 14,00 euro, ebook 9,99 euro). È la storia lunga settant'anni «del connubio tra eredi del Pci e della sinistra democristiana» che ha per capolinea il partito democratico di Matteo Renzi. Teodori ripercorre nel suo libro tutta la vicenda: la guerra di Togliatti contro Benedetto Croce e gli altri nemici del Concordato con la Chiesa, il congresso della gioventù comunista in cui un Enrico Berlinguer poco più che ventenne invitava le giovani militanti a prendere esempio (in fatto di morale sessuale) da Santa Maria Goretti, gl'innumerevoli tentativi d'arruffianarsi la sinistra cattolica, le titubanze in tema d'aborto e di divorzio, l'epoca in cui Berlinguer (sempre lui) predicava il compromesso storico tra comunisti e democristiani contro le derive (non sembra vero, visto il pulpito) clericali e autoritarie, l'odio per il laicismo craxiano, la guerra contro il consumismo e l'elogio dell'austerità, l'invenzione della «questione morale», poi la crisi del comunismo internazionale e la caduta dell'Urss. Arrivano i giorni di Tangentopoli, Craxi se ne va in esilio come Trotzky, i laici si raccolgono intorno al nascente partito di plastica, sparisce la Dc, il Pci cambia nome. In questa generale rovina una sola forza ideologicamente e politicamente attiva porta a casa la pelle: il cattocomunismo, con i suoi ingombri religiosi e i suoi pregiudizi ideologici. Alla testa dei cattocomunisti ci sono i comunisti e i cattolici (tra cui lo stesso Romano Prodi) fanno più che altro da prestanome (come gli «utili idioti» d'un tempo, che potevano essere sfrattati senza preavviso da ogni incarico). Poi Matteo Renzi chiede banco, come a baccarat. Sono i cattolici, non appena il suo astro comincia a salire, a distribuire le carte: la sinistra mesozoica e stalinista, nata con Togliatti nel 1944, viene rottamata di prepotenza. Finiscono tra i rottami anche i cattolici di sinistra troppo compromessi con la Ditta post comunista. Che la storia dei cattocomunisti prosegua oltre, è naturalmente possibile, specie in un paese sventurato come il nostro, che per i mostri della ragion politica ha sempre avuto un debole. Ma il partito renziano, dopo tanti esperimenti falliti, sembra un esperimento finalmente riuscito, diversamente dall'alleanza più o meno organica «tra forze popolari e cattoliche» vagheggiata da Palmiro Togliatti nei primi giorni della repubblica, o dal «compromesso storico» berlingueriano, dalla «solidarietà nazionale» e dall'Ulivo prodiano. Duri tanto o poco, sempre più «catto» e sempre meno «comunista», il partito democratico a guida renziana ha messo definitivamente in crisi la ragion sociale del cattocomunismo. È probabile che già al prossimo passaggio elettorale resti soltanto l'ala cattolica e che i comunisti lascino la scena una volta per tutte. Può darsi, come si diceva, che la storia finisca qui, col trionfo dei cattolici dossettiani d'antan, non si sa se più populisti o più clericali, di cui Renzi è insieme l'erede e la caricatura. E già questo sarebbe un pessimo finale di partita. Ma c'è il rischio che, finita questa storia, ne cominci un'altra, più minacciosa ancora. Se ne intravedono i primi segni nel gesto da Papa Re col quale Francesco I prima ha congedato il sindaco Marino dal Campidoglio e poi ha chiesto scusa ai romani per la sua sindacatura. Stanno tornando i clericali, e i loro «utili idioti» sono i talk show sempre più devoti e i comici televisivi che abbracciano la teologia della liberazione.
Il libro di Massimo Teodori: "Il vizietto cattocomunista. La vera anomalia italiana". Si svelano qui le ambiguità di settant’anni di egemonie cattoliche e comuniste che - combinate nel «vizietto cattocomunista» - hanno reso l’Italia una democrazia anomala. Nei grandi Paesi europei l’alternarsi al potere di conservatori e riformatori ha prodotto l’espansione del benessere e delle libertà. In Italia, invece, la sinistra comunista e postcomunista, confluita con i democristiani nel Partito democratico, è rimasta estranea al riformismo socialista di stampo europeo e ha guardato con ostilità alla laicità dello Stato, con effetti negativi sui diritti civili e la giustizia sociale. L’anomalia cattocomunista italiana è destinata a continuare all’infinito? Con il rigore dello storico e lo spirito critico del laico, Massimo Teodori mette in luce l’intreccio perverso tra il conservatorismo burocratico comunista e il rapace «attaccamento alla roba» dei clericali: dalla versione di Palmiro Togliatti, che votando il Concordato pensava di giocare il Vaticano e ne fu giocato, al fatale moralismo di Enrico Berlinguer, attratto dal mondo cattolico, fi no ai postdemocristiani d’oggi, Matteo Renzi e Sergio Mattarella, assurti al massimo potere con il benestare dei postcomunisti. «Se è vero che Renzi ha rimosso le scorie veterocomuniste - scrive Teodori - è altrettanto incontestabile che non ha tagliato i ponti con il cattocomunismo, la vera palla al piede del riformismo italiano insediato al centro del Partito democratico».
A PROPOSITO DI MAFIA E DI TERRORISMO ISLAMICO.
Quelli che...sono comunisti giustificazionisti. Fiorella Mannoia: "Gli attentati a Bruxelles? Siamo noi a farci odiare". L'attentato a Bruxelles? Per la cantante è "il risultato dell’andare in giro per il mondo a destituire presidenti, a metterci nelle condizioni di farci odiare", scrive Sergio Rame, Giovedì 24/03/2016, su "Il Giornale". "Devo constatare che siamo in guerra, loro ammazzano noi e noi ammazziamo loro, questo è davanti agli occhi di tutti". Durante il programma di Rai Radio2 Un Giorno da Pecora, Fiorella Mannoia accusa l'Occidente di essere la causa del barbaro attacco all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles. "Questa è una nuova guerra - spiega - noi li ammazziamo in modi diversi e loro hanno il loro modo di ucciderci. I nostri morti per i loro". La Mannoia accusa apertamente l'Occidente di essersela andata a cercare. A suo dire l'attacco a Bruxelles è "il risultato dell’andare in giro per il mondo a destituire presidenti, a metterci nelle condizioni di farci odiare". "Abbiamo bombardato un paese sovrano e abbiamo destituito Gheddafi, lasciando la Libia nel caos più totale. Ora ne stiamo pagando le conseguenze - continua la cantante ai microfoni di Radio2 - chi le paga sono i cittadini comuni". E si affretta a puntualizzare: "Non c’è giustificazione quando si ammazzano degli innocenti, ma siamo in guerra, questa è una guerra". Quindi conclude: "In Siria ci sono migliaia di cittadini morti uccisi da bombardamenti, perché loro non sono essere umani innocenti come noi? Bisogna avere la stessa pietà per i nostri morti come per i loro. La comunicazione non li mette sullo stesso piano: quando accadono cose in occidente ci spaventiamo, ma anche quelle sono famiglie".
Dalle Torri a "Charlie". Moriremo di distinguo. C'è chi pensa di poter gestire l'odio giustificando i nostri nemici. Ebrei, soldati, americani, vignettisti: alla fine le vittime se la sono cercata, scrive Marco Zucchetti, Domenica 15/11/2015, su "Il Giornale". All'obitorio di Parigi, sul cartellino appeso agli alluci di quei 129 disgraziati, ci scriveranno: «Causa del decesso: distinguo». Perché questa ecatombe è figlia del Califfo, ma anche figliastra della cultura giustificazionista che mezzo Occidente ha forgiato per disertare prima ancora che la guerra scoppiasse, perché l'idea che qualcuno si fosse messo in mente di diventare il nostro peggior nemico era insopportabile. L'hanno fatto quasi senza accorgersene, in pensieri e parole prima che in opere e omissioni, provando ogni volta a voltarsi dall'altra parte. Hanno scusato le stragi, compreso le ragioni dei jihadisti, cercato le nostre colpe vere o presunte e gentilmente omesso di definire «islamici» i terroristi. Come se chiudendo gli occhi poi tutto si potesse rivelare solo un brutto sogno. Ecco, buon risveglio a tutti. Ancora oggi l'11 settembre è messo in conto alla spregevole coscienza imperialista di George W. Bush e alla sua ossessione western per le armi. Voleva dominare il mondo e gli hanno demolito le Torri, azione e reazione, limpido. Come una querela dopo un'offesa, ognuno reagisce alla sua maniera, ci mancherebbe. Poi gli attentati nella metro di Londra e alla stazione di Atocha di Madrid, l'Europa che sente in bocca per la prima volta il gusto guasto del sangue: sono Blair e Aznar che pagano per le sue bugie sulle armi di distruzione di massa con cui ha avallato l'invasione dell'Irak. Sì, ma la metro che c'entra? Niente, ma c'entravano forse qualcosa le vittime collaterali a Baghdad? Erano innocenti, non come Lee Rigby. Lui era un soldato, quindi decapitarlo per strada nel 2013 ha fatto parte dell'ordine naturale delle cose. Cambiati i governi, scemata l'onda lunga della lotta contro «l'asse del male», il giustificazionismo ci rimane incrostato addosso. Così, quando Mohammed Merah nel 2012 fa una strage nella scuola ebraica di Tolosa, sono in tanti ad alzare un sopracciglio. Gli stessi che oggi hanno ottenuto le etichette sui prodotti delle colonie per boicottare Israele, sono convinti che chi semini vento in Palestina, poi debba raccogliere tempesta ovunque. In una scuola ebraica, in un supermercato kosher per mano dei fratelli Kouachi, davanti a un ristorante di Milano. L'idea che chi diventa bersaglio in fondo se la sia cercata ha attecchito ovunque. Non siamo stati tutti Charlie Hebdo, se pochi mesi dopo un comitato di scrittori ha protestato formalmente contro il premio alla libertà di stampa e se i media si sono guardati bene dal pubblicare anche una sola vignetta. Non siamo stati Charlie perché finché le pallottole piovevano su chi offendeva Maometto potevamo pensare che toccava a loro perché qualcosa si meritavano. Ebrei, soldati, americani, disegnatori sacrileghi, registi scomodi: la guerra è contro di loro, che sono altro. Noi, brava gente perbene, non definiamo i tagliagole in base alla loro fede e non facciamo di tutta l'erba un fascio. E pensiamo così di poter gestire l'odio instaurando l'era del distinguo. Ecco, provate a distinguere anche ora. Chi andava allo stadio se lo meritava perché apprezza uno sport violento, corrotto e razzista. Chi è stato giustiziato ad un concerto non si può lamentare, perché sul palco cantavano gli «Eagles of the Death Metal» e in nomen omen. Ma dove la trovate l'orrenda colpa in chi sorbiva zuppa al ristorante «Petit Cambodge»? A parte i campioni di ottusità che ancora oggi blaterano di inevitabile punizione per aver votato il governo guerrafondaio di Hollande, davvero non abbiamo capito che quei clienti sono morti solo perché qualcuno ha pensato che ammazzarli mentre mangiavano riso allo zenzero potesse far piacere a Maometto? Perché possiamo mettere tutti i puntini sulle «i» che vogliamo, ma una vittima è una vittima, un kalashnikov è un kalashnikov e «Allah akhbar» significa «Allah è grande». E a forza di distinguere, ora l'unica cosa che si può distinguere sono i morti: è facile, sono quelli sdraiati e immobili, mentre quelli in piedi si affannano a cercare nuovi alibi assurdi.
E adesso i giornali italiani censurano la parola "islam". Repubblica e Corriere della Sera descrivono la tragedia di Bruxelles come una catastrofe dovuta al caso. Senza colpevoli, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 24/03/2016, su "Il Giornale". Rimozione. È questa la parola d'ordine dei giornaloni italiani il giorno dopo la mattanza di Bruxelles. Se un alieno precipitasse stamattina con il suo disco volante davanti a una delle nostre edicole non capirebbe un accidenti di quello che sta succedendo in Europa. Penserebbe che martedì a Bruxelles non c'è stato uno dei più feroci attacchi all'Europa dal 1945 a oggi, ma al massimo un grande incidente ferroviario. Un terremoto. Un maxi tamponamento fra Tir. Una catastrofe dovuta al caso o a qualche imprevedibile fenomeno naturale. Perché le cronache della tragedia che ha lasciato a terra più di trenta corpi innocenti è lunare. E caratterizzata da un (pessimo) comune denominatore: la rimozione della parola islam. Nelle prime quattordici pagine che la Repubblica dedica alla strage, non compare nemmeno una volta, né in un titolo, né in un sommario. Come se non ci fossero un mandante ideologico e un lucido disegno dietro le bombe di martedì. Come se non ci fosse una comune appartenenza religiosa e un conseguente progetto politico che accomuna tutti gli attentati che da quindici anni macellano la carne dell'Occidente. Come se dire islam fosse una bestemmia. Un affronto. Al massimo si può scrivere Is. Stato islamico. Acronimo sufficientemente oscuro e islamicamente corretto da poter essere messo anche nei titoli. Apice del coraggio nostrano. Rappresentazione chiarissima della nostra sottomissione. Ora culturale e poi fisica. Ma il quotidiano diretto da Mario Calabresi non è una mosca bianca. Semmai una mosca cocchiera. Difatti si legge la stessa storia sul Corriere della Sera: diciassette paginone interamente dedicate alla macelleria jihadista, ma senza mai citare manco per sbaglio l'islam, il profeta e neppure un imam. In una trentina di titoli vengono usati tutti i sinonimi possibili e immaginabili - al limite del ridicolo - per circumnavigare i musulmani senza mai nominarli. Stessa solfa sulla Stampa di Torino e su buona parte delle testate genuflesse al politicamente corretto. Le sigle vanno bene, meglio se sono incomprensibili e sembrano il nome di un detersivo come Daesh. Al massimo ci si può permettere un Califfato. Ma guai a tirare in ballo l'islam. Ed è subito sottomissione. Perché rinunciare a chiamare le cose con il loro nome vuol dire avere già appeso la propria identità all'attaccapanni delle sconfitte. Le bestie che si sono fatte esplodere nella metropolitana e hanno premuto il pulsante dei detonatori all'aeroporto lo hanno fatto in nome della jihad, della guerra santa, di Allah. Vogliono eliminare gli infedeli. Che saremmo noi. Lo possiamo dire? Lo possiamo scrivere? Violiamo qualche boldriniano comandamento buonista? Chissenefrega. Dobbiamo farlo. Per rispetto alla verità, innanzitutto, ma anche per noi stessi. Perché rinunciare a digitare quelle cinque lettere significa non avere il coraggio di dire che tutta la questione parte di lì, principia da un gruppo di fanatici che travisano e interpretano la religione come una missione di guerra. Altrimenti, se non ci ammazzerà il terrorismo moriremo di distinguo e di islamicamente corretto.
Cacciamo l'islam da casa nostra. L'islam e il suo Allah sono incompatibili con la nostra civiltà, hanno le mani sporche di sangue dei nostri figli e non sono sazi. Il problema è questo, le altre sono chiacchiere, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 23/03/2016 su "Il Giornale". Altri attentati, altri morti. Ora non colpiscono neppure più a sorpresa, a freddo, ma rispondono colpo su colpo, come si fa in guerra. Perché quella dichiarata dall'islam all'Occidente è una guerra. Basta con le balle dei «cani sciolti», dell'islam moderato, del dialogo possibile. A poche ore dall'arresto a Bruxelles della belva Salah, membro del commando terrorista che entrò in azione a Parigi quattro mesi fa, volontari islamici si sono fatti esplodere ieri nell'aeroporto e nel metrò della capitale belga, già blindata e in stato di allerta. Hanno riempito le bombe di chiodi per fare più male. Non si fermano, non si fermeranno. Non sono dei disperati, sono la borghesia dell'islam che qualcuno ha definito «integrato», quello di cui dovremmo fidarci. L'islam e il suo Allah sono incompatibili con la nostra civiltà, hanno le mani sporche di sangue dei nostri figli e non sono sazi. Il problema è questo, le altre sono chiacchiere. Fanno leva sul mal interpretato principio della tolleranza occidentale per minare l'Europa là dove fallirono, nel 1571, i loro antenati nella battaglia di Lepanto, ultimo ostacolo alle flotte musulmane verso l'annientamento del cristianesimo. I morti di ieri, come quelli degli anni e mesi precedenti, sono vittime oltre che dell'Isis anche della tolleranza. In nome dell'accoglienza, dell'egualitarismo e del buonismo nessuno li ha difesi, oggi come nei decenni passati, quando il Belgio, primo Paese europeo, spalancò le porte all'immigrazione senza regole e limiti. È la fine che faremo anche noi se non diciamo, ammesso di essere in tempo, subito basta. Basta con le Boldrini, basta con le ricette della sinistra, basta con preti e vescovi che tradiscono il Vangelo, sindaci, presidi e insegnanti che negano il problema e calpestano la Costituzione che è stata fatta per difendere noi, con magistrati che legalizzano l'illegalità. Basta con l'accoglienza «valore assoluto», basta con politici purtroppo non solo di sinistra - che tentennano. Stiamo salvando, nutrendo e allevando i nostri nemici. Lo saranno anche se «moderati», anche se non maneggiano bombe, perché fanno e faranno da brodo di coltura, da rete di protezione e complicità a chi le bombe le metterà. Devono stare a casa loro, devono tornare a casa loro. Non è razzismo, è legittima difesa.
Molenbeek prova che non esiste l'islam moderato. Quante Molenbeek abbiamo permesso crescessero nei nostri Paesi in nome dell'accoglienza e del multiculturalismo? Scrive Alessandro Sallusti, Sabato 19/03/2016, su "Il Giornale". Alla fine l'hanno preso, Salah Abdeslam, il terrorista islamico detto «la bestia», capo del commando che la sera del 13 novembre scorso, al grido di «Allah Akbar», assaltò a Parigi il Bataclan. In quella discoteca rimasero a terra i corpi di 93 persone, per lo più giovani che avevano l'unica colpa di essere occidentali. Salah riuscì a fuggire dal luogo dell'attentato e dopo qualche avvistamento sparì nel nulla, diventando il ricercato numero uno del terrorismo islamico in Europa. Si pensò anche che avesse trovato rifugio nel califfato dell'Isis a lui tanto caro. Nulla di tutto questo. Si nascondeva a casa sua, a Molenbeek, quartiere islamico di Bruxelles, a meno di un chilometro dal palazzo sede e simbolo dell'Europa. Per quattro mesi Salah si è preso gioco delle polizie e dei servizi segreti, al massimo ha cambiato qualche appartamento, l'ultimo in una palazzina di proprietà del Comune. Ha potuto farlo perché evidentemente ha goduto di aiuti e protezioni che sono andati ben oltre la sua cellula, per altro decimata nella notte di Parigi. Per quattro mesi un quartiere islamico, Molenbeek, ha fatto da rifugio, scudo attivo e passivo per un feroce criminale di Allah che ha sulla coscienza 93 ragazzi. Cosa sono a Molenbeek, tutti terroristi o anche solo estremisti? No, sono quelli che in molti definirebbero «islamici moderati», «integrati», «fratelli in altra fede». Sono l'equivalente di quei «cittadini onesti» che in Sicilia hanno protetto nell'omertà la latitanza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capimafia ricercati per anni in tutto il mondo che se ne stavano tranquillamente a casa loro. Quello che è successo a Molenbeek è la prova che non esiste l'islam moderato, civile, rispettoso. L'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele, che se non va colpito direttamente certamente non va aiutato a estirpare ciò che per noi è il male. Neppure di fronte a mani sporche di sangue innocente. Salah era, e resta, innanzitutto uno di loro. Infatti oggi nessuno festeggia a Molenbeek per l'arresto di una bestia. Semmai c'è rabbia e tristezza. Già, ma quante Molenbeek abbiamo permesso crescessero nei nostri Paesi in nome dell'accoglienza e del multiculturalismo?
A proposito di Mafia e Terrorismo islamico.
L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
A proposito delle vittime della Mafia e del Terrorismo islamico ed i soliti pregiudizi idioti. Per una volta, noi meridionali d’Italia vittime del razzismo becero ed ignorante, mettiamoci nei panni di quei mussulmani che terroristi non sono.
Il 19 marzo 2016 i media parlano della cattura di Salah Abdeslam, il terrorista islamico detto «la bestia», capo del commando che la sera del 13 novembre 2015, al grido di «Allah Akbar», assaltò a Parigi il Bataclan. In quella discoteca rimasero a terra i corpi di 93 persone. Per quattro mesi un quartiere islamico, Molenbeek, gli ha fatto da rifugio. Molenbeek, quartiere islamico di Bruxelles, a meno di un chilometro dal Parlamento Europeo. Cosa sono a Molenbeek, tutti terroristi, o anche solo estremisti, o solo gente ignara della presenza del terrorista? La risposta perentoria la dà Alessandro Sallusti su “Il Giornale” del 19 marzo 2016. “No, sono quelli che in molti definirebbero «islamici moderati», «integrati», «fratelli in altra fede» - dice Sallusti -. Sono l'equivalente di quei «cittadini onesti» che in Sicilia hanno protetto nell'omertà la latitanza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capimafia ricercati per anni in tutto il mondo che se ne stavano tranquillamente a casa loro”.
Certo ci ricordiamo le immagini di quando, in talune città del Sud Italia, alla cattura di qualche malvivente, in sua difesa, i suoi pochi amici e parenti si frapponevano alle forze dell’ordine. Non vuol dire, però, che il resto della cittadinanza fosse criminale e ne agevolasse la latitanza.
Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele.
Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta, ma ce ne passa a considerare tutti i comunisti come terroristi durante gli anni di piombo con i morti ammazzati dalle Brigate Rosse.
L’assioma vale, addirittura, per l’idiotismo. Sì perché dell’idiotismo si fanno partiti politici che vanno per la maggiore. Incompetenti tuttologi mediatici. Se non si è padano si è meridionale o mussulmano terrorista. Fa niente se tra i padani ci sono gli stessi trapiantati arabi, africani e meridionali, la cui propria origine denigrano richiamando mafiosità e islamicità terroristica. Qualcuno dice che le altre religioni (ebrei, buddisti, ecc.) e le altre comunità (cinesi, filippini, ecc.) non si sentono per niente: dove li lasci, lì li trovi. Forse, perché, come gli scandali al nord, non si ha interesse a parlarne e la devianza, quando non è islamica o meridionale, non fa notizia?
Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione.
Noi meridionali d’Italia che non siamo mafiosi e non siamo complici dei mafiosi (tipo Riina o Provenzano) né siamo collusi con gli antimafiosi che le aziende le mettono ko in nome dell'antimafia politica e dell’espropriazione proletaria; noi che non siamo tali ma additati come se lo fossimo, cosa penseremmo se qualche idiota dicesse che, per difendere la propria sicurezza, si dovrebbe andare a bombardare da Roma in giù tutto il Sud Italia come si farebbe in Siria o in Libia, perchè a Napoli come a Palermo son tutti mafiosi per antropologia? O cosa penseremmo se si dicesse che si dovrebbero cacciare tutti i meridionali dal meridione d’Italia, perchè sono biologicamente e culturalmente mafiosi, come si vorrebbe fare in Europa con tutti i mussulmani, considerati, da questi idioti, tutti terroristi?
La risposta sarebbe: queste idiozie lasciamoli uscire dalle bocche dei soliti noti. Ma altrettanto idiota sarebbe appoggiare la cazzata opposta del falso buonismo: accogliamo pecore e porci, anche quando non siamo in grado di ospitarli e di sostentarli ed in nome della multiculturalità rinunciamo in casa nostra alla nostra cultura, ai nostri usi ed alle nostre tradizioni.
Basterebbe, per buon senso, per difenderci da mafia e terrorismo islamico, solo esercitare i dovuti controlli all’entrata e far rispettare le leggi durante il soggiorno, inibendo, così, le speculazioni politiche della destra e le speculazioni economiche della sinistra. Speculazioni create ad arte per gli italioti.
“Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeeck è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria”. cit. On. Marco Minniti Sottosegretario di Stato del Governo Renzi. Platì e la Calabria Tutta non meritano un accostamento del genere non solo è fuori luogo, ma offende una Cittadina come Platì e la Calabria intera, che meritano ben altra attenzione per la loro condizione geografica e la povertà del loro territorio.
Nella Molenbeek della 'ndrangheta. Il senatore di Forza Italia a Platì, comune calabrese sciolto due volte per mafia. Dove i cittadini si sono sentiti offesi dalla parole del sottosegretario di Stato Marco Minniti. Colpevole di aver paragonato il radicamento jihadista nella cittadina belga a quello della 'ndrangheta nel municipio aspromontano, scrive Giovanni Tizian il 30 marzo 2016 su "L'Espresso". «Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeek è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria». L'analisi è del sottosegretario di Stato con delega ai servizi Marco Minniti. Tanto è bastato a scatenare la polemica tra i cittadini e i vecchi politici del paese. Per questo hanno convocato d'urgenza una manifestazione, a tre mesi dalle comunali, nella sala parrocchiale con un un ospite d'eccezione: Domenico Scilipoti. Il senatore siciliano, eletto in Calabria, ha provato, a modo suo, a difendere gli interessi del territorio. Così alla manifestazione ha fatto sentire la sua voce, definendo «infelice» l'uscita di Minniti, aggiungendo poi: «Sono sicuro che non voleva offendere nessuno e che spiegherà le sue parole. Se però l’assemblea lo ritiene opportuno, avvierò un’azione di sindacato ispettivo sulla questione». I presenti, infatti, chiedevano a gran voce persino un'interrogazione sulla vicenda. Il senatore Scilipoti nel suo discorso ha citato varie volte Gesù, ma mai una volta la parola 'ndrangheta. Perché?, a Platì esiste la 'ndrangheta?, verrebbe da chiedersi. La frase del sottosegretario potrebbe sembrare a effetto, denigratoria, ma, purtroppo, non lo è. Ragionando sui fatti e non sulle opinioni-emozioni i dati investigativi e giudiziari danno ragione a Minniti. Platì, comune dell'Aspromonte, è una delle centrali della 'ndrangheta. Vengono da qui i clan più abili nel gestire il narcotraffico a livello internazionale e quelli che hanno messo radici fino in Australia, dove ancora oggi spadroneggiano. Qui sono stati uccisi due sindaci dalle cosche. Questo è il municipio sciolto due volte per mafia e dove alle scorse comunali non si è andato a votare per mancanza di candidati. E sempre qui i latitanti fino a qualche anno fa si nascondevano nel reticolo di bunker costruiti ad hoc per le famiglie del crimine. Infine, sono di Platì i boss che hanno messo le mani sull'hinterland milanese. Che il controllo del territorio, dunque, sia totale da parte della mafia calabrese è evidente. Così come lo è nel paese belga da parte dei terroristi, dove si sentono protetti dalla rete jihadista. Con la differenza che a Molenbeek i fanatici del Califfato non godono delle complicità politiche della 'ndrangheta. Quando l'organizzazione mafiosa controlla il territorio vuol dire che gestisce anche il consenso. Cosa che avviene in tutti i comuni ad alta densità mafiosa. Da Sud a Nord. I vari Salah Abdelslam non hanno la copertura politica. Non hanno complici nelle istituzioni. Le 'ndrine sì. E in questo sono molto più simili all'Is così come lo conosciamo in Siria e Iraq, dove agisce, secondo il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, come un vero e proprio Stato-mafia. Accostare, quindi, la cittadina belga e il comune dell'Aspromonte potrebbe essere persino riduttivo per descrivere il potere criminale dei clan. Le 'ndrine, infatti, rispetto ai gruppi jihadisti sparsi in Europa hanno una capacità maggiore di condizionare le nostre vite. Solo che non ce ne accorgiamo. Perché non mettono bombe e non uccidono in maniera eclatante. Distruggono l'economia e la democrazia in silenzio, senza creare allarme sociale. Ma i primi disastri sono già evidenti, e non da ora: una regione a pezzi; giovani che emigrano; politica terrorizzata, e perciò immobile, quando non complice. Per questo invece di indignarsi per le parole di Minniti, forse è arrivato il momento di ribellarsi alla 'ndrangheta. Che è ancora viva, fa affari e corrode la libertà. A Platì a giugno si voterà. Dopo che le scorse comunali sono saltate per mancanza di candidati. Il municipio sciolto due volte per mafia, aspetta una ventata di democrazia. Annarita Leonardi, che nulla c'entra con Platì, ha deciso di candidarsi. Lei è una trentenne di Reggio Calabria, renziana e pronta al sacrificio per un comune che fino a pochi mesi fa conosceva appena. Ha buone possibilità, ma dovrà vedersela probabilmente con una vecchio volpone della politica locale di Platì: Francesco Mittica, ex sindaco di Platì, la cui amministrazione è stata sciolta per infiltrazioni mafiose. Ancora lui, insomma, per rinnovare la molenbeek della 'ndrangheta. Dove tutto scorre come prima, nonostante la visita di Scilipoti. Perché i clan a Platì amministrano senza bisogno di elezioni. Comandano, semplicemente.
DALL’ESKIMO AL BURQA.
Dall’eskimo al burqa (in redazione), scrive Nicola Porro il 28 marzo 2016. Così il buio della ragione contraddistingue i nostri intellettuali e la nostra cultura. C’è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni ’70, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo accanto a loro. Scritto nel ’91, per le edizioni Ares, da Michele Brambilla, si intitola L’eskimo in redazione. Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Uno contingente: anche oggi siamo immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due balle, viene trattato come un paria. E infine c’è una ragione più storica: occorre conoscere il livello di cialtronaggine che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Che poi sono gli stessi che si sono fatti establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi una caterva. D’altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico più ridicolo del secolo: i fatti separati dalle opinioni. Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Quello di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l’orrore per cui nei giornalisti degli anni ’70 l’ideologia veniva prima della cronaca. L’orrore per cui campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. L’orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. L’orrore per cui, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po’, ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate Rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L’orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata…), la quale nel ’72 aveva il coraggio di scrivere sull’Espresso: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». E aggiungeva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti lo sapevano anche allora), da un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era piuttosto la maggioranza degli intellettuali dell’epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d’onore nella nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura.
A proposito di omertà e censura…puoi parlar male di Avetrana, ma mai parlar male dell’Islam.
L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
L’Italia delle libertà mancate, dell’omertà e della censura. Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione. Ma di tutto questo non se ne deve parlare. Si deve parlare sempre e comunque solo di Avetrana omertosa.
“Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti”. Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: “Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.” A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.
Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.
Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.
D’altro canto bisogna ricordare a questo signore, come a tutt'Italia, che gli Avetranesi parlano e non hanno paura di nessuno, nonostante le ritorsioni. Da ricordare che il sottoscritto è un avetranese doc, e non può certo essere tacciato di omertà, visto quello che scrive, tanto che alcuni magistrati questa prolificità non gliela perdonano affatto. Ma esiste un altro avetranese che paga il suo non essere omertoso: Riccardo Prisciano, tanto da essere perseguitato per le sue idee espresse contro Islam e gay.
Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele. Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta. Ecco perché a sinistra se ne dolgono quando dell’Islam o dei gay se ne parla male.
È contro l'islam e i gay, il maresciallo rischia il posto di lavoro. Ha partecipato a una conferenza in qualità di scrittore e relatore sull’"incostituzionalità dell’Islam". Dopo essere stato condannato per "islamofobia, xenofobia, omofobia", ora il Maresciallo Prisciano rischia di perdere il posto per un saggio giuridico, scriveva Gabriele Bertocchi, Lunedì 07/03/2016, su “Il Giornale”. Riccardo Prisciano è un maresciallo dei carabinieri, a luglio gli viene notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Come racconta Infodifesa, solo un mese dopo, mentre si trova in Puglia per un congedo parentale dovuto alle gravi condizioni della figlia, lo raggiunge l'avviso in cui si specifica che la data in cui avverrà il processo disciplinare. La notifica viene recapitata solo con due giorni d'anticipo, non consentendo così a Prisciano di essere presente alla sentenza che lo condanna a sette giorni di consegna di rigore. Motivo di questo procedimento nei confronti del maresciallo è la sua posizione nei confronti dell'islam. Più precisamente li viene contestata la partecipazione a una conferenza, in cui Prisciano ha preso parte in qualità di scrittore e relatore, sull’"incostituzionalità dell’Islam". Un impegno preso e svolto mentre era libero dal servizio. Come se non bastasse, ora è stato è stato avviato un nuovo procedimento disciplinare, con le stesse accuse, per diversi articoli scritti da Prisciano, pubblicati su un quotidiano online, che trattano argomenti come aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Nel fascicolo vengono allegati anche post e stati di Facebook del carabiniere ritraenti il patriota cecoslovacco Jan Palach e frasi del filosofo Ernst Junger. Inoltre viene anche contestata la prossima pubblicazione del maresciallo di un saggio giuridico intitolato "Nazislamismo", con prefazione di Magdi Allam. Il volume non è ancora andato in stampa. Se dovesse essere nuovamente punito, Prisciano rischia di perdere il posto di lavoro.
Carabiniere-scrittore contesta l'islam. Punito con sette giorni di consegna. Vietato criticare, maresciallo accusato di islamofobia, scrive Domenico Ferrara, Sabato 26/03/2016, su “Il Giornale”. Vietato criticare l'islam. Guai a scriverne e a esporre la propria opinione in pubblico. Mentre l'Europa è sconquassata dallo jihadismo, in Italia ci si preoccupa di mettere all'indice un carabiniere colpevole di aver studiato e analizzato magari con troppa animosità il problema del terrorismo e dei flussi migratori. Per questo motivo, Riccardo Prisciano, maresciallo pugliese 25enne, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e punito con sette giorni di rigore. Il 23 maggio 2015, il militare partecipa in qualità di scrittore a un convegno a Pisa organizzato da un movimento politico. Già, perché Prisciano, oltre a essere un carabiniere, è anche uno scrittore, laureato in scienze giuridiche della sicurezza all'Università di Tor Vergata a Roma con una tesi dal titolo «Multiculturalismo e islam, problemi e soluzioni». Esprime le proprie idee in veste di libero cittadino e non di carabiniere. Parla dell'integralismo dell'Islam, sostiene che non esistano musulmani moderati, afferma la necessità di interrompere i flussi migratori tra le coste del nord Africa e l'Italia. Apriti cielo. Il 25 giugno viene avviato il procedimento disciplinare e si richiede una visita medico-psicologica. Il 6 agosto, mentre era in Puglia in congedo parentale per problemi familiari, si svolge il processo in sua assenza. Risultato? L'Arma decide di punirlo, non solo per la partecipazione al convegno, ma anche per una serie di post su Facebook in cui esternava posizioni critiche in materia di islam e immigrazione. Sette giorni di rigore «per islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l'apoliticità della Forza Armata». Inoltre a Prisciano vengono contestati altri addebiti per post sui social. In caso di ulteriore condanna, non potrebbe entrare in servizio permanente.
Ma non è la prima volta che cala la scure della censura.
Islam, il giovane scrittore Riccardo Prisciano censurato da Facebook, scrive “Imola Oggi” il 20 gennaio 2015. Il giovane poeta e scrittore Riccardo Prisciano, censurato da Facebook, non ci sta! È l’ennesimo atto di censura quello che Riccardo Prisciano, autore della raccolta di poesie “INSONNIA” e del poema biblico “L’Arcangelo crociato”, riceve da Facebook: ma questa volta non ci sta! La pagina pubblica Facebook del giovane autore è stata bloccata (dallo stesso sito) fino al 1° febbraio 2015, ma le motivazioni ancora non sembrano chiare …La storia ha dell’incredibile: dopo la macabra strage consumatasi a Parigi qualche giorno fa, ad opera di terroristi islamici, il poeta Prisciano ha pubblicato sulla sua pagina facebook alcuni commenti, correlati da apposite immagini, che hanno scatenato l’ira dei sostenitori del melting-pot. La scintilla che ha fatto scatenare la raffica di segnalazioni a Facebook, sembrerebbe essere un post in cui il giovane scrittore, citando preventivamente Oriana Fallaci, ha scritto “La paura di camminare a schiena dritta è, oggi, la vera causa del declino della millenaria società cristiana europea. Ricordare le proprie radici è il principale dovere di ogni europeo (cristiano e non)”. In conclusione l’autore, conscio dell’inesistenza di un Islam moderato, afferma ancora una volta: “se per un Cristiano è doveroso seguire il messaggio d’amore del Messia, per il musulmano è doveroso seguire il messaggio di morte di Maometto”. Immediate le condivisioni del post ma anche, di contro, le segnalazioni a Facebook. L’intento dei segnalatori sembrerebbe essere quello di bloccare, almeno per un po’, il giovane autore che, quotidianamente, sveglia le coscienze attraverso la sua pagina. MA RICCARDO PRISCIANO NON CI STA! Ed ecco che con l’ultimo post spiega i motivi giuridici ed etico-legali, secondo i quali, “L’Islam non è Costituzionale!”; una vera e propria scintilla che presto scatenerà chissà quali reazioni.
Facebook ha riservato lo stesso trattamento all’avv. Mirko Giangrande, chiudendogli la sua pagina “Azione Liberale”.
Chi è Riccardo Prisciano, maresciallo carabinieri anti Islam, scrive il 9 marzo 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Maresciallo Prisciano, vi dico io chi è. In queste ore sui social network si sente solo parlare di lui: il Maresciallo Riccardo Prisciano. Ma chi è questo uomo? Ve lo dico io visto che ho auto modo di conoscerlo collaborando con lui allo stesso quotidiano online (i cui articoli gli vengono ora contestati) fino a quando la censura dei “taglialingua” gli ha tappato la bocca. Riccardo Prisciano non è un “semplice” Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri; onore alla categoria, ma intendo dire che, nella sua vita, Riccardo è anche tante altre cose. Laureato in Scienze Giuridiche presso l’Università di Roma Tor Vergata, da sempre impegnato culturalmente ed artisticamente, ha pubblicato la raccolta di poesie “Insonnia” ed il poema biblico “L’Arcangelo crociato”, Prisciano è in primis un uomo che ha sempre combattuto per tutto nella sua vita; odia il compromesso e l’ipocrisia perbenista: per lui esiste solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, “vie di mezzo” non possono esistere. Basta leggere i suoi articoli per saggiarne la preparazione culturale, giuridica e filosofica. Riccardo Prisciano è uomo d’azione; azione che si estrinseca attraverso la penna, la parola ed i fatti … e per questo è stato punito e trasferito in Sardegna a ben 800 km dalla propria figlioletta. Il Maresciallo Prisciano aveva argomentato le proprie tesi giuridiche circa l’incostituzionalità dell’Islam e circa l’impossibilità di credere nell’esistenza di un islam moderato, nonché aveva espresso su Facebook la propria contrarietà circa le unioni omosessuali e le adozioni gay. Il tutto libero dal servizio e mai qualificandosi come carabiniere. Ebbene, in un processo, nonostante l’assenza del Prisciano e di un suo difensore, il maresciallo veniva condannato a 7 giorni di consegna di rigore e trasferito. Non è finita: i nuovi Comandanti (della Sardegna) instaurano un ennesimo procedimento disciplinare nei confronti del Maresciallo Prisciano per condotte successive al 06 agosto 2015 (data del processo-condanna fiorentino) sempre per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata”. Quest’ultimo procedimento disciplinare è ancora più assurdo del primo: si contesta all’ispettore il fatto di aver scritto, sempre libero dal servizio, articoli, in cui si parlava di aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Addirittura, si contesta il prossimo libro del Maresciallo Prisciano – lo si contesta prima della pubblicazione, prima di leggerlo quindi. Il Mar. Prisciano pubblicherà a breve un saggio giuridico, il cui titolo è “Nazislamismo” e l’editore è Solfanelli. Come si evince dagli atti, gli Ufficiali dell’Arma scrivono che “benché si tratti di un saggio giuridico, scaturito dalla stessa tesi di Laurea in Scienze Giuridiche del Mar. Prisciano, non è opportuno che si parli in tali termini dell’Islam”. Sarà un caso che tutta la storia gira attorno alla Toscana, ed a Firenze in particolare? A noi non sembra un caso, visto che il Maresciallo Prisciano in entrambi i procedimenti si è visto accusare “di aver leso e vilipeso l’immagine del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Presidente della Repubblica, del Ministro dell’Interno e della Presidenta Boldrini.
Riccardo Prisciano: l’Islam come il nazismo, scrive Gian Giacomo William Faillace su “Milano Post” del 14 giugno 2015. Riccardo Prisciano, scrittore politicamente scorretto, vicino a posizioni ideologiche patriottiche e sovraniste, ha esordito con “Insonnia”, una raccolta di poesie romantico-decadentiste e successivamente con il poema biblico “L’Arcangelo crociato” in cui narra, con stile dantesco a metrica libera, le vicende dell’Arcangelo Uriel. Politicamente impegnato, Riccardo Prisciano, è in procinto di pubblicare il suo terzo libro: con la prefazione del noto giornalista Magdi Allam, con cui Prisciano intrattiene ottimi rapporti amichevoli, sarà un saggio di diritto in cui tratterà l’incostituzionalità dell’Islam. Con parole semplici effettuerà dei parallelismi tra la fede musulmana e l’ideologia nazista, sfociando nella proposta di un disegno di legge che annoveri il reato di apologia dell’Islam. Partendo dal tema della “tolleranza” sul quale molti filosofi hanno scritto e disquisito, Prisciano prende in esame la citazione del filosofo austriaco, naturalizzato britannico, Karl Raimund Popper il quale trattò innumerevoli volte, in seno alla sua teoria di “società aperta” le problematiche inerenti alla tolleranza arrivando a sostenere che “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi” oltre ad asserire che “Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti”. A queste teorie fecero eco anche lo scrittore tedesco Thomas Mann il quale sostenne che “La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male” ed il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler il quale sostenne che “Il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Persino Voltaire, uno dei maggiori Lumi del Settecento, nel suo “Trattato sulla tolleranza” pur cercando di aprire la società ad una sorta di pluralità di religioni, e perché no, ad una pluralità di dottrine politiche, col suo grido “Esacrez l’infame” (Schiacciate l’infame) incita quell’umanità illuminata a lottare con tutte le forze della propria ragione e della propria morale contro il fanatismo intollerante tipico della religione confessionale qualsiasi essa sia, incita ogni uomo di buona volontà a lottare per la tolleranza e la giustizia. Pertanto, alla domanda “Cosa intende per apologia dell’Islam” Prisciano, prontamente risponde:” In considerazione di ciò che sostenne l’Ayatollah Khomeini, ossia che l’Islam è politica altrimenti non è Islam, dobbiamo trovare gli strumenti idonei per trattare questa dottrina violenta in quanto l’Islam non può essere considerata una religione, nel senso “occidentale” del termine. Un Islam che punta al potere deve essere arginato secondo quello che Popper definiva come un dovere della democrazia. Quindi ecco il reato di apologia, in Italia, con la legge Scelba, previsto per il Fascismo. Con tale legge si tutela la manifestazione privata ma non pubblica di alcune correnti di pensiero. Nel mio prossimo libro citerò questo paragone facendo dei parallelismi tra l’ideologia nazista e la dottrina islamica; parlando di apologia non voglio mettere al bando l’Islam: ognuno in privato potrà essere fedele alla sua fede vietando però le sue manifestazioni pubbliche”.
Lo scrittore Riccardo Prisciano sfida Khalid Chaouki: - “Io sono pronto" …”, scrive Riccardo Ghezzi, il 11 agosto 2015.
Riccardo Prisciano, il tuo prossimo libro in uscita ad ottobre paragona l’Islam al Nazismo. Puoi spiegarci in breve di cosa si tratta?
«Quando si parla di terrorismo islamico, non si parla di “antico folklore”; è, piuttosto, qualcosa di concreto e spaventosamente vicino, come hanno dimostrato numerosi fatti di cronaca, anche in Italia. Non è comprensibile, altresì, come, proprio le frange anticlericali che, da sempre, si sono battute contro la Chiesa Cattolica (incriminando, quasi, le religioni di “incatenare” l’uomo) siano, ora, così rispettose e tolleranti verso comportamenti barbari e sanguinari, predicati in nome dell’Islam. Incredibilmente, la stessa pubblica opinione, che si discosta dall’osteggiare ideologie violente e razziste, non si rende conto di quanto, l’Islam, in certi suoi aspetti, non si discosti molto da queste dottrine».
Perché allora questa difformità di trattamento?
«Anche lo scrittore tedesco Thomas Mann sosteneva che “la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male”, addirittura il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler sostenne che “il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Tale totalitarismo, ammantato da pretesti religiosi ed etici e che, dietro una parvenza di spiritualità, trasudano un’alcova ideologica tra le più intolleranti del mondo, è di gran lunga peggiore di qualunque totalitarismo politico. L’Islam è anche, e forse soprattutto, un’ideologia, come ci tenne a precisare l’Ayatollah Khomeini, uno dei più autorevoli pensatori musulmani: “L’Islam o è politica, o non è nulla!” L’Islam è un’ideologia politica che, ancora oggi, si serve della religione come strumento di potere; o, se volessimo intenderla come religione, non possiamo non rilevare che tale religione, sfruttando la spiritualità umana, si pone il preciso obiettivo d’espandere il proprio potere politico. Se, giustamente, intendessimo l’Islam come una dottrina politica, e non già come una mera fede religiosa, sarebbe doveroso chiedersi per quanto ancora si potrà permettere che, nella civile e democratica Europa, si predichi l’odio religioso, l’intolleranza e la disuguaglianza tra i sessi o tra gli appartenenti a diverse religioni, senza andare a vietare le organizzazioni islamiche, che si ispirano ad una dottrina di gran lunga più totalitaria e intollerante del Nazismo stesso. Non a caso Al-Husayni fu l’assoluto protagonista della nascita del moderno fondamentalismo islamico e della lotta armata (’intifadah) contro gli ebrei, condotta oggi da numerose organizzazioni terroristiche islamiche. Egli fu un visionario crudele che in nome del nazionalismo arabo e dell’antisemitismo strinse un’alleanza tattica con il nazismo, in forza della quale 100.000 musulmani combatterono come volontari nelle divisioni tedesche. Fu tra i più accesi sostenitori della Soluzione Finale, si macchiò direttamente di atti feroci quale il sabotaggio dei negoziati tra i nazisti e gli Alleati, per la liberazione di prigionieri tedeschi in cambio della fuga verso la Palestina di 4000 bambini ebrei, destinati alle camere a gas. Dopo la guerra, scampato a Norimberga, al-Husayni si divise tra l’Egitto, dove rinsaldò i rapporti con Sayyid Qutb e Hasan al-Bannah, rispettivamente il teorico e il fondatore dei Fratelli musulmani, e Beirut, dove pose sotto la sua ala protettiva un giovane che negli anni successivi diventerà un protagonista della politica mediorientale: Yasir ‘Arafat».
La prefazione sarà curata da Magdi Allam. Come è avvenuto l’incontro con lui?
«La Stima che mi avvicina al grande Magdi Cristiano Allam è profonda. Il nostro incontro “fatale” è stato lo scorso 7 giugno 2015, in quel di Milano, durante un incontro-dibattito politico-culturale organizzato dal Fronte Nazionale per l’Italia (il nuovo partito “nato dal basso” che, democraticamente, sta andando a colmare quel vuoto elettorale equiparabile, a detta dei sondaggi, al 60% degli aventi diritto). È stato “amore a prima vista”: l’unità d’intenti e d’ideali è stata tale che, già dopo pochi minuti, Magdi mi aveva già assicurato la prefazione per il mio prossimo saggio».
Nel saggio, definisci l’Islam “Incostituzionale”. È una dichiarazione forte, ma da quali elementi normativi è suffragata questa tua affermazione?
«Oggi, assistiamo sovente ad una visione della Costituzione italiana, come nominata a sostegno della laicità dello Stato, incredibilmente, però, questo accade solo in funzione anticristiana. L’Islam è anticostituzionale perché predica concetti ed ideologie contrari ai principi costituzionali fondamentali, in tema di rispetto per la vita ed uguaglianza tra le persone (anticostituzionalità sostanziale); nonché per la mancanza d’Intesa tra Stato italiano ed Islam (anticostituzionalità normativa). Ecco alcuni esempi pratici, puramente a titolo esemplificativo, di altri articoli (oltre all’ormai noto art.8) della Costituzione che, più nello specifico, sono in netto contrasto con l’Islam:
– Art. 2 Cost: “… i diritti inviolabili dell’uomo …”, che sono totalmente diversi nella religione islamica, tanto da aver creato una propria carta, la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, proclamata il sabato 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi.
– Art. 3 Cost: “pari dignità sociale … senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione”; nel Corano, invece, è sancita la superiorità dell’uomo sulla donna e del musulmano sul non-musulmano.
– Art. 13 Cost: “La libertà personale è inviolabile, può essere limitata solo con atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge . …” ; nella Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, invece, la libertà individuale viene subordinata alla shari’a.
– Art. 27 Cost: “Non è ammessa la pena di morte …” ; nell’Islam, invece, è imposta per apostati, adulteri ed omosessuali; tale imposizione, mai messa in discussione da nessun organo dirigente islamico, è confermata da tutte e quattro le scuole coraniche e, pertanto, attendibile;
– Art. 29 co. 2 Cost: “Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”;
– Art. 30 co. 1 Cost: “il dovere-diritto di entrambi i coniugi di educare i figli..”;
– Art. 30 co. 3 Cost: “per la tutela dei figli naturali”.
Oltre al contrasto con dette norme fondamentali della Costituzione, vi è un altro duplice problema, certamente, non meno rilevante, riguardante la legittimità e la gerarchia delle fonti, in quanto la Shari’a funge da “legge” per i mussulmani, a prescindere dalla loro nazionalità».
Riccardo Prisciano contestato a Avetrana. Il suo Nazislamismo non piace a…, scrive il 10 luglio 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Scontro per fortuna solo verbale fra il maresciallo dei carabinieri Riccardo Prisciano, sostenitore della tesi che l’Islam è anticostituzionale e un gruppo di giovani che contestavano le sue tesi e il suo ultimo libro, “Nazislamismo”. Il vivace confronto è avvenuto nel corso della presentazione di “Nazislamismo” a Avetrana, città in provincia di Taranto diventata nota in Italia per il delitto e la morte misteriosa di Sarah Scazzi. La serata era intitolata “Estate d’autore, fra parole, poesie e pensieri”, organizzata da una associazione locale; tre in tutto erano i libri di cui si discuteva. Il pubblico era foltissimo visto l’interesse, com’è chiaro, per l’argomento trattato: l’islam. La tesi dominante del libro di Riccardo Prisciano è: inconciliabilità tra Occidente e mondo mussulmano, non scindibilità fra politica e religione islamica, inesistenza di un islam moderato. Al termine della presentazione, però, Prisciano è stato attaccato ed offeso da estremisti locali, filoislamici e, si presume, di “sinistra”; Prisciano ha reagito con molto autocontrollo e, grazie all’aplomb di Prisciano, i toni accesi si sono avuti esclusivamente a senso unico. I contestatori non apprezzavano l’opera di Prisciano, definendola “volgare e razzista”, pur dichiarando di non averla “mai letta ed [essere] intenzionati a non volerla leggere”. Pregiudizi, insomma; come hanno affermato gli stessi contestatori, dichiarando di avere dei “pregiudizi” nei confronti dello scrittore anti-islam. E, rivolgendosi agli organizzatori dell’evento culturale, si sono proclamati “delusi dalla serata”. Tra le gravi accuse rivolte allo scrittore Prisciano, quella di “essere la causa, insieme a Salvini e Giorgia Meloni, dell’omicidio di Fermo”. I toni erano diventati talmente accesi che, per evitare che si passasse dagli insulti a modi più diretti, il vicesindaco di Avetrana è intervenuto, smorzando le proteste ed elogiando il coraggio del Dott. Prisciano, che continua a dire che l’Islam è incostituzionale.
Al termine della presentazione, un gruppo di dissidenti, estremisti filo islamici, hanno iniziato a contestare e protestare, criticando l’opera di Prisciano, senza neppure conoscerne il contenuto e soprattutto senza volerli conoscere, scrive Giovanna Rispoli su “News 24 oggi”. Un duro attacco dai toni estremamente volgari ed offensivi, come abitudine di questi gruppi disagiati sociali. Volano parole pesanti ed offensive, oltre ogni limite, ma l’aggressione verbale è a senso unico. Infatti il Dr. Prisciano ha reagito in completo autocontrollo, facendo innervosire ancor di più i contestatori. Purtroppo queste volgarità ed offese erano talmente pesanti, che molti partecipanti si sono allontanati indignandosi. Gli estremisti di sinistra, non apprezzano l’opera, la reputano offensiva, volgare e razzista, ma assurdità della cosa, dichiarano apertamente: “Non conosciamo quest’opera e non abbiamo intenzione di conoscerla, i nostri occhi mai leggeranno queste righe di propaganda razzista”. Parole che dimostrano senza ombra di dubbio quali siano le facoltà dei contestatori, aggrappati ad ideali pre-confezionati, senza utilizzare il minimo di materia grigia.
Pier Francesco Galati, uno dei contestatori, insieme al padre Franco Galati già giorni prima, sulla sua pagina facebook, aveva prima citato e poi dichiarato: «“Odio gli indifferenti...credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti...” - Antonio Gramsci - non mi vergogno a dire che se verrà data la possibilità di presentare libri che incitano alla violenza e all'odio razziale, episodi come quello di Fermo saranno sempre più frequenti...Perciò ribadisco la mia rabbia e la mia delusione per il fatto che un libro, intitolato "Nazislamismo" venga presentato nel mio paese. Educhiamo alla multietnicità, all'uguaglianza, al rispetto e a credere che nonostante tutto possa esserci un mondo migliore e più giusto...Come diceva il buon Vittorio Arrigoni: “Restiamo UMANI...”» Ed a seguire i soli commenti dei soliti ignoranti…Altra considerazione è riportata sulla pagina facebook di Milvia Renna, madre e moglie dei contestatori: «CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "NAZISLAMISMO". Credo sia doveroso a questo punto, visti i commenti astiosi su fb e gli articoli pretestuosi, fare alcune considerazioni personali sulla presentazione del libro ''nazislamismo''. In democrazia ognuno può scrivere e pubblicare ciò che vuole, ma credo che un libro che criminalizza un intero popolo, un'intera civiltà e un intero credo vada in direzione opposta a quelli che sono i valori della solidarietà, della pace e della convivenza tra gli uomini ed è questo il messaggio che è stato lanciato in maniera corretta agli organizzatori della serata, da chi è intervenuto per esprimere la propria opinione. Come insegnante non capisco come un'associazione culturale che più volte ha chiesto la collaborazione della SCUOLA per diffondere i valori del ''rispetto'' abbia pensato di presentare un libro che col suo messaggio, andava in direzione completamente differente...e lo dimostrano i toni volutamente accesi e i commenti di chi non era neanche presente alla serata, nel giudicare la spontanea obiezione di chi crede nei valori dell'umanità e della comunione tra i popoli ..Qualcuno obietterà che in democrazia tutto è possibile...ma credo che per il suo contenuto, un libro simile andasse presentato in altre sedi e non in una serata culturale, offerta all'intera comunità di cui fanno parte da anni cittadini di religione islamica. In un articolo apparso in rete, leggo di aggressioni verbali all'autore ...di accuse di razzismo...E' stato solo affermato che messaggi simili...possono acuire i sentimenti di avversione per un popolo, in un determinato e delicato contesto storico come quello che si sta vivendo oggi...Leggo che è stato addirittura reso necessario l'intervento del vicesindaco per smorzare i toni della protesta..., preciso che gli interventi sono stati fatti da un giovane studente e da un serio professionista, a differenza di ciò che è scritto...Ma quali toni avrebbe dovuto placare il vicesindaco? Ho solo ascoltato la sua condivisione ai contenuti espressi nel libro...che poteva pure fare da esponente, però, politico di un partito...ma quella sera lui rappresentava l'Istituzione...e sorge spontaneo chiedermi se le parole, espresse in occasioni di manifestazioni scolastiche organizzate all'insegna della solidarietà tra i popoli fossero davvero autentiche ...Non condividere un'idea o come essa venga presentata non significa ''aggredire''...Nessuno lo ha fatto, nè lo ha mai fatto!!! E mi rammarica aver sentito dire alla fine della serata, dallo stesso autore di aver raggiunto il suo obiettivo, cioè: quello di INDIGNARE. Forse sarebbe opportuno che l'organizzatore della serata facesse chiarezza, nel rispetto della verità!!! Ciò che leggo in questi giorni mi convince sempre più, che spesso volutamente, si scelgono le strade della non condivisione pacifica, della polemica a tutti i costi, dell'odio e soprattutto della distorsione della realtà... e come educatrice provo solo una grande delusione...e una grande amarezza...»
Intanto, sul suo profilo facebook, domenica Prisciano ha pubblicato: Splendida serata ieri sera ad Avetrana (TA), per la presentazione di “Nazislamismo”. Ringrazio gli organizzatori, le Autorità locali intervenute, il folto pubblico presente, ma soprattutto ringrazio quegli estremisti di sinistra che mi hanno offeso e calunniato: hanno confermato ancor di più che noi siamo dalla parte giusta, quella della Libertà. E per Essa sempre ci batteremo. #noinonindietreggiamo.
Oriana Fallaci, ex partigiana, ha combattuto l’Islam esattamente come combatteva il nazifascismo. Eppure, dalla sinistra è stata considerata una “traditrice”. Come si può spiegare l’antifascismo abbinato al filoislamismo della sinistra?
«La grande Oriana, che nel saggio in questione chiude con le sue citazioni ogni capitolo, è quasi da ringraziare per le grandi verità che tramandò a noi (oggi come ieri) poveri buonisti. Mi trovo perfettamente d’accordo con la Fallaci (e con i grandi autori citati poco fa): bisogna svegliarsi e rendersi conto che la nostra utopia (o quella di qualcuno …) ci farà ritrovare molto presto in una guerra dove non saremo padroni a casa nostra. La tolleranza è la base della democrazia; tuttavia, essa non deve mai tradursi nel buonismo relativista radical-chic, tipico della Sinistra Italiana di oggi. Aristotele diceva che “l’apatia e la tolleranza sono le ultime virtù di una società morente”. L’integrazione va bene, purché sia tale, ma ad oggi mi sembra che questa volontà non si sia mai palesata. “Integrazione” vuol dire adattarsi alle regole del Paese ospitante. Pericle (il “Padre della Democrazia”) se fosse vissuto ai nostri giorni si sarebbe sentito chiamare “razzista”, “xenofobo”, “omofobo” finanche “islamofobo”. La Sinistra italiana, tanto brava a sventolar bandiere rosse in piazza a difesa della libertà, non è capace di capire che l’Islam ne è oggi la più grande minaccia. Questo discorso è da farsi nei confronti dei “militanti” della Sinistra italiana; per i vertici, ci sono ben altri interessi dietro … ma questo è un altro discorso».
Esiste un pericolo terrorismo in Italia, oltre che in Europa?
«Ovvio! I numerosi arresti, le iscrizioni nel registro degli indagati nelle varie Procure italiane, nonché i bigliettini dell’Isis che girano sornioni e spaventosi su facebook, parlano chiaro. Smettiamola di dire “io conosco tizio che è mussulmano ed è una bravissima persona”: non si può (e non si deve) ragionare sulle eccezioni, soprattutto dinanzi a simili pericoli. Se ancora qualcuno si ostina a dire che non tutti i mussulmani sono terroristi, certamente dovranno darmi atto che, quantomeno, tutti i terroristi sono islamici».
Sarebbe pronto e disponibile ad un dibattito con Khalid Chaouki del PD?
Io sì … non so lui, semmai!»
Ci odiano da un secolo e noi siamo rimasti a guardare. I jihadisti che stanno colpendo l'Europa non sono terroristi isolati, ma fanno parte di unico grande movimento islamico, scrive Francesco Alberoni, Lunedì 28/03/2016, su "Il Giornale". Ancora qualcuno non ha capito che i jihadisti che stanno colpendo l'Europa non sono terroristi isolati, ma fanno parte di unico grande movimento islamico che va dalle Filippine all'Africa. Cent'anni fa gli europei erano padroni di quasi tutto il mondo, in particolare dell'ex impero ottomano, tagliuzzato in protettorati o occupato direttamente come in Libia e Algeria. Parallelamente, per secoli i musulmani avevano dominato l'India, l'Indonesia, gran parte della Russia meridionale, tutto il Medio Oriente, un terzo dell'Africa e l'Europa fino a Vienna. La loro fede li aveva invitati a islamizzare l'Europa. Si sentivano invincibili, superiori ai cani infedeli e consideravano la loro sharia infinitamente superiore al diritto europeo. Per questo anche quando gli europei sono diventati i dominatori del mondo, loro non hanno mai accettato la civiltà occidentale: la subivano digrignando i denti. Poi un giorno si sono svegliati e, ricordando la loro gloria passata, è nato un movimento per tornare alle origini. Sono stati gli imam e gli intellettuali a mettere in moto il processo. L'integralista Arabia Saudita ha così riempito l’Europa di predicatori che hanno propagandato fra i giovani il compito di distruggere l'Occidente. E poi hanno dato loro soldi e armi. Oggi costituiscono un vero e proprio esercito organizzato, del quale però gli europei e gli americani si sono accorti tardi, pensando in realtà di trovarsi di fronte a terroristi isolati. Ma quando Bin Laden ha fatto saltare le Torri gemelle, da tutto l'islam si è alzato un grido di esultanza, perché anche fra i musulmani moderati c'è ammirazione per i guerrieri di Allah. E quando gli americani, che non hanno mai capito cosa succedeva, hanno abbattuto i regimi laici, le bande jihadiste sono andate al potere con massacri paurosi. Poi si sono infiltrati dappertutto anche in Europa, protetti dalle nostre leggi liberali, mentre l'Ue imbelle non capiva e neppure creava un proprio esercito e un'unica polizia di frontiera.
PARLIAMO DEI RISCATTI DEGLI ITALIANI RAPITI ALL'ESTERO E IL FINANZIAMENTO AI TERRORISTI.
Italiani rapiti, per liberarli spesi in dodici anni 75 milioni di euro, scrive “Libero Quotidiano” il 4 marzo 2016. Le prime furono le due Simona: Pari e Torretta. Fu il loro il primo caso di italiani rapiti e poi liberati tramite riscatto. Era il settembre 2004. Un anno prima c'era stato l'intervento americano in Iraq. C'era Al Qaeda al suo massimo fulgore, mentre l'Isis e lo Stato islamico erano cose ancora nemmeno immaginabili. Le due cooperanti italiane furono sequestrate per 22 giorni e poi liberate dietro il pagamento di una somma che è stata stimata in un paio di milioni di euro. Da allora, contando anche loro, secondo un articolo che appare oggi sul quotidiano "Il Tempo", sono stati 19 i cittadini italiani per liberare i quali l'Italia ha pagato un riscatto. Per un conto totale di circa 75 milioni di euro in dodici anni. Soldi, certo, che sono serviti a salvare vite umane, ma che sono finiti nelle tasche delle organizzazioni terroristiche che stanno insanguinando Medio Oriente ed Europa. Dopo Torretta e Pari, i casi più eclatanti di liberazioni tramite riscatto sono stati quelli della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, libera dopo 30 giorni dietro il pagamento di 4,6 milioni di euro (e la sua liberazione costò pure la vita dello 007 Nicola Calipari); per Rossella Urru, la cooperante rapita in Algeria nell'ottobre 2011 si sono sborsati 5 milioni di euro; per l'inviato de "La Stampa" Domenico Quirico sequestrato in Siria nell'aprile 2013 4 milioni; 9 milioni per Daniele Mastrogiacomo, giornalista rapito in Afghanistan nel marzo 2007; 12 milioni se ne sono andati per la liberazione di Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana, i contractors rapiti in Iraq nel 2004 insieme a Fabrizio Quattrocchi, che invece fu ucciso e morì dicendo "Vi faccio vedere come muore un italiano". E via contando, fino all'ultimo caso di Greta e Vanessa, le due ragazzine partite per la Siria praticamente da sole, rapite e tenute prigioniere prima di essere liberate in cambio di 12 milioni di euro.
Terrorismo, l'inchiesta di Al Jazeera: "Il governo italiano paga i riscatti per i rapiti dai terroristi", scrive “Libero Quotidiano” il 9 ottobre 2015. Il sospetto sembra possa diventare certezza: ci sono governi, in particolare quello italiano, che pagano i riscatti ai gruppi terroristici per liberare i propri connazionali. L'inchiesta dell'unità investigativa di Al Jazeera svela come gli Stati occidentali abbiano di fatto finanziato e armato il terrorismo islamico con milioni di dollari. Attraverso dei documenti segreti scoperti da Al Jazeera, emergerebbe come l'Italia abbia sempre pagato per la liberazione di propri cittadini rapiti da gruppi terroristici, che fosse in Somalia o in Siria. Nel caso del rapimento in Somalia di Bruno Pelizarri e la sua fidanzata Debbie Calitz, il governo italiano avrebbe negoziato la loro liberazione con i pirati pagando 525mila dollari. Viene smentita, e anzi sembra anche ridicola, la teoria che a liberare i due fosse stato un blitz delle forze armate italiane. Ad agosto 2011 era stato rapito in Siria il giornalista de La Stampa Domenico Quirico con un collega belga. In quell'occasione, l'inchiesta di Al Jazeera ha scoperto che ci sarebbe stato il pagamento di 4 milioni di dollari per il riscatto, a fronte di undici richiesti dai ribelli siriani delle Brigate Farouq. Un membro di quel gruppo, Mamhoud Daboul, sostiene anche di aver visto la cassa dei soldi: "In confezioni da 100mila dollari". E poi a gennaio 2015 l'ultimo caso in cui il governo italiano ha finanziato i terroristi, quando sono state rapite le due cooperanti Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Al Jazeera ha ottenuto alcune fotografie che documentano 11 milioni di dollari in contanti consegnati a rappresentanti di Nusra, un gruppo terroristico legato ad al-Qaeda. Il governo italiano ha sempre smentito i sospetti sui pagamenti dei riscatti e anche dopo essere stato contattato dai giornalisti di Al Jazeera ha confermato che la politica italiana rimane quella di "non pagare". Lo stesso ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha continuato a negare l'evidenza fino a pochi giorni fa quando marchiava come "illazioni" le prime voci sui pagamenti del governo italiano ai gruppi terroristici.
Tutti gli ostaggi italiani uccisi, liberati o ancora prigionieri. I connazionali nelle mani dei terroristi: dalla tragedia di Piano e Failla al ritorno a casa di Calcagno e Tullicardio fino al mistero su Padre Dall'Oglio, scrive "Panorama" il 4 marzo 2016.
I primi ostaggi del 2004. È il primo rapimento e risale al 2004. Siamo in Iraq dove a Baghdad vengono sequestrati quattro appaltatori, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene barbaramente giustiziato, gli altri riescono a tornare a casa. Lo stesso anno, sempre in Iraq, vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, che perderà la vita poco dopo, e due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, che invece riusciranno a riabbracciare i propri cari dopo 19 giorni di prigionia. Li sequestrano, spesso li giustiziano. Alcuni, invece, dopo estenuanti trattative riescono a tornare a casa. Sono gli ostaggi italiani finiti nel terribile vortice dei rapimenti per opera dell'Isis o di gruppi terroristici affini.
2016 - Due morti e due liberazioni. Era da poco rientrata dal Cairo la salma del giovane ricercatore Giulio Regeni che in Libia si è consumata un'altra tragedia. Fausto Piano e Salvatore Failla, i dipendenti della società di costruzioni Bonatti rapiti nel 2015, sono stati uccisi in uno scontro a Sabrata mentre le forze di sicurezza lanciavano un raid contro la colonna di jihadisti. Migliore la sorte degli altri due dipendenti della ditta di Parma, Gino Tullicardo e Filippo Calcagno che, sequestrati il luglio scorso nella zona di Mellitah a 60 chilometri di Tripoli dopo uno scontro tra fazioni rivali, torneranno in Italia presto. Due dei quattro tecnici italiani sequestrati in Libia lo scorso luglio sono stati uccisi. Lo ha comunicato la Farnesina, dopo un esame di alcune immagini di vittime di una sparatoria nella regione di Sabrata in Libia, "apparentemente riconducibili a occidentali". La Farnesina ha spiegato che si tratta di due dei quattro italiani, dipendenti della società di costruzioni Bonatti, rapiti nel luglio 2015, e precisamente di Fausto Piano e Salvatore Failla". Ma "in assenza della disponibilità dei corpi", sono in corso verifiche. "Posso solo dire che sono stati uccisi nello scontro a fuoco" ha dichiarato all'ANSA, il presidente del Consiglio militare di Sabrata, Taher El-Gharably, rispondendo ad una domanda sulla morte dei due italiani in Libia e dicendosi non in grado di precisare chi ne abbia causato la morte. Il miliziano, contattato al telefono, ha ammesso di avere solo conferme indirette che si tratti dei due dipendenti della Bonatti. Chi li ha uccisi? "È da dimostrare che il gruppo che teneva sequestrati i quattro ostaggi italiani fosse dell'Isis", così come non è sicuro che "i quattro italiani fossero stati divisi in due gruppi: le due vittime erano trasportate separatamente dagli altri due in un convoglio, ma non è detto che fossero divisi" ha dichiarato il presidente del Copasir Giacomo Stucchi, al termine dell'audizione del sottosegretario con delega all'Intelligence Marco Minniti. È di questa mattina invece la notizia che gli altri due operai italiani rapiti con Piano e Failla sono stati liberati. Minniti, ha riferito Stucchi, "ha illustrato compitamente quanto accaduto, sulla base delle informazioni in suo possesso". Quanto alla possibile richiesta di un riscatto, per il senatore "non è l'ipotesi più probabile, occorre valutare una serie di ipotesi che hanno lo stesso peso". Gino Tullicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla erano stati rapiti lo scorso 20 luglio mentre rientravano dalla Tunisia nella zona di Mellitah, a 60 km di Tripoli, nei pressi del compound della Mellitah Oil Gas Company, il principale socio dell'Eni. L'intelligence italiana aveva accreditato quasi subito l'ipotesi che gli italiani fossero stati sequestrati da una delle tante milizie della galassia criminale che imperversa nel Paese. Un sequestro a scopo di estorsione, dunque, opera di criminali "comuni". La preoccupazione, quindi, è stata sin da subito di scongiurare che venissero ceduti, in "blocco" o peggio ancora singolarmente, ad uno o più gruppi legati all'Isis, ormai infiltrato in diverse aree della Libia e molto interessato a gestire i sequestri, anche per i notevoli risvolti mediatici. Secondo una delle ipotesi accreditate nei mesi scorsi da fonti militari libiche, i quattro italiani sarebbero finiti "nelle mani di gruppi vicini ai miliziani di Fajr Libya", la fazione islamista che ha imposto un governo parallelo a Tripoli che si oppone a quello di Tobruk, l'unico riconosciuto a livello internazionale. Secondo questa ricostruzione, i miliziani avrebbero proposto uno scambio: i nostri connazionali con sette libici detenuti in Italia e accusati di traffico di migranti. Ma non c'è mai stata alcuna conferma e per mesi non ci sono state notizie. Secondo un testimone libico rientrato a Tunisi da Sabrata, i due italiani uccisi sarebbero stati usati come scudi umani dai jihadisti dell'Isis, negli scontri con le milizie di ieri a sud della città, nei pressi di Surman. "Renzi ha le mani sporche di sangue tanto in Libia quanto in Italia. In Italia tifa e libera i delinquenti sull'immigrazione è complice del terrorismo internazionale. Mentre dalla Libia giungono delle notizie, Mattarella si vanta sull'avanguardia dell'Italia: o sono matti o sono complici sia Renzi che Mattarella. Speriamo che le notizie che arrivano siano infondate". Lo ha affermato Matteo Salvini nel corso di una conferenza stampa alla Camera. "In ore tragiche come quelle che stiamo vivendo, le parole di Salvini contro il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio sono gravissime, una prova inqualificabile di sciacallaggio" ha dichiarato il presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi. "Siamo grati al Presidente Mattarella che anche oggi ha interpretato i sentimenti più autentici e profondi in cui si riconoscono gli italiani", ha aggiunto Bindi. "La solidarietà e la cooperazione internazionale sono le bussole con cui governare il fenomeno delle migrazioni di massa e il Paese lo sta dimostrando, da Lampedusa a Trieste", ha concluso. Gino Pollicardo e Fabio Calcagno, rapiti a luglio con Piano e Failla, sono stati liberati. "Stiamo bene e speriamo di tornare urgentemente in Italia". "Sono Gino Pollicardo e sono qui con il mio collega Filippo Calcagno. Siamo in un posto sicuro, in un posto di polizia qui in Libia. Stiamo bene e speriamo di tornare urgentemente in Italia perché abbiamo bisogno di ritrovare la nostra famiglia": questo il testo del primo video diffuso dei due ostaggi italiani in Libia. Aggiunge Calcagno: ci stanno trattando bene". Anche la Farnesina ha confermato che i due tecnici della ditta Bonatti non sono più nelle mani dei rapitori, si trovano sotto la tutela del Consiglio militare di Sabrata e sono in buona salute. Presto saranno trasferiti in zona sicura e presi in consegna da agenti italiani che li riporteranno in patria. La liberazione è uno sviluppo dei tragici fatti dell'altro ieri che hanno portato all'uccisione degli altri due sequestrati. Gino Pollicardo e Filippo Calcagno erano stati abbandonati da sette giorni, senza acqua né cibo, nella cantina di una famiglia di origine marocchina, che è stata fermata e viene interrogata in queste ore: lo ha reso noto il sindaco di Sabrata, Hosin al Dauadi, rivelando altri dettagli sulle ultime fasi del sequestro dei due italiani. "Sono stati trovati in una casa della località di Tallil, a circa 3 chilometri dal luogo dove sono morti i loro compagni giovedì'". Secondo il sindaco, i due italiani "sono stati trovati lunedi", addirittura prima dunque dell'operazione nella quale sono morti i loro compagni. "Daesh (l'acronimo in arabo per l'Isis) li aveva lasciati da una settimana senza acqua né cibo. I due raccontano che potevano udire le voci della famiglia che parlava in arabo e francese". Il sindaco ha fatto vedere ai giornalisti anche il messaggio scritto a mano da Pollicardo, in cui annuncia la loro liberazione: "Sono Gino Pollicardo e con il mio collega Filippo Calcagno oggi 5 marzo 2016 siamo liberi e stiamo discretamente fisicamente ma psicologicamente devastati. Abbiamo bisogno di tornare urgentemente in Italia". E il biglietto reca una data che non è quella di oggi. Il figlio di Pollicardo, Gino junior, incrociando i cronisti di fronte a casa, a Monterosso (La Spezia) ha annunciato: "È finita, è finita" e la moglie Ema Orellana in lacrime ha detto: "L'ho sentito al telefono". Poco dopo il parroco del paese ha fatto suonare a festa le campane. "Ho appena sentito al telefono mio padre, è libero. Sta bene, anche se è molto provato. Mi ha detto che in questo momento lui e Gino Pollicardo sono nelle mani della polizia libica e che non vedono l'ora di rientrare in Italia". Lo ha detto all'Ansa Gianluca Calcagno, figlio di Filippo Calcagno. Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, dipendenti della società di costruzioni Bonatti, erano stati rapiti lo scorso 20 luglio con Fausto Piano e Salvatore Failla mentre rientravano dalla Tunisia nella zona di Mellitah, a 60 km di Tripoli, nei pressi del compound della Mellitah Oil Gas Company, il principale socio dell'Eni. Piano e Failla sarebbero stati uccisi durante scontri nella zona di Sabrata. Gino Pollicardo, 55 anni, è originario di Monterosso, in Liguria, nelle Cinque Terre. Filippo Calcagno, 65 anni, è siciliano di Piazza Armerina (Enna), sposato con due figlie.
I sequestri del 2015. Nell'elenco nero dei sequestrati c'è anche Ignazio Scaravilli, il medico catanese rapito nel gennaio 2015 e poi rilasciato in giugno. Tragica invece la fine del cooperante Giovanni Lo Porto, catturato con la forza in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una Ong tedesca e ucciso tre anni dopo in un raid della Cia con un altro ostaggio, l’americano Warren Weinstein. Un errore fatale di cui Barack Obama si è scusato in diretta tv. Gabriele Lo Porto ucciso tante volte. Parla la donna che durante il sequestro ha continuato a gestire la pagina Facebook dell’uomo conosciuto a Londra nel 2003, scrive su "Panorama" Fausto Biloslavo l'11 maggio 2015. Valeria De Marco è una cara amica del giovane cooperatore siciliano tenuto in ostaggio da al Qaeda dal gennaio 2012 e poi ucciso per errore da un drone statunitense il 15 gennaio. Durante il sequestro ha continuato a gestire la pagina Facebook dell’uomo che aveva conosciuto a Londra nel 2003: quando lui partiva per le sue missioni umanitarie, i due restavano sempre in contatto, «come se non si allontanasse mai» spiega Valeria in questa intervista con Panorama. La donna, che vive e lavora a Palermo ed è sempre stata molto vicina anche alla famiglia del cooperante, rivela che l’amico «doveva venire liberato per Natale 2014» e denuncia «il disinteresse italiano» sul caso. Signora De Marco, lei che cosa sapeva della trattativa per liberare Lo Porto? «Poco. I periodi di ottimismo del ministero degli Esteri si alternavano a periodi di silenzio. Però lo scorso autunno eravamo molto vicini alla liberazione. Da Roma avevano detto: «Le prometto che entro quest’anno Giancarlo sarà a casa»». La famiglia dell’ostaggio americano, ucciso assieme a Lo Porto, è stata avvisata dall’Fbi all’inizio di febbraio che il loro congiunto era probabilmente morto. Non è avvenuto nulla del genere con i familiari di Lo Porto? «In febbraio non hanno ricevuto nessuna comunicazione. Lo aspettavamo a casa per Natale 2014, ma poi i toni della Farnesina si sono incupiti, sono diventati meno ottimisti. E alla fine si è scoperto che il mediatore era stato arrestato in Pakistan o Afghanistan, facendo saltare la trattativa. Come è possibile che nessuno sia riuscito a evitarlo?» Chi ha lavorato al caso sostiene che sia mancata la priorità politica per imprimere una svolta. Cosa ne pensa? «Non c’è dubbio che l’interesse politico, vista anche l’aula della Camera vuota del 24 aprile, sia stato assolutamente assente e inadeguato». Lei si riferisce alla comunicazione del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, sul tragico epilogo del caso. «Sì. L’aula parlamentare vuota ha ucciso Giancarlo per la seconda volta. È stata una grande umiliazione e un’enorme sofferenza». Le sembra possibile che il presidente del Consiglio Matteo Renzi abbia saputo della morte di Lo Porto solo lo scorso 22 aprile? «No, non è assolutamente credibile». Gli americani pare abbiano informato l’Italia da febbraio-marzo che qualcosa era andato storto, ma tutto si sarebbe fermato al livello di Marco Minniti, sottosegretario con la delega ai Servizi presso palazzo Chigi. Cosa ne pensa? «È semplicemente agghiacciante. La mia reazione è di rabbia ma anche di lucida determinazione: vogliamo andare fino in fondo per scoprire la verità e le responsabilità. Se Minniti non ha comunicato (a qualcuno più in alto, ndr) è grave e dovrebbe dimettersi. Spero soltanto che non ci sia un’ulteriore e terribile colpa: che si sapesse che Giancarlo fosse esattamente lì. Ma questo non lo scopriremo mai». Qualcuno ha mai informato lei o la famiglia che l’ostaggio americano Warren Weinstein e l’italiano erano detenuti assieme? «Mai avuta nessuna conferma che Giancarlo fosse con un americano. Anzi, parlando tra noi, pensavo che sarebbe stato ben peggio se lo avessero rapito con un americano o un inglese. Conosciamo bene le politiche di questi Paesi nei confronti dei loro connazionali presi in ostaggio». La famiglia ha reso noto che molti sapevano che Lo Porto era prigioniero in Waziristan e i bombardamenti dei droni potevano colpirlo. Può spiegare meglio che cosa significa? «Sapevamo che si trovava in quelle zone inaccessibili, al confine fra Pakistan e Afghanistan. Dallo scorso luglio i bombardamenti (e le offensive pachistane, ndr) hanno provocato oltre mezzo milione di sfollati e molti morti. Di giorno in giorno cresceva la paura, il terrore per la vita di Giancarlo». Pensa che la detenzione di Lo Porto assieme all’americano abbia segnato il suo destino perché gli Usa non trattano con i terroristi? «Assolutamente sì. Viste anche le ultime notizie penso ci sia stata un’influenza americana sull’eventuale liberazione di Giancarlo». La famiglia per tre anni ha mantenuto un totale, dignitoso silenzio. Non sarebbe il caso che parlassero loro? Forse gli amici o i parenti dovevano incatenarsi da qualche parte o rilasciare interviste eclatanti? «La Farnesina ci ha sempre chiesto di tenere un basso profilo per non alzare la posta e pregiudicare la liberazione. Cooperanti e amici non erano così sicuri che fosse la strategia giusta, ma hanno rispettato le raccomandazioni della famiglia». In definitiva: lei crede sia mancata la spinta politica italiana per riportare a casa Lo Porto? Insomma, è tutta colpa del coinvolgimento degli americani e della loro linea dura con i terroristi? «A livello internazionale non c’è grande considerazione del nostro Paese. È possibile che gli interessi americani abbiamo prevalso su quelli dell’Italia, debole e incapace di imporre le proprie strategie». Quali sono i suoi ricordi più belli di Giancarlo Lo Porto? «I ricordi più belli sono quelli legati alla sua vita da trentenne a Londra. Lo vedo sempre con la pinta di birra, mentre ascolta le band che si alternano sui palchi dei vari pub londinesi. In giugno avrebbe compiuto 38 anni. Io li ho fatti in aprile. Ma la cosa più bella che mi ha lasciato Giancarlo è una frase: «Fino a quando avrò due gambe per camminare e due occhi per guardare il sole, non perderò mai la speranza e continuerò ad andare avanti»». Amici e familiari di Giancarlo cosa chiedono al presidente americano e al governo italiano? «Vogliamo la verità, che i responsabili paghino e che la magistratura apra un’inchiesta per omicidio. Vogliamo a ogni costo la salma di Giancarlo, una commemorazione ufficiale e che il suo sacrificio e i tre anni nelle mani dei terroristi non siano stati vani».
I rapimenti del 2014. Due anni prima, nel 2014, in Libia vengono rapiti altri italiani: due tecnici di aziende private, Marco Vallisa e Gianluca Salviato che sono tornati a casa dopo diversi mesi di prigionia.
Ancora ostaggi dal 2013. Padre Paolo Dall'Oglio e Rolando Del Torchio ancora ostaggi. Poche e contrastanti sono invece le notizie del gesuita padre Paolo Dall'Oglio, scomparso in Siria nel 2013 mentre cerca di mediare a Raqqa, quartier generale del califfato, per la liberazione di alcuni rapiti. Non è tanto diversa la sorte di Rolando Del Torchio, ex missionario italiano sequestrato nel suo ristorante nel sud delle Filippine l'anno scorso, in un’area dove operano gruppi musulmani separatisti, e ancora ostaggio dei terroristi.
Le catture e le liberazioni del 2011. Il 2011 è l’annus horribilis per i rapimenti. L'inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito la prima volta in Libia (lo sarà una seconda in Siria nel 2013) per due giorni insieme a due colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina e Claudio Monici. In Somalia i pirati catturano i mercantili Savina Caylyn, con cinque italiani a bordo, e Rosalia D'Amato, con sei nostri connazionali. Tutti gli ostaggi saranno liberati dopo mesi di prigionia. Sempre nello stesso anno, dopo 124 giorni, nel Darfur, in Sudan, viene lasciato libero dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà. Stessa sorte tocca all’italo-sudafricano Bruno Pellizzari che gli Shabaab somali catturano sul Largo della Tanzania. Passando in Algeria, i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberare nel 2012. Non avrà la stessa fortuna Franco Lamolinara, l’ingegnere sequestrato in Nigeria dai jihadisti che perderà la vita durante un blitz delle Forze speciali di Londra mentre tentavano la liberazione di un altro ostaggio.
I sequestri del 2007. Nel 2009 dopo quattro mesi in mano a un gruppo legato ad Al-Qaeda Sergio Cicala e la moglie Philomene Kabouré vengono liberati in Mali. Daniele Mastrogiacomo. La cattura del 2007. In Afghanistan, nel 2007 i talebani catturano un giornalista del quotidiano La Repubblica, Daniele Mastrogiacomo noto per le sue inchieste di “Mani pulite” ed i processi Priebke e Marta Russo. Bloccato a bordo della sua auto, poi circondato, legato e imbavagliato da una decina di miliziani talebani Mastrogiacomo sarà liberato dopo circa un mese e mezzo.
Il rapimento del 2005. Nel 2005 la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena viene presa in ostaggio e poco dopo la liberazione, mentre in auto stava raggiungendo un posto di blocco, un militare americano uccide per errore Il funzionario del Sismi Nicola Calipariche si trovava in macchina con lei.
SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.
La BBC conferma: l’Inquisizione una truffa culturale per colpire la Chiesa. Addio ad uno dei suoi grandi calunniatori, Umberto Eco, scrive il 21 febbraio 2016 antimassoneria. Se oggi pensare al medioevo e alla Chiesa dell’epoca alla maggior parte del popolo poco informato vengono subito in mente roghi, streghe, superstizione e barbarie di tutti i generi lo dobbiamo sicuramente alla massoneria: si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, o almeno quella storia ricca di reticenze, omissioni, spesso di vere e proprie falsità; accuse che si continuano a scagliare anche a distanza di molti secoli. Infatti, una ricerca storica al di fuori dei libri di testo ci dà un quadro chiaro -e del tutto diverso come vedremo- da quello cosiddetto ufficiale. Il 19 Febbraio 2016 se ne va uno dei grandi calunniatori e mistificatori del medioevo e soprattutto, della Chiesa e della Santa Inquisizione. E così Umberto Eco pieno di sè fino all’orlo ha dovuto piegarsi anche lui davanti al ciclo naturale della vita, e alla natura come Dio l’ha creata, a cosa gli è servita tanta superbia se anche lui, “filosofo illuminati”, ha dovuto piegarsi-come i tutti i comuni mortali- alla sua ora? Il suo romanzo “Il Nome della Rosa” è uno dei libri più venduti di tutti i tempi insieme al “Codice da Vinci” di Dan Brown e a “50 sfumature di Grigio”, ciò la dice lunga sui gusti dei lettori occidentali, che sembrano chiedano: “ci vuole meno fede e ci vuole più sesso”. Ateo incallito, Eco ha fatto del suo meglio per trascinare il pubblico mondiale in direzione delle sue vedute personali contro la Cristianità, anche se questo ha significato mentire senza scrupoli. Umberto Eco – intervistato dal Corriere in occasione degli eventi di Charlie Hebdo– si schierò in favore della cancellazione di tutte le religioni, portatrici, secondo lui di odio e di distruzione, appoggiando in pieno il piano di dell’Unica Religione Globale in piena sintonia coi signori del potere e della globalizzazione. Non una parola ovviamente sulle cause reali di questi attentati, -che di islamico, a dir la verità hanno poco o nulla,- ma a questi eventi verranno contrapposti quelli della Santa Inquisizione, come dire? Due false flag a confronto. E fu così che anche Eco ha dovuto chiudere gli occhi e passare dall’aldilà, se abbia invocato la Divina Misericordia– l’unica possibilità di salvezza- non lo sapremo mai, ma sappiamo per certo che le sue menzogne, i suoi romanzi e le sue affermazioni continueranno ad essere riprese dai grembiulini (o massoni senza grembiule) che continueranno a servirsene per attaccare ingiustamente la Chiesa Cattolica e i suoi fedeli.
Introduzione a cura di Floriana Castro Testo in basso tratto da Appuntiitaliani.com. (Le foto riportate nell’articolo sono tratte dal dalla versione cinematografica de “Il nome della Rosa” di Jean-Jacques Annaud. Raffigurano il falso scenario medievale che si è inculcato nella mente del popolo medio: volti raccapriccianti, torture, donne innocenti accusate e scene di sesso tra presunte streghe e monaci, la più grande mistificazione di tutti i tempi). Finalmente un documentario della BBC, una fonte sicuramente non di parte Cattolica, che smonta il mito sulla Santa Inquisizione con il quale la Chiesa Cattolica è stata calunniata per secoli. Tutto falso signori, è tutto falso. La Chiesa non è quel covo di torturatori sadici depressi e maniaci che ha compiuto stragi, anzi, questa accusa torna al mittente, ossia la propaganda rivoluzionaria francese, i protestanti, gli inglesi anglicani che hanno attaccato la Chiesa Cattolica con accuse infamanti coprendo invece i loro misfatti. Ebbene sì, sono loro i torturatori sadici depressi e maniaci che hanno ucciso e torturato civili soprattutto Cattolici in quanto oppositori dei loro regimi. Basti pensare ai 2 milioni di francesi uccisi dalla massonica Rivoluzione Francese, ai Vandeani trucidati, ai Cattolici perseguitati in Inghilterra, facendo 70.000 vittime. Un clima di terrore quotidiano, ghigliottine, carceri, omicidi e genocidi. Questi sono coloro che accusano gli altri di colpe che invece sono le loro. Forza Cattolici, non fatevi intimidire, la Chiesa non deve chiedere scusa di niente e tantomeno bisogna vivere in soggezione per un presunto passato oscuro. Lo stesso Napoleone, invasa la Spagna, credeva di trovare archivi insanguinati ed invece non trovò niente. Forse avrebbe dovuto indagare sui suoi fratelli a Parigi. Vorrei proporvi questo interessante articolo che riassume i nuovi studi storici sulla cosiddetta leggenda dell’Inquisizione Cattolica, uno dei cavalli di battaglia della Massoneria ma soprattutto del Protestantesimo anglosassone fresco di tradimento nei confronti di Roma ed in competizione con l’egemonia del nascente Impero Spagnolo. Altro interessantissimo documento a supporto dei fatti è il documentario della BBC inglese -fonte sicuramente non di parte Cattolica- che dimostra come i fatti storici siano stati ingigantiti e manipolati in chiave anticattolica dalla propaganda protestante. Naturalmente i cavalieri anticattolici si stracciano le vesti e si inneggiano a difensori della dignità umana solo quando si tratta della storia del Cattolicesimo, dimenticandosi invece delle colpe ben più gravi e maggiori per esempio di Lutero che perseguitò i Cattolici e fece uccidere 100.000 anabattisti, oppure degli eccidi di Cattolici da parte dell’anglicanesimo, e non dimentichiamo i 2.000.000 di francesi, il 10% della popolazione delle Francia inclusi i 600,000 Vandeani, uccisi durante la Rivoluzione Francese, la quintessenza della libertà e della superiorità anticlericale ed invece dimostratasi la madre di tutte le dittature. E che dire del Comunismo che fece 100 “milioni” di morti nel mondo, dei quali 30 “milioni” solo in Russia, per i quali però non c’è memoria nè si grida allo scandalo? Per non parlare del genocidio armeno e quello in corso di Cristiani in medio oriente. Nessuna menzione riguardo agli eccidi dell’impero Azteco che sacrificava la popolazione con riti propiziatori in quantità industriale fino a raggiungere i 30.000 morti ogni anno e che giustamente sono stati travolti dagli spagnoli che hanno letteralmente liberato la popolazione locale da tale tirannia satanica, non solo si vorrà vedere quei territori liberati da quel male, ma si accuserà persino il condottiero spagnolo, Hernan Cortes di inciviltà e barbarie contro quel civile e pacifico popolo. Ma si sà, l’unica liberazione accettabile è quella della dittatura liberale che ha portato guerra in Europa negli ultimi tre secoli ed ora bombarda civili per esportare la falsa democrazia, nel silenzio totale dei sostenitori degli eroi che avrebbero liberato il mondo dalla millantata tirannia della Chiesa Cattolica
Streghe e Inquisizione: la verità storica oltre i luoghi comuni, di Bartolo Salone. Quando si parla di caccia alle streghe, nell’immaginario collettivo è immediato l’accostamento all’Inquisizione cattolica. Centinaia di migliaia, anzi milioni di donne sarebbero state sterminate per colpa di quell’esecrabile Istituzione, che certa storiografia liberal ci ha abituati a vedere come un covo di fanatici e integralisti religiosi assetati di sangue. Ma sono andate veramente così le cose? La ricerca storica, di recente, ha ribaltato questa prospettiva, dimostrando la falsità di una delle più diffuse “leggende nere” anticattoliche. Possiamo definire la stregoneria come quell’insieme di pratiche che una persona, in particolare relazione col Maligno, possa esercitare per nuocere ai suoi simili (secondo la credenza popolare). Benché si parli sovente di streghe e di caccia alle stesse, in realtà – come risulta dai documenti storici – la persecuzione riguardò, seppur in misura più ridotta, anche gli uomini e, in qualche raro caso, perfino i bambini. Contro un diffuso luogo comune di stampo femminista, va dunque rilevato come la “caccia” non era rivolta al sesso femminile in quanto tale, nascendo invece da una più generale ossessione per il diabolico. Ossessione – e qui va sfatato un altro luogo comune – sorta non nella Cristianità medievale, bensì nell’Europa moderna, proprio in quella osannata Europa della Riforma e del Rinascimento. Se nel Medioevo la credenza nella stregoneria non attecchì presso il popolo si deve proprio alla Chiesa cattolica, la quale, in numerosi Concili dal VI al XIII secolo (si pensi al Concilio di Praga del 563 o di Lione dell’840, fino ad arrivare ai Concili di Rouen e di Parigi, rispettivamente celebrati nel 1189 e nel 1212), condannò come superstiziosa idolatria la credenza che esistessero persone capaci di esercitare la magia nera in forza dei loro rapporti con il diavolo. A partire dalla fine del XIII secolo, le credenze stregonesche, per ragioni storiche che in questa sede non è possibile riepilogare, si fanno sempre più diffuse sia presso il popolo che presso alcuni ecclesiastici ed uomini di cultura. Sul piano dogmatico la posizione ufficiale della Chiesa sulla stregoneria (formulata nei predetti Concili) non muta, tuttavia muta la risposta al fenomeno: streghe e stregoni, proprio perché contravvengono agli insegnamenti della Chiesa e al divieto di esercitare le arti magiche, vengono considerati alla stregua degli eretici, e pertanto la competenza giurisdizionale, nei Paesi cattolici, viene sottratta ai tribunali civili e assegnata ai tribunali inquisitoriali. Secondo una certa vulgata (sostenuta con forza da intellettuali “liberal” e da romanzieri asciutti di storia alla Dan Brown) questo avrebbe segnato l’inizio di una vera e propria mattanza, che nell’arco di tre secoli avrebbe portato al rogo non migliaia, ma addirittura milioni di donne (tutte ascrivibili, manco a dirlo, al fanatismo e alla misoginia propri del mondo cattolico). Fin qui la “leggenda”. La verità è però ben diversa e per rendercene conto basterà riferirsi ad alcuni dati tratti dall’opera più completa ed aggiornata di cui ad oggi si dispone in tema di stregoneria e di caccia alle streghe: si tratta della “Enciclopedia della stregoneria, la Tradizione occidentale” edita nel 2007 dalla Abc-Clio e curata dallo storico anglosassone Richard Golden, per un totale di ben 752 voci, compilate da 172 studiosi di 28 diverse nazionalità. Innanzitutto, facciamo attenzione alla periodizzazione e alla “geografia” del fenomeno: la cosiddetta “caccia alle streghe” (ma, come visto, non mancarono anche roghi di stregoni) va dal 1450 al 1750 (siamo dunque in piena età moderna, non nel “buio” Medioevo) e interessò un po’ tutti i Paesi europei, sia cattolici che protestanti. Quante le persone giustiziate per stregoneria? Centinaia di migliaia o milioni, come ci ripetono alcuni? Ebbene, la cifra “vera” si aggira tra le 30.000 e le 50.000 unità, da “spalmare” nel corso di tre secoli: una cifra considerevole, ma comunque irrisoria se paragonata ai milioni di morti delle grandi rivoluzioni e guerre dell’800 e delle stragi del ‘900, e in ogni caso non tale da giustificare la definizione di “genocidio” né tantomeno di “olocausto”. Un fenomeno prevalentemente cattolico, dovuto alla furia dei tribunali inquisitoriali? Anche questa è una falsità bell’e buona. Infatti nei Paesi che avevano l’Inquisizione, le “streghe” giustiziate furono soltanto 310 (precisamente, 300 in Italia e Spagna e soltanto 10 in Portogallo), a cui si aggiungono (per rimanere in ambito cattolico) i 600 casi della Francia e i 4 dell’Irlanda. La grande massa (tra le 15.000 e le 25.000 vittime) è concentrata in Germania, mentre la piccola Svizzera contribuì al massacro con 3.000, la Scandinavia con 2.000 e la Scozia con 1.000. Si ha quindi conferma che la mattanza fu concentrata soprattutto nei Paesi luterani, calvinisti, anglicani o in quei piccoli Stati tedeschi che non avevano l’Inquisizione cattolica. Dunque, l’Inquisizione costituì non un incentivo (come a lungo ci è stato fatto credere), bensì un freno (e molto efficace) contro la persecuzione delle “streghe”. Le ragioni ci sono spiegate dallo storico Richard Golden in questo modo: “Nelle terre dove regnava la legge dell’Inquisizione cattolica vi furono meno vittime rispetto ad altre regioni d’Europa. Questo si deve al fatto che le tre Inquisizioni applicavano regole omogenee ovunque, avevano propri tribunali composti da giudici con nozioni basilari di diritto e applicavano la legge seguendo canoni universali, rispondendo a un unico potere. In Germania, invece, dove si ebbe il numero più alto di streghe uccise, la realtà era opposta: ognuno degli oltre trecento principati e staterelli aveva un sovrano con un suo tribunale che applicava la legge a piacimento e di conseguenza i pericoli per le presunte streghe aumentavano. I tribunali laici del nord e del centro dell’Europa condannarono a morte molte più streghe di quanto fecero quelli dell’Inquisizione cattolica romana, che facevano maggiore attenzione al rispetto di garanzie legali e di conseguenza limitavano il ricorso alla tortura”. Non penso ci sia bisogno di aggiungere altro, se non che da cattolici realmente maturi e amanti della verità dovremmo imparare ad andare oltre certi luoghi comuni e a guardare con più serenità ed obiettività al nostro passato. E non solo per un dovere di carità verso quanti ci hanno preceduto nella fede, ma anche per saper rispondere a ragion veduta a quanti vorrebbero farci vergognare della nostra fede presentandoci una visione parziale e in molti casi deformata della storia della Chiesa. Introduzione Floriana Castro testo seguente tratto da appuntiitaliani.com
L’eresia, la propaganda e la leggenda della chiesa assassina. La Santa Inquisizione, scrive il 29 agosto 2015 antimassoneria. Sicuramente alcuni lettori al semplice suono della parola “medioevo” avranno già davanti scenari cupi e tenebrosi di cumuli di cadaveri ammassati sui carri nel periodo della peste bubbonica o i roghi della chiesa assassina! Quando parliamo di Inquisizione è proprio il caso di dire: basta la parola. Basta pronunciare il termine Inquisizione ed ecco che noi cattolici restiamo senza parole, ammutoliti. Beh, la chiesa non è più come quella di una volta, oggi i papi non fanno altro che inchinarsi e chiedere perdono davanti a chi ha perseguitato impenitentemente la Chiesa di Cristo. Oggi i papi prendono le distanze dalla tenacia con la quale i loro predecessori hanno difeso l’etica cristiana. Suppliche di perdono che tra l’altro non vengono nemmeno accettate -come nel caso dei valdesi-, che si scissero dalla Chiesa rifiutando la sottomissione alle autorità episcopali ed in seguito combatterono ferocemente la Chiesa Cattolica, anche con la violenza: Essi si diedero alla rapina, al saccheggio, alle stragi di cattolici, a violenze gratuite di ogni genere nel corso dei secoli. Fino a poco più di cent’anni fa misero a punto vari attentati con lo scopo di assassinare San Giovanni Bosco. Invano il vescovo Bellesmaius li richiamò all’ordine. Il papa Lucio III finì per condannarli, nel concilio di Verona e nella Bolla Ad abolendam, del 4 novembre 1184. In seguito i valdesi si organizzarono come setta separata dalla Chiesa. Dallo scisma passarono presto all’eresia. Molto più tardi, verso il 1533, adottarono le principali dottrine della Riforma protestante: Fu questo ad attirare su di essi le repressioni legali sotto Francesco I. Essi furono allora, per ordine del Parlamento di Aix-en-Provence, le vittime di una tremenda spedizione punitiva, durante la quale vi furono migliaia di morti (le cifre variano fra 800 e 4.000 per 22 villaggi distrutti). Oggi i Valdesi si dichiarano ecumenici e desiderosi di collaborare nella Chiesa targata “Vaticano II” dopo aver chiarito alcuni punti teologici con Bergoglio, ricordiamo i punti teologici sulla quale si basano i valdesi: matrimoni gay, sostegno a movimenti LGBT, contraccezione, aborto, eutanasia, testamento biologico (i cui registri, in diverse città, sono gestiti proprio dai valdesi). Chiudiamo la parentesi dei valdesi; andiamo al cuore del problema: cosa ha fatto la chiesa per difendere la sua dottrina nel passato? Davvero gli scenari erano quelli descritti nel libro “Il nome della rosa” di Umberto Eco? E’ vero che tante povere donne innocenti venivano date al rogo solo per tenere un gatto nero in casa? “Come è possibile che la Chiesa cattolica sia stata capace di istituire i tribunali dell’Inquisizione?” domandano e ci ricordano i laicisti e gli avversari della Chiesa. E noi, spesso, non sappiamo che cosa rispondere. Anzi, molti cattolici spesso per ignoranza accusano i cristiani del passato, chiedendo scusa alle presunte vittime. Scusa? Ma conoscete la Santa Inquisizione?
COSA FU L’INQUISIZIONE? L’inquisizione è l’argomento privilegiato dai signori della sovversione per denigrare la storia della Chiesa e con questo pretesto anche la fede cattolica. La Santa Inquisizione fu istituita da Papa Gregorio IX nel 1232, per reprimere eresie, sacrilegi, stregonerie e gravi delitti. Quando ci si trovava davanti a delitti gravi e gli accusati non si pentivano, erano consegnati all’autorità civile, che li castigava secondo la legge. Ovviamente bisogna giudicare le cose secondo la mentalità dell’epoca. In Europa erano tutti obbligati a seguire la religione del re, secondo il principio “CUIUS REGIO, EIUS ET RELIGIO” (di chi è la regione, dello stesso è la religione) per cui un delitto nel campo religioso (eresia) era considerato come attentato contro lo Stato, che interveniva con tutto il peso della legge. Ad accendere i roghi furono prima la gente comune e poi le autorità, tanto che la Chiesa dovette intervenire per avocare a sé il problema. Cioè: in tema di religione solo la Chiesa ha la competenza necessaria nonché la misericordia occorrente affinché sul rogo non ci finisca qualche sprovveduto. Perciò creò l’Inquisizione, un tribunale di esperti teologi con tanto di garanzie che accertava che l'“eretico” fosse veramente tale e non un poveraccio tratto all’eresia da ignoranza. Se l’imputato persisteva nelle sue “idee”, la Chiesa non poteva fare più nulla per lui e passava la mano all’autorità civile. Pertanto, servirsi di questo fatto per attaccare il cattolicesimo e la sua dottrina è storicamente scorretto. Ricordate quanti cristiani furono dati in pasto ai leoni? quanti cristiani furono decapitati ai tempi della Roma pagana? Come mai nessuno ricorda le vittime cristiane sacrificate in nome della “libertà, uguaglianza e fraternità”? E le vittime cristiane durante gli anni 30 in Spagna? e le vittime causate dal Comunismo in Russia e in tutti i paesi comunisti? E i cattolici martirizzati ai tempi dell’istituzione dell’Anglicanesimo in Inghilterra, come si può dimenticare ciò? Anche perchè stiamo parlando di ben 70.000 martiri uccisi per impiccagione e squartamento che avveniva prima della morte per soffocamento,- Beh, a me non sembra corretto non ricordare mai nemmeno le vittime causate dall’inquisizione protestante, numero assai superiore di quella Spagnola. Non c’è obiettività…mi sembra ovvio che il bersaglio da colpire è sempre la chiesa cattolica e la sua dottrina. E' abitudine citare il processo e l’atto di abiura di Galileo Galilei, sospettato di eresia. Il conflitto che egli stava affrontando contro una parte della Chiesa riguardava l’interpretazione di Galileo verso alcuni passi biblici che sostengono l’immobilità della terra e del movimento del sole distorti a favore dell’eliocentrismo. Consideriamo che la Chiesa prima delle prese di posizioni di Galileo era stata favorevole all’ “ipotesi copernicana”. Si evita di chiarire che dopo il processo Galileo non finì sul rogo, ma fu trasferito presso l’arcivescovo di Siena, dopo pochi mesi gli fu concesso di trasferirsi presso la sua abitazione. Pochi conoscono il “segreto” del processo alla quale fu sottoposto Galileo. Proprio di questo “caso” parla il libro “Lezioni da Galileo” recentemente pubblicato da APRA in italiano, scritto dal celebre storico della scienza Stanley Jaki (scomparso nel 2009). Jaki ha smontato diverse leggende, chiarendo che la Chiesa non era affatto interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé e che non lo temeva affatto. Anche perché, come abbiamo scritto, già quattro secoli prima di lui san Tommaso d’Aquino (1225-1274) disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva. Inoltre, diversi pontefici, come Leone X e Clemente VII, si mostrarono aperti alle tesi del sacerdote cattolico Copernico (nessun “caso Copernico”, infatti), tanto che nell’Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana (e lo stesso Galilei ne era consapevole). Nel 1533 papa Clemente VII, affascinato dall’eliocentrismo, chiese, ad esempio, a Johann Widmanstadt di tenergli una lezione privata sulle teorie di Copernico nei Giardini Vaticani. L’opposizione all’eliocentrismo venne invece in modo compatto dal mondo protestante, tanto che Lutero scrisse di Copernico: «Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica». Ancora oggi i protestanti hanno grossi problemi con il mondo scientifico (creazionismo Vs evoluzione) a causa della mancanza di interpretazione della Bibbia. La critica a Galileo da parte della Chiesa fu basata invece dalla mancanza di prove sufficienti a favore dell’eliocentrismo e dunque sulla sua inopportuna presentazione come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. Galilei, inoltre, utilizzò come unica prova l’argomento dell’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare (e avevano ragione loro, non certo lo scienziato pisano). Tuttavia molti ecclesiastici erano d’accordo con Galilei, come ha perfettamente spiegato lo storico ateo Tim O’Neill, «tutta la vicenda non era basata su “scienza vs religione”, come recita la favola della fantasia popolare.
QUANTE VITTIME FECE L’INQUISIZIONE? Nell’immaginario popolare si pensa che i tribunali dell’Inquisizione siano stati istituiti per mandare tutti gli eretici al rogo. Si pensa che tutti gli inquisiti, tutti coloro che cadevano nelle terribili braccia dell’inquisitore finivano al rogo. Questo è quello che si pensa, questo è quanto molto spesso ci viene detto ed insegnato e affermazioni di questo genere zittiscono ogni possibile difesa. Noi ci domandiamo: le cose stanno proprio così? Vediamo qualche dato storicamente documentato, che ci aiuti a formulare un giudizio più vicino alla verità storica. Innanzitutto, ricordiamo che la condanna al rogo per gli eretici era una pena stabilita dal diritto penale e non dal diritto canonico. Non esiste nel diritto canonico la condanna al rogo. Fu l’imperatore Federico II di Svevia, che dichiarò per tutto l’impero – e lui era la massima autorità dell’impero e poteva farlo, allora, – l’eresia come crimine di lesa maestà, e stabilì la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole. Dunque, è vero che quando il tribunale dell’Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva, ma non era la Chiesa a condannarlo a morte, nè era la Chiesa ad ucciderlo. La Chiesa si limitava a riconoscerlo come eretico che rifiutava ogni pentimento. Era il diritto penale e il braccio della legge che prevedevano la morte ed eseguivano la sentenza. Detto questo, entriamo un po’ nel merito e qui emergono sorprese: quale stupore ci coglie tutti se esaminiamo quante sono state le condanne al braccio secolare. L’esame dei dati ci indica che i tribunali dell’Inquisizione furono molto prudenti nel consegnare gli eretici al braccio secolare. I dati, documentati storicamente, non mancano, basta conoscerli. Facciamo l’esempio di Bernardo Gui, che ha esercitato con una certa severità l’ufficio di inquisitore a Tolosa. Bene: dal 1308 al 1323 egli ha pronunciato 930 sentenze. Abbiamo l’elenco completo delle pene da lui inflitte: 132 imposizioni di croci – 9 pellegrinaggi – 143 servizi in Terra Santa – 307 imprigionamenti – 17 imprigionamenti platonici contro defunti – 3 abbandoni teorici al braccio secolare di defunti – 69 esumazioni – 40 sentenze in contumacia – 2 esposizioni alla berlina – 2 riduzioni allo stato laicale – 1 esilio – 22 distruzioni di case -1 Talmud bruciato – 42 abbandoni al braccio secolare e 139 sentenze che ordinavano la liberazione degli accusati. Soltanto l’ 1% ! Questi dati contestano il mito della crudeltà dell’Inquisizione spagnola. E non solo. Lo storico statunitense Edward Peters ha confermato questi dati. Sentiamo che cosa scrive: “La valutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari”. Come vedete, grazie a questi dati, va sfatata la leggenda che tutti coloro che venivano giudicati dall’ inquisizione finivano a rogo. È una leggenda che gli storici hanno smontato, ma che perdura ancora nell’immaginario popolare. Nei documenti inquisitoriali, abbiamo incontrato condanne alla prigione “perpetua e irremissibile”. Ma attenti a non farsi ingannare da certi modi di esprimersi del tempo. Abbiamo condanne al “carcere perpetuo per anni uno”. Solitamente “perpetuo” vuoi dire 5 anni, “irremissibile” vuoi dire 8 anni. La pena dell’ergastolo non era prevista.
CHI ERANO QUESTI CITTADINI CHE L’IMMAGINARIO VUOLE ESSERE STATI PERSEGUITATI PER LE LORO IDEE RAZIONALI? QUALI ERANO QUESTE IDEE? Ora, diciamo subito una cosa molto scomoda e fuori moda: non si deve pensare come è abbastanza diffuso nell’immaginario popolare che i condannati fossero pacifici cittadini adibiti a pratiche religiose del tutto innocue e le donne delle pie sante devote accusate ingiustamente senza alcuna prova, non e’ affatto la verità! essi erano in realtà colpevoli di praticare stregoneria e omicidi rituali, basti pensare a quante donne improvvisate ”ostetriche” compivano aborti fino alle ultime settimane di gravidanza per poi sacrificare i resti delle povere creaturine in rituali satanici. Gli eretici spesso costituivano un autentico pericolo per la pace sociale. Pensiamo ai Catari. Condannavano il matrimonio, la famiglia e la procreazione. Per i Catari non bisognava comunicare la vita, ma distruggere la famiglia, in poche parole: distruggere l’intera società medievale, lottavano anche con violenza contro la Chiesa. Negavano il valore del corpo, che consideravano prigione dell’anima. Questa soffre e si può liberare solo sopprimendo il corpo. Talvolta praticavano il suicidio e istigavano a compierlo, causavano rivolte e caos. I catari erano potenti e privi di scrupoli. L’autorità civile non intendeva permettere che, a furia di vietare la procreazione, l’umanità si estinguesse (tra l’altro, i catari proibivano il giuramento, che era la base della società feudale). Ben pochi sanno tutto questo. I settari sorvegliano attentamente e si affrettano ad intervenire perciò onde soffocare ogni timido accenno (non oseremmo mai parlare di restaurazione cattolica dopo il Vaticano II) di rievocazione della grandezza dell’Europa medioevale: la Leggenda Nera dei secoli caliginosi e bui deve essere mantenuta e un torrente di anatemi è scagliato ogniqualvolta si cerchi di metterla in discussione. Eloquente in proposito un articolo comparso nel maggio 1990 sul New York Times – testata giornalistica di proprietà della ricchissima famiglia ebraica dei Sulzberger – a firma di Dominique Moisi, vicedirettore dell’IFRI, l’Istituto per gli Affari Internazionali francese, intitolato: “Uno spettro ossessiona l’Europa: il suo passato”. Vi si dice: “Disgraziatamente (ora che l’Est si è liberato), nell’ombra esiste un’altra Europa, dominata da uno spirito di ritorno alle sue cattive inclinazioni di un tempo, nei richiami alle nere tentazioni della xenofobia, del razzismo e dello sciovinismo”. “[…] Noi non dovremmo sognare di ricostruire un’Europa cristiana sulle ceneri del mondo comunista o nei limiti di un certo capitalismo. L’Europa che Giovanni Paolo II desidera è quella nella quale la maggioranza degli Europei non si troverà molto a suo agio. La Chiesa – che storicamente è responsabile dell’antisemitismo – non saprà offrire soluzioni a una nuova Europa; soltanto i valori umanisti e le istituzioni democratiche sapranno farlo. O altrimenti il muro di Berlino sarà caduto invano”. Non esiste, né può esistere, una società che non si basi su un corpus strutturato di idee (chiamateli, se volete, valori, princìpi, religione civile) e che non lo difenda se vuole continuare a sussistere, ieri come oggi (basti pensare alle leggi sull’omofobia). (Il corriere della sera equipara l’ISIS ai roghi dell’Inquisizione). Eh si, che fortuna che abbiamo, i tempi sono cambiati, adesso non siamo più nel medioevo. Oggi paghiamo il 50 per cento dei nostri introiti ai prestatori di capitale, mentre nel medioevo il cittadino doveva solo la decima alla Chiesa o al feudatario. Oggi si può liberamente bestemmiare senza vergogna, si può ostentare con orgoglio il peccato, e si possono esigere diritti per i suoi perpetratori; si possono aprire pagine blasfeme su Facebook (in linea con i termini della community) create appositamente affinchè ognuno scriva la propria bestemmia sulla pagina; si possono tranquillamente ammazzare i propri figli nel ventre materno con la benedizione delle istituzioni e i soldi dei contribuenti; si può tranquillamente essere iniziati al satanismo comodamente da casa; ci si può arruolare tra i miliziani dell’ Isis con dei semplici click davanti ad un computer… Un uomo senza radici, infatti, privo di riferimenti, senza terra, senza uno scopo di vita diverso dal piacere e dall’accumulo di beni materiali fine a se stesso, è esattamente il prototipo ricercato dai mondialisti, docile burattino massificato, le cui pretese non travalicano il benessere biologico e la cui visione del mondo – solo a prima vista ampia, essendo egli una specie di apolide senza tradizioni. Che fortuna che abbiamo noi ad essere nati in una società così moderna ecumenica e progressista!
SOTTOMESSI ALL’ISLAM!
Siamo sottomessi? Sì, all'autocensura. Un dossier sull'Impero (culturale) del Bene che spinge al conformismo e umilia il pensiero, scrive Stenio Solinas, Domenica 14/02/2016 su "Il Giornale". «Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d'arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c'è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l'avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent'anni fa, in quello che resta un classico in materia, La cultura del piagnisteo, Robert Hughes si era mostrato fiducioso: «Un'abitudine tipicamente americana» l'aveva definita.
«L'appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d'Europa non desta praticamente alcuna eco». Mai profezia si è rivelata più avventata, nel piccolo come nel grande, nella politica come nella cronaca, nella tragedia come nella farsa. Giorni fa, nello spiegare l'invio di militari intorno alla diga di Mosul, in Iraq, il nostro ministro della Difesa ha detto che sarebbero andati lì «per curare i feriti» e il suo collega degli Esteri ha specificato che non andavano certo «per combattere»... L'idea del soldato-infermiere e/o portatore di caramelle è singolare e richiama alla mente la neo-lingua e il bis-pensiero del George Orwell di 1984: «La libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza», mentire con purità di cuore, «negare l'esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trarre vantaggio dalla realtà che viene negata»...D'altra parte, «la guerra è pace» è in fondo poca cosa rapportata alle dichiarazioni con cui, poco tempo fa, il rettore di un college inglese ha deciso che «il ragazzo è una ragazza» e viceversa, e quindi a scuola gonne e pantaloni sono optional: il sesso non si dà, si sceglie. Se, indeciso, lo studente/la studentessa, si presentasse nudo/nuda alla meta, ovvero in classe, non è dato sapere se frequenterà le lezioni... E naturalmente, i guerrieri della pace e/o i pacifisti della guerra, gli uomini-donne e/o le donne-uomini fanno anche loro parte di quella corrente di pensiero che ha stabilito che immigrati e emigranti erano un retaggio del passato, di quando insomma non eravamo esseri umani: «migranti» rende meglio il concetto, qualsiasi cosa con esso si voglia dire. È l'onda lunga di quella che Hughes aveva definito la Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svanivano grazie a un tratto di penna, ma è la stessa idea di natura umana che il pensiero progressista, ovvero «il campo del bene», ovvero «il politicamente corretto» guarda con sospetto. Niente è più irritante dell'avere una identità, di uomo e di cittadino. Come spiega lo storico Jacques Julliard alla Revue des deux mondes, corrisponde «alla caricatura dell'idea sartriana che l'uomo non è ciò che è, ma ciò che fa. Alla filosofia del progresso che era quella del XIX secolo, si è sostituita la filosofia del volontarismo individuale: la decostruzione di ogni identità individuale a beneficio di una libertà pura nella quale la filosofia greca avrebbe visto una sorta di hybris, di rivolta contro la natura che gli dei ci hanno dato. Ecco il fondamento filosofico ultimo della sinistra morale». Il fatto è, dice ancora Julliard, che l'uomo è un essere storico, e ciò che c'è di più presente in lui è il suo passato. Viene anche da qui quella strana «teologia negativa» per la quale si nega la propria identità per far emergere quella dell'altro. Così, nella Francia del laicismo scolastico, puoi avere dei programmi dove l'islam diviene obbligatorio, mentre il cristianesimo è facoltativo...La «cultura dell'eufemismo» vuole le eccezioni preferite alle regole, le minoranze alle maggioranze, le orizzontalità alle verticalità, e grazie a lei la contro-verità diventa una verità. Nel «campo del bene», spiega alla Revue des deux mondes il filosofo Jean Pierre Le Goff, l'emozione e i buoni sentimenti la fanno da padrone. Non si vuole cambiare la società con la violenza, e la classe operaia ha smesso da tempo di essere oggetto di interesse. Si tratta invece di rompere con «il vecchio mondo» estirpandone le idee e i comportamenti ritenuti retrogradi, in specie nel campo dei costumi e della cultura. Non ha un modello chiavi in mano di società futura, ma una sorta «di armatura mentale: svalutazione del passato e della nostra tradizione; appello incessante al cambiamento individuale e collettivo, reiterazione dei valori generali e generosi che porteranno alla riconciliazione e alla fratellanza universali. Da un lato i buoni, dall'altro i cattivi»…Relativista, antiautoritario, edonista, moralista e sentimentale. Anche libertario? Le Goff dice di no: «Esercita una polizia del pensiero e del linguaggio di un genere nuovo. Non taglia le teste, fa pressione e ostracizza». A sentire i difensori del «politicamente corretto», per esempio il direttore di Libération Laurent Joffrin, si tratterebbe di una balla. Essere progressisti vuol dire fondarsi sui valori universali di eguaglianza e giustizia per giudicare le situazioni contemporanee. Le idee progressiste, insomma, sono politicamente corrette proprio perché progressiste, e del resto, per restare sempre in Francia, non siamo di fronte a un affollarsi di pensatori reazionari, sulla stampa come alla televisione, sempre lì a dire che sono proscritti e intanto però a scrivere e a parlare senza impedimenti e con qualche lucro: libri, programmi, rubriche eccetera? Sono loro «il vero pensiero unico»...Le cose sono un po' più complicate, e trasformare una minoranza che dissente in maggioranza che ha potere rimanda ancora al bis-pensiero e alla neo-lingua orwelliani. Per quel che si sa, nessun professore universitario viene fischiato dai suoi studenti per essersi richiamato all'ideologia dei diritti dell'uomo e a quella del progresso, e quindi l'ideologia dominante è ancora quella lì ed è ancora saldamente al suo posto. Solo che è un disco rotto, non inventa più niente e quindi più che alla confutazione del pensiero altrui si dedica alla sua delegittimazione: non dice che è falso, dice che è cattivo o che, oggettivamente, fa il gioco del cattivo, del Male, del Diavolo. Non interessa se le opinioni possono essere giuste, conta che possano essere strumentalizzate contro il «campo del bene», «l'impero del bene»... Si arriva così all'assurdo di dichiararsi per la libertà di espressione, purché però la si pensi allo stesso modo. Naturalmente, c'è anche un benpensantismo a destra, un politicamente corretto che non è solo o tanto la retorica del definirsi politicamente scorretti, una sorta di esaltazione per il rutto intellettuale scambiato per schiettezza anticonformista. È una questione più delicata. In Francia l'hanno ribattezzata «droite no frontier», ovvero il sogno della libertà economica, il capitalismo libertario e senza confini che però non dovrebbe confliggere con i valori familiari e morali. Si esalta il mercato planetario di massa, ma non si ammette che dietro c'è «l'uomo nomade», che al mercatismo del mondo corrisponde quello dell'essere umano. In questo i due benpensantismi, di sinistra e di destra, finiscono per darsi la mano: il primo sogna la libertà illimitata di agire sul naturale umano e però fa finta di rifiutare la libertà economica del mondialismo; il secondo prende per buona quest'ultima, ma finge di credere che non lo riguardi nella sua quotidianità. Entrambi tartufi, politicamente corretti.
L'ossessione politicamente corretta ammazza la cultura e l'Università. Salisburgo, tolta la laurea ad honorem a Lorenz per il suo passato nazista. La lettera di protesta dei professori di Oxford: stanno distruggendo il confronto tra le idee, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale". E l'uomo incontrò il politicamente corretto. Pochi giorni fa l'università di Salisburgo ha revocato al grande etologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la Medicina nel 1973 (morto nel 1989), la laurea honoris causa per il suo passato nazista. Studioso di fama mondiale per gli studi sul comportamento animale - e autore di uno dei testi più straordinari mai scritto sul valore della conoscenza e dell'informazione, L'altra faccia dello specchio - Lorenz si distinse fin dagli anni Trenta per la volontà di diffondere l'ideologia hitleriana.È curioso. Il passato nazista di Lorenz è noto da sempre (nel 1937 fece domanda per una borsa di studio universitaria facendosi raccomandare da accademici viennesi come simpatizzante del nazismo, nel '38 aderì al Partito dopo aver scritto sul curriculum che aveva messo «tutta la sua vita scientifica al servizio del pensiero nazionalsocialista», e nel '42 fu spedito sul fronte orientale e fatto prigioniero dai russi). Eppure Lorenz fu ritenuto meritevole del Premio Nobel nel 1973. E l'ateneo austriaco lo insignì del titolo onorifico nel 1983. Però, oggi, lo rinnega. Perché l'abiura non è stata fatta prima? Perché ora? Ha senso? L'onda lunga del politicamente corretto, nella corrente di risacca, finisce per travolgere la cultura del passato. Ma è quella del futuro che preoccupa di più. Lo tsunami scatenato da questo pericoloso atteggiamento sociale che piega ogni opinione verso un'attenzione morbosa al rispetto degli «altri», perdendo quello per la propria intelligenza, fino a diventare autocensura, rischia di fare immensi disastri. Ieri un gruppo di professori di «Oxbridge», cioè di Oxford e Cambridge, ha scritto una lettera aperta al Daily Telegraph per denunciare il politically correct che sta uccidendo progressivamente la libertà di pensiero ed espressione nelle università britanniche, indebolendone il ruolo di spazio privilegiato del confronto delle idee. Il casus belli è la campagna indetta per rimuovere la storica statua di Cecil Rhodes, ex alunno e benefattore dell'«Oriel College» (tanti ragazzi si sono fatti strada grazie ai suoi soldi), perché considerato l'ispiratore dell'apartheid in Sudafrica. Ma le sue colpe - fa notare qualcuno - non ne cancellano i meriti a favore del progresso. Un principio che può essere applicato anche a Lorenz in campo medico. O a Heidegger in campo filosofico. O a Céline in campo letterario. Ironia della sorte, e dimostrazione della stupidità insita nel politicamente corretto: l'ex studente che ha lanciato la crociata per la rimozione della statua, il sudafricano Ntokozo Qwabe, ha potuto studiare a Oxford grazie a una borsa di studio finanziata dalla Fondazione Rhodes.L'aspetto più inquietante della faccenda è che a farsi promotori dell'autocensura basata sulla correttezza politica, ad Oxford, non sono i professori, ma gli stessi studenti. Gli autori della lettera aperta, guidati dal sociologo Fran Furedi della University of Canterbury, da parte loro accusano le università inglesi di trattare i giovani come «clienti» che pagano rette salate (che è meglio non scontentare) e non come menti da formare e aprire al confronto. A Oxford un dibattito sull'aborto è stato annullato dopo che una studentessa ha lamentato che si sarebbe sentita offesa dalla presenza nell'aula di «una persona senza utero». Che, tradotto, significa «un uomo». Un comportamento da vera papera che avrebbe di certo incuriosito un etologo come Lorenz.
Il Politicamente corretto ha ucciso la cultura occidentale, scrive Francesco Giubilei su "Il Giornale il 13 novembre 2015. Uno dei principali mali della nostra società – forse il più profondo e grave perché subdolo, ramificato e stratificato – è il politicamente corretto. Una vera e propria dittatura – come recita il sottotitolo del libro di Annalisa Chirico che tratta di tutt’altro argomento “contro la dittatura del politicamente corretto” – che è diventata ancor più evidente con il web. Perché in una società di tuttologi, di esperti in ogni settore dello scibile umano, in un bar sport a cielo aperto come è diventata la società del XXI secolo, avere posizioni che contrastano il pensiero comune non è ormai più concesso, in barba alla democrazia. Criticare la visione della massa porta ad essere tacciati come snob o, peggio ancora, con un paradosso che stento a comprendere, di essere antidemocratici. Perché sostenendo posizioni scomode o non omologate, si offende l’altrui libertà. Così non è più possibile pubblicare sui social la foto di una cena a base di maialino arrosto perché si offende la sensibilità dei vegani, non si può più pubblicare un crocifisso perché si è irrispettosi verso le altre religioni. Il risultato è quello di annichilire la nostra storia, le nostre tradizioni e la nostra cultura, creando una società senza valori e identità e quindi senz’anima. Proprio in questi giorni sono avvenuti due episodi in tal senso sconcertanti, uno negli Stati Uniti e uno nel nostro paese. La celebre catena di caffetterie Starbucks ha deciso di eliminare la scritta “Merry Christmas” dalle tazze di Natale per rispettare le altre credenze religiose. Mi chiedo a questo punto quale sia l’utilità delle tazze natalizie se non si celebra il Natale, ah già il denaro… L’episodio accaduto a Firenze è invece ancor più grave e preoccupante: “le crocifissioni di Chagall e Guttuso, la pietà di Van Gogh, la via crucis di Fontana potrebbero urtare <la sensibilità delle famiglie non cattoliche>, e per questo le terze classi dell’elementare Matteotti di Firenze non andranno a visitare la mostra dove queste opere sono esposte, cioè la ‘Bellezza Divina’ a Palazzo Strozzi”, scrivono Adinolfi e Bocci su la Repubblica. Siamo giunti al punto che anche le opere d’arte di alcuni dei principali artisti al mondo possono urtare la sensibilità dei credenti di altre religioni, non resta che abbattere chiese e monumenti per evitare che possano creare fastidi e malumori.
Firenze, la mostra con le tele di Chagall e Van Gogh vietata ai bimbi della scuola: "Urta i non cattolici". I genitori contro la scelta del consiglio interclasse delle terze elementari dell'istituto Matteotti di fermare la gita all'esposizione "Divina Bellezza" sul rapporto tra arte e sacro. Il preside: "Nessun motivo religioso, la programmazione è ancora in corso". Inviato un ispettore del Miur, scrivono Gerardo Adinolfi e Valeria Strambi il 12 novembre 2015La Crocifissione bianca di Chagall, il quadro preferito da Papa Francesco che per l'occasione della sua visita a Firenze era stato spostato da Palazzo Strozzi al Battistero, non potrà essere visitato dagli alunni della terza elementare della scuola Matteotti del capoluogo toscano. E così neanche la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l'Angelus di Millet e le altre cento opere della mostra Divina Bellezza. Ai bambini dell'istituto così non sarebbe concesso di conoscere le sculture di Fontana, ma anche i quadri di Munch, Picasso, Matisse che, nell'esposizione fiorentina, riflettono sul rapporto tra arte e sacro avendo come filo conduttore proprio il tema della religione. La gita per gli alunni del Matteotti è vietata. Il motivo? "La visita è stata annullata per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra", si legge, secondo quanto riporta il quotidiano La Nazione, dal verbale della riunione del consiglio interclasse dello scorso 9 novembre redatto da un rappresentante di classe e distribuito a tutti i genitori. Con le proteste partite proprio da molte famiglie arrabbiate dalla decisione: "I nostri figli non potranno più studiare storia dell'arte, basata proprio sull'arte sacra? - si sono chiesti i genitori contrari al divieto - siamo a Firenze, vedremo quindi negare le gite a Santa Croce, in Duomo e agli Uffizi perché ci sono figure sacre?". Domande poste anche al preside dell'Istituto Alessandro Bussotti che però ribatte alle accuse e spiega: "La visita non è stata annullata perché nessuna visita era precedentemente stabilita, la programmazione è ancora in corso e non è detto che non si faccia. Una classe delle medie dell'Istituto comprensivo la farà. Se gli insegnanti nella programmazione avevano deciso di non farla sicuramente non è stata per motivazioni religiose. Tutti indipendentemente dalla fede devono poter godere delle bellezze dell'arte". Ribattono anche gli insegnanti delle terze del Matteotti: “L’inclusione, o meno, di visite a mostre o musei non ha motivazioni di ordine religioso, ma esclusivamente di natura didattica, nell’ambito dell’attività di progettazione, che è propria della libera espressione dell’attività docente, in relazione all’efficacia della ricaduta sul processo di apprendimento degli allievi.” Cosa sia successo nel consiglio di interclasse spetterà dunque scoprirlo ad un ispettore del Miur che arriverà forse già domani da Roma alla scuola elementare di viale Morgagni per fare luce sul caso. A confermare l'ispezione è stato il direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale della Toscana Domenico Petruzzo. "Stamani - ha affermato Petruzzo - ci siamo sentiti con l'ispettore" che arriverà alla scuola "al più presto, forse domani". "Dobbiamo vigilare e avere cognizione del caso in modo preciso" ha continuato il direttore dell'Usr Toscana, spiegando che "occorre riserbo" fino a che non saranno "accertate con precisione le cose come stanno". Al termine degli accertamenti, ha detto ancora, "saranno prese le misure per le responsabilità che ci sono". Di sicuro c'è che quelle tre righe in uno dei quattro verbali sono state scritte, e diffuse tra i genitori. Se è vero che una scuola fiorentina ha annullato la visita degli alunni ad una delle più belle mostre fiorentine di arte sacra degli ultimi anni 'per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche' saremmo davanti ad un fatto quantomeno insensato. Non solo perché siamo da sempre la città del dialogo interreligioso, ma anche perché sarebbe un errore grossolano escludere dalle scuole la fruizione del nostro patrimonio di storia e cultura che comprende oggettivamente anche l'arte sacra, che per forza di cose da noi è arte cristiana", ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella. "Senza togliere che alla mostra "Bellezza divina", accolta in Palazzo Strozzi vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo... ma a cosa pensano certi insegnanti? - va avanti il sindaco - Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?". Forza Italia parla invece di "Follia ideologica" mentre la Lega Nord ha organizzato una protesta pacifica all'esterno della struttura per la prossima settimana.
Alla scuola elementare Matteotti di Firenze è stato deciso di non far visitare la mostra “Bellezza Divina” in corso a Palazzo Strozzi con opere di Van Gogh, Guttuso, Matisse, Picasso e la celebre Crocifissione Bianca di Chagall per non urtare la sensibilità dei non cattolici visto il tema religioso. Allora si dovrebbero eliminare tutte le gite ai musei italiani ed europei e togliere la storia dell’arte dai programmi, scrive Antonio Sanfrancesco il 12 novembre 2015 su “Famiglia Cristiana”. Quando l’ideologia, unita alla mancanza di buonsenso, entra nelle scuole accadono cose assurde. È il caso della scuola elementare Matteotti di Firenze dove il consiglio interclasse del 9 novembre scorso, come riferisce La Nazione, ha deciso di annullare per tutte le classi terze della scuola la visita già programmata alla mostra “Bellezza Divina” allestita a Palazzo Strozzi. Il motivo? «Per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra», recita il verbale della riunione redatto da un rappresentante di classe. Nell'esposizione si possono ammirare oltre cento opere di celebri artisti italiani che vanno da metà Ottocento al Novecento tra cui capolavori famosissimi come l’Angelus di Jean-François Millet, eccezionale prestito dal Musée d’Orsay di Parigi, la Pietà di Vincent van Gogh dei Musei Vaticani, laCrocifissione di Renato Guttuso delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, laCrocifissione bianca di Marc Chagall, proveniente dall’Art Institute di Chicago. Più altre opere di artisti del calibro di Gaetano Previati, Felice Casorati, Gino Severini, Renato Guttuso, Lucio Fontana,Pablo Picasso, Max Ernst, Stanley Spencer, Georges Rouault, Henri Matisse. I non cattolici potrebbero aversene a male, e quindi meglio non far conoscere nulla ai ragazzi. In base a questo scellerato principio, anche la storia dell’arte dovrebbe essere bandita dai programmi scolastici visto che la stragrande maggioranza di essa è sacra e ha per tema la religione cristiana. A scuola non si dovrebbe studiare la Commedia di Dante e – per restare a Firenze – dovrebbero essere abolite anche le gite in Duomo, in Santa Croce o gli Uffizi dove le immagini sacre di certo non mancano. Se così fosse, i cristiani che vanno a Istanbul non potrebbero visitare la Moschea Blu o ammirare un tempio induista in India. Il preside dell’Istituto, Alessandro Bussotti, ha fatto sapere che non era presente alla riunione spiegando che «l’eventuale esclusione della visita non ha motivazioni religiose e non è escluso che la mostra possa essere reinserita nei programmi didattici se non di tutte, almeno di alcune classi». A completare il quadro di una vicenda inquietante e grottesca insieme c’è il commento, di assoluto buonsenso, dell’imam di Firenze, Izzedin Elzir, che ha detto che andrà a vedere la mostra e che il Crocifisso «non offende nessuno ed è il simbolo di una fede religiosa che rispettiamo». Di scelta «insensata» parla il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Alla mostra», ha scritto in un post su Facebook, «vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo...ma a cosa pensano certi insegnanti? Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?».
Il direttore del museo: "Vietare la mostra? All'estero non sarebbe mai successo". Arturo Galansino, direttore generale di Palazzo Strozzi: "Quando l'ho saputo sono rimasto interdetto. Vieteranno anche i lavori di Michelangelo e Leonardo perché trattano di arte sacra?", scrive Giovanni Masini Venerdì 13/11/2015 su "Il Giornale”. Quando lo raggiungo al telefono, Arturo Galansino sembra più divertito che altro. Il giovane direttore generale di Palazzo Strozzi, fresco di nomina (è a Firenze da marzo, in precedenza aveva lavorato a Louvre e National Gallery, ndr), non si capacita della bufera che si è scatenata dopo che a una scolaresca fiorentina è stato vietato di visitare la mostra sull'arte sacra allestita proprio nel suo museo per "non offendere i bimbi non cattolici".
D'altronde il politicamente corretto è eccepito solo alla controparte politica.
Cristo nell'urina: l'opera scandalo patrocinata dalla regione Toscana. L'opera di Andres Serrano verrà esposta al Photolux Festival di Lucca e ritrae un crocifisso in un bicchiere di urina. L'ira della Lega Nord, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Un crocifisso, simbolo non solo di una religione ma anche della cultura italiana ed europea, immersa nell'urina. Chiamatela pure arte. Ma blasfema. Al Photolux Festival di Lucca, dal 21 novembre al 13 dicembre prossimi, verrà esposta "Piss Chirst", una fotografia realizzata da Andres Serrano, fotografo statunitense, che ha immortalato un crocifisso immerso in un bicchiere pieno della sua urina. Sono anni che l'opera crea scandalo. Succede dalla sua prima esposizione nel lontano 1987 negli Usa. In quel caso due senatori repubblicani portarono il caso anche in Parlamento. Da noi, invece, il Pd ha deciso addirittura di patrocinare la mostra in cui verrà esposta. Il simbolo della regione Toscana, infatti, campeggia su volantini e sul sito della mostra internazionale di di fotografia. A denunciare il fatto sono stati due esponenti locali leghisti in una nota: "È inammissibile - affermano i consiglieri regionali Manuel Vescovi ed Elisa Montemagni - che si sostengano iniziative di questo genere, dove vengono esposte opere che offendono pesantemente il cristianesimo. Un'opera che umilia Cristo e rende omaggio all'Islam". Gli esponenti leghisti annunciano che durante il festival "organizzeranno un presidio davanti alla sede della mostra per esprimere il nostro totale dissenso. Invitiamo i cittadini toscani ad unirsi a noi in questa forma di pacifica protesta che vuole difendere le nostre profonde radici cristiane". Secondo il direttore del festival, Enrico Stefanelli, invece, l'opera ha pieno diritto ad essere esposta. "Lo spirito del festival - ha detto - è quello dell'equilibrio in un contesto di libertà". "Quell'opera - continua - non è nata come un oltraggio o una contestazione del Cristo, quanto piuttosto della mercificazione delle immagini. Poi dobbiamo collocarla nel periodo storico in cui è stata realizzata, negli anni '80". Sarà. Ma mentre il crocifisso nell'urina merita di essere visto e pubblicizzato, solo ieri in una scuola di Firenze ad alcuni bambini è stata vietata la mostra con dipinti raffiguranti il Cristo perché i crocifissi "urtano i non cattolici". Allora facciamo una proposta: si annulli anche questa che urta i cattolici. Anche se già sappiamo che i buonisti ci diranno di no ed utilizzeranno i soliti due pesi e due misure. Le ragioni dei cattolici, per loro, non hanno ragione d'esistere.
Al contrario.
“Carabiniere spara”: la canzone controcorrente indigesta ai buonisti. Il singolo di Matteo Greco in difesa del diritto delle forze dell'ordine di sparare per fare il loro lavoro è stata sommersa dagli insulti della sinistra, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. “Mi sento un cantautore controcorrente. So bene che questo non mi renderà famoso. Ma non importa”. Matteo Greco non ne è irritato. La sua canzone “Carabiniere spara” ha provocato reazioni stizzite dalla maggioranza degli ascoltatori. “Perbenisti”, li chiama lui. Ma se ne farà una ragione: sa bene che il successo è più facile con un testo buonista, piuttosto che di buonsenso. L’ultimo singolo del cantautore di Falconara Marittima è diventato famoso, suo malgrado, per la quantità di insulti ricevuti. Il motivo è tutto - o quasi - nel titolo: “Carabiniere spara”. Spara ai ladri che rendono impossibile la vita nelle città. Spara (metaforicamente) al governo che non fa nulla per cambiare le cose. E così è stato messo all’indice dalle varie sinistre, culturali e non. Gli hanno dato del razzista, istigatore d’odio e c’è anche chi ha avanzato denuncia alla procura della Repubblica per apologia di reato. La canzone, la cui musica può piacere o meno, lancia un messaggio semplice su sicurezza e immigrazione. “La cittadinanza non si può regalare - afferma Greco - bisogna conquistarsela. Per ridurre la criminalità è necessario gestire l’immigrazione con maggiore intelligenza”. Concetto reso chiaro sin dalla prima strofa: “Spiegami cosa ci fa un uomo con machete in mano, nessuno che lo può fermare, nessuno che gli può sparare”.
Da cosa nasce questa canzone?
“Da due casi di cronaca. Quello di Milano, quando Kabobo ha creato il panico con il suo machete. E la vicenda molto simile di Jesi, dove un ragazzo sfondò la vetrina di un negozio, prese due machete e si mise a camminare per tutto il centro storico. Venne fermato da un carabiniere - quello della canzone - che aveva la pistola in mano, ma non sparò”.
A lui rivolgi un complimento: “Tanto onore a te”. Perché allora il titolo della canzone sembra biasimare la scelta di non aver aperto il fuoco?
“Bisogna partire dal principio. Una cosa simile non dovrebbe succedere: il poliziotto non dovrebbe essere messo nelle condizioni di usare le armi. Questo è (sarebbe) il ruolo dello Stato, che però non sta assolvendo al suo compito”. Ma quel carabiniere avrebbe dovuto sparare, sì o no? “Cristianamente dico che una vita risparmiata è sempre una vittoria. Il gesto che io richiamo nella canzone, “Carabiniere spara”, più che una richiesta è un avvertimento. Se non verranno trovate delle soluzioni, se i cittadini continueranno a sentirsi insicuri, saranno costretti a farsi giustizia da soli. Il mio grido è un allarme: bisogna permettere alle forze dell’ordine di fare il loro mestiere”.
Le forze dell’ordine si sentono frustrate dall’impossibilità di garantire la sicurezza dei cittadini.
“Sono anni che sento poliziotti e carabinieri lamentarsi di essere in trincea con mezzi insufficienti. Agenti che perdono un’intera giornata a identificare un malvivente, che rischiano la vita per arrestarlo e poi lo vedono il giorno dopo fuori di prigione. Inutile lamentarsi poi delle città insicure”.
Te la prendi anche con il governo “che non dice niente”.
“Il Governo è colpevole di non aver messo al primo posto la sicurezza e la tutela della vita dei cittadini. Sembra essere distante dalla vita reale, è percepito assente”.
Perché i “buonisti”, come li chiami tu, ti hanno criticato così tanto?
“La gente non ragiona. Preferisce stare con gli occhi bendati e coccolarsi nei bei pensieri buonisti. Bisogna invece essere razionali. Parlare di difesa significa focalizzarsi sulla vita di una persona. Pensiamo agli anziani, che hanno pagato anni di tasse per ritrovarsi obbligati a stare chiusi in casa perché se escono rischiano di essere rapinati o aggrediti. E’ questa l’Italia per cui hanno lavorato? A me questo Paese non va più bene. E l’ho cantato”.
Nel testo dici di “rivolere la mia Italia, una città libera”.
“Il nostro è un Paese non più libero di essere vissuto. La mia Italia, invece, è quella in cui i ragazzini sono di nuovo padroni delle loro piazze e i nonni delle loro panchine.
Qualcuno ti avrà spiegato però che non è il tipo di canzone con cui si diventa famosi.
“Lo so benissimo. Ma io scrivo quello che penso. So di andare controcorrente, ma sono anche fiero di essere riuscito a coinvolgere le forze dell’ordine. Ho ricevuto tantissimi messaggi di apprezzamento di agenti, poliziotti o soldati. Una volta l’ho anche fatta ascoltare in piazza ad alcuni carabinieri”.
E come hanno reagito?
“Con un semplice ‘grazie’. Che vale più di mille parole. E pensare che tra i passanti che mi hanno sentito suonare e che si sono fermate, c’erano soprattutto stranieri. Questo sa cosa vuol dire?” Mi dica. “Che nel loro Paese sono abituati a far rispettare le regole. Solo in Italia vale il contrario”.
A proposito della foto del ministro Marianna Madia pubblicata su "Chi" con il titolo "con il gelato ci sa fare". c'è chi scrive Madia-Signorini: giù le mani dal pompino! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. Giù le mani dal pompino! Ecco, di fronte alla querelle Signorini-Madia, volendo essere epici, ma ancora di più sinceri, onesti, popolari, bisognerebbe dire subito così, affermando questa semplice verità, quasi un bisogno di liberazione dalla falsità, perfino dall’ipocrisia virtuosa da educandato o perfino terrazza di sinistra. E ancora di più, occorrerebbe aggiungere abbasso ogni forma di allusione, assodato che alludere in certi casi, quando c’è di mezzo il piacere, il corpo, la realtà genitale, cioè la fica e il cazzo, significa innanzitutto non consentire a un concetto di liberamente volare, quasi che dovessimo vergognarci d’aver semplicemente chiamato una certa cosa, un certo atto, con il suo nome proprio. Dunque, così come una rosa è una rosa, una fellatio è una fellatio, un pompino è un pompino, un cazzo, una fica, ecc…Per questa ragione, sebbene ne abbiamo appena pronunciato la parola, talvolta è davvero da ipocriti dire fellatio, quasi a voler nascondere dietro la grazia remota e letteraria di un affresco pompeiano la realtà delle cose, la realtà concreta del pompino, come atto di piacere e d’amore. Di voglia. Punto. Al di là di chi lo pratica e dei sessi implicati, cioè in questione. Volendo restare in ambito storico, c’è stato un tempo in cui molti infelici, forti di una cultura da bordello, erano assolutamente convinti che quella del pompino fosse una pratica “degradante”, non a caso le prostitute, attribuendo loro un tratto razzista, erano dette e ritenute anche “pompinare”, quasi come un titolo-marchio di felice e necessaria infamia, un Collare della Santissima Annunziata ulteriore, lì a garantire le loro prerogative, la loro abiezione quasi, e tuttavia doverosa. Menzogne, tutte bugie, tutti e tutte, uomini e donne, amano i pompini: farli e averli fatti, riceverli e offrirli. Tutte sciocchezze da antichi tabù da sottoscala o refettorio cattolico concentrazionario sessuofobico che tutto ciò non sia vero. Per questa ragione le allusioni alle foto della ministra Marianna Madia che lecca un cono gelato sono innanzitutto desolanti, così come lo è altrettanto, se non di più, l’idea d’essere in presenza di una lesa maestà per il fatto stesso di avere associato quel gelato all’atto sessuale di cui sopra. Anche il manifesto di “Lolita” con la ragazza Sue Lyon che, armata di occhiali a forma di cuore, tiene tra le labbra un lecca-lecca alludeva, e tuttavia quelle immagini nella loro allusione sembravano esser lì a tracciare un ideale arcobaleno di piacere nel cielo della consapevolezza sessuale. Fa davvero specie che i volti sfigurati dei bambini morti in guerra non facciano suonare la stessa sirena dello sdegno pieno, così come invece accade con il pensiero stesso di un coito orale. Ripeto: nulla è più penoso della cultura rionale dell’allusione, dell’ammicco, del doppio senso di cui si è nutrito l’avanspettacolo del peggiore casino per decenni, forte di canzoni come “Ai romani piaceva la biga, più dinamica della lettiga” o del poema di Ifigonia e delle sue ancelle che “nell’arte di fare pompini battevano le troie di tutti i casini”, e giù con le risate, e giù a ridere ancora con la mano sul “pacco” – ma è ancor più ripugnante pensare che si debba rigorosamente arrossire o magari provare sdegno davanti a un qualcosa che appartiene all’immaginario desiderante, cioè del piacere, dunque della condivisione, poiché in nome di un sacro codice ipocrita si è ritenuto che si tratti di cose indicibili. Anni fa, ragionando nero su bianco sulla sparizione del cosiddetto 69 su un quotidiano, mi ritrovavo a constatare che quel genere di doppio scambio era pressoché svanito dal palmarès delle predilezioni condivise, al contrario, volate via le vecchie bugie sessuofobiche della cultura da bordello, la fellatio – cioè il pompino o bocchino o pompa – e chiamarli qui con il loro nome è innanzitutto un fatto politico, liberatorio, viveva invece intatto e acclamato sull’ideale tabellone luminoso delle predilezioni, dei desideri, delle voglie, per questa ragione non c’è davvero scandalo nelle immagini di Marianna Madia felice del suo gelato da leccare, così come non c’è scandalo nell’affiancare quelle stesse foto al già citato manifesto del film di Kubrick. Giù le mani!
Il mondo è una community sui social network. Nessuno comunica più fisicamente. L’anonimato sui social ci protegge. Fisicamente non ci rimane che comunicare a gesti, oppure conformarsi al politicamente corretto di sinistra o al bacchettone bigotto di destra.
Riportiamo l'opinione del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico e noto saggista, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo".
La virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della nostra vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente, e spesso ha effetti più limitanti, è quello della comunicazione fra mezzi d’informazione e pubblico, fra istituzioni e cittadini, fra cittadini e altri cittadini.
Era della comunicazione dove non comunichiamo. Questo paradosso la dice lunga e ci avverte che non si ascolta più, si parla e basta.
Leggiamo sui giornali o ascoltiamo in televisione, morto per overdose…, si uccide perché va male a scuola, bambino di tre anni ucciso in circostanze misteriose,…figli che uccidono i genitori, madri che uccidono i figli e quel che è incredibile è che le persone si stanno abituando ai fatti negativi. Divenendo negativi essi stessi. Abitudine che potrebbe essere la punta di un iceberg, dove sotto c’è un vuoto di valori causato anche da una generazione che è riuscita a mettere in discussione tutto e il contrario di tutto.
Sono andati in crisi le istituzioni, la chiesa, la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro e siamo senza un collante per regole e certezze e la community virtuale è la nostra isola felice dove sfogarci.
Ci indaffariamo a cercare amici sui social e ad aumentarne il numero sui nostri profili per avere visibilità e proseliti, per poi scoprire che proprio amici non sono. Ostilità od indifferenza sono le loro caratteristiche. Le nostre caratteristiche, perchè loro siamo noi.
Recentemente, ci sono stati diversi casi di chiusura di account legati a minacce ed offese sui principali social network. Non ultimo, il direttore del TG di La7, Enrico Mentana, che ha deciso di cancellare il proprio profilo Twitter a causa di continui insulti. Personaggi noti, del mondo dello spettacolo e non, denunciano quasi quotidianamente questo fenomeno dilagante. Insulti gratuiti, minacce, gravi offese e istigazioni alla violenza di ogni genere. C'è un po' di tutto nei social network più famosi. Chiunque, sui social network, inserisce ciò che vuole: considerazioni su politica, personaggi dello spettacolo, link divertenti, video divertenti, fotografie, aggiornamenti di stato….
Questo popolo social ciarlante ed imperito, spesso, vuol far politica......
Il paradosso è che il potere si difende punendo questi comportamenti, con l'intento di renderci tutti conformisti.
Conformista come già cantò Giorgio Gaber
"Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista.
Sono sensibile e altruista, orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista.
Da un po' di tempo ambientalista, qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo, per carità lo dico in senso letterale.
Sono progressista, al tempo stesso liberista, antirazzista e sono molto buono, sono animalista.
Non sono più assistenzialista, ultimamente sono un po' controcorrente, son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta.
Il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa, è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani e quando ha voglia di pensare, pensa per sentito dire.
Forse da buon opportunista, si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza.
Il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza, è un animale assai comune che vive di parole da conversazione.
Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori, il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo e farsi largo galleggiando.
Il conformista, il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario, sono femminista
Son disponibile e ottimista, europeista, non alzo mai la voce, sono pacifista.
Ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone.
Il conformista aerostato evoluto, che è gonfiato dall'informazione, è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie, poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato.
Vive e questo già gli basta e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi.
Il conformista, il conformista.
Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che si vede a prima vista sono il nuovo conformista."
Non so più dove girarmi. Giornali on line e non, social network, radio, tv…Non c’è scampo: il buonismo dilaga ovunque. Un buonismo fintissimo: quello politicamente corretto.
Perché oggi, in Italia, se critichi qualsivoglia malvivente sei razzista (se è straniero).
Sei intollerante (se è italiano).
Sei sessista (se è un uomo e tu una donna, e viceversa).
Sei cattivo (se è un essere umano).
Dobbiamo essere tutti bravi, altruisti e generosi. Comprensivi, giusti e dalla mente aperta. Certo che dobbiamo! Ma non significa certo che dobbiamo anche giustificare tutto e tutti o conformaci alla cultura mediatica che va per la maggiore.
Potremmo esprimere il nostro pensiero con un linguaggio che nel gergo quotidiano è consentito, mentre se diffuso a mezzo stampa è definito scorretto?
Potremmo esprimere un'opinione, senza essere tacciati come discriminatori?
La discriminazione consiste in un trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria. Alcuni esempi di discriminazione possono essere il razzismo, il sessismo, lo specismo e l'omofobia.
L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.
Insomma, politicamente corretto significa ipocrisia.
"L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". Lo afferma Papa Francesco, nell'omelia durante la messa mattutina celebrata nella cappella della Domus Santa Marta in Vaticano, presenti fra gli altri i vertici della Rai, con la presidente Anna Maria Tarantola e il direttore generale Luigi Gubitosi. "L'ipocrisia - sottolinea il Papa, facendo riferimento alla pagina del Vangelo sulla domanda dei farisei sulla liceità del tributo da dare a Cesare - non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola, mai, ma va sempre con l'amore. Non c'è verità senza amore, l'amore è la prima verità e se non c'è amore non c'è verità". I farisei, gli ipocriti, "vogliono invece una verità schiava dei propri interessi; l'amore che c'è è quello di se stessi e a se stessi: quell'idolatria narcisista li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia". Francesco punta il dito sui falsi amici che "sembrano tanto amabili nel linguaggio", sui "corrotti che con questo linguaggio cercano di indebolirci". Infatti, "gli ipocriti che cominciano con la lusinga, con l'adulazione, finiscono cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Il nostro linguaggio - conclude il Papa - sia il parlare dei semplici, con anima di bambini, il parlare in verità dall'amore".
Il politicamente scorretto è tale, però, ad intermittenza.
Sto pensando agli epiteti che sono stati lanciati ad Andreotti sulla sua scoliosi, a Berlusconi o Brunetta per la loro altezza, Alfano per il suo viso... etc. La scusa sciocca della satira non basta: anche al sesso maschile (o femminile purchè del campo avverso) vengono riservate considerazioni sgradevoli. Vogliamo fare una carrellata che non ha scandalizzato stranamente nessuno?
"Condoleezza [Rice], con quelle guancette da impunita, è la leader maxima delle donne-scimmia" (Lidia Ravera, L'Unità, 25 ottobre 2004).
"Di sicuro [il Ministro Gelmini] non è un essere umano. Dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è" (Andrea Camilleri).
"Se dopo De Nicola, Pertini e Fanfani, ci ritroviamo con Schifani, sono terrorizzato dal dopo: le uniche forme residue di vita sono il lombrico e la muffa. Anzi, la muffa no perché è molto utile" (Marco Travaglio).
Appari politicamente scorretto, anche se non lo sei? Scatta l'invettiva, secondo l'accusa dei giornalisti, anche per frasi o comportamenti innocenti.
L'invettiva razzista. Il caso forse più noto tra quelli registrati, però, riguarda la televisione. Si tratta della vicenda che ebbe per protagonista Paolo Bonolis il quale, nel corso della trasmissione di Canale 5 “Avanti un altro” ebbe la infelice idea di travestirsi da domestico filippino e di esibirsi in una gag che scatenò la reazione indignata della comunità filippina in Italia, stufa di essere considerata alla stregua di un'associazione di camerieri e di donne di servizio. Romulo Sabio Salvador, consigliere aggiunto di Roma Capitale, a nome dei suoi connazionali scrisse una lettera indignata a Mediaset, all'Agcom e, appunto, all'Unar. E proprio a proposito di filippini. Il presidente della Sampdoria parlando con Massimo Moratii, ex presidente dell’Inter, ebbe a dire a proposito di Thohir, il suo successore all’Inter: “caccia quel filippino”, giustificandosi poi con Valerio Staffelli su Striscia La Notizia dicendo “l’ho saputo dalla televisione che era indonesiano….”. Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha dichiarato: «Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Poba - dice inventando un nome - è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree». Tavecchio è stato punito dai media, dalla UEFA e dalla FIFA.
L'invettiva omofoba. Eziolino Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), «Prendere gol in superiorità numerica al 90’ è vergognoso, non lo accetto», ha detto a Radio Groove dopo la sconfitta di Alessandria degli amaranto, e prima di esplodere: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche» Capuano è stato crocifisso dai giornali. Ormai la lobby gay in Parlamento non solo mira ad avere un matrimonio tutto loro ed avere figli non loro, ma sulla comunicazione comune vieta ogni parola riferita alla loro condizione sessuale. Più per gli uomini. Ormai è vietato dire quelli dell'altra sponda, quelli dell'altra parrocchia e poi frocio, ricchione, finocchio, culo, culattone, culano, culatino, bucaiolo, buso o busone, bardassa o bardascia, buggerone, checca, cupio, garrusu, invertito, gay, urningo o uraniano, femminello, mezzafemmina, pederasta, sodomita, invertito, pigliainculo.
L'invettiva sessista. Il settimanale diretto da Alfonso Signorini pubblica quattro fotogrammi rubati del ministro mentre mangia un gelato con il titolo “ci sa fare con il gelato” e l'Ordine dei giornalisti apre un procedimento. "Uno schifo". "Qualcosa di disgustoso". "Spazzatura". L'indignazione, a dir poco, esplode in rete insieme a disgusto e incredulità per quattro fotogrammi rubati al ministro Marianna Madia, e messi in doppia pagina su "Chi" con un titolo volgare e ammiccante. I tweet e i post su Facebook sono migliaia. Due facciate che vengono "difese" proprio dal direttore di Chi, Alfonso Signorini. che twitta: "Calippo si e gelato no?", con l'ashtag #duepesiduemisure. Il riferimento è alle foto di Francesca Pascale apparse nel febbraio 2013. Il riferimento non è puramente casuale, anzi è chiaro e diretto al servizio pubblicato tempo fa da Oggi, gruppo Rcs, in cui venivano riproposte vecchie immagini di Francesca Pascale che mangiava un Calippo nel corso di una clip per una televisione locale. Il direttore di Chi poi, intervistato da Giorgio Mulè alla presentazione del suo libro "L’altra parte di me" nella tappa catanese del tour Panorama d’Italia, ha spiegato meglio il suo pensiero: "Chi oggi s’indigna per il titolo che ho fatto alle foto della Madia che mangia il cono gelato ha marciato per anni sul calippo della Pascale. Io aderisco a una scuola di pensiero secondo cui la malizia sta negli occhi di chi guarda e non di chi la fa, accusare me di sessismo o di persecuzione a sfondo sessuale è assurdo, per non parlare di certe campagne davvero infamanti, per usare la stessa parola che usano oggi contro di me, sulle giarrettiere della Brambilla o il calendario della Carfagna".
L'invettiva pedofila. Del resto oggi tutto ha il sapore di proibito, ma anche solo pensare di essere amorevole con i figli, ti conduce subito sulla sponda più terribile: quella dei genitori oggetto di riprovazione. È una categoria semplice, assoluta e falcidiante. Ha il potere di bloccare l'azione sul nascere, perché influisce direttamente sul pensiero: è la forza del politicamente corretto, che rovina perfino i momenti di divertimento o di affetto. È il motivo per cui non si dà più un bacio innocente o una carezza, agli adulti, così come ai bambini: passi immediatamente per un maniaco o per un pedofilo. Ecco il motivo per cui i bambini non giocano più nei cortili, non prendono più un ascensore da soli, non possono giocare a palla in riva al mare, mentre è così difficile fermare i piccoli sbandati o i delinquenti, quelli veri. Ed è molto più facile fare sentire un genitore come un criminale, che fare divertire un bambino.
L'invettiva giudiziaria. Le lacrime e la rabbia lasciano il posto alla determinazione. «Mi devono uccidere per fermarmi», dice Ilaria Cucchi all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Una vicenda che ha provocato uno strascico di polemiche su cui interviene anche il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani: «Basta gogna mediatica, non c’erano prove».
L'invettiva specista. Lo specismo è l'attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui a seconda della loro specie di appartenenza. Il termine fu coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, per calco da razzismo e sessismo, con l'intento di descrivere in particolare gli atteggiamenti umani che coinvolgono una discriminazione degli individui animali non umani, inclusa la concezione degli animali come oggetti o proprietà. Il termine viene usato comunemente nel contesto della letteratura sui diritti animali, per esempio nelle opere di Peter Singer e Tom Regan. Succede spesso di leggere sui giornali o di vedere video su youtube di incredibili salvataggi, per mano umana, di animali (specialmente cani) in difficoltà. Quello che però lascia perplessi è leggere di un intervento simile proprio in un luogo come quello di Carloforte, noto per la tradizionale mattanza dei tonni. Questo salvataggio, se ci si sofferma un attimo a pensare, ha davvero dell’incredibile. Uomini che si uniscono e si impegnano con tutte le loro energie per salvare una vita da annegamento certo mentre stanno per calare le reti che spezzeranno le vite, attraverso una lenta e dolorosa sofferenza, di centinaia e centinaia di pesci. Purtroppo questo è lo specismo, che quotidianamente e ovunque nel mondo continua a dilagare ma che dobbiamo cercare di abbattere. Come per l'allevamento Green Hill, ovvero: la preoccupazione riguarda solo i cani di Green Hill, non c'è nessuna condanna delle inenarrabili crudeltà perpetrate in laboratorio su altri animali quali topi, ratti o maiali.
Era della comunicazione dove non comunichiamo. Non si ascolta più, si parla e basta....
In conclusione. Come si può non essere politicamente corretti e conformisti? Basta essere corretti e veritieri nell’espressione del pensiero. Basterebbe abbeverarsi dal sapere dei buoni maestri senza tema di smentita, pensare un attimo a quello che si dice o si scrive e non vedere cose brutte in cose estremamente innocenti!
La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Non capisco perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day una "manifestazione inaccettabile", scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/06/2015, su "Il Giornale". In un Paese civile - e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è - tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati. Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day - per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender - una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale. Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro - peraltro per una comprensibile reazione polemica - affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità - che è una scelta di libertà individuale - come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione - salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto. Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale». Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto. Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.
Le migliori frasi di Oriana Fallaci. "Prendi l'intellettuale di sinistra, l'intellettuale che oggi va di moda, o meglio l'intellettuale che segue la moda per comodità, o per paura, o per mancanza di fantasia: egli sarà sempre pronto a condannare le dittature di destra, bontà sua, però mai o quasi mai le dittature di sinistra. Le prime, le disseziona, le studia, le combatte coi libri e coi manifesti; le seconde le tace o le scagiona o al massimo le critica con imbarazzo e con timidezza. In certi casi addirittura ricorrendo a Macchiavelli: il-fine-giutifica-i-mezzi. Quale fine? quello di una società concepita su principii astratti, calcoli matematici, due più due fa quattro, tesi e antitesi uguale sintesi, e cioè senza tener conto che nella matematica moderna due più due non fa necessariamente quattro, magari fa trentasei, o senza tener conto che nella filosofia più avanzata la tesi e l'antitesi sono la medesima cosa, che la materia e l'antimateria sono due aspetti dell'identica realtà? È grazie ai loro calcoli, cioè al lugubre fanatismo delle ideologie, all'illusione anzi alla presunzione che il Buono e il Bello stiano da una parte sola, che un genocidio o un assassino o un abuso sono considerati illegittimi se avvengono a destra e diventano legittimi o almeno giustificabili se avvengono a sinistra. Conclusione, il grande malanno del nostro tempo si chiama ideologia e i portatori del suo contagio sono gli intellettuali stupidi: i sacerdoti laici e non disposti ad ammettere che la vita (ciò che essi chiamano Storia) provvede da sola a ridimensionare le loro masturbazioni mentali, quindi a dimostrare l'artificialità del dogma. La sua fragilità, la sua irrealtà."
Il razzismo di Repubblica contro gli intellettuali “di destra”, scrive Marco Respinti su “L’Intraprendente” del 19 ottobre 2015. È una storia che ha più di mezzo secolo, ma se sei uno di quei parvenu che pensano che il mondo inizi e finisca con la Repubblica non te ne sei mai accorto. È la storia della Sinistra che dice alla Destra quel che deve fare. Il titolo potrebbe essere “Ti piace vincere facile”. Cominciò quando negli Stati Uniti, tra i tardi anni ’50 e l’inizio del decennio successivo, gli intellettuali liberal che pensavano di essere i padroni del mondo per mancanza totale di opposizione (tipo Matteo Renzi, per intenderci) scoprirono che non era affatto così (e qui l’analogia con l’Italia di oggi finisce). Temendo di perdere il posto, scoprirono Sun Tzu: «Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità», e ci si applicarono di buzzo buono. Non passò molto e sfornarono la ciambella, con tanto di buco. Cucinarsi un avversario su misura di modo che quando abbaia non morde, l’opposizione e l’alternanza diventano una pagliacciata, e il Circo Barnum può proseguire indisturbato la tournée. Ora, negli Stati Uniti è finita che la ciambella liberal dopo un po’ si è afflosciata, ma questa è un’altra ricetta. Da noi invece la mamma del fornaio è sempre incinta. Di nome fa delegittimazione, di cognome demonizzazione. Tutti hanno diritto a pensarla come vogliono, tranne quelli che non la pensano come noi. Quelli lì sono brutti, cattivi, sporchi, e puzzano pure. Per dirlo, la Repubblica del 17 ottobre ha scomodato tanto di firma francese, Christian Salmon. Il bersaglio sono Michel Houellebecq, Eric Zemmour, Alain Finkielkraut e Michel Onfray, tutti diversissimi ma inesorabilmente tutti colpevoli. Di che? Di essere scorrettamente preoccupati per il futuro del loro Paese e dell’identità francese. Renzi tradurrebbe “gufi”, ma nella lingua di Salmon suona: «Sono tutti accusati di deriva a destra, e di fare il gioco del Front National». Fantastico, da manuale della demagogia a dispense settimanali. 1) «Sono accusati», ça va san dire. Da chi? Da chi dice che sono accusati: si chiama sofisma, ma il giorno che a scuola lo insegnavano, Salmon era assente. 2) Quella di destra è sempre e solo una «deriva». 3) L’asso di bastoni che prende alla gola per paura anche l’ultimo scettico è la reductio ad Hitlerum, un classico che non stufa mai. Rimanesse ancora un dubbio, arriva la parola passepartout: «razzismo». Ma Salmon e la Repubblica non sono volgari e quindi raffinano. Mica vogliono dire che i quattro moschettieri accusati sono razzisti; no, per carità. Gli è che essi, pinocchi che altro non sono, fingono. Per vendere. Siccome in giro tira aria xenofoba, l’intellettuale senz’anima, pennivendolo con un pelo sullo stomaco fitto come la selva nera, dà alla gente ciò che la gente pagante vuol sentirsi dire, eccola qua la Destra. La raffinatezza scende però ancora più in basso e sfodera la tesi finale contundente: la cultura di destra nemmeno esiste, non è mai esistita, non esisterà mai. Chi pensa elucubra a sinistra, a destra rubano dalla cassetta dell’elemosina. E qui l’orgasmo si fa multiplo: si ridicolizza chi fa domande scomode (al di là che le sue risposte siano comode), si squalificano le stesse domande scomode, alla faccia della democrazia si sputa su qualche milione di persone che le domande scomode vorrebbe almeno sentirle porre e si demonizza quella che viene minacciosamente chiamata “la Destra” solo perché alternativa al pensiero unico della Sinistra (sono di destra Houellebecq, Finkielkraut e Onfray?). Ah, che la destra sia solo marketing, dice Salomon, è un brand di Gilles Deleuze, stasera possiamo dormire tranquilli. Fine, ma mi punge vaghezza di un poscritto. Nel giorno in cui la Repubblica chiude nel ghetto tutti quelli che non la pensano come lei (ma non era intolleranza, questa, quasi quasi razzismo?), Matteo Renzi gigioneggia dicendo che tagliare le tasse non è né di destra né di sinistra, ma solo giusto. Giusto. Cioè di destra. Giocando con le lingue di mezza Europa (latino, italiano, francese, inglese, idiomi germanici) in cui “giusto”, “destra” e “diritto” (sia nel senso di “retto” sia nel senso di “legge”) sono termini uguali, l’impareggiabile Erik von Kuehnelt-Leddihn (1909-1999) coniò un moto immarcescibile: «Right is right, left is wrong». La Sinistra? Sinistra e sinistrata.
Se l'intellettuale di sinistra ha belle idee di destra. Dopo anni di accuse e invettive, le tesi della Fallaci e le battaglie sull'Islam della Le Pen o di Salvini vengono riprese da chi le condannava. Ovviamente cambiando le parole e facendo finta di niente, scrive Luigi Mascheroni, Lunedì 16/11/2015, su "Il Giornale". È già da tempo che, lentamente, a volte con imbarazzo altre con improvvisi salti della barricata, pezzi più o meno piccoli della sinistra benpensante cominciano a rivedere le proprie convinzioni in tema di Islam, scontro di civiltà, integrazione. E, pur senza prendere tessere politiche o ideologiche nel campo avversario, finiscono per scivolare su posizioni che qualcuno per comodità tende a definire reazionarie e altri per semplificare «di destra». È il progressismo che vira verso la conservazione. L'utopia rivoluzionaria che si piega al pragmatismo del buon senso. E così l'intellighenzia si scopre a confessare a denti stretti che forse, però, in fondo (certo condannando sempre con fermezza la xenofobia e il razzismo!) tutto sommato quelle teste calde che in tempi non sospetti mettevano in guardia dai rischi del fondamentalismo religioso e preannunciavano che il confronto fra Occidente liberale e il fanatismo islamico si sarebbe trasformato in guerra, ecco a ben guardare non avevano poi tutti i torti. Succede da tempo e tanto più succede ora, dopo i sanguinosi fatti si Parigi. Accade in Francia, che ha già pagato sulla sua pelle l'illusione di un convivenza pacifica e di una reciprocità dei diritti tra l'Europa laico-capitalista e l'Islam radicale. E accade in Italia, che non è ancora stata colpita in casa ma sente la minaccia sul collo. Da noi capita sempre più spesso di ascoltare politici e intellettuali di solidissima fede democratica dire (attenzione, ecco il trucco, con parole diverse) le medesime cose che da anni in maniera magari meno elegante e più di pancia ripete la Lega o una certa destra. Era un po' curioso e un po' comico, sabato sera, a 24 ore dalla strage di Parigi, ascoltare a Otto e mezzo Massimo Cacciari e Gianni Letta sostenere - salvo irriderlo per le sue semplificazioni e grossolanità - ciò che Matteo Salvini ripete da anni, a partire dalla necessità di un intervento militare internazionale contro l'Isis fino all'ammissione che sui barconi di profughi diretti in Europa dall'Africa e dal Vicino Oriente ci siano anche potenziali terroristi. Così come capita di trovare persino su un sito come l'Huffington Post Italia articoli (vedi quello di sabato di Giuseppe Fantasia e relativi commenti di decine e decine di lettori) che celebrano «la Cassandra dell'Informazione» Oriana Fallaci, riscoperta come «profetessa» da una parte di quella sinistra che per un quindicennio l'ha derisa e ghettizzata. Ieri, sul Corriere della sera, Pierluigi Battista, dopo aver letto forse l'Huffigton forse altri siti, ha scritto un pezzo intitolato «Scusaci Oriana, avevi ragione», Il risarcimento postumo è online. E se la vecchia pazza - si chiedono molti democratici cittadini in Rete - non fosse così pazza? Battista, peraltro, è uno che non deve scusarsi di nulla, avendo più volte, anche a costo di pesanti attacchi, difeso e citato i libri della scrittrice toscana. Più sorprendente, forse, poche pagine dopo sullo stesso quotidiano, l'articolo La lezione da apprendere del teatro Bataclan firmato da Paolo Mieli, il quale, in maniera molto lucida ma un po' in ritardo rispetto a centinaia di pezzi scritti da esempio sul Giornale da anni, scoperchia l'ipocrisia di tanti #JeSuisCharlie dalla memoria corta e denuncia i danni micidiali che causa il «politicamente corretto» applicato all'islam radicale. Benvenuto nel club di chi crede che il buonismo è solo una forma perversa della cattiveria. Tutto ciò capita, finalmente, anche in Italia. E capita da tempo, ben prima del massacro di due giorni fa, in Francia. Dove a suo tempo editori come Gallimard e Grasset si rifiutarono di pubblicare La Rage et l'Orgueil della Fallaci, considerata fascista, razzista e xenofoba. E dove oggi, mentre il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq si rivela profetico tanto quanto i pamphlet della Fallaci - sono sempre di più i Maître à penser della gauche sedotti dalla destra radicale. Come il filosofo Michel Onfray, alfiere della sinistra laica, o come l'economista di estrema sinistra Jacques Sapir, o l'ex sessantottino Alain Finkielkraut che invoca l'identità nazionale davanti all'invadenza del velo islamico... Certo, non danno i loro voti al Front National, ma spesso danno ragione a Marine Le Pen. Quando parla di Europa, di Islam e di immigrazione.
Intellettuali di destra? «Inesistenti», scrive Serena Danna il 20 gennaio 2010 su “Il Sole 24 ore”. «Lo so perché sono un intellettuale» diceva Pier Paolo Pasolini, punto e basta. E nell'anno 2010, Twitter e televisione a tre dimensioni, gli intellettuali hanno ancora l'aura sacra dei saggi greci o devono affidarsi solo ai talk show? Pierluigi Battista, classe 1955, editorialista del «Corriere della Sera», ha passato la vita a ragionare sul destino degli intellettuali, ieri Sartre, oggi Arianna Huffington con il suo blog. E dopo un libro sul caso Grass e gli intellettuali italiani (Cancellare le tracce, Rizzoli 2007) e uno sulle polemiche che hanno spaccato la cultura italiana del dopoguerra (Il partito degli intellettuali, Laterza 2001), Battista - Pigi per gli amici - ritorna con I conformisti (Rizzoli), stavolta per celebrarne il funerale.
Battista, un'ossessione per la figura dell'intellettuale?
«Mi ha sempre affascinato il rapporto tra intellettuali e politica, soprattutto mi incuriosisce la seduzione che il totalitarismo esercita su di loro. In preda all'ebbrezza ideologica, senza perdere il talento nei loro ambiti, è come se si svuotassero di capacità critica e analitica. Si compie un sacrificio intellettuale: immolano la ricerca della verità sull'altare del conformismo e della fedeltà all'ideologia».
Perché?
«Perché gli irregolari, quelli che rifiutano il conformismo, hanno sempre subito l'isolamento. Pensi al confronto tra l'irregolare Raymond Aron e il conformista Jean-Paul Sartre: i giovani parigini urlavano a gran voce «Meglio avere torto con Sartre che ragione con Aron», convinti di enunciare un brillante paradosso».
Certo le discussioni sulla libertà di Sartre esercitavano più fascino sul '68 rispetto al realismo del liberale Aron che giustificava la guerra...
«Il punto è che tanti intellettuali giustificavano carneficine in nome dell'ideologia: dal filosofo filo-nazista Martin Heidegger, che vedeva nel Führer il compimento di millenni di metafisica, al drammaturgo filo-sovietico Bertolt Brecht, che commentò così le torture moscovite inflitte alla sua ex amante: «Se è stata condannata devono esserci prove contro di lei»».
Perché – come recita un libro di Raymon Boudon – gli intellettuali non amano il liberalismo?
«Perché è sempre apparso come una dottrina fatta di regole. È difficile avere trasporto per le regole, ci riescono in pochi. Tanti uomini di cultura hanno scelto la sintonia con le masse: gli intellettuali usciti dal fascismo preferirono l'ideologia opposta perché era più facile».
Lei sostiene che dopo la caduta del muro di Berlino la situazione non sia cambiata.
«Allora ci fu l'illusione di essere entrati in un'era post-ideologica: la fine del bipolarismo. E invece cosa si è realizzato? Anticomunismo in assenza di comunismo e antifascismo in assenza di fascismo. Il rapporto con il potere oggi è certo meno omicida, rimane un involucro vuoto e caricaturale dove spicca la tendenza alla denigrazione e all'odio. Ieri Italo Calvino che definiva George Orwell un «libellista di second'ordine» perché aveva denunciato i massacri degli anarchici durante la guerra civile spagnola; oggi Moni Ovadia che parla della «bella utopia»».
Nel suo libro divide gli intellettuali contemporanei tra ex e post. Cosa intende?
«L'ex ha un rapporto serio con il passato vuole ed esige una resa dei conti che non arriva mai. Il suo rappresentante è Sant'Agostino, che passò tutta la vita provando vergogna per i peccati commessi nel suo passato. Il post, invece, è una figura che non considera i suoi errori, concilia ogni cosa. È come Jean-Jacques Rousseau che vedeva nella società la responsabile di tutte le colpe».
Scrive che con pur di non «dargliela vinta» a Berlusconi, la sinistra avrebbe annullato il giudizio critico. D'altra parte il premier usa spesso l'etichetta "comunista" per chiunque abbia un'idea diversa dalla sua...
«Certo l'atteggiamento della sinistra è una risposta all'anticomunismo viscerale di Berlusconi, ma resta il fatto che, pur di non dargli mai ragione, tanti rifiutano di vedere la realtà. Berlusconi è percepito come il riassunto di ogni male, dunque qualunque cosa dica deve essere squalificata e derisa in quanto manifestazione del male».
Fin qui le responsabilità degli intellettuali di sinistra... E quelli di destra?
«Non esistono! In 20 anni la cultura di destra non ha prodotto niente: non c'è un film, una mostra. Al punto che i politici del centro-destra ogni tanto devono imporre alla Rai una fiction revisionista pur di dimostrare che qualcosa c'è».
Sembra che lei abbia perduto speranza per la cultura...
«La devastazione è stata così radicale che ricominciare a pensare sarà molto difficile. Non riesco a essere ottimista, soprattutto quando vedo che tra i giovani hanno ancora successo le idee e i miti del passato. Chi emerge dall'apatia, gioca ancora a fascisti e comunisti...»
E gli intellettuali possono far qualcosa per rompere l'impasse o sono spacciati?
«Non si può sempre ricorrere in appello. A furia di perdere si sono auto-estinti. L'unica cosa è un grande scossone, nuova aria. In sostanza c'è un altro muro da abbattere».
Hanno ucciso mediaticamente Ida Magli. Non riceverà, Ida Magli, gli onori mediatici che ha ricevuto Umberto Eco per la sua scomparsa, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 23/02/2016, su "Il Giornale". Chissà come avrebbe commentato i giornali del giorno dopo, se avesse potuto leggerli. Da antropologa di lungo corso e da intellettuale avvezza ai peggiori difetti del culturame, ne avrebbe fatto un interessante caso di studio di quella particolare distorsione del pensiero e della morale che va sotto il nome di razzismo antropologico. Come definire altrimenti la reazione della stampa italiana - silenzio o giudizi di parte - alla morte di Ida Magli? L'Unità e il Fatto Quotidiano: neppure una riga. La Stampa: una breve di sei righe, in cui si sbaglia anche il titolo dell'ultimo libro (Figli dell'uomo. Duemila anni di mito dell'infanzia, Bur), dicendo che uscirà nei prossimi mesi quando invece è in libreria da novembre. Corriere della sera: un fogliettone in cronaca, che gli nega la dignità della sezione Cultura, in cui si dice che «forse ne ha sparata qualcuna un po' grossa» (ma colei che firma il pezzo è una femminista fuori tempo massimo incarognita con chi, come la Magli, di fronte alle violenze imposte alle donne dagli islamici si chiese giustamente «ma come, abbiamo appena incominciato a emanciparci dai nostri veli, dalle nostre velette e ammettiamo che si torni indietro di secoli?»). E la Repubblica - che pure pubblica un bel pezzo di Marino Niola - incentra il ricordo sulla Magli femminista e di sinistra lasciando solo poche righe alla Magli degli anni Novanta-Duemila, quella che per prima prese dure posizioni contro il mondo musulmano e l'Unione europea. Ecco il punto: perché separare un «prima» e un «dopo» (come ha fatto la migliore intellighenzia su Twitter) e non considerare l'intellettuale come unico, con tutte le sue sfumature? E perché (come si sono sfogati in tanti sui social) ricordarla per la sua militanza femminista e poi consegnare le legittime critiche all'islam a una «deriva xenofoba»? È la formula standard del pensiero corretto: chi si azzarda a denunciare il substrato antidemocratico del mondo islamico o manifesta paura per i flussi migratori ormai completamente fuori controllo, è immediatamente tacciato di islamofobia, o ignoranza, o razzismo. Per i politicamente scorretti non c'è posto. Come non c'è stato posto (ancora meno rispetto Ida Magli) per Piero Buscaroli, uno che ha vissuto dalla parte dei vinti tutta la vita, fin da quando aderì, da ragazzo, alla Rsi: non sono bastati libri magistrali di musicologia e una carriera giornalista straordinaria per una «redenzione» agli occhi dei benpensanti. E così, morto settimana scorsa, è stato ignorato da tutti. Uccidere mediaticamente un irregolare del pensiero, o anche due, non è reato.
La sinistra uccide la cultura, scrive Francesco Maria Del Vigo il 4 febbraio 2016 su "Il Giornale". Qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato un articolo che in Italia non potrebbe mai uscire. Il senso del pezzo è questo: quasi tutti i docenti dei paesi anglosassoni sono di sinistra e il loro pensiero unico distrugge la cultura e pure gli atenei. Sacrosanto. Pare, stando alle statistiche del foglio economico, che il 60 per cento dei professori americani tifi per i Democratici, contro il 40 per cento del 1989. Risultato? Dalle cattedre universitarie si professa un solo punto di vista. Non c’è dibattito. Si vende una sola idea e la si spaccia per verità. Vado per esperienza personale – quindi fallibile – ma in Italia credo che sia peggio. A naso: il 90 per cento dei docenti universitari – e delle superiori – sono di sinistra. Non solo i docenti, anche chi seleziona e scrive i libri di testo. Vi è mai capitato di leggere i tomi di storia o filosofia delle scuole dell’obbligo? Lasciamo perdere Il giudizio su Mussolini e il fascismo – De Felice nella migliore delle ipotesi è citato come un eretico -, ma pure uno come Nietszche viene trattato come una canaglia. Dalle nostre parti vige ancora l’idea che la cultura sia proprietà della sinistra. Quando i giganti della cultura del Novecento – per esempio – sono stati tutti di destra: fosse fascista, reazionaria, conservatrice, repubblicana, liberista, liberale o monarchica. Mishima, Pirandello, Drieu la Rochelle, Heidegger, Schmitt, Fermi, Gentile, Marinetti, D’Annunzio, Junger, Guenon, Evola, Berto, Cioran, Fante, Balla, Prezzolini, Hamsun, Keller, Comisso, Ionesco, Eliot? (E ho citato solo alcuni nomi, i primi che mi sono venuti in mente. Per leggere qualcosa di più preciso consiglio l’articolo “I grandi scrittori? Tutti di destra” di Giovanni Raboni uscito sul Corriere il 27 marzo 2002). Sono stati di sinistra? Sono stati comunisti? No, e ognuno di loro ha detto qualche cosa che oggi sarebbe incappato nella censura del politicamente corretto. E anche se li fossero stati – comunisti, stalinisti o chissà cosa – non ci sarebbe alcun problema… E lì in mezzo – in questa lista assolutamente incompleta e provvisoria – ci sono froci, drogati, blasfemi e alcolizzati. Perchè ci sono centodestre (titolo di un bellissimo dizionario biografico) che fanno da contraltare al pensiero unico di sinistra. E comunque la cultura non è rossa e neppure nera. Non è islamica, nè cattolica, nè apostolica, nè romana. La cultura è cultura. Punto. A prescindere dal colore e persino dalle follie ideologiche che abbia sostenuto. Non ci sono idee o scrittori che non si possano studiare, discutere e criticare. Non c’è nulla di vietato. Il politicamente scorretto è un’impotenza intellettuale contro la quale al momento non è commercializzato alcun Viagra. Se non quello della libertà intellettuale. Che purtroppo non si compra al supermercato. Ma il problema sollevato dal Financial Times – e qualche settimana fa anche dagli accademici di Oxford – merita di essere trasportato in Italia: il politicamente corretto uccide il dibattito culturale. Perché qui da noi il corpo docenti è ancora più radical e fuori dal mondo che negli USA o in Gran Bretagna. E non ci si può mordere la lingua di fronte a un’idea solo perché farebbe sussultare la Boldrini. Poi ci chiediamo perché i nostri titoli di studio non valgono un accidente… Anzi, studiarsi a memoria le banalità che impongono certi libri di testo è una medaglia al demerito. Uno schiaffo alla libertà di pensiero, al sano diritto all’insofferenza e alla claustrofobia verso tutto cioè che è imposto. Ogni volta che conosco qualcuno che abbia raggiunto i massimo voti negli studi classici mi preoccupo e mi sincero che abbia avuto anche altre evasioni intellettuali. Meglio bigiare una lezione e leggersi in un bar – magari pure con una sigaretta in bocca – una pagina di Max Stirner o di Berto Ricci. Di un anarco libertario o di un socialfacista. Magari per poi smontarli. Roba che tra i banchi è giudicata più pornografica di una gang bang di Sasha Grey. E comunque apre di più la mente un filmato su Youporn di uno dei libri di storia imposto dallo stato nei quali le foibe vengono evase in tre righe scarse. E poi – anche in campo sessuale – D’Annunzio a Fiume aveva già fatto tutto… (Alla festa della rivoluzione, Claudia Salaris, Il Mulino). E ricordatevi: quel barbuto con l’eskimo 2.0, gli occhialoni neri e la moleskine in mano che sta seduto accanto a voi in biblioteca non è un intellettuale: probabilmente è un coglione che manda a memoria testi del sessantotto pensando che siano roba nuova. Il futuro, per ora, non è infondo a sinistra. Lì hanno spostato la discarica delle idee.
Prostituzione culturale. L’Europa e il neo oscurantismo islamico, scrive Michael Sfaradi il 26 gennaio 2016. Roma, 26 Gennaio 1564. Avete letto bene la data, non è un refuso. Questa mattina siamo tornati indietro di ben quattrocentocinquantadue anni, e al punto in cui siamo arrivati l’Italia non esiste più e chi comanda a Roma è Papa PIO IV. Il concilio di Trento ha deciso che le nudità nell’arte non sono più ammesse e il pittore Daniele da Volterra, detto il Braghettone, armato di pennelli sta coprendo le nudità della Cappella Sistina. Per cui la data è giusta e io non sono impazzito. Fino a ieri, 25 Gennaio 2016, la discussione era sull’opportunità di ricevere il presidente di una nazione come l’Iran dove ogni anno, dopo processi sulla cui legalità internazionale e in sfregio a ogni diritto universale dell’uomo, centinaia di persone vengono impiccate. Molte delle quali finiscono con il penzolare dalle gru per la sola colpa di essere omosessuali. Nei mesi immediatamente precedenti, fra il Dicembre 2015 e il Gennaio 2016, c’è stata anche un’accesa discussione sul fatto che alcune giornaliste o donne politiche italiane e europee in visita a Teheran si fossero coperte il capo con il velo come detta l’usanza imposta in quei luoghi anche se sul Corano non c’è nessuna indicazione di questo tipo. Questa mattina però tutte le discussioni dei giorni scorsi hanno perso di ogni significato perché la gravità di ciò che le autorità italiane hanno deciso ha superato ogni limite, sia della fantapolitica che della decenza, e ci hanno trasportato indietro nel tempo in una situazione così surreale che anche a distanza di ore è difficile credere che sia successo davvero. Qualcuno pensa che criticare Renzi e il suo esecutivo dopo le innumerevoli vicissitudini di carattere politico, economico e di contrasto di interessi vari, ad esempio il salvataggio delle banche di cui una del padre di un suo ministro, di cui si è reso protagonista sia come sparare sulla Croce Rossa, ma dopo che il Governo Italiano ha dato ordine di coprire le nudità delle opere d’arte esposte nei Musei Capitolini di Roma per non offendere il Presidente Rohani in visita presso lo stesso museo, non solo bisogna sparare ma abbiamo anzi il dovere di farlo. E nella fattispecie usando anche l’artiglieria pesante. La visita nella città eterna da parte del leader iraniano è una delle dirette conseguenze della firma di accordi che hanno visto sul tavolo delle trattative volpi politiche, gente in malafede e dilettanti allo sbaraglio. Una delle prove, ce ne sono molte ma cito solo l’ultima in ordine di tempo, è che prima della firma dell’accordo il Segretario di Stato John Kerry tranquillamente dichiarava di essere sicuro che i soldi della fine delle sanzioni sarebbero stati usati da Teheran per salvare la sua economia, e poi a giochi fatti lo abbiamo risentito ammettere, altrettanto tranquillamente, che indubbiamente parte del denaro finirà in mano ai Pasdaran e da lì a finanziare il terrorismo. Se è lo stesso fautore degli accordi ad ammettere che ci sono delle ‘opacità’ possiamo credergli e nel contempo ringraziarlo di averci confermato tutti i dubbi che avevamo su di lui e sul suo operato. Ma il terrorismo che colpisce, e l’assurdo è che potrebbe anche essere l’Europa o gli stessi USA a finanziare proiettili o esplosivo, può colpire anche in maniera molto pesante ma per quanto sconvolgente e sanguinoso possa essere non può riuscire a cambiare storia e cultura di una nazione o di un continente intero. Quello che può farlo invece è il prostituirsi in maniera così palese nei confronti della controparte facendo chiaramente passare il messaggio di sottomissione totale che dice: “Noi a casa tua facciamo come dici tu e tu a casa nostra fai come ti pare e anzi ti aiutiamo a farlo”. Perché coprire le opere d’arte che sono la testimonianza tangibile della cultura occidentale davanti a chi in casa propria pretende rispetto delle proprie usanze significa svendere il proprio essere, e l’ottenimento di contratti di affari, anche lucrosi, non può prescindere dal rispetto di se stessi e della proprio storia. Coprire quelle statue e quei dipinti è stato come coprire se stessi, è stata una dichiarazione di vergogna di quello che siamo e di come ci siamo diventati, e chi ha dato ordine di mettere quelle coperture si è reso complice di uno dei peggiori atti di terrorismo possibili, un attacco che anche se non ha versato neanche una goccia di sangue ha gravemente ferito secoli di progresso umano. Fino ad oggi pensavamo che i tempi dell’oscurantismo papale fossero finiti dal almeno quattrocento anni, ci sbagliavamo. Oggi abbiamo avuto l’ennesima prova che nessuna conquista è per sempre e che ogni passo avanti verso la libertà può essere messo in discussione e che questo può essere fatto da chiunque, perfino da colui che è stato il sindaco di Firenze.
Quei veli sulle nudità dei musei capitolini. Eccesso di zelo per non turbare l’ospite. Statue millenarie coperte: web e opposizione scatenati contro il governo. Ai Musei capitolini ci sono capolavori dell’antichità classica come la Venere capitolina e la Venere esquilina, scrive Mattia Feltri su "La Stampa” il 27 gennaio 2016. I poveri ragazzi di Palazzo Chigi non sapevano più che rispondere a Bbc e Cnn, e altre emittenti dal mondo, e testate giornalistiche varie, tutte molto interessate al caso delle statue dei Musei capitolini nascoste con pannelli perché le marmoree nudità non offendessero il presidente iraniano, Hassan Rohani. Infatti non hanno più risposto. E l’imbarazzo dov’essere lievitato fino alle sommità del governo, mute davanti agli impietosi e comodi rimproveri arrivati dalle opposizioni. La notizia che Matteo Renzi avesse fatto inscatolare la Venere capitolina e qualche altra statua altrettanto impudica, e l’indiscrezione che avesse fatto chiudere la sala Pietro da Cortona con la Venere esquilina e un Dioniso discinti per un sovrabbondante rispetto delle sensibilità islamiche, ha eccitato forzisti e leghisti e fratelli d’Italia che, invece, il giorno prima non avevano nulla da ridire sulle cerimonie riservate al capo di uno Stato che ammazza, mutila e tortura dissidenti e omosessuali, che lapida le donne adultere, anche se adultere contro la loro volontà, e che non riconosce l’esistenza dello Stato d’Israele. Il dettaglio non soltanto numerico di queste pratiche era stato diffuso da Nessuno tocchi Caino, invano: come al solito la politica ha seguito tortuose viuzze, forse perché ai suoi tempi Silvio Berlusconi non era stato meno benevolo con dittatori anche mediorientali. Però non si era mai spinto su così raffinate vette di piaggeria (le critiche al capo di Forza Italia arrivarono per motivi opposti: impietosito dalle amputazioni, aveva ridotato una statua di Marte con mezzi posticci). Fra l’altro non si è ben capito se le statue siano state occultate su richiesta degli iraniani o per eccesso di zelo degli italiani: secondo qualche spifferata è uno studiato omaggio del nostro governo, secondo spifferate ulteriori si è deciso tutto dopo un sopralluogo ai musei dello staff di Rohani: comunque, quando lunedì sera il presidente ha percorso il corridoio che doveva condurlo al luogo della conferenza stampa, gli è stata risparmiata la vista sconveniente di opere d’arte ignude da due millenni e mezzo. E così non soltanto la politica: come si dice in questi casi, «si è scatenata l’ironia del web». Si è ricordato al presidente del Consiglio la promessa di spendere un euro in cultura per ogni euro speso in sicurezza, gli si è ricordato il grido di vaporoso orgoglio dopo gli attentati di Parigi a dicembre («la bellezza è più forte della barbarie»), il precedente di un paravento gigliato che risparmiò le mascolinità di una scultura di Jeff Koons a un principe saudita, e lo si è irriso con una sfilata di immagini: il David di Michelangelo in mutande, la Venere di Milo col reggiseno, e poi l’album della storia dell’arte occidentale, nudo dopo nudo. Dunque: l’ironia delle minoranze, l’ironia del web e infine l’ironia di testate straniere come il Figaro che nell’edizione on line ha cominciato il pezzo ricordando un motto internazionale: «A Roma fai come fanno i romani», regola unica per sopravviverci. E stavolta no: a Roma si fa come dicono gli iraniani, compresa una cena senza vino quando - ricorda ancora il Figaro - a Parigi una simile occasione fu cancellata per evitare collisioni fra laïcité e sharia. Stavolta si ha più l’impressione che la sharia abbia vinto per compiacente abbandono dell’avversario: gli affari in miliardi di euro che si prevede scaturiranno dagli incontri di questi giorni hanno consigliato a Renzi di ingoiarsi tante prese in giro. E a sera, prima dei tg, dead line per ogni dichiarazione importante, nessuno del Pd aveva ancora cercato di metterci una pezza, e pure qui verrebbe una battuta, ma ve la risparmiamo.
Arriva Rohani, l’omofobo. Si coprono le statue e nessuno scende in piazza, scrive "Tempi”. Tutti in piazza per le unioni civili, ma nessuno per protestare contro la visita del presidente di un paese dove gli omosessuali sono perseguitati. «Soltanto tre giorni fa qualche centinaio di migliaia di italiani era in piazza per manifestare a favore dei diritti omosessuali, non ancora riconosciuti in Italia, non a sufficienza. Si parla con agio di medioevo, si definiscono trogloditi gli oppositori, ci si infiamma di sdegno perché sul Pirellone a Milano compare la scritta “Family Day”. Poi arriva in visita ufficiale il presidente iraniano Hassan Rohani (è arrivato ieri) e tutto questo fermento è già indolenzito nel torpore dei giorni feriali». Scrive così oggi, sulla Stampa, Mattia Feltri. Certo, ci sono i soldi (affari per 17 miliardi di euro, si dice), ma Feltri non può fare a meno di notare come in un battibaleno «i rutilanti caroselli di sabato si siano spenti, la riprovazione per l’arretratezza culturale italiana è evaporata, non importa che Rohani sia presidente di una Repubblica islamica nella quale gli omosessuali vengono impiccati in piazza, appesi alle gru». Sono cose che accadono non di rado nel mondo musulmano (si pensi, solo per fare un esempio, agli omosessuali gettati dalle torri di Raqqa dai jihadisti dello Stato Islamico). Ma non solo lì, appunto. L’Iran è il paese dove se un omosessuale viene scoperto «si prende cento frustate (se il rapporto era casto e si pente) oppure viene messo a morte (se il rapporto era completo). Purtroppo non ci sono statistiche sulle esecuzioni, perché è capitato che i gay, anche minorenni, venissero condannati sotto voci più generiche. Gli amanti del dettaglio troveranno soddisfazione nell’ultimo report di Nessuno tocchi Caino, associazione della galassia radicale: 980 condanne capitali soltanto nel 2015, soprattutto per traffico di droga e omicidio ma anche per reati politici e – come detto – di natura sessuale. E poi lapidazioni, torture, mutilazioni cioè l’intera casistica delle pene inflitte per dare soddisfazione a Dio». Gli unici che hanno protestato sono stati i radicali. E gli altri? «Le ragioni di una così straordinaria indifferenza sono difficili da comprendere», scrive Feltri. Già. Intanto, sempre oggi sono uscite le immagini dei pannelli con cui sono state ricoperte i nudi delle statue dei musei capitolini. Non sia mai che Rohani, passandovi di fianco, possa offendersi.
Statue coperte, Rohani: "Caso giornalistico, Italia Paese ospitale". Sel: "Renzi spieghi questa vergogna". Salvini-Meloni attaccano Ironia anche sul Guardian, scrive "L'Ansa" il 27 gennaio 2016. La vicenda delle statue coperte "è una questione giornalistica. Non ci sono stati contatti a questo proposito. Posso dire solo che gli italiani sono molto ospitali, cercano di fare di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti, e li ringrazio per questo". Così il presidente iraniano Hassan Rohani rispondendo a una domanda dei giornalisti in conferenza stampa a Roma. "Quella di coprire le statue dei Musei capitolini, in occasione della visita a Roma del presidente iraniano Hassan Rohani - ha detto il ministro per i beni culturali, Dario Franceschini - è stata una "scelta incomprensibile. Penso che ci sarebbero stati facilmente altri modi per non andare contro alla sensibilità di un ospite straniero così importante senza questa incomprensibile scelta di coprire le statue. Non era informato - ha proseguito Franceschini - né il presidente del Consiglio né il sottoscritto di quella scelta di coprire le statue". "Ho presentato un'interrogazione al presidente del Consiglio perché siano resi noti tutti i nomi della banda di idioti che ha ordinato la copertura di statue che potevano dare fastidio a Rohani, il leader iraniano in visita in Italia". Lo dichiara il senatore Maurizio Gasparri (FI). "Questo gesto di prostituzione culturale - prosegue - ordinato dalle autorità italiane a beneficio di un personaggio che nel suo paese applica la pena di morte, che minaccia la libertà e la vita di Israele, che viene da noi omaggiato e tollerato nei suoi abusi solo per interessi commerciali ha ottenuto atteggiamenti inconcepibili. Bisognerebbe mettere una sorta di burqa politico a quanti hanno ordinato questo scempio politico-culturale". "Chiedo di conoscere i nomi - afferma Gasparri - di quanti hanno impartito le direttive che sono state eseguite supinamente da chi non ha avuto uno scatto di dignità e orgoglio. Quanti protestarono per una tenda di Gheddafi che per alcune ore fu piantata a Roma oggi tacciono di fronte a questo stupro alla nostra cultura e identità storica. È tipico del renzismo assumere questi atteggiamenti e quindi non appaiono credibili le presunte proteste dello stesso presidente del consiglio. Per questa ragione vogliamo chiarezza. Si esibiscano i documenti, le direttive, le identità di chi ha attuato questa vergogna di cui l'Italia porterà a lungo memoria". In occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Campidoglio sono state coperte da pannelli bianchi su tutti e quattro i lati alcune statue di nudi dei Musei Capitolini. La copertura sarebbe stata decisa come forma di rispetto alla cultura e sensibilità iraniana. Tanto che durante le cerimonie istituzionali non è stato servito nemmeno il vino. E la notizia fa scoppiare una bufera politica. Salvini, gli onori di Renzi a chi vuole la fine di Israele - "Renzi accoglie con tutti gli onori il presidente dell'Iran, lo stesso signore che vorrebbe cancellare Israele dalla faccia della terra. E magari domani Renzi farà il burattino alla Giornata della Memoria, per ricordare lo sterminio degli Ebrei... Renzi ipocrita e anche complice!". Così su Facebook il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. "Per la visita degli iraniani - conclude Salvini - ieri sono state 'coperte' da pannelli bianchi alcune statue con nudi dei Musei Capitolini, per rispetto... Roba da matti". Meloni, indecente sudditanza Renzi - Il livello di sudditanza culturale di Renzi e della sinistra ha superato ogni limite di decenza. A questo punto ci chiediamo che cosa avrà in mente Renzi per l'arrivo in Italia dell'emiro del Qatar previsto in settimana: coprire la Basilica di San Pietro con un enorme scatolone?". Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. L'ironia del Guardian - "Roma copre le statue di nudi per evitare al presidente iraniano di arrossire": così, con una nota d'ironia, il Guardian dedica oggi addirittura il titolo a questa vicenda in un articolo di cronaca sulla visita di Hassan Rohani in Italia e in Vaticano. Ad attirare l'attenzione del giornale britannico - ancor prima delle questioni politiche e degli accordi economici messi sul piatto nei colloqui romani di Rohani - sono state proprio le statue dei Musei Capitolini nascoste dietro alcuni pannelli bianchi in occasione della conferenza stampa congiunta del presidente iraniano con il premier Matteo Renzi all'ombra del monumento equestre a Marc'Aurelio. Un gesto motivato dalle autorità italiane - scrive il Guardian, dopo aver citato l'ANSA come fonte di questa curiosità - con la volontà di non imbarazzare l'ospite e scongiurare "ogni possibile offesa". Il giornale nota anche come nel corso della cena ufficiale in onore di Rohani non siano stati offerti alcolici, consuetudine che lo stesso Guardian descrive peraltro come consolidata quando sono in visita diplomatica "dignitari musulmani". Il quotidiano inglese non manca infine di sottolineare un precedente dell'ottobre scorso, quando Renzi ricevette nella sua Firenze il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed. Sel lancia petizione su Change.org - "In occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Campidoglio sono state coperte da pannelli bianchi su tutti e quattro i lati le statue di nudi dei Musei Capitolini. La copertura sarebbe stata decisa per non turbare la "sensibilità" religiosa del presidente iraniano". E' quanto scrive Gianluca Peciola, esponente di Sel, che ha lanciato una petizione su change.org. "Chiediamo al Presidente del Consiglio Matteo Renzi - continua Peciola - spiegazioni immediate ed ufficiali su una scelta che consideriamo una vergogna e una mortificazione per l'arte e la cultura intese come concetti universali. Inoltre riteniamo che siano stati gravemente violati e compromessi i principi di laicità dello Stato e di sovranità nazionale". Radicali, a Torino caso analogo con Papa - Diventa un caso la scelta di coprire le statue di nudi dei Musei Capitolini in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani, "ma per il Papa nessuno disse niente": così i coordinatori dell'Associazione radicale Adelaide Aglietta, Silvja Manzi, Laura Botti, Igor Boni. "A giugno dello scorso anno (non del secolo scorso), solo sette mesi fa, sempre per rispetto - spiegano i radicali - vennero coperti i manifesti della mostra di Tamara de Lempicka per la visita del Papa nella laica (si fa per dire) Torino. Allora nessuno si scandalizzò, oggi nessuno lo ricorda". "Si tratta evidentemente di una laicità a corrente alternata, ma la laicità è ... o non è" aggiungono e, riferendosi al voto di ieri del Consiglio Comunale di Torino che ha respinto la richiesta di rimuovere il Crocefisso dall'aula, concludono che si tratta di preoccupanti "passi indietro sulla laicità".
Statue coperte, "giallo" su chi ha deciso, scrive “Avvenire” il 27 gennaio 2016. Una questione "giornalistica" per Rohani, quella della polemiche nate dalle statue coperte al Museo Capitolino in occasione della sua visita. In conferenza stampa dice di non avere niente da dire, aggiungendo però: "So che gli italiani sono un popolo molto ospitale, che cerca di fare di tutto per mettere gli ospiti a loro agio". Un atto di ospitalità, dunque, che però non smette di far discutere. Il vicepresidente Fi del Senato Maurizio Gasparri ha presentato un'interrogazione al presidente del Consiglio Matteo Renzi, chiedendo che "siano resi noti tutti i nomi della banda di idioti che ha ordinato la copertura di statue che potevano dare fastidio al presidente iraniano Rouhani, in visita in Italia". Un gesto di "prostituzione culturale", di cui Gasparri chiede di conoscere gli autori. Toni meno polemici da parte del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: "Io penso che ci sarebbero stati facilmente altri modi per non andare contro la sensibilità di un ospite straniero così importante senza questa incomprensibile scelta di coprire le statue ". Franceschini ha aggiunto: "Né il sottoscritto né il presidente del Consiglio erano stati informati di quella scelta di coprire le statue". E siamo al rimpallo di responsabilità: "Sulla vicenda delle statue dei Musei Capitolini coperte in occasione della visita del presidente iraniano Rohani dovete chiedere a Palazzo Chigi. La misura non è stata decisa da noi, è stata un'organizzazione di Palazzo Chigi, non nostra". Così la Sovrintendenza capitolina ai beni culturali smentisce un suo ruolo nella decisione di coprire alcune statue di nudi dei Musei Capitolini e rinvia al cerimoniale della presidenza del Consiglio. Durissimo il Codacons, che chiede il licenziamento di coloro che hanno preso la decisione "per i gravi danni all`onore e all'immagine di Roma e dell'intera Italia, e per la figuraccia cagionata al Paese a livello mondiale". Il presidente Carlo Rienzi dice anche di aver presentato un esposto alla Corte dei Conti, "perché le spese relative alla copertura delle statue siano sottratte alla collettività e addebitate direttamente a chi ha preso tale folle decisione, che deve risponderne in prima persona".
Nudi coperti, il governo fa lo scaricabarile. Ma la Sovrintendenza accusa Renzi. Il presidente iraniano: "Gli italiani fanno di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti". L'oscurantista Renzi fa imbarazzare l'Italia davanti al mondo intero. E sottomette la millenaria cultura occidentale all'islam. Ma Franceschini fa lo scaricabarile ma viene smentito dalla Sovrintendenza, scrive Andrea Indini, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". Il presidente iraniano Hassan Rohani prova a tagliare corto, ma la decisione di coprire alcune antiche statue di nudi dei Musei Capitolini ha già mostrato al mondo l'imbarazzante sottomissione dell'Italia all cultura islamica. "Non ci sono stati contatti a questo proposito", assicura Rohani scaricando tutta la responsabilità della scandalosa decisione sul governo italiano. "Posso dire solo che gli italiani sono molto ospitali - continua il presidente italiano - cercano di fare di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti, e li ringrazio per questo". L'Italia oscurantista copre la propria cultura per non offendere il presidente iraniano e la sua religione, l'islam. Una premura che non era stata chiesta da Teheran. Anzi, pare proprio che il cerimoniale di Stato iraniano non ne sapesse nulla. Ha fatto tutto Roma. Dietro a osceni pannelli bianchi sono state nascoste la Venere Esquilina, il Dioniso degli Horti Lamiani e un paio di gruppi monumentali perché nudi. Uno sfregio alla bellezza dei Musei Capitolini e, soprattutto, uno schiaffo alla cultura italiana e, più in generale, a quella occidentale. L'ingresso della sala Pietro da Cortona sarebbe stato addirittura chiuso da un pannello per impedirne la vista. Ma non finisce qui. Come fa trapelare la Bbc News, "l'Italia ha anche scelto di non servire vino nei pranzi ufficiali, un gesto che la Francia, dove Rohani andrà poi, si è rifiutata di compiere". Gli inquietanti particolari della visita del capo di Stato negazionista, che (coincidenza imbarazzante) è stata fissata alla vigilia della Giornata della Memoria, hanno trovato eco anche su tutti i media internazionali, in alcuni casi con malcelata ironia. In Francia, per esempio, Le Figaro ha ricordato a Renzi il detto "A Roma fai come i romani". Oltremanica ci ha pensato il Guardian a prendere in giro il nostro governo: "Roma copre le statue di nudi per evitare al presidente iraniano di arrossire". Ma aldilà delle facili e ovvie ironie suscitate all'estero, è in Italia che Matteo Renzi è finito al centro di una asprissima polemica. Dopo aver portato Rohani in giro per il Colosseo, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini si è subito fiondato a difendere il premier. "Né io né Renzi - ha detto - eravamo stati informati della scelta di coprire le statue". Uno scaricabarile che viene subito smontato dalla Sovrintendenza capitolina ai beni culturali: "La misura non è stata decisa da noi, è stata un'organizzazione di Palazzo Chigi non nostra". Tanto che al Senato Maurizio Gasparri ha presentato un'interrogazione a Renzi perché renda noti tutti i nomi della "banda di idioti" che ha ordinato la copertura di statue. "Questo gesto di prostituzione culturale - denuncia il senatore di Forza Italia - è stato ordinato dalle autorità italiane a beneficio di un personaggio che nel suo paese applica la pena di morte, che minaccia la libertà e la vita di Israele e che viene da noi omaggiato e tollerato nei suoi abusi solo per interessi commerciali". Lo sdegno attraversa tutta la politica. "Roba da matti", scuote la testa Matteo Salvini ricordando che Rohani è "lo stesso 'signore' che vorrebbe eliminare Israele". Anche all'interno del Pd non mancano le critiche, anche se i più si limitano a parlare di. "improvvido eccesso di zelo". Ma da Forza Italia gli fanno notare che coprire le statue "non è rispetto" ma "annullamento delle differenze o addirittura sottomissione". Il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, parla di un "livello di sudditanza culturale di Renzi e della sinistra" che "ha superato ogni limite di decenza".
La statua equestre è "sconveniente". Per Rohani spostato pure il palco. Un retroscena rivela nuovi dettagli sulla visita del presidente iraniano e il fastidio di Palazzo Chigi. Intanto la stampa internazionale si scatena, scrive Luca Romano, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". Se ieri a tenere banco è stata la polemica, oggi si cercano i colpevoli. Le statue delle Veneri coperte per l'arrivo a Roma del presidente iraniano Hassan Rohani occupano le pagine di tutti i giornali, non solo in Italia. E sulla questione dei nudi nascosti per "non offendere" l'ospite straniero resta un dubbio. Chi ha deciso? In conferenza stampa a Parigi, dove Rohani è arrivato oggi, per un altro giro di incontri al vertice, il presidente si è rifiutato di entrare nei dettagli, dicendo che quella dei nudi del Campidoglio è "una questione giornalistica" e lasciando intendere che non ci sono state richieste particolari da Teheran. E un retroscena pubblicato dal Messaggero sembra indicare che neppure a Palazzo Chigi pretendessero tanto. Il palchetto da cui Renzi e Rohani hanno parlato è stato spostato, racconta il quotidiano. Troppo vicino ai testicoli della statua equestre di Marco Aurelio, pare. E Matteo Renzi, di quei pannelli di compensato, non sembra essere rimasto troppo felice, tanto che ha chiesto conto di quell'eccesso di zelo cerimoniale. "Non era informato nè il presidente del Consiglio nè il sottoscritto", ha aggiunto il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini. Tutti hanno scritto di quanto successo a Roma, dal Guardian a Le Figaro. E quello che trapela da Palazzo Chigi è un certo fastidio, anche perché la questione dei nudi ha rubato la scena a una giornata che segnava la riapertura di una nuova fase con un Paese, l'Iran, storicamente amico dell'Italia. Dal canto suo Massimo Sgrelli, già capo del Cerimoniale di Stato, difende ancora sulle pagine del Messaggero quello che è successo a Roma. "Nella scelta di rispettare la sensibilità altrui non c'è alcuna sottomissione".
L'ipocrisia del Pd di Renzi: onora solo i costumi islamici. A Roma censurati i marmi classici per "non offendere" Rohani. Ma come si può parlare di integrazione o anche solo di scambi economici se non abbiamo il coraggio di mostrare ai nostri interlocutori la nostra identità? Scrive Giovanni Masini, Martedì 26/01/2016, su "Il Giornale". La chioma castana di Debora Serracchiani come le "vergogne" dei marmi romani. Due casi assai diversi ma che si possono facilmente porre in correlazione. Pochi giorni fa, la vicepresidente del Pd si faceva fotografare durante una visita ufficiale in Iran con indosso il velo islamico. Un atto di rispetto verso le usanze di quel Paese, che però sollevò numerose polemiche politiche, anche all'interno dello stesso Partito democratico. Due settimane più tardi è il presidente iraniano Hassan Rohani a visitare l'Italia. Stavolta però a venire censurate sono state le statue romane dei Musei Capitolini, coperte perché le nudità classiche non turbassero il pudico sguardo presidenziale. Questi i fatti. Che impongono però alcune riflessioni. Quello della Serracchiani è stato un gesto di riguardo verso l'ospite, non imposto da alcun regolamento (alle spalle del governatore del Friuli si può infatti vedere una donna a capo scoperto) ma solo un'espressione di cortesia. La censura delle statue invece è un fatto diverso. Anzitutto perché nulla impediva che la conferenza stampa con Rohani venisse ospitata altrove, lontano dalle "scandalose" pudenda di marmo. Soprattutto perché l'arte classica è Roma, con i suoi nudi e con le sue censure - come dimenticare, infatti, che furono gli stessi Papi, ad ordinare, in piena Controriforma, la "vestizione" dei nudi della Cappella Sistina? Se Rohani visita Roma, se intende promuovere i commerci e gli scambi con l'Italia deve sapere con chi ha a che fare. Esattamente come è bene che gli italiani conoscano e rispettino le usanze e le tradizioni iraniane. Censurare preventivamente un'arte millenaria è atto sacrilego, indice della nostra debolezza. Ma sbaglierebbe chi pensasse che quei pannelli di legno che nascondono le sculture dei Musei Capitolini rappresentino una vittoria dell'Iran. Quella censura è invece testimonianza dello zeitgeist, dello spirito del tempo, occidentale. Imbevuto di relativismo, inebetito dal mantra per cui solo annullando la nostra identità potremmo realizzare una vera integrazione. Il precedente, del resto è presto servito: a ottobre, a Firenze, una scultura di nudo dello scultore statunitense Jeff Koons venne coperta da un paravento per non turbare la sensibilità del principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed Bin Zayed Al Nahyanl. Tanto ricco quanto Rohani è potente (e, en passant, presidente di uno Stato dove i diritti umani vengono calpestati ogni giorno). Perché nascondere la propria identità è sempre inaccettabile, ma farlo per omaggiare ricchi e potenti è ancora più ignobile.
Sottomissione, scrive Massimo Gramellini il 27 gennaio 2016 su "La Stampa". I geni del cerimoniale che hanno inscatolato quattro statue peraltro velate del museo Capitolino nel timore che, vedendole, il presidente iraniano Rohani avesse uno sgomento ormonale e stracciasse i contratti con le nostre aziende sono i degni eredi di un certo modo di essere italiani: senza dignità. Quella vocazione a trattare l’ospite come se fosse un padrone. A fare i tedeschi con i tedeschi, gli iraniani con gli iraniani e gli esquimesi con gli esquimesi. A chiamare «rispetto» la smania tipica dei servi di compiacere chi li spaventa e si accingono a fregare. Su questa tradizione millenaria, figlia di mille invasioni e battaglie perdute anche con la propria coscienza, si innesta il tema modernissimo del comportamento asimmetrico con gli Stati musulmani. Se un’italiana va in Iran, si copre giustamente la testa. Se un iraniano viene in Italia, gli copriamo ingiustamente le statue. In un modo o nell’altro - in un mondo e nell’altro - a coprirci siamo sempre noi. E la suscettibilità da non urtare è sempre la loro. Ma se la presenza di donne sigillate da capo a piedi su un vialone di Baghdad urtasse la mia, di suscettibilità? Non credo che, per rispetto nei miei confronti, gli ayatollah consentirebbero loro di mettersi la minigonna. Sarei curioso di sapere come funziona la sensibilità a corrente alternata del signor Rohani (le tette di marmo lo sconvolgono e i gay condannati a morte nel suo Paese no?) e di sentire cosa penserebbe mia nonna di questa ennesima arlecchinata italica: quando ero bambino mi insegnò che il primo modo di rispettare gli altri è non mancare di rispetto a se stessi.
Renzi e quelle statue coperte: quando la tolleranza diventa servilismo, scrive Filippo Di Stefano il 27 gennaio 2016. Ha scatenato un incredibile polverone mediatico la scelta di Renzi di far coprire le statue dei Musei Capitolini, per non offendere la "sensibilità musulmana" del presidente iraniano Rohani. Reazioni giustificate? Renzi e le sue statue. Potrebbe essere il titolo di una mediocre satira a tinte grottesche, con un pronunciato sottotesto di drammaticità. Eppure, è tutto vero. L’episodio in questione è ovviamente la copertura delle statue esposte presso i Musei Capitolini per ordine del Governo, in concomitanza con la visita del presidente iraniano Hassan Rohani. Un gesto di scellerata leggerezza-nei confronti della Cultura, con la C maiuscola, e del buongusto-giustificato con il fantasma della famosa “ospitalità italiana”. L’ha ripetuto lo stesso Rohani dopotutto, avendo apprezzato il gesto atto a non ledere la sua sensibilità di musulmano di tendenze filo-integraliste: “L’Italia è un Paese molto ospitale”. E ci mancherebbe. Tuttavia la decisione ha sollevato uno tsunami di polemiche sia in Parlamento, sia nei bar di tutta la Penisola. Ormai non si parla d’altro, ed il quesito sulla bocca degli italiani è pressappoco il medesimo da regione a regione, con sottilissime-trascurabili-variazioni: “Se Renzi voleva essere ospitale perché, anziché coprire dei simboli di Storia, d’Arte e di Cultura del nostro Paese come fossero abominevoli blasfemie, come se se ne dovesse vergognare lui stesso, non gli ha invece concesso per una notte la signora Agnese?”. Probabilmente Rohani avrebbe gradito l’articolo ancora di più. Ma fatto sta che il Premier ha preferito umiliare la propria identità storica e culturale-insieme a quella di milioni di italiani-piuttosto che rischiare di destabilizzare il giudizio morale del presidente dell’Iran. Apparentemente un rischio calcolato per Renzi, che ha simulato per l’occasione un sentimento di pudicizia talmente ipocrita e farisaico, che avrebbe fatto inorridire persino il suo omonimo televisivo Don Matteo. Le reazioni dal mondo della politica non si sono fatte attendere. Maurizio Gasparri ha definito la copertura delle statue “Prostituzione culturale” ad opera di “una banda di idioti”, ricordando che l’Iran vorrebbe la fine di Israele. Che tale prospettiva sia però assolutamente reciproca fra le parti, Gasparri questo non l’ha menzionato. Ancora più dura la Meloni, che ha ventilato l’ipotesi di coprire l’intera Basilica di San Pietro in occasione dello sbarco-oramai prossimo-dell’emiro del Qatar, sottolineando che la sudditanza di Matteo Renzi abbia travalicato ogni limite della decenza. Reazioni a forti tinte ironiche sono giunte, immancabili, dalle testate estere, che non hanno mancato di riportare la vicenda in chiave burlesca. Apprezzabile in particolare il british humor del Guardian (“Roma copre le statue nude per evitare al presidente iraniano di arrossire”). E su change.org è prontamente nata una petizione volta ad ottenere le scuse al popolo italiano da parte di Matteo Renzi. Giochi di politica? Probabilmente sì. Anche se lui, in un disperato tentativo di salvare la faccia, giura oggi che non ne sapeva nulla. Sintetizzando il tutto: per quanto Machiavelli stesso pontificasse sulla necessità del Principe di saper apparire multiforme, così da volgere ogni situazione a proprio vantaggio, lo stesso eminente riferimento non mancava di ricordare che il buon regnante dovesse essere sì “golpe” furba, ma anche dispotico e ruggente “lione” all’occorrenza. Pena il farsi mettere i piedi in testa, e perdere credibilità ed autorità; dunque potere. E Matteo Renzi (che giocava peraltro in casa) con quest’uscita pregna di svilente e gratuito servilismo è sembrato, più che un leone, al massimo un gattino ammansito. Finanche nella propria “tana”.
COSA NE PENSA L’AUTORE. FILIPPO DI STEFANO - Questa farsa è degna delle peggiori operette, è metasatira, è la politica che prende per il culo sé stessa nella realtà quotidiana. Ormai siamo arrivati al punto in cui il grottesco ha travalicato i confini dello spettacolo, per radicarsi-trovare concretezza-in quegli stessi contesti dai quali prendeva spunto. E non è cosa di oggi. La questione sinceramente mi imbarazza, e non poco. Trovo ridicolo il dover essere arrivati a coprire delle statue per non offendere la sensibilità religiosa di un (pur eminente) personaggio estero, tantopiù che non stiamo parlando di nulla di osceno, bensì delle fedeli rappresentazioni di normalissimi e naturalissimi corpi umani. Quoto inoltre chi ha citato l'analogo episodio avvenuto l'anno scorso in occasione di una visita papale, e le disgraziate pennellate di Berlusconi al quadro con l'impudico capezzolo scoperto. Il fatto che certi individui si vergognino a tal punto della propria cultura, salvo poi organizzare festini a coca e mignotte degni del peggior Diprè (che tanto parla, ma in fondo è un poveretto), è insopportabile.
Statue? Impacchettate Renzi e speditelo in Iran a fare un corso di tolleranza, scrive Emanuele Ricucci il 26 gennaio 2016 su "Il Giornale". Stiamo a vedere quando toccherà a noi italiani non essere offesi. Come ebbi modo di scrivere. Dà fastidio il crocifisso? Guardassero altrove. Dà fastidio la patatina marmorea della Venere o gli attributi bronzei della Statua equestre di Marco Aurelio? Andassero altrove. Facessero altrove la farsa. Che so, in Villa Borghese tra i mezzi busti. Ritorno al medioevo o giù di lì? A quando per pudore venivano fatti ricoprire i nudi della Cappella Sistina? O per essere politicamente corretti del Glande Sistina (tanto, visto che ci siamo…)? Coerenza! Ora basta. Se integrazione deve essere, lo sia per davvero. Togliete la biada al cavallo bronzeo di Marco Aurelio: ramadan. Mettete il velo alla Venere di Botticelli, forza! E se possibile troncate pèni di marmo e coprite le sacre nudità partorite dalla gentilezza pittorica di qualche matto infedele del Rinascimento italiano. E soprattutto, altro che le statue di marmo: impacchettate Renzi e tutta la bislacca corte e spediteli in Iran a fare un corso di tolleranza e rispetto delle culture altrui, vedranno quanto sarà più facile chiudere accordi commerciali, chinare il capo e sottostare a leggi morali, etiche e giuridiche ferree. Velo per la Boschi subito, appena scesa dall’aereo, zitti e mosca. Dopo aver subordinato ogni proiezione spontanea di italianità al rispetto dell’altro, ai capricci del progresso che sposta i mercati qua e là, dopo aver quasi dimenticato che cent’anni fa ci fu la Grande Guerra, dopo aver tolto di mezzo crocifissi, dopo aver chiesto di buttare giù obelischi, dopo aver fatto crollare mezza Pompei, mentre l’operazione di smontaggio dell’italianità, dell’essenza stessa della cultura italiana (non basta un bel paio di scarpe “Made in Italy”, fatte a mano, voilà, né la riforma Franceschini che risistema le soprintendeze italiane, per quanto ben concepita) è in lento progredire, ci mancava la ciliegina sulla torta. E certo. Strappare la lingua all’arte che da secoli parla un linguaggio universale è davvero barbarico. Uno stupido servilismo, un’inutile prostrazione. Nascondersi, la parola d’ordine del regime è nascondersi. Nascondere le origini in nome del rispetto, nascondere il proprio credo in nome della tolleranza. Nascondere l’arte dietro a pannelli di plastica. Una mutilazione, un aborto; guardare quella freddezza impacchettata, quei pannelli, annichilisce, roba da star male, sconcertati davanti allo schermo. “Fonti della delegazione iraniana confermano che, durante un sopralluogo, i nudi femminili erano stati considerati inappropriati per la visita del leader e religioso iraniano”, riporta il Corsera. Coprire i nudi, poi, siamo al ridicolo. Siamo d’accordo che il presidente iraniano Hassan Rohani pensi che non tutti abbiano i genitali e per questo si offenda terribilmente nel constatare che, in queste latitudini, esistano, addirittura nelle raffigurazioni marmoree di uomini e donne, ma calarsi le braghe così platealmente, senza ovviamente mostrare i gioielli di famiglia, sempre per questione rispetto, è davvero qualcosa di incredibile. Nel frattempo, Franceschini annuncia che Pistoia sarà la capitale della cultura 2017. Evviva! Speriamo che, lì almeno, non vada in visita nessuna delegazione…non si sa mai.
Umiliati a casa nostra, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Tempo” 27 gennaio 2016. È inverosimile. Le ridicole ragioni esibite dal cerimoniale per giustificare la copertura di antiche statue romane ai musei capitolini indicano uno stato di soggezione indegno di un paese libero. Sarebbe inimmaginabile un comportamento come questo da parte del governo americano. Anche se, all’apparenza, la manifestazione di superiorità che l’Occidente può offrire è nella cortesia di fare una cosa gradita a un ospite. Diversamente, obbedire alle indicazioni attribuite al cerimoniale del presidente iraniano appare un’umiliazione. In passato, sul piano folkloristico, ci si era assoggettati ai capricci di Gheddafi che aveva voluto accamparsi nelle sue tende. Nonostante che anch’egli fosse un rappresentante della religione musulmana non si era arrivati a coprire le testimonianze della civiltà romana per compiacerlo. Mai eravamo scesi così in basso. L’arrivo del presidente Rouhani deve invece far riflettere sulla differenza tra una grande civiltà come quella persiana e l’Islam sotto il dominio di Maometto. Non è possibile confondere il presidente dell’Iran con il califfo al-Baghdadi, la Persia non è l’Isis e Rouhani non è Bin Laden. La religione islamica in Iran ha profonde radici culturali come la religione cristiana ha radici nel mondo greco e nel mondo latino. A Persepoli si vede la grandezza della civiltà persiana come a Roma antica si vede la grandezza della civiltà occidentale. I persiani non rinnegano il loro passato, non ne occultano le testimonianze. È insensato nascondere le nostra agli occhi di Rouhani, che non poteva immaginare che quelle scatole occultassero nudi maschili di Roma Antica e non nudi pornografici. D’altra parte, nella statuaria antica nudo è il maschio - eroe, atleta o guerriero - mentre coperta è la femmina, come anche l’Islam richiede. Per questo era insensato cercare d’interpretare un senso di pudore inesistente nella sensibilità di un iraniano colto per un eccesso di zelo non compreso e per noi mortificante. Il paradosso è che le rovine di Persepoli sono alla luce del sole in Iran e le rovine romane sono nascoste a Roma.
Quel nudo coperto della Venere che ci fa apparire solo ridicoli. Chi è superiore può fare qualunque cosa. Chi ha paura, si umilia, rinnegando la propria identità per prevenire rischi, scrive Vittorio Sgarbi, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". La decisione di coprire le sculture romane del Campidoglio può essere motivata da due impulsi. Il primo di superba cortesia, il secondo di umiliazione. Chi è superiore può fare qualunque cosa, concedendo ciò che ritiene gradito all’altro. Chi ha paura, si umilia, rinnegando la propria identità per prevenire rischi. È difficile dire quale delle due motivazioni abbia mosso il cerimoniale a uno dei comportamenti più insensati che si potessero assumere, perché l’eccesso di zelo che si finge ispirato da una richiesta del cerimoniale iraniano può far riferimento alla provocazione di nudi contemporanei su manifesti pubblicitari o cinematografici. Ma la storia è immune dal senso del pudore anche più radicale ed estremo. E qui, infatti, ci sono l’equivoco e il difetto culturale. Sappiamo le varietà dell’islam, ma non si può immaginare di misurarsi con gli stessi strumenti con l’islam radicale che ha il suo profeta in Maometto e la religione islamica innestata su una civiltà antica come la nostra. Non è possibile confondere l’autorità religiosa e politica iraniana con il califfo Al Baghdadi. Non è possibile confrontarsi con l’Iran come con Al Qaida o l’Isis. Per secoli la religione islamica ha rispettato Palmira, che solo in tempi recenti è stata intollerabilmente violata. La Siria musulmana non rinnegava la storia romana. Parimenti, l’islam in Iran si innesta sulla millenaria civiltà persiana, non diversamente dal cristianesimo sulle radici greche e romane. I cristiani hanno adattato ma non distrutto il Pantheon. E allora, soltanto una profonda ignoranza può pensare di coprire in Italia testimonianze della storia antica che non sono oscurate in Iran. A Persepoli, in Iran, i corpi nudi non sono censurati e non è dunque pensabile censurare i corpi nudi romani a Roma. Vedere quelle scatole non sarà sembrato al presidente iraniano Rouhani un gesto di cortesia, né, tanto meno, per fortuna, di sottomissione, ma soltanto la testimonianza di una sciatteria di chi ha continui cantieri per restauri in corso. Questo deve aver pensato, da uomo di cultura, dei parallelepipedi che nascondevano statue di cui non poteva immaginare l’aspetto D’altra parte la nudità da coprire per il senso del pudore ispirato dalla religione è quella femminile, e non quella maschile. Nelle antichità romane il corpo dell’uomo può essere nudo, quello della donna è coperto. Se occorreva apparire ridicoli siamo riusciti ad esserlo.
"Difendiamo la nostra civiltà a costo di offendere le altre". Il filosofo inglese Roger Scruton racconta il flop delle politiche sugli stranieri: "L'Europa si è arresa alla sinistra: se parli di integrazione passi per razzista", scrivono Simone Bressan e Andrea Mancia, Lunedì 18/01/2016, su "Il Giornale". Roger Scruton è un uomo fuori dal tempo. Compirà 72 anni tra poco e solo qualche giorno fa il Weekly Standard lo ha definito come «il conservatore inglese più significativo dai tempi di Edmund Burke». Lui fa di tutto per non smentire l'onorificenza e nel suo ultimo libro Fools, Frauds and Firebrands: Thinkers of the New Left («Sciocchi, imbroglioni ed estremisti: i pensatori della Nuova Sinistra») - espansione e aggiornamento di un suo controverso lavoro del 1985 - disegna una sorta di crudele «bestiario» dell'intellighènzia globale sinistrorsa dal Dopoguerra a oggi. Scritto con il disincanto di chi si ricorda di essere figlio di una famiglia laburista, il libro mette a nudo tutti i limiti del pensiero progressista, affrontando mostri sacri come Habermas, Lukacs, Sartre, Galbraith e Derrida. Scruton è uno di quelli che ha scelto di non piegarsi al politically correct dominante e che continua a ritenere che la nostra civiltà sia minacciata più dall'estremismo islamico che da qualche opinione un po' sbilenca rispetto ai rigidi confini tracciati dai guru del progressismo. In un delizioso dialogo con il giornalista Mike Hume, pubblicato questo mese dal periodico inglese Spiked!, Scruton argomenta con grande lucidità le ragioni del suo ultimo lavoro e spiega il senso di voler dedicare un intero libro alla demolizione intellettuale di pensatori a volte ignoti al grande pubblico. Anche se «all'uomo della strada questi nomi dicono poco» e le loro biografie sono particolarmente datate, gli effetti devastanti del loro pensiero debole rischiano di essere letali per l'Occidente. Soprattutto oggi che le minacce alla nostra libertà sono diventate terribilmente serie. Lo slogan della rivoluzione francese è rimasto, appunto, «solo uno slogan». Liberté, égalité, fraternité: tutti valori per cui, spiega Scruton, «moltissima gente ha combattuto e ha perso la vita, sono stati completamente trasformati da un approccio burocratico». Così oggi siamo pieni di leggi e provvedimenti statali orientati a garantire che nessuno venga discriminato, con il risultato che si impedisce a chiunque di emergere appena un po' più degli altri. Anche la libertà è stata codificata come un diritto concesso generosamente dallo Stato: non la libertà delle persone di vivere la propria vita al meglio e di realizzarsi ma un beneficio, magari «concesso sotto forma di voucher» per chi è gay, donna o minoranza etnica. Così facendo, secondo Scruton, «questi ideali hanno smesso di essere tali e sono diventati una proprietà che lo Stato distribuisce alle persone secondo la moda del momento». Ma è sul conflitto esistente tra la civiltà occidentale e l'estremismo islamico che la questione diventa cruciale. «Per 30 anni spiega il filosofo inglese mi sono battuto perché l'integrazione delle comunità di immigrati nella nostra società fosse un tema centrale». La verità è che nessuno ci ha mai provato davvero, perché «se parlavi di integrazione la sinistra ti accusava di razzismo». Nessuno ha mai avuto la forza di opporsi all'apologia continua del multiculturalismo. E quando Scruton pubblicò sul giornale da lui diretto (The Salisbury Review) un saggio che spiegava come «il fatto di non obbligare i ragazzi a parlare inglese nelle scuole rischiasse di danneggiare i bambini di tutte le comunità», la sua carriera accademica andò letteralmente in pezzi. Scruton, però, continua «a credere nel concetto di integrazione», anche se le sue idee in merito sono quanto di più lontano possa esistere da una generica affermazione di buoni principi. «I Musulmani racconta a Spiked! devono essere messi davanti al fatto che in Occidente ci si comporta in un certo modo: non si trattano le donne come avviene spesso nella loro cultura e non ci si copre il volto in pubblico». Per Scruton, infatti, la nostra è una società che definisce i rapporti e le relazioni tra persone anche e soprattutto guardandosi in faccia e negli occhi. Sono affermazioni come questa che gli hanno garantito in passato e gli garantiranno in futuro l'ostracismo della sinistra progressista e di larga parte dei media occidentali, tutti allineati al dogma del politically correct. Non si tratta solo «di difendere solo il diritto di manifestare il proprio pensiero, anche se scorretto, ma soprattutto di rivendicare quanto abbiamo ereditato dall'Illuminismo e dal Cristianesimo». «Se incalza Scruton non siamo disposti a difendere la cultura che ha prodotto Ludwig van Beethoven, George Eliot e Lev Tolstoj, che cosa mai dovremo difendere?».
"La sinistra mi attacca ma io parlo lo stesso". "Ho visto 40 guerre, io a parlare di Siria ci sarò", scrive Gian Micalessin, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale". Faccio il giornalista dal 1983 quando, a 23 anni, andai in Afghanistan per raccontare il dramma di un Paese dove piccoli gruppi di combattenti, al tempo ancora male armati e scarsamente finanziati, resistevano all'invasione sovietica. Da allora sono passato per una quarantina di guerre spiegando indifferentemente le ragioni di quanti nella retorica quotidiana passano per «buoni» o «cattivi». Negli anni '90 ho trascorso mesi con i musulmani «buoni» assediati a Sarajevo da Milosevic. Ma in Algeria ho vissuto per settimane con i «cattivi» del Fis, i fondamentalisti islamici impegnati, allora, in un sanguinoso scontro con il governo. Tra il 1994 e il 2000 ho frequentato anche quei ribelli ceceni nemici della Russia di Eltsin e di Putin, trasformatisi poi in spietati terroristi. In Iraq tra il 2004 e il 2005 ho incontrato più volte gli insorti alqaidisti di Falluja. Fino a quando non mi hanno puntato un kalashinkov alla testa spiegando di esser poco interessati a condividere le loro ragioni con un «infedele». Dal 2012 in poi mi sono spesso recato nella Siria di Bashar Assad per raccontare una guerra, costata la vita a 250mila persone, che ha permesso allo Stato Islamico di rafforzarsi e d'espandere la sua logica dell'odio e del terrore. Quando mi è stato chiesto di raccontare queste mie esperienze non ho mai detto di no a nessuno. E, tantomeno, mi sono mai chiesto chi fosse o come la pensasse perché ritengo che l'informazione non si debba negare a nessuno. Ecco perché quando il movimento «Alliance for Freedom and Peace» mi ha chiesto di partecipare al convegno organizzato la prossima domenica a Milano sul conflitto siriano al fianco del senatore ed ex ministro della difesa Mario Mauro, non ho avuto problemi ad accettare. Ora scorrendo le pagine milanesi di Repubblica scopro che quel convegno «non s'ha da fare» perché dietro gli organizzatori si nasconderebbero Forza Nuova e vari altri gruppi di estrema destra. Scopro anche che l'ex Ministro della Difesa senatore Mario Mauro viene accusato di «andare a braccetto con i neonazisti» solo per aver accettato di parlare a quel convegno. Accuse che per la proprietà transitiva cadono anche su di me. Accuse formulate senza essersi premurati di ascoltare quello che il senatore Mauro ed io diremo e le idee che sosterremo. In queste accuse, giustificate con le regole dell'anti fascismo, intravvedo purtroppo lo stesso fanatismo ostracizzante dello Stato Islamico. Da una parte i fedeli, dall'altra gli infedeli da mettere all'indice assieme a chiunque abbia contatti con loro. I colleghi di Repubblica me lo consentano, ma dare spazio a queste logiche mi appare osceno. E non tanto nei confronti del senatore Mario Mauro o di chi, come me, parlerà a quel convegno, ma nei confronti del loro stesso giornale. Un giornale diretto da Mario Calabresi. Un uomo che per queste stesse ragioni vide uccidere il proprio padre.
Il videoclip su tutte le menzogne di guerra divulgate da "La Repubblica", scrive Il Piccolo D'Italia il 21 gennaio 2016. Fonte: Francesco Santoianni per L’Antidiplomatico. Celebriamo anche noi i “40 anni di Repubblica” con un videoclip dedicato alle sue più clamorose menzogne finalizzate ad alimentare la guerra. Un compito svolto da “Repubblica” sfruttando – oltre ai soliti cliché della propaganda bellica – i valori di quel popolo di “sinistra”, “progressista”, “antifascista” e “politically correct”, suo principale target. E così già nel 1999 – per supportare la Guerra NATO-D’Alema alla Jugoslavia – Repubblica presentava i Serbi come i nazisti (si legga, a tal proposito, questo ottimo libro e i “ribelli kossovari” come ebrei destinati ai campi di sterminio. Poi, Repubblica, per promuovere guerre e/o per additare altri “stati canaglia”, ha sposato la salvezza di altre “categorie” care ai suoi lettori di “sinistra”rifilando bufale su donne, gay, lesbiche, animali da compagnia . Il tutto accompagnato da un sempre più marcato travisamento della realtà: basti guardare i servizi di Repubblica sulla Palestina o il suo davvero sbalorditivo servizio fotografico che consacrava i fascisti del battaglione Azov che baciavano le “fidanzate” (in realtà fotomodelle reclutate dall’agenzia di pubbliche relazioni Weber Shandwick, che aveva realizzato il servizio) prima di partire per le loro mattanze nel Donbass. Ma con questa sempre più marcata linea bellicista, Repubblica ha perso lettori? Purtroppo no. Il quotidiano di De Benedetti continua ad arpionare un target socio-economico medio-alto (il più ambito dagli inserzionisti). Pubblico che, comunque non si direbbe capace di indignarsi; valgano per tutti le davvero poche proteste dei suoi lettori davanti alla più sfrontata menzogna pubblicata da Repubblica: una foto satellitare – piazzata in prima pagina – che avrebbe dovuto attestare l’invasione russa dell’Ucraina e che, invece, come recitava la piccola didascalia posta sulla foto, riprendeva un territorio della Federazione russa distante cinquanta chilometri dalla frontiera. Ma, invece di abbandonarsi a deprimenti considerazioni è forse meglio dare una occhiata ad alcune (tutto sommato, divertenti) menzogne di guerra pubblicate da “Repubblica”. Solo alcune, tra le innumerevoli. E per farvele meglio gustare ecco il videoclip. Qui di seguito i link sulle “notizie” riportate nel videoclip:
Bambini legati sui carri armati di Assad e usati come “scudi umani” (12 giugno 2012)
Fosse comuni di Gheddafi (13 giugno 2011)
“I Serbi uccidono mia madre e poi mi costringono a stuprarla” (22 giugno 1996)
Viagra alle truppe di Gheddafi per violentare le donne dei manifestanti (12 dicembre 2012)
Missile dei ribelli filorussi abbatte jet in Ucraina (18 luglio 2014)
Elicotteri di Gheddafi mitragliano e uccidono centinaia di manifestanti (22 febbraio 2011)
Cecchini di Assad si allenano su donne in cinta (19 ottobre 2013)
Il water d’oro del dittatore comunista Janukovic (22 febbraio 2014)
Il dittatore della Corea del Nord fa sbranare lo zio da 120 cani (3 gennaio 2014)
Il regime di Kiev sta uccidendo in carcere la pasionaria Tymoshenko (14 febbraio 2012)
Assad fa affogare in un fiume decine di oppositori (11 marzo 2013)
Governo Renzi diminuisce le spese per la Difesa (5 ottobre 2015)
L’assedio di Assad strangola Madaya (5 gennaio 2016)
Foto satellitari: la Russia invade l’Ucraina (28 agosto 2014)
Dittatore della Corea del Nord fa fucilare il progettista dell’aeroporto (23 giugno 2015)
Dittatore della Corea del Nord fa fucilare ministro che si era addormentato (13 maggio 2015)
Assad pensa di usare le armi chimiche (31 ottobre 2013)
Governo del Venezuela ordina di sparare su manifestanti (25 febbraio 2015)
Trovato un cane che somiglia a Putin (23 settembre 2014)
C’è, chi è cristiano. C’è, chi è mussulmano. C’è, chi è comunista. Sì, perché il comunismo è una religione e non una ideologia.
A tal fine la lotta per l’uguaglianza, sbandierata dai comunisti, non è altro che una presa per il culo della massa, per arrivare a detenere il potere e fare le leggi nell’interesse del sistema di potere che ha sostenuto la sua presa di governo.
Ecco perché, poi, succedono certe cose.
Colonia: a Capodanno donne aggredite da mille uomini ubriachi “di origini arabe o nordafricane”. La notte si è conclusa con oltre 90 denunce, una delle quali per stupro, anche se la polizia crede che aumenteranno nei prossimi giorni. Il sindaco Reker: "Quello che è accaduto è inaudito". E anche a Monaco si sono verificati episodi simili nella notte di San Silvestro, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 gennaio 2016. Circondate, palpate, molestate e derubate la notte di Capodanno. A Colonia un migliaio di uomini ubriachi tra i 15 e i 39 anni e “di origini arabe o nordafricane” hanno aggredito decine di donne la notte di San Silvestro nei pressi del Duomo e della stazione dei treni. Il risultato: 90 donne che hanno denunciato furti e molestie, incluso uno stupro, anche se la polizia ritiene che le segnalazioni aumenteranno nei prossimi giorni. “Quello che è accaduto è inaudito”, ha detto il sindaco di Colonia Henriette Reker, accoltellata in ottobre alla vigilia delle elezioni per il suo atteggiamento favorevole all’accoglienza dei rifugiati siriani. Un suo portavoce ha assicurato che il sindaco non intende tollerare che nella sua città vi siano aree dove la legge non è rispettata. Allo stesso tempo vi è il timore che la vicenda venga strumentalizzata da gruppi razzisti o anti migranti. La Reker vuole anche predisporre un piano di sicurezza per il Carnevale, che ogni anno richiama oltre un milione di visitatori nella città renana e oggi coordinerà l’unità di crisi che dovrà varare misure per tutelare in futuro le donne da violenze di questo genere. E anche Angela Merkel, secondo quanto riferito dal suo portavoce Steffen Seibert, ha chiesto una dura risposta dello Stato di diritto. In una telefonata al sindaco di Colonia, la Cancelliera ha espresso il suo sdegno per le violenze, ha aggiunto Seibert, e ha chiesto che ogni sforzo venga indirizzato per indagare e condannare al più presto i colpevoli, senza riferimento alla loro origine. La dinamica – Gli uomini si sono radunati in piazza per poi dividersi in gruppi più piccoli, di 5 persone circa ciascuno, che hanno proseguito la caccia alle donne e hanno lanciato, secondo quanto raccontato dalla polizia, una quantità fuori dall’ordinario di petardi e fuochi d’artificio. E gli aggressori non si sono fatti impressionare neppure dall’intervento della polizia, sempre più massiccio. Intanto alcune vittime hanno raccontato ai media tedeschi la loro notte dell’orrore. La 27enne Anna ha descritto così allo Spiegel online il suo arrivo con il fidanzato alla stazione centrale: “L’intera piazza era gremita di soli uomini. C’erano poche donne isolate, impaurite, che venivano fissate. Non posso descrivere come mi sono sentita a disagio”. Ma Colonia non è stata l’unica città in cui si sono verificati questi episodi. Anche la polizia di Amburgo sta indagando su reati simili, sempre avvenuti nella sera di Capodanno. Nella città anseatica, luogo delle aggressioni è stata la Reeperbahn, la via nel quartiere St. Pauli famosa per i locali a luci rosse. Anche qui gruppi di uomini hanno circondato e molestato sessualmente donne che festeggiavano l’inizio del nuovo anno, derubandole di soldi e telefonini. Un portavoce della polizia ha spiegato che si indaga su 9 casi.
Stranieri e rifugiati siriani fra gli assalitori di Colonia. Il rapporto: «Le donne hanno dovuto attraversare delle forche caudine». Denunciate altre aggressioni sessuali dalla Finlandia alla Svizzera, scrive Elena Tebano l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. A sera la piazza tra la stazione e la cattedrale di Colonia è quasi vuota, pochi lampioni a illuminarla mentre i passanti si affrettano sul selciato battuto dalla pioggia e sfilano tra i quattro poliziotti in tenuta antisommossa che presidiano l’ingresso principale ai binari. Un tentativo di mostrare che lo Stato c’è, mentre montano sempre di più le critiche per la risposta insufficiente delle forze dell’ordine alle aggressioni che la notte di Capodanno hanno trasformato il cuore della città in un inferno per «le donne che - come si legge in un rapporto della polizia - sole o accompagnate hanno dovuto attraversare delle vere e proprie forche caudine formate da masse di uomini pesantemente ubriachi». Intanto sono salite a 121 le denunce: «In tre quarti dei casi - ha affermato un portavoce della polizia - si tratta di reati a sfondo sessuale spesso avvenuti in concomitanza con furti o borseggi». Due denunce sono per stupro, le altre per «furti o lesioni». Sedici i sospetti identificati, «in gran parte uomini di origine nordafricana». Secondo il settimanale Der Spiegel ci sarebbero inoltre 4 fermati: due nordafricani accusati di furto e arrestati già a Capodanno, e altre due persone, in cella da quattro giorni, su cui le autorità non hanno dato informazioni e che sono invece accusate di molestie sessuali. La polizia assicura adesso di aver messo al lavoro sulle aggressioni ben 80 agenti (una task force chiamata senza nessuna ironia «Neujahr», «anno nuovo»), ma dal rapporto interno pubblicato ieri da Der Spiegel e dal quotidiano Bild emerge che gli uomini dispiegati l’ultimo dell’anno erano invece del tutto insufficienti ad affrontare il «caos» di «risse, furti, assalti sessuali alle donne» e che «le forze presenti non hanno potuto controllare tutti gli avvenimenti, gli assalti e i reati, perché erano troppi contemporaneamente». In alcune fasi non è stato possibile, scrive il funzionario rimasto anonimo, neppure verbalizzare tutte le denunce. Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto. Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti: «Non potete farmi niente - avrebbero commentato sprezzanti - domani vado a prendermene uno nuovo». Le molestie di Colonia non sono un fatto isolato: altre 70 aggressioni a sfondo sessuale sono state denunciate ad Amburgo, 12 a Stoccarda, sei nella vicina Svizzera, a Zurigo. Anche a Helsinki, in Finlandia, nella notte di Capodanno ci sono state molestie sessuali diffuse nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. In quest’ultimo caso i presunti aggressori sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Al momento non risultano legami tra quanto successo nelle diverse città, ma ci sono stati contatti tra le polizie europee e tra le ipotesi al vaglio degli investigatori c’è quella di una comune regia: forse da parte di gruppi xenofobi che potrebbero aver aizzato gruppetti di immigrati per poi cavalcare l’indignazione causata dagli assalti. Di certo a Colonia il problema furti e molestie non è nuovo: «Nella zona della stazione si aggirano bande di giovanissimi che sono arrivati da adolescenti in Europa da Tunisia, Algeria e Marocco, si spostano spesso da un Paese all’altro e vivono di espedienti - dice al Corriere un volontario che lavora con i migranti e chiede di rimanere anonimo -. È possibile che fossero tra coloro che hanno agito a Capodanno. In generale quando ci sono gruppi di soli uomini fatti o ubriachi, non conta da quale Paese arrivino, facilmente ne fanno le spese le donne. Di solito qui succede a Carnevale, che attira sempre una grossa folla. La polizia lo sa e arriva con gli autobus per arrestarli. A Capodanno però nessuno se lo aspettava».
Colonia, gli immigrati dopo le violenze: "Da qui non potete cacciarci, ci ha invitati Frau Merkel". "Persone di origine straniera hanno lanciato molotov". In un rapporto choc gli agenti di Colonia smascherano le violenze degli immigrati: "Capodanno fuori controllo". Ed emerge tutta l'arroganza degli stranieri nei confronti delle forze dell'ordine, scrive Andrea Indini Giovedì 07/01/2016 su “Il Giornale”. Il caos e il clima di violenza della notte di Capodanno, a Colonia, dove un centinaio di donne indifese sono state aggredite, molestate e derubate da un migliaio di immigrati ubriachi, avrebbero potuto "anche provocare dei morti". Il rapporto choc della polizia tedesca, di cui la Bild pubblica alcuni stralci, svela senza più ombra di dubbio le gravissime colpe degli immigrati che la notte di San Silvestro hanno tenuto in ostaggio Colonia. Nel dossier si descrivono fra l'altro gli attacchi con bottiglie molotov e oggetti contundenti contro la polizia a cui è stato del tutto "impossibile" identificare gli aggressori delle violenze denunciate da donne in lacrime a fatti ormai avvenuti. Mentre il bilancio dei sospettati sale a sedici, le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio. I principali sospettati non sono ancora stati identificati per nome, ma gli inquirenti li avrebbero già chiaramente riconosciuti attraverso le immagini video. Per vittime e testimoni oculari gli aggressori erano per lo più di origine nordafricana e araba. "Se emergesse che fra i responsabili ci sono anche dei richiedenti asilo - ha assicurato il ministro della Giustizia Heiko Maas - questi potrebbero essere espulsi". Anche per la cancelliera Angela Merkel è necessario trarre estese conseguenze da quanto accaduto. "Ad esempio - ha detto - dobbiamo valutare se finora sia stato fatto abbastanza per le espulsioni di stranieri macchiatisi di reati". Nel rapporto della polizia di Colonia ci sono, poi, le voci provocatorie di alcuni immigrati. Voci che provano il fallimento delle politiche buoniste della cancelliera. Ascoltarle è un ulteriore affondo a tutte quelle donne che, durante i festeggiamenti di Capodanno, sono state molestate e aggredite. "Sono siriano - ha urlato in faccia un profugo a un agente che lo aveva fermato - dovete trattarmi bene, mi ha invitato Frau Merkel". Un altro straniero, dopo aver stracciato il permesso di soggiorno "con un ghigno", ha sfidato il poliziotto deridendolo:"Non puoi farmi niente. Ne prendo un altro domani". Anche se non vi è alcun collegamento con i drammatici fatti di Colonia, a Weil am Rhein quattro siriani sono stati arrestati per aver violentato due adolescenti la vigilia di Capodanno. Le ragazze si trovavano nell'appartamento di uno degli immigrati quando sono arrivati il fratello 15enne e altri due 14enni e la situazione è degenerata. Le giovani sono state ripetutamente stuprate, per tutta la notte.
VIOLENZA SU 80 DONNE A COLONIA DA PARTE DI 1.000 “INTEGRATI”! IL SILENZIO ASSORDANTE DEI NOSTRI MEDIA, DELLA NOSTRA POLITICA RADICAL-CHIC E DELLA NOSTRA “INTELLIGHENTIA” (di Giuseppe Palma il 7 gennaio 2016). Circa 1.000 uomini (di origine nord-africana ed araba) hanno abusato, molestato e in alcuni casi violentato circa 80 donne! Al di là dei pesanti aspetti criminosi, che ovviamente riceveranno – si spera – un’adeguata risposta da parte della giustizia tedesca, il problema è tutto politico: la totale assenza dell’UE e l’ipocrisia della classe dirigente della maggior parte degli Stati europei, soprattutto di quella italiana. La nostra intellighenzia radical-chic (che poi è quella che vota Partito Democratico, SEL e Scelta Civica), sempre pronta a lavarsi la bocca con le parole “integrazione” e “ci vuole più Europa”, dopo i fatti di Colonia tace vigliaccamente! Su tutti, Laura Boldrini & Co., cioè quel manipolo di finte femministe, finte europeiste e finte sostenitrici dei diritti civili che – di fronte alle violenze poste in essere dai 1.000 immigrati di Colonia su 80 donne indifese – si sono nascoste dietro un silenzio assordante! Ma la storia è vecchia! Il manovratore (UE e capitale internazionale) e i politici che ne sono a libro paga non vogliono che il popolo si renda conto delle bestialità che stanno accadendo! L’immigrazione selvaggia serve all’€uro per poter abbassare i salari e le garanzie contrattuali/di legge del lavoratore! Quindi, bisogna a tutti i costi tacere! Vero, Laura Boldrini? Di fronte alle cene di Arcore (che Berlusconi pagava coi soldi suoi e dove mai nessuna violenza – di nessun tipo – fu fatta) tutte queste ipocrite femministe, ben appoggiate dalla solita e sporca intellighenzia di casa nostra, si scagliarono contro il “degrado” in nome della “moralità” e dell’ “immagine internazionale”. Oggi tacciono! Di fronte a qualche offesa verbale di qualche politico nostrano verso il problema dell’immigrazione, quelle stesse femministe e quegli stessi intellettuali (si fa per dire!) non si tirano indietro dall’etichettare tali episodi con parole come xenofobo, razzista, fascista etc…Il doppio-pesismo della sinistra italiana (e soprattutto dei post-comunisti e dei falsi buonisti) è qualcosa di vergognoso! Dove sono la signora Kyenge (eurodeputata PD) e il signor Chaouki (deputato PD)? Dove sono questi ipocriti benpensanti? Dov’è Niki Vendola (SEL)? Dov’è Gennaro Migliore (PD)? Dov’è Marianna Madia (PD)? Dov’è Simona Bonafè (PD)? Dov’è Anna Ascani (PD)? E soprattutto, dov’è Laura Boldrini? In tutto questo, anche i media hanno taciuto! Del resto, si sa: le linee editoriali dei giornaloni e delle TV italiane sono a favore dell’immigrazione selvaggia e dei crimini €uropei! Siamo rappresentati dalla peggiore politica e dalla peggiore intellighenzia!
Colonia: staccate la spina a questo schifo di Europa, scrive il 7 gennaio Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Barbari! Barbari approdati nella terra di nessuno, nella terra di niente, solo un corridoio per l’avvenire, solo una capanna per la pioggia, niente più. “Le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio”. Capodanno, Germania. Uomini contro donne. Prima di imparare ad essere altro, dovremmo ricordarci di essere noi stessi. Dove sono i cortei di sdegno del regime dei benpensanti? Non vedo Laura Boldrini ed accoliti, piangere, fissare un angolo silenziosamente, ansimare di dolore durante le dichiarazioni pubbliche post accaduto. Non sento il tonfo dei “buoni per davvero” del mondo omologato cadere a terra, svenuti. Non sento gridare alla fine, alla barbarie, al dramma più epocale nella storia del femminismo e dell’umanità. Non sento la rabbia, la voglia di cambiare, per davvero. Calano – gentilmente oggigiorno – i barbari, si ammosciano gli attributi. Che sia abbia il coraggio di ammettere che la situazione è fuori controllo, per Colonia? Non soltanto. Da un mese? da ben più di qualche mese. Mentre i sinistri nostrani scoprono che il dolore e l’errore provengono anche da dove non gli conviene guardare, risalgono gli echi delle “marocchinate”, dei marocchini deI Corps expéditionnaire français en Italie agli ordini del generale Alphone Juin, barbari immondi colpevoli – durante la Campagna d’Italia nella Seconda Guerra Mondiale – di migliaia di violenze ed omicidi compiuti ai danni di uomini, bambini, anziani e soprattutto, delle nostre donne, madri dei nostri figli. Colonia come le “marocchinate”, quando cominciò la vigliacca genuflessione dell’Occidente, mascherata da progresso. Tra Arabia ed Iran ai ferri corti, Schengen schifato da Paesi “liberalissimi”, tra gli esperimenti atomici koreani e l’impazzimento generale, abbiamo fior fior di ragazzoni, ipertecnologici tra le fila dell’esercito. Armi di quarantaquattresima generazione, addestrati al judo, al pugilato, al Krav Maga, finanche al Monopoly da competizione; abbiamo testate, contro testate, iper Consigli di sicurezza, abbiamo tecnologia come se piovesse. Poi miliardi di Euro di fondi da spendere in aerei supersonici, guerre, guerrette, democrazia in scatola e a domicilio ancora fumante. Abbiamo, abbiamo, abbiamo. Abbiam tutto, non abbiamo nulla. Abbiamo due guerre mondiali sulle spalle, svariate guerre di indipendenza, ribelli e ribellioni, anni di terrorismo interno, ancor prima che esterno, paure e crisi, rivoluzioni e tentate rivoluzioni e poi, e poi non riusciamo neanche ad evitare l’impensabile, a difenderci dalla brutalità di strada, come a Colonia, dopo non essere riusciti a difendere le nostre sovranità, i nostri figli, le nostre tradizioni, le nostre culture, genoma delle nostre identità. Non occorre scrivere quale sia il rimedio e neanche quale trattato invocare, quale linea di politica estera da seguire. Quale iniziativa, a mo di legge speciale stilare, né descrivere dettagliatamente a quale disastro totale stiamo assistendo. Viene solo da pensare che non ci sia più da star, poi, così tranquilli, a fermare il vomito, ormai incastrati in una marea fangosa di bulimia di informazione, si passa oltre, alla prossima notizia, con freddezza, come uno stupro. C’è tanta nausea, lo stupro è duplice. Fisico e spirituale. Come anime del purgatorio (per chi avrà la bontà di crederci) lagnanti, spaventate, inutili ed invisibili, ormai, irrinunciabilmente connesse all’orrore, dettaglio dopo dettaglio, con gli occhi aperti, come quel mattacchione di Alex nel capolavoro di Kubric, Arancia Meccanica, costretto a tenere gli occhi aperti di fronte a scene maligne, zeppe di massacro, così da provocarne rigetto. Colonia si poteva prevenire? Inutile dirlo, certamente. Colonia non si doveva neanche immaginare. Non occorre stare a dire chi aveva ragione e chi torto, capire che ne ha fino in fondo, non occorre stare a soppesare la dichiarazione minchiona del politico di turno, UE e non UE, Italì o non Italì. Fa solo venire il voltastomaco questo ragazzino presuntuoso, sciocchino e immaturo che l’Occidente, versante Europeo, è diventato. Da castrare, chimicamente, artificialmente, spiritualmente. Senza orgoglio civile, né appartenenza. Rabbia stoppata in petto, l’Occidente è politicamente corretto. Neanche alla calata dei Lanzichenecchi. Io non credo in questo, non voglio questo. Questa Europa fa schifo, senza mezzi termini. Dunque, che tramonti, si spenga pure l’Occidente insipido, ipocrita, malato di Alzheimer; vigliacco e guerrafondaio, che ha rinnegato la propria identità, che sputa sulla linearità della propria storia, che calpesta la purezza delle proprie culture genitrici. Che tramonti, questo Occidente, così da esser pronti a generarne un altro, senza sprecare neanche una vita, un’altra vita ancora. Che si plasmino le parole di Oswald Spengler, questo forse il più grande augurio da fare alla marmaglia di coinquilini ai lavori forzati che siamo oggi: “Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il «tramonto del mondo antico», lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell’Occidente”.
Le misure antimolestie sdi Colonia che penalizzano le vittime, scrive il 7 gennaio 2016 Giovanni Giacalone” su "Il Giornale. Le misure anti-molestie annunciate dal sindaco di Colonia, Heriette Reker destano serie perplessità in quanto non soltanto non risolvono il problema sicurezza ma paradossalmente sembrano penalizzare le stesse vittime degli abusi. E’ plausibile credere che la Reker voglia continuare a sostenere ad oltranza le sue politiche di accoglienza, ma davanti ad episodi del genere è necessario prendere immediati provvedimenti che facciano rispettare la legge e che tutelino l’incolumità del cittadino e non l’ideologia. Le linee guida del Primo Cittadino sembrano invece andare in ben altra direzione per sfociare addirittura nel contraddittorio, ad esempio: “Mantenersi a distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero”. La frase potrebbe far trasparire un certo razzismo, quasi a voler lasciar intendere che “straniero” equivalga a “molestatore”, paradossale per la ultra-tollerante Reker; oltre a ciò, il “consiglio” implica che la potenziale vittima debba girare per strada guardandosi continuamente intorno per scongiurare possibili molestatori. In poche parole, è la vittima che deve guardarsi le spalle e possibilmente evitare di girare sola, come suggerito da un altro consiglio, quello di “muoversi per le strade possibilmente in gruppo”. Fondamentale risulterebbe poi “evitare di assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di altre culture”. Decisamente agghiacciante! In questo modo non soltanto le vittime vengono colpevolizzate a discapito degli aggressori che, poverini, apparterrebbero a “culture” dove certi comportamenti “sarebbero ammessi”, ma limita palesemente la libertà di movimento della donna. Sono legali tali direttive? Qualche dubbio ce l’ho. Cosa significa poi quel “monitorare persone che potrebbero agire di nuovo”? Elementi sensibili e recidivi dovrebbero essere preventivamente messi in condizione di non nuocere, mentre sembra che diversi soggetti resisi responsabili delle aggressioni di Capodanno fossero già noti alle autorità. Davanti a episodi di questo tipo, che non dovrebbero neanche accadere, lo Stato ha il dovere di fornire risposte immediate ed efficaci per tutelare il cittadino, attraverso misure preventive e cautelative, ma nei confronti degli aggressori, non delle vittime. Segnali di debolezza e di non curanza da parte delle Istituzioni non fano altro che incentivare episodi come quelli di Colonia; speriamo di non dover assistere ad altri fatti del genere.
Germania, prove di sharia: immigrati islamici violentano, ma puniscono le donne, scrive “Riscatto Nazionale” il 6 gennaio 2016. Il sindaco della città annuncia una serie di regole per evitare il ripetersi delle violenze di Capodanno: vietato girare da sole e dare confidenza agli stranieri. L’amministrazione della città di Colonia ha annunciato che, a seguito delle violenze della notte di Capodanno, introdurrà un codice di comportamento per le donne e le bambine per scongiurare la possibilità che queste siano vittime di stupri o violenze. Ad annunciarlo è il sindaco della città Henriette Reker, che si è riunita ieri con i massimi esponenti delle forze dell’ordine locali, con i quali ha stabilito di introdurre nuove misure di sicurezza e dichiarato lo stato d’emergenza. La decisione è stata presa dopo che, durante la notte di San Silvestro, la stazione della città è caduta sotto il controllo di circa mille persone di origine mediorientale, che hanno importunato e derubato oltre 100 ragazze. “E’ importante prevenire questi incidenti” ha detto il sindaco. Il nuovo pacchetto sicurezza prevede anche l’introduzione di un codice di comportamento al quale le donne si devono attenere. Esso verrà presto reso disponibile su internet e le esorterà a mantenersi a “distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero, di non girare per le strade da sole ma sempre in gruppo, di chiedere aiuto ai passanti in caso di difficoltà, di informare immediatamente la polizia in caso notino persone sospette e di non assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di culture altre (andere Kulturkreise)”. Durante le celebrazioni del Carnevale, uno degli eventi più celebri e tradizionali della città che si terrà a febbraio, verrà aumentata la presenza delle forze dell’ordine sul territorio, il cui compito principale sarà quello di monitorare le persone che si ritiene possano agire nuovamente come a Capodanno. Un occhio di riguardo verrà dato alle persone di origini mediorientali. Il sindaco ha sottolineato che le misure introdotte non hanno alcuno sfondo razzista o xenofobo. “Non tutti gli aggressori sono dei rifugiati giunti da poco in Germania. Alcuni di loro erano già da tempo conosciuti alle forze dell’ordine. Se alcuni richiedenti di asilo sono colpevoli verranno presi provvedimenti, ma ciò non deve indurre a reazioni discriminatorie nei loro confronti”. Heriette Beck è da sempre un’attiva sostenitrice e fautrice delle politiche di accoglienza dei migranti. Per questo lo scorso ottobre era stata gravemente ferita da un estremista di destra, che l’aveva accoltellata alla gola lasciandola in fin di vita per diverso tempo.
Crolla la tesi buonista della sinistra: tra gli stupratori anche rifugiati siriani, scrive Guglielmo Federici venerdì 8 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. Vi ricordate la tesi buonista della sinistra che invitava a una distinzione quasi filologica tra rifugiati in fuga da paesi in guerra come la Siria, migranti e clandestini? Da non confondere, per carità, da non mettere tutti in unico calderone ad uso e consumo della propaganda “xenofoba”, sostenevano con le chiavi della verità in mano. Anzi, secondo le tesi di chi gettava e getta acqua sul fuoco sui pericoli di un’invasione migratoria dagli effetti che abbiamo potuto constatare, gli illuminati della sinistra spiegavano che proprio i clandestini erano quelli che con i loro comportamenti gettavano fango su chi aveva lo status di rifugiato. Insomma, secondo il buonismo dilagante la maggior parte degli italiani sarebbe stata vittima di una cattiva comprensione del fenomeno immigrazione. Distinguere e non condannare, era la loro parola d’ordine di civiltà. Sorpresa! Questa tesi crolla, si è sbriciolata sotto i nostri occhi. A Colonia (e non solo) c’erano anche dei rifugiati all’interno del branco di un migliaio di nordafricani e mediorientali che hanno seminato panico e paura a San Silvestro. Lo riporta il Corriere on line: «Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto della polizia», si legge sul quotidiano. Allora, continuiamo a distinguere, a capire, a minimizzare? «Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti – si legge – «Non potete farmi niente – avrebbero commentato sprezzanti – domani vado a prendermene uno nuovo», riporta l’inviato. I fatti di Colonia, purtroppo, stanno diventando un caso europeo. Non solo a Stoccarda e ad Amburgo si sono registrati episodi di violenze analoghi, sempre a Capodanno, ma altre denunce sono arrivate dalla Svizzera – sei da Zurigo – e anche dalla Finlandia: anche Helsinki la notte di Capodanno è stata funestata da casi di molestie sessuali nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. Brutta sorpresa anche qui per i “professionisti” dei flussi migratori, perché anche in quest’ultimo caso tra i presunti aggressori ci sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Insomma, le quisquilie dialettiche della sinistra, le distinzioni terminologiche tra immigrati bravi e cattivi, profughi, richiedenti asilo, rifugiati fanno ridere, non reggono alla prova dei fatti, non reggono alla prova di una realtà colpevolmente sottovalutata e minimizzata.
La Boldrini rompe il silenzio sugli stupri di Colonia ma non nomina i migranti, scrive Roberta Perdicchi giovedì 7 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. In un tweet del 15 ottobre 2015, Laura Boldrini solidarizzava con il nuovo sindaco di Colonia, fresco di accoltellamento xenofobo, salutando il nuovo corso “accogliente e tollerante” della cittadina tedesca. Il tutto con la solita enfasi della donna di sinistra che riconosce i semi di un mondo migliore, fatto di buoni che aiutano poveri disperati, e vuole darne notizia al mondo con i toni del messìa. Peccato che le cose, a Capodanno, siano andate in maniera un po’ diversa e che l’accogliente Colonia sia passata alle cronache per le violenze e i tentati stupri di massa degli immigrati ai danni di decine di donne tedesche. Dopo alcuni giorni di silenzio, il presidente della Camera ha finalmente sentito il bisogno di esprimere solidarietà, alle donne violentate, stavolta, non agli immigrati. Ma dimenticando di citare quel tweet nel quale la Boldrini spargeva demagogia ed enfasi sulla presunta convivenza multietnica e culturale di Colonia. «I fatti di Colonia sono molto gravi: quello che è accaduto è veramente inaccettabile e da parte nostra c’è la più ferma condanna», ha finalmente detto la Boldrini dopo che per giorni, sui social, era girato quel tweet imbarazzante e ridicolo, col senno di poi. «Io mi auguro che le autorità tedesche riescano quanto prima a fare chiarezza e le persone che si sono permesse questi atti di mancanza di rispetto, anche violenti – ha concluso – ne rispondano davanti alla giustizia». Mai, però, ha pronunciato la parola “immigrati”: come se quel termine, associato a una qualsiasi forma di violenza, fosse da nascondere, da occultare.
Il silenzio delle femministe dopo i fatti di Colonia. La paura di essere definite razziste ha fatto tacere tante attiviste di sinistra in prima linea contro la violenza sulle donne. Ma questo atteggiamento fa bene all'accoglienza? Scrive Claudia Sarritzu giovedì 7 gennaio 2016 su “Globalist”. Bisogna chiedersi cosa significa essere femminista, come significa essere di sinistra e cosa significa essere per l'accoglienza e per la libera circolazione di idee e persone, per capire cosa sta accadendo dopo i fatti di Colonia, tra le attiviste occidentali che difendono la dignità delle donne. La paura di essere marchiate come razziste, in questa occasione, a mio avviso ha fatto mettere in secondo piano la battaglia più importante per il genere femminile: quella per la nostra libertà, quella di poter circolare liberamente per le nostre città senza la paura di essere molestate o addirittura stuprate. Questo nostro inviolabile diritto non può certo essere messo in discussione solo perché si sospetta che tra i mille aggressori ci siano uomini di origine araba. Il razzismo sta proprio in questa differenza di trattamento. Un criminale, un violento, è violento qualsiasi sia il colore della sua pelle o la religione in cui crede. Siamo tutti uguali non solo nelle cose belle e onorevoli, ma anche in quelle meschine e orride. Altra questione. I fatti di Colonia non sono del tutto chiari, e solo le indagini potranno chiarire se si è trattato realmente di un attacco programmato e organizzato contro i costumi occidentali delle donne. Ma se così fosse, proprio in nome dell'integrazione, non dobbiamo venir meno alla difesa dei nostri valori, solo per paura di apparire meno "pro-immigrazione". L'immigrazione è sempre positiva quando porta pluralismo, non quando impone violenza in nome di una falsa identità culturale. Non è cultura molestare una donna. In fine credo che noi donne di sinistra dobbiamo assolutamente intraprendere un dibattito che abbia come tema l'equilibrio tra il nostro modello di vita e quello di tante donne immigrate. Tentare di trovare una conciliazione tra libertà e tradizione, senza ledere la libertà di espressione delle donne straniere, ma anche la nostra. Magari potremmo partire da una semplice distinzione tra burqa e velo. Dovremmo smetterla con l'ipocrisia tutta di sinistra di considerare il velo integrale (il burqa appunto) una scelta. Nessuna donna libera sceglierebbe di andare in giro per strada ad agosto con un telo nero che non le permette di respirare e di vedere se non da una retina. Essere dunque femminista e di sinistra e per un mondo accogliente e solidale, significa essere sempre e comunque per la libertà delle donne, libere dalla paura di etichette inutile e pericolose.
Colonia, il silenzio delle femministe sulle violenze degli immigrati. Dalla Boldrini alle femministe del Pd, tutte hanno paura a dire che i violenti erano immigrati. Per timore di dare ragione alla destra, scrive Giuseppe De Lorenzo Mercoledì, 06/01/2016, su "Il Giornale". Nemmeno il numero elevato di donne violentate nella loro intimità, nemmeno l'indignazione della pubblica opinione, niente di quello che è successo a Colonia è riuscito a scalfire il muro dell'incoerenza delle femministe nostrane. Mille uomini, di origine mediorientale, hanno violentato e derubato oltre 100 ragazze nella notte di Capodanno. Ma loro non parlano. Anzi, è bene specificare. A farlo sono stati 1000 immigrati, profughi, clandestini. Bisogna essere chiari, perché le femministe italiane vivono in questi giorni un dramma interiore che le distrugge. Sono divise tra l'accoglienza-a-tutti-i-costi e la difesa dell'integrità delle donne, dell'emancipazione, della libertà femminile. Su questi bei propositi hanno fatto una legge, quella sul femminicidio, di dubbia utilità ma dal forte impatto mediatico. Eppure, si dimenticano di condannare ad alta voce gli stupri degli immigrati. Perché? Cosa le ferma? Semplice, il buonismo. O chiamatelo come volete. Ovvero il rischio di dar ragione ai beceri della destra, ai populisti che da anni mettono la politica di fronte al problema - evidente - dell'integrazione degli altri popoli, delle culture diverse. Di quella islamica in particolare. Che in molti casi ha con la donna una relazione offensiva, lesiva dei diritti, barbara. Come si può scindere le violenze di Colonia dagli stupri di Boko Haram, dalle violenze dell'Isis, dalle schiave Yazide e dall'imposizione del burqa? Non si può. Sono principi e modi di comportamento che superano le barriere e arrivano sulle nostre coste. Immutati. E poi si manifestano nelle nostre strade, nelle nostre periferie. Pur di non dire che a mettere le mani sui seni e tra le gambe di quelle ragazze tedesche sono stati degli immigrati, le attiviste tutte preferiscono cucirsi la bocca. Quando invece occorrerebbe raccogliere gli avvertimenti di chi dice da tempo che ad integrarsi deve essere lo straniero e non un intero popolo adattarsi ai desideri di chi arriva in Occidente. Tace la Boldrini, che nel discorso di insediamento da Presidente della Camera aveva ricordato il suo impegno contro la violenza sulle donne. Quella volta era scattato l'applauso unanime dell'Aula. Oggi, invece, la Presidente ha scelto l'oblio. Dire che aveva ragione Salvini fa male. Essere d'accordo con la Meloni, pure. E' dalla parte del giusto anche la Santanché, che ha definito i fatti di Colonia "un atto di terrorismo contro le donne". "Hanno dimostrato bene il loro concetto del femminile - ha aggiunto - e cioè che non sono persone ma oggetti. Come si può dialogare con chi non rispetta le persone? Dove sono le donne del Pd e le femministe? Il loro silenzio è assordante". L'unica ad uscire dal coro del silenzio è stata Lucia Annunziata. Che sul suo blog ha riconosciuto come "il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica", ha messo in dubbio che tutti i migranti arrivati in Europa siano davvero in fuga dalle guerre, ha chiesto "barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di integrazione". Peccato che il suo sia un risveglio tardivo. Le aggressioni di Colonia, per l'Annunziata, sarebbero il "primo episodio di scontro di civiltà". Ma non è così. Ce ne sono stati altri. Solo che sono rimasti fuori dalla porta dei salotti radical-chic. La direttrice chiede alle femministe di iniziare una discussione sull'immigrazione per "evitare che la giustissima accoglienza di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza". Ma è già tardi. Oggi sarebbe bastato stigmatizzare le violenze degli immigrati. Condannare quello che è un attacco non solo alle donne, ma al modo di essere dei Paesi che accolgono, cioè dell'Europa. Invece è prevalso il silenzio. Colpevole.
Sul corpo delle donne no pasaran, scrive Lucia Annunziata su L'Huffington Post. Non c'è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l'immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima "accoglienza" di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza. Mi pare che qualcosa si muova in questo senso fra le donne tedesche. E se è così saremo con loro. Sull'Europa che si è riunita per affrontare la caotica situazione della immigrazione, le ripetute sospensioni di Schengen, pesa l'emozione di quanto è accaduto nella notte di Capodanno a Colonia: l'aggressione sessuale inflitta da "un migliaio di giovani arabi e nordafricani" a tutte le donne che hanno incontrato sul loro cammino. Una violenza le cui modalità rivelano un episodio ben più grave della notte di follia, della frustrazione estrema ed ormonale di maschi frustrati. Quel migliaio di giovani erano preparati, il loro assalto è stato organizzato ed eseguito come una operazione semi-militare. Assalto per altro ripetuto in altre due città. Erano tanti, usavano il numero come arma di annientamento, e l'accerchiamento come trappola: le donne prese in mezzo, inclusa una donna poliziotto, sono state toccate e passate dall'uno all'altro, senza nessuna cura di proteste e reazioni. "Urlavamo, picchiavamo con quello che potevamo, ma inutilmente" raccontano le testimonianze (incluse quelle di uomini che hanno cercato di intervenire). Una madre e la figlia quindicenne sono state bloccate e "palpate ripetutamente al seno e in mezzo alle gambe". Un'operazione di molestie così vasta, continuata e determinata non può essere vista solo come un gesto contro le donne; si configura come un atto di scontro, umiliazione e dominio esercitato nei confronti delle donne sì, ma mirato a inviare un segnale di disprezzo e di sfida all'intero paese che quegli uomini ha accolto. Cioè noi, l'Europa tutta e non solo la Germania. La notte che ha inaugurato il 2016 nel paese che ha generosamente aperto le porte al maggior numero, circa un milione, di profughi dal Medioriente e da altre zone di guerra, è stata macchiata da quello che possiamo definire il primo episodio di scontro di civiltà, la prima sfida consapevole dei nuovi arrivati al nostro mondo. Un annuncio gravido di molte cose a venire. Tanto più grave perché qui non si tratta di Isis, qui non siamo di fronte a nessuna motivazione religiosa: anzi i giovani immigrati arrivati a migliaia di migliaia in Europa in questi mesi e generosamente accolti in Germania sono tecnicamente in fuga dalla guerra. Il pericolo dell'episodio di Colonia si nasconde proprio nelle pieghe della "normalità" di chi ne è stato protagonista. La verità di cui dobbiamo discutere è proprio questa: il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica, e non è tale solo nelle forme più estreme, nelle terre più bruciate del Medioriente, nelle esperienze più allucinate e militanti delle guerre dell'Isis o del terrorismo. Tutto questo lo sappiamo, ci conviviamo da anni, è stato al centro di tante nostre analisi e battaglie civili a favore delle donne in tanti e altri paesi. Ma negli ultimi venti anni, proprio sotto la spinta di guerre e rotture interne al mondo islamico, il rapporto fra Islam e donne si è metamorfizzato in una agenda culturale e politica di dominio, usata come arma, o anche solo espressione di potere, in una vastissima area sociale, la cui linea di rottura passa dentro lo stesso mondo mussulmano. Quel che voglio dire è che tutti ricordiamo gli stupri e le violenze in Iraq durante la conquista da parte dell'Isis, e i rapimenti di Boko Haram, la schiavitù sessuale imposta alle donne cristiane, yazide. Ma val la pena qui di cominciare a ricordare anche che il maggior numero di violenze viene usato nei confronti delle stesse donne musulmane. Vogliamo ricordare le condizioni in cui progressivamente stanno scivolando all'indietro tutte le società musulmane. Ricordiamo qui, ad esempio, il trattamento subito da centinaia di donne egiziane al Cairo durante la "primavera araba", come punizione per una partecipazione, o anche solo come occasione da non perdere. Ma andrebbe ora prestata più attenzione al fatto che questo modo di rapportarsi dell'Islam alle donne proprio perché deriva dalla politica non si ferma alle frontiere. Ci sono storie che solo le organizzazioni dei diritti umani seguono: nei campi profughi europei ci sono casi di violenze, e stupri. Queste violenze sono per altro la ragione per cui i cristiani quasi mai si sono uniti alle grandi migrazioni collettive di questi ultimi mesi. Ma è anche tempo di mettere in questo elenco l'aggressività, la mancanza di rispetto, che denunciano molte donne giovani ed anziane nei quartieri delle varie città europee, incluse quelle di molte città italiane: ricordate Tor Sapienza, la disperazione e la rabbia delle donne che raccontavano (inutilmente) le offese che subivano dai gruppi di giovani immigrati illegali parcheggiati in tutte le case di accoglienza? Tutto questo non è destinato a finire. L'attuale immigrazione non è un flusso ordinato. È il frutto di eventi traumatici, multipli e contemporanei, di guerre che hanno un'espansione globale e di lungo periodo. Non sarà aggiustabile secondo la logica di un progressivo assorbimento. La gestione di questa immigrazione è già da oggi uno dei maggiori problemi economici e sociali in Europa, il motore di uno sconvolgimento politico il cui impatto è già visibile. La sospensione di Schengen da parte di due degli stati da sempre più disponibili, la Danimarca e la Svezia, segnala che davvero si sta raggiungendo un livello di guardia. E indica anche come su questo tema la socialdemocrazia (e la sinistra) sia da tempo in difficoltà a mantenere una posizione "aperturista" a tutti i costi. Le formule con cui abbiamo fin qui vissuto si rivelano inefficaci di fronte alle nuove dimensioni. Ma dentro il problema di tutti con l'integrazione, c'è un problema specifico per noi donne, come stiamo vedendo. E credo tocchi anche a noi trovare una voce in merito. La prima idea su cui lavorare per il futuro non è forse difficile da individuare perché è un po' nelle cose: costruire un doppio percorso nella accoglienza. Dare priorità e immediata accettazione alle famiglie, ai bambini, alle donne, agli anziani. In qualunque condizioni e per qualunque ragioni arrivino. Costruire invece un percorso più lungo e approfondito per le migliaia di giovani uomini che per altro costituiscono la stragrande maggioranza anche degli illegali e clandestini. Davvero tutti questi giovani uomini sono in bisogno immediato e irreversibile di rifugio? Sono tutti alla ricerca di una nuova vita? Sono tutti decisi a non ritornare nei loro paesi d'origine? Domande scomode, ma realistiche. Le regole attuali, e possono essere migliorate, forniscono già la definizione per distinguere coloro che hanno diritto all'asilo politico; ugualmente esistono chiari requisiti necessari per poter invece entrare in un paese come immigrato. Intorno a queste definizioni vanno costruite barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di "integrazione" che cominci ben prima della stessa entrata. E se questo processo porta a prevedere più controlli, e dunque anche a una formulazione più elastica di Schengen, va ricordato che questo è già nelle cose. È un momento delicato, in cui l'opinione pubblica deve uscire dalle emozioni, dalle rabbie per cercare di capire davvero quale sia la strada migliore per il futuro. Le donne, anzi i diritti delle donne, devono essere una delle pietre miliari di questa chiarezza. In maniera uguale e contraria al modo come questi diritti negati vengono usati come un atto di aggressione nei nostri confronti. Non voglio pensare che mia figlia, le nostre figlie, vivranno in un mondo in cui abbiamo perso i diritti che avevamo conquistato per loro. Integrare e integrarsi con le tante diversità è la più dinamica opzione della nostra società per crescere. L'accoglienza è un valore supremo. Ma senza definizioni, senza regole e senza domande è possibile che diventi la semplice riproduzione al nostro interno delle disperate periferie del mondo, la ricreazione di permanenti masse di profughi, senza che noi sappiamo cosa far né di loro né di noi stessi.
Colonia e l’attentato di massa: quanto è ancora depredabile il corpo femminile? Scrive Andrea Pomella il 7 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano. Nella notte di Capodanno, mille uomini – la maggior parte dei quali giovani e stranieri – si sono radunati nei pressi della stazione ferroviaria di Colonia e hanno dato il via a un feroce attacco di massa. Un centinaio di donne sono state sessualmente molestate, aggredite e derubate, vittime di una strategia tanto coordinata da costituire, secondo il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas, una forma di crimine “di una dimensione completamente nuova”. Sui giornali italiani tuttavia la notizia ha assunto una certa rilevanza solo a partire dalla mattina del 6 gennaio. I primi cinque giorni dell’anno li abbiamo passati a discutere di una bestemmia passata in sovrimpressione sulla Rai e dei sette (poi diventati ventidue) milioni di euro incassati dal nuovo film di Checco Zalone. C’è da farsi qualche domanda. Perché la notizia di mille uomini che in una sola notte aggrediscono cento donne in un luogo ristretto di una città che sorge nel cuore funzionale dell’Europa non suscita clamore né choc collettivo? Perché un evento di questa portata non riceve lo status giornalistico di “attentato di massa”? E perché la notizia non sfonda sui social network, ossia perché non fruisce neppure di quella spinta dal basso che nella contemporaneità spesso dà voce a fatti omessi dai media tradizionali? Faccio due considerazioni.
La prima: due mesi fa, a seguito degli attentati di Parigi, in mezzo al diluvio di notizie laterali, approfondimenti che approfondivano dettagli insignificanti (SkyTg24 il 15 novembre mandò in onda per tre ore, quasi ininterrottamente, un filmato che mostrava il panico a Place de la Republique, anche una volta appurato che si era trattato di un falso allarme), opinionismi più o meno autorevoli, più o meno centrati, ho impiegato tre giorni a capire – per dire – la dinamica dei fatti allo Stade de France. In pratica, la ricostruzione dei fatti non catturava l’interesse, non dico dello spettatore, ma degli stessi giornalisti che erano chiamati a farne una ricostruzione. Per chi appartiene a un pubblico d’antan e chiede semplicemente di essere informato, la vendita sentimentale delle informazioni sta diventando un problema. Così, in assenza di una ricostruzione emotiva, cento donne molestate in una notte non scaldano il pubblico dei lettori, e quindi non fondano una notizia degna di primo piano. La gravità di un fatto non è più data dal fatto in sé, ma da ciò che suscita.
La seconda: viviamo in un’era in cui è ancora radicato, anche a livello inconscio, lo stereotipo patriarcale secondo cui la molestia sessuale è il semplice risultato della natura umana. Se in uno strato più o meno profondo di coscienza collettiva l’idea del dominio maschile sulla donna non fosse ancora così consolidata, l’assalto di Colonia monopolizzerebbe l’attenzione dei lettori e quindi imporrebbe ai direttori di giornale, agli elzeviristi e ai divulgatori culturali di trattare la notizia con la rilevanza che merita. Il disinteresse generale, lo sbadiglio, la freddezza rappresentano invece l’agghiacciante risultato di un involontario test sulla coscienza popolare del cittadino europeo del Ventunesimo secolo posto di fronte al tema del corpo femminile, e alla provocatoria questione di quanto esso sia “ancora depredabile”. Credo che, anche per questo primo ventennio di secolo, ci stiamo assicurando una discreta riserva di mostruosità.
Zanardo: «No al silenzio sulle violenze di Colonia». La scrittrice e autrice de Il corpo delle donne sulle aggressioni nella città tedesca: «Pericoloso che le mie compagne siano intimorite nel prendere posizione dalla strumentalizzazione delle destre xenofobe», scrive Antonietta Demurtas il 07 Gennaio 2016 su “Lettera 43”. Hanno attraversato la piazza della stazione centrale di Colonia nella notte di San Silvestro. E per loro è iniziato l'inferno: circondate, molestate sessualmente (uno stupro già accertato), palpeggiate, derubate di soldi e telefonini da circa mille uomini di origine nordafricana, ubriachi. Le vittime sono un centinaio di donne che nella città tedesca volevano solo festeggiare il Capodanno e che sono rimaste vittime di un attacco che ora le indagini iniziano a definire «premeditato» e messo in atto da «un'organizzazione proveniente dalla vicina Düsseldorf». Il ministro della giustizia Heiko Maas ha parlato di una «dimensione completamente nuova per la criminalità organizzata». C'è chi si è concentrato nel sottolineare che l’obiettivo delle aggressioni fosse il furto, e che le violenze sessuali fossero «solo un diversivo». Resta il fatto che le donne molestate e violentate a Colonia non hanno sinora ricevuto la solidarietà che in altri casi è stata manifestata alle vittime di violenza. Si è scritto: succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul, si è cercato di mantenere un basso profilo sull'accaduto per non alimentare razzismo, intolleranza e violenza nei confronti dei migranti, proprio in un momento in cui la politica dell'accoglienza si sta rivelando il più grande fallimento dell'Ue, incapace di gestire flussi migratori e spinte discriminatorie. Con il risultato che però, alla fine, «per l'ennesima volta le donne vengono strumentalizzate, comunque vada, ci violentino o meno», dice a Lettera43.itLorella Zanardo, scrittrice e autrice del documentario Il corpo delle donne, che da anni si batte contro la mercificazione della dignità femminile. «Una reazione che definirei miserabile», dice riferendosi al modo in cui sono stati racconti i fatti di Colonia, in alcuni casi silenziati dall'opinione pubblica politically correct e dall'altra esacerbati a soli fini xenofobi. E «per rendersene conto, basta vedere come si sta raccontando nel nostro Paese».
DOMANDA. Forse po' troppo a voce bassa?
RISPOSTA. Come viene gestita la questione in Italia è vergognoso. Se diciamo: siamo donne libere e così vogliamo restare, improvvisamente leggo sul web una serie di voci critiche secondo le quali se non vogliamo dare manforte alla destra razzista e xenofoba, dobbiamo in un qualche modo stare zitte. Lo trovo un consiglio mostruoso, miserabile.
D. Che cosa si dovrebbe fare: urlare e scendere in piazza?
R. Non è una questione di femminismo, credo che un certo modo di interpretare i diritti in Italia sia superato. Indignarsi è però un diritto e un dovere, e questo non vuol dire essere xenofobi: io sono assolutamente dalla parte dei profughi, sono per l'apertura delle frontiere, voglio un'Europa accogliente.
D. Ma?
R. Ciò non toglie che davanti ai crimini di Colonia, fossero essi stati compiuti da svedesi, cinesi o marocchini, la mia condanna è comunque fortissima. Io sto dalla parte delle donne. Questa è la prima cosa.
D. Non per tutte è così, c'è chi preferisce tenere un profilo più basso per paura di essere tacciata di razzismo.
R. In questo momento trovo molto pericoloso che le mie amiche e compagne siano un po' intimorite nel prendere posizione per la paura della strumentalizzazione delle destre xenofobe. Se noi non ci facciamo sentire questo nostro silenzio può essere penalizzante non solo verso le donne ma verso i profughi stessi.
D. Che cosa si aspettava?
R. Che dicessimo tutte forte e chiaro: noi donne condanniamo assolutamente gli episodi di Colonia, e condanniamo quanto detto dalla sindaca di Colonia.
D. Henriette Reker si è spinta a dettare un 'codice' di comportamento alle donne, invitandole a tenere «a un braccio di distanza» gli sconosciuti.
R. Io sono solidale con Reker, è stata persino accoltellata proprio a causa delle sue posizioni favorevoli all'immigrazione. La sua può essere stata una uscita mal meditata, detta in un momento di tensione ma comunque pericolosa.
D. Il suo decalogo è suonato come un'inversione della colpa a carico delle donne.
R. Per questo sono preoccupatissima: noi donne abbiamo lottato secoli, rischiando anche la vita, per essere libere di autodeterminare i nostri corpi, di metterci una minigonna, di uscire a mezzanotte, per quanto, purtroppo, sappiamo bene quanto questo nel nostro Paese non sia poi così facile.
D. Ora invece il consiglio è tenere gli uomini a distanza, diffidare, temere.
R. Sì purtroppo, e se non ci alziamo tutte insieme ora per dire: al nostro territorio di libertà non rinunceremo, la situazione diventerà ancora più pericolosa. Ma dobbiamo essere abili a non farci strumentalizzare: fuori la destra da questo dibattito, da chi ci vuole dare ragione solo per fini politici.
D. Al posto del decalogo che cosa avrebbe preferito sentire?
R. Tenere gli uomini a «un braccio di distanza» è quello che mi diceva mia nonna 50 anni fa. Dobbiamo fare più attenzione alle parole, al mondo che stiamo preparando per le nostre figlie.
D. Che cosa propone?
R. La politica giusta è apertura totale e allo stesso tempo condanna verso chi non ci rispetta. Se il criminale è marocchino, siriano, turco o svedese non ci deve interessare. Non prendere posizione ora sarebbe davvero come dire che siamo un po' delle imbranate, donne impotenti.
D. In che senso?
R. Dato che non ci vogliamo far strumentalizzare, tacciamo, minimizziamo? No, dobbiamo essere fortemente dalla parte delle donne di Colonia, che questo non avvenga mai più.
D. Insomma, essere politically correct non porta a niente?
R. No, inoltre che le violenze accadono tutti i giorni non rende meno grave l'accaduto. Il fatto è che sul corpo delle donne si sono fatte le guerre, anche molto recenti se pensiamo a quanto accaduto nella ex Jugoslavia. Per questo dobbiamo difendere il nostro territorio conquistato faticosamente.
D. Sta facendo discutere un articolo del quotidiano tedesco Die Tageszeitung e riportato da Internazionale, dove si legge che: «In tutte le grandi manifestazioni in cui l’alcol abbonda, le donne devono affrontare una triste realtà...; che per certi maschi tedeschi, il carnevale o l’Oktoberfest non sono divertenti senza qualche palpatina; che succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul». Un modo per riportare l'attenzione al fenomeno generale della violenza e minimizzare l'accaduto?
R. Spero di no, anche perché se già queste cose succedono all'Oktoberfest o in altre manifestazioni, è gravissimo, non è che perché già accaduto è meno grave. Così come sarebbe grave se si scoprisse che i fatti di Colonia sono stati resi pubblici solo 5 giorni dopo solo per non strumentalizzarlo.
D. Così a essere strumentalizzate e dimenticate sono ancora una volta le donne.
R. E non solo a Colonia. In questi giorni arrivano appelli di nuove formazioni che stanno per nascere in Italia, partiti, partitini, associazioni, tra i nomi dei futuri leader papabili non c'è una donna. E in questi momenti si spiega perché.
D. Perché?
R. Noi donne non abbiamo coraggio. Arrivano uomini di ultima categoria che senza vergogna si propongono come sindaci, amministratori, ministri, ma non c'è una italiana che faccia lo stesso. Questo dimostra la nostra incapacità di essere concentrate sui nostri interessi di donne e su chi verrà dopo di noi, e il terrore di scontentare qualche formazione di sinistra racconta questa nostra incapacità. C'è un silenzio preoccupante.
D. Silenzio che si rompe per difendere le donne solo per ribadire che «non c'è posto in Europa per chi non rispetta le nostre leggi e la nostra cultura», come ha fatto Giorgia Meloni.
R. Eppure c'è una terza via. Io temo questo popolarismo italiano ignorantissimo che si basa su: o chiudiamo le frontiere o ci violentano. Dobbiamo rifiutare questo modello, basta guardarsi intorno.
D. Dove?
R. In Norvegia, un piccolo Paese di 4 milioni di abitanti che ha avuto un flusso migratorio importante e si è trovato persone che venivano da Stati dove obiettivamente la realtà e il rapporto uomini-donne è molto diverso; così hanno creato un progetto di introduzione al Paese dove gli immigrati vengono formati agli usi e costumi del posto. Una parte è dedicata a come viene vissuto il femminile e il maschile, l'altra alla sessualità nel Nord Europa.
D. Crede che questo sia sufficiente?
R. Io credo alla possibilità che le persone cambino, si trasformino, quindi per chi viene in Europa ci deve essere un percorso di introduzione e integrazione culturale. E c'è un compito anche per noi.
D. Quale?
R. Continuare a essere molto duri e dure nel condannare la violenza contro le donne, altrimenti nessuno ci garantisce che non avverrà ancora. Ma per fare questo non c'è bisogno di conoscere la nazionalità dei violentatori.
D. Anche perché, frontiere aperte o meno, nell’Unione europea una donna su due è stata vittima di violenze fisiche o sessuali e nella maggior parte dei casi sono conoscenti e famigliari a commettere questi reati dentro le mura domestiche...
R. Esatto. Inoltre facendo finta di niente potremmo anche alimentare uno stereotipo al contrario, ovvero: nel timore che la nostra critica venga stigmatizzata dalle destre, quando questi criminali sono immigrati stiamo zitte. Se fossero stati tutti tedeschi ubriachi ci sarebbe stata una sollevazione popolare da parte delle donne europee.
D. Una discriminazione al contrario...
R. Sì, dato che sei africano ti ritengo inferiore e chiudo un occhio. Per questo bisogna fare chiarezza e non farne un fatto di razza o etnia, ma condannare per i fatti in sè che sono gravi indipendentemente da cosa c'è scritto nel passaparto di chi li ha commessi.
Germania, una epidemia di stupri da parte dei migranti, scrive Soeren Kern il 21 settembre 2015. Traduzioni di Angelita La Spada pubblicata su Imola Oggi l’1 ottobre 2015. Dove sono le donne? Dei 411.567 rifugiati/migranti che sono entrati nell’Unione Europea via mare nel 2015, il 72 per cento è costituito da uomini. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai migranti e profughi perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Una 13enne musulmana è stata violentata da un altro richiedente asilo in un centro di accoglienza a Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco sono uomini (…) il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. – L’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk). La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata stuprata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi”. “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. – Un politico bavarese citato da Die Welt. Durante un raid in una struttura di Monaco che ospita rifugiati la polizia ha scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Nel frattempo, gli stupri delle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono sempre più dilaganti. Sempre più donne e ragazze ospiti dei centri di accoglienza per profughi, in Germania, vengono stuprate, molestate sessualmente e costrette alla prostituzione dagli uomini richiedenti asili, secondo quanto asserito dalle organizzazioni di assistenza sociale tedesche. Molti degli stupri avvengono nelle strutture che ospitano uomini e donne dove, a causa della mancanza di spazio, le autorità tedesche costringono i migranti di entrambi i sessi a condividere i dormitori e i servizi igienici. Le condizioni per le donne e le ragazze presenti in queste strutture sono talmente pericolose che le donne vengono definite “selvaggina”, occupate a respingere gli assalti dei predatori maschi musulmani. Ma gli assistenti sociali affermano che molte vittime tacciono, per paura di rappresaglie. Allo stesso tempo, un numero crescente di donne tedesche di tutta la Germania viene violentato dai richiedenti asilo provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente. Molti di questi crimini sono minimizzati dalle autorità e dai media tedeschi, a quanto pare per evitare di alimentare sentimenti contrari all’immigrazione. Il 18 agosto, una coalizione composta da quattro organizzazioni di assistenza sociale e di gruppi per i diritti delle donne ha inviato una lettera di due pagine ai leader dei partiti politici del parlamento regionale dell’Assia, uno stato federato della Germania centro-occidentale, informandoli di come la situazione delle donne e dei minori sia peggiorata all’interno dei centri di accoglienza. La lettera diceva: “L’afflusso sempre più crescente dei rifugiati ha complicato la situazione per le donne e le ragazze ospiti nel centro di Giessen (HEAE) e nelle strutture succursali. “Il fatto di fornire alloggio in grandi tende, la mancanza di servizi igienici separati maschili e femminili, di locali in cui non ci si può chiudere a chiave, la mancanza di rifugi sicuri per le donne e le ragazze – tanto per citare solo alcuni fattori spaziali – aumenta la vulnerabilità delle donne e dei minori dentro queste strutture. Questa situazione gioca a favore di quegli uomini che assegnano alle donne un ruolo subordinato e trattano le donne che viaggiano sole come se fossero selvaggina. “Di conseguenza, si verificano numerosi stupri e molestie sessuali. Stiamo ricevendo sempre più segnalazioni di casi di prostituzione coatta. Va sottolineato che questi non sono episodi isolati. “Le donne e le ragazzine raccontano di essere state violentate o molestate sessualmente. Pertanto, molte donne dormono vestite. E raccontano anche di non usare i servizi igienici di notte, per paura di essere stuprate o derubate. Anche di giorno, attraversare l’accampamento è una situazione terribile per molte donne. “Molte donne – oltre a fuggire dalla guerra – scappano per evitare i matrimoni forzati o le mutilazioni genitali. Queste donne che affrontano rischi particolari, scappano da sole o con i loro figli. Anche se sono accompagnate da parenti maschi o da conoscenti, questo non sempre garantisce loro una protezione dalla violenza, perché ciò può portare a specifiche dipendenze e allo sfruttamento sessuale. “La maggior parte dei profughi di sesso femminile ha vissuto una serie di esperienze traumatizzanti nel loro paese di origine e durante la fuga. Esse sono vittime di violenze, rapimenti, torture, stupri ed estorsioni – a volte per anni. “Essere arrivate qui sane e salve e poter muoversi senza paura, è un dono per molte donne. (…) Vi invitiamo pertanto (…) a unirvi al nostro appello per creare urgentemente delle strutture protette (abitazioni o appartamenti muniti di serrature) per donne e minori che viaggiano da sole…“Queste strutture devono essere attrezzate in modo tale che gli uomini non vi abbiano accesso, ad eccezione degli operatori del soccorso e del personale addetto alla sicurezza. Inoltre, le camere da letto, i salotti, e cucine e i servizi igienici devono essere interconnessi in modo da formare un’unità completamente autonoma e che può essere raggiunta solo attraverso un accesso dotato di serratura e monitorato”. Dopo che diversi blog hanno richiamato l’attenzione sulla lettera il LandesFrauenRat (LFR) Hessen, un gruppo di pressione che si batte per i diritti delle donne, ha reso pubblico il documento politicamente scorretto sul proprio sito web, per poi rimuoverlo all’improvviso il 14 settembre, senza spiegarne il motivo. In Germania, il problema degli stupri e delle molestie sessuali nei centri di accoglienza dei profughi è un problema a livello nazionale. In Baviera, le donne e le ragazze ospiti della struttura di Bayernkaserne, una ex base militare a Monaco, ogni giorno rischiano di essere stuprate e indotte alla prostituzione coatta, secondo i gruppi per i diritti delle donne. Sebbene la struttura disponga di dormitori femminili, le stanze sono prive di serrature e gli uomini controllano l’accesso ai servizi igienici. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco è costituito da uomini, secondo l’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk), che ha riportatola notizia che il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. Un assistente sociale ha definito così la struttura: “Noi siamo il più grande bordello di Monaco”. La polizia continua a dire di non essere in possesso di alcuna prova che nel centro si commettono stupri, anche se in un raid è stato scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Il 28 agosto, un 22enne eritreo richiedente asilo é stato condannato a un anno e otto mesi di carcere per tentata violenza sessuale ai danni di una donna curda irachena di 30 anni in un centro di accoglienza della città bavarese di Höchstädt. Il giovane ha avuto una riduzione della pena grazie agli sforzi dell’avvocato della difesa, che ha convinto il giudice del fatto che la situazione dell’imputato nella struttura era disperata: “Da un anno, egli se ne sta con le mani in mano senza pensare a niente”. Il 26 agosto, un 34enne richiedente asilo ha tentato di stuprare una donna di 34 anni nella lavanderia situata in un centro di accoglienza a Stralsund, una città nei pressi del Mar Baltico. Il 6 agosto, la polizia ha rivelato che una 13enne musulmana era stata violentata da un altro richiedente asilo in una struttura di Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale; e a quanto pare, lo stupratore era un loro connazionale. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai profughi e migranti perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Il capo della polizia Bernd Flake ha ribattuto dicendo che il silenzio era finalizzato a tutelare la vittima. “Noi continueremo con questa politica [di non informare l'opinione pubblica], quando i reati sono commessi nelle strutture temporanee per profughi”, egli ha detto. Durante il fine settimane del 12-14 giugno, una ragazza di 15 anni ospite di un centro di accoglienza di Habenhausen, un quartiere della città settentrionale di Brema, è stata ripetutamente violentata da altri due richiedenti asilo. La struttura è stata descritta come una “casa degli orrori” a causa della spirale di violenza perpetrata da bande rivali di giovani provenienti dall’Africa e dal Kosovo. Il centro, che ospita complessivamente 247 richiedenti asilo, ha una capacità di accogliere 180 persone, e una caffetteria con 53 posti a sedere. Nel frattempo, gli stupri sulle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono dilaganti. Qui di seguito alcuni casi di stupro commessi solo nel 2015. L’11 settembre, una 16enne è stata violentata da uno sconosciuto “uomo dalla pelle scura che parlava un tedesco stentato” nei pressi di un centro di accoglienza della città bavarese di Mering. L’aggressione è avvenuta mentre la ragazza si stava recando dalla struttura alla stazione ferroviaria. Il 13 agosto, la polizia ha arrestato due richiedenti asilo, di 23 e 19 anni, per aver stuprato una 18enne tedesca dietro una scuola di Hamm, una città del Nord Reno-Westfalia. Il 26 luglio, un ragazzino di 14 anni è stato molestato sessualmente nel bagno di un treno regionale, a Heilbronn, una città situata nella parte sudoccidentale della Germania. La polizia sta cercando un uomo “dalla pelle scura” tra i 30 e i 40 anni e “dall’aspetto arabo”. Lo stesso giorno, un 21enne tunisino richiedente asilo ha stuprato una ragazza di 20 anni, nel quartiere di Dornwaldsiedlung a Karlsruhe. La polizia ha taciuto sul crimine fino al 14 agosto, quando un giornale locale ha reso pubblica la notizia. Il 9 giugno, due somali richiedenti asilo, di 20 e 18 anni, sono stati condannati a sette anni e mezzo di carcere per aver violentato una 21enne tedesca a Bad Kreuznach, una città della Renania-Palatinato, il 13 dicembre 2014. Il 5 giugno, un somalo di 30 anni richiedente asilo chiamato “Ali S” è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 20enne di Monaco. Ali aveva già scontato una condanna a sette anni per violenza sessuale, e cinque mesi dopo il suo rilascio aveva colpito ancora. Nel tentativo di proteggere l’identità di Ali S., un quotidiano di Monaco ha fatto riferimento a lui chiamandolo con il nome più politicamente corretto di “Joseph T.”. Il 22 maggio, un marocchino di 30 anni è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 55enne a Dresda. Il 20 maggio, un 25enne senegalese richiedente asilo è stato arrestato dopo una tentata violenza sessuale ai danni di una ragazza tedesca di 20 anni, nella piazza Stachus, nel cuore di Monaco. Il 16 aprile, un iracheno di 21 anni richiedente asilo è stato condannato a tre anni e dieci mesi di carcere per aver stuprato una 17enne al festival della città bavarese di Straubing, nell’agosto 2014. Il 7 aprile, un 29enne richiedente asilo è stato arrestato per la tentata violenza sessuale ai danni di una ragazzina di 14 anni, nella città di Alzenau. Il 17 marzo, due afgani richiedenti asilo, di 19 e 20 anni, sono stati condannati a cinque anni di carcere per lo stupro “particolarmente aberrante” di una 21enne tedesca aKirchheim, una città nei pressi di Stoccarda, il 17 agosto 2014. L’11 febbraio, un eritreo di 28 anni richiedente asilo è stato condannato a quattro anni di carcere per aver violentato una 25enne tedesca a Stralsund, sul Mar Baltico, nell’ottobre 2014. L’1 febbraio, un somalo di 27 anni richiedente asilo è stato arrestato per aver tentato di stuprare una donna nella città bavarese di Reisbach. Il 16 gennaio, un immigrato marocchino di 24 anni ha violentato una 29enne a Dresda. Decine e decine di altri casi di stupro e tentata violenza sessuale – casi in cui la polizia sta cercando specificatamente stupratori stranieri (la polizia tedesca spesso li chiama Südländer ossia “meridionali”) – restano irrisolti. Qui di seguito è riportata una lista parziale di episodi commessi nell’agosto 2015. Il 23 agosto, un uomo “dalla pelle scura” ha tentato di violentare una donna di 35 anni a Dortmund. Il 17 agosto, tre uomini “meridionali” hanno cercato di stuprare una 42enne a Ansbach. Il 16 agosto, un uomo “meridionale” ha violentato una donna a Hanau. Il 12 agosto, un uomo “meridionale” ha stuprato una 17enne a Hannover. Lo stesso giorno, un altro uomo “meridionale” ha mostrato i genitali a una donna di 31 anni a Kassel. La polizia ha detto che un episodio simile si era verificato nella stessa zona l’11 agosto. Il 10 agosto, cinque uomini “di origine turca” hanno tentato di violentare una ragazza a Mönchengladbach. Lo stesso giorno, un uomo “meridionale” ha stuprato una 15enne a Rintein. L’8 agosto, un altro uomo “meridionale” ha violentato una 20enne a Siegen. Il 3 agosto, un “nordafricano” ha stuprato una bambina di 7 anni, in pieno giorno, in un parco di Chemnitz, una città della Germania orientale. L’1 agosto, un uomo “meridionale” ha tentato di violentare una 27enne nel centro di Stoccarda. Intanto, i genitori sono stati avvertiti di tenere d’occhio le loro figlie. La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata violentata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. La polizia ha inoltre consigliato alle donne di non recarsi da sole alla stazione ferroviaria essendo quest’ultima nelle vicinanze di un centro di accoglienza per rifugiati. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi” con i 200 profughi musulmani ospitati in alloggi di emergenza in un edificio vicino alla scuola. La lettera diceva: “I cittadini siriani sono per lo più musulmani e parlano arabo. I profughi hanno la loro cultura. Poiché la nostra scuola si trova proprio accanto la struttura in cui essi risiedono, le vostre figlie dovrebbero indossare abiti modesti per evitare malintesi. Camicette e top scollati, pantaloncini corti o minigonne potrebbero creare malintesi. Un politico locale citato dal quotidiano Die Welt ha detto: “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. L’aumento dei reati sessuali in Germania è alimentato dalla preponderanza di uomini musulmani nel mix di profughi/migranti che entrano nel paese. Una cifra record di 104.460 richiedenti asilo è arrivata in Germania ad agosto, facendo salire, nei primi otto mesi del 2015, il numero complessivo a 413.535. Il paese prevede di accogliere quest’anno 800.000 arrivi tra profughi e migranti, una cifra che si è quadruplicata rispetto al 2014. Almeno l’80 per cento dei migranti e profughi arrivati è musulmano, secondo una recente stima fornita dal Consiglio centrale dei musulmani in Germania (Zentralrat der Muslime in Deutschland, ZMD), un gruppo musulmano di copertura, con sede a Colonia. Anche i richiedenti asilo sono prevalentemente di sesso maschile. Dei 411.567 migranti e rifugiati che finora quest’anno sono entrati nell’Unione Europa via mare, il 72 per cento è costituito da uomini, il 13 per cento da donne e il 15 per cento da bambini, secondo i calcoli dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Le informazioni sull’identità sessuale di chi arriva via terra non sono disponibili. Secondo le statistiche tedesche sulla migrazione, dei richiedenti asilo arrivati in Germania nel 2014, il 71,5 per cento di quelli di età compresa tra i 16 e i 18 anni era costituito da uomini; lo stesso dicasi per il 77,5 per cento di coloro che avevano tra i 18 e i 25 anni, così come per il 73,5 per cento di chi aveva tra i 25 e i 30 anni. I dati per il 2015 non sono ancora disponibili.
Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale? Scrive "gotquestions.org". Domanda: "Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale?" Risposta: La discriminazione sessuale avviene quando un genere sessuale, di solito quello maschile, domina sull’altro genere, di solito quello femminile. La Bibbia contiene molti riferimenti a donne che, visti dalla nostra mentalità moderna, sembrano discriminatori nei confronti delle donne. Dobbiamo tuttavia ricordare che, quando la Bibbia descrive un’azione, non necessariamente la Bibbia sta dicendo che quell’azione sia giusta. La Bibbia descrive uomini che trattano le donne come se fossero mera proprietà, ma ciò non significa che Dio approva quel modo di agire. La Bibbia ha più interesse a riformare le nostre anime e meno a riformare le nostre società. Dio sa che un cuore cambiato produrrà un comportamento cambiato. Ai tempi dell’Antico Testamento, quasi ogni cultura nel mondo aveva una struttura patriarcale. La condizione storica di quei tempi è molto chiara, non solo nella Scrittura ma anche nelle regole che governavano la maggior parte delle società. Quando quelle condizioni sono giudicate dai valori moderni e dal punto di vista del mondo, sono etichettate come sessualmente discriminanti. Dio ha stabilito l’ordine nella società, non l’uomo, e Lui è l’autore dei principi costitutivi di autorità. Tuttavia, come in ogni altra cosa, l’uomo caduto ha corrotto questo ordine. Ciò ha provocato l’ineguaglianza tra la posizione degli uomini e delle donne in tutta la storia. L’esclusione e la discriminazione che troviamo nel nostro mondo non sono una novità. Sono il risultato della caduta dell’uomo e dell’ingresso del peccato nel mondo. Quindi, possiamo giustamente dire che la terminologia e la pratica della discriminazione sessuale sono il risultato del peccato. La rivelazione progressiva della Bibbia ci porta alla cura della discriminazione sessuale e a tutte le pratiche peccaminose della razza umana. Per poter trovare e mantenere un equilibrio spirituale tra le posizioni di autorità volute da Dio, dobbiamo guardare alla Scrittura. Il Nuovo Testamento è l’adempimento dell’Antico e in esso troviamo in principi che ci indicano la giusta linea di autorità e la cura del peccato, che è il male dell’umanità, e che include la discriminazione sessuale. La croce di Cristo è il grande fattore equalizzante. Giovanni 3:16 dice “Chiunque crede” e questa affermazione inclusiva non lascia fuori nessuno a causa di posizioni sociali, capacità mentali o genere sessuale. Anche in Galati troviamo un brano che parla delle pari opportunità riguardanti la salvezza: “Perché siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3:26-28). Non c’è discriminazione sessuale alla croce. La Bibbia non fa discriminazioni sessuali nella sua attenta presentazione dei risultati del peccato sia negli uomini che nelle donne. La Bibbia parla di ogni tipo di peccato: tanto la schiavitù e i legami quanto i fallimenti dei suoi più grandi eroi. Eppure ci dà anche la risposta e il rimedio per quei peccati contro Dio e contro il Suo ordine stabilito – un giusto rapporto con Dio. L’Antico Testamento anticipava il supremo sacrifico, e ogni volta che veniva fatto un sacrificio per il peccato, esso insegnava quanto fosse importante la riconciliazione con Dio. Nel Nuovo Testamento, “l’Agnello che toglie i peccati del mondo” nasce, muore, viene sepolto e risuscita e poi ascende al Suo posto in cielo da dove intercede per noi. Credendo in Lui si trova la cura per tutto il peccato, incluso quello della discriminazione sessuale. L’accusa che nella Bibbia c’è la discriminazione sessuale si fonda su una conoscenza superficiale della Scrittura. Quando uomini e donne da ogni epoca hanno rispettato i loro ruoli stabiliti da Dio e hanno vissuto in base al “così dice il Signore”, allora c’è stato un meraviglioso equilibrio tra i generi sessuali. Quell’equilibrio corrisponde a come Dio aveva stabilito le cose nel principio e a come Egli le stabilirà alla fine. C’è troppa attenzione dedicata ai vari prodotti del peccato e troppa poca attenzione alle sue radici. Solo quando c’è una riconciliazione personale con Dio attraverso Gesù Cristo troviamo vera uguaglianza. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:32). E’ anche molto importante comprendere che, sebbene la Bibbia attribuisca ruoli diversi a uomini e a donne, ciò non equivale ad una discriminazione sessuale. La Bibbia rende molto chiaro che Dio si aspetta che siano gli uomini a condurre la chiesa e la casa. Ma ciò non rende inferiori le donne? Assolutamente no! Significa che le donne sono meno intelligenti, meno capaci o che sono considerate inferiori agli occhi di Dio? Assolutamente no! Significa è che, nel nostro mondo contaminato dal peccato, ci deve essere una struttura e delle autorità. Dio ha stabilito i ruoli di autorità per il nostro bene. La discriminazione sessuale è l’abuso di questi ruoli, non l’esistenza di questi ruoli.
L’ISLAM NON E’ DONNA.
L'ISLAM CONSIDERA LA DONNA INFERIORE ALL'UOMO: ECCO LE CONSEGUENZE PER CHI SPOSA UN MUSULMANO. Una ragazza che si innamora di un islamico dovrebbe tenere a mente le 7 differenze giuridiche che priveranno della libertà lei e i suoi figli (anche se abitano in Occidente), scrive Gianfranco Trabuio. Un approccio corretto alla conoscenza della antropologia culturale di popolazioni diverse da quelle occidentali, deve necessariamente fare riferimento alla religione di quelle popolazioni. La dimensione religiosa è certamente quella più importante e più pervasiva presso tutti i popoli, per l'Islam addirittura è la religione che regolamenta anche la vita civile, il diritto civile e penale, la politica. [...] La concezione occidentale dei diritti universali dell'uomo, come deliberati dall'ONU, non trova riscontro nelle legislazioni dei paesi musulmani. Tanto meno dopo le recenti rivoluzioni popolari che hanno portato al potere i partiti di ispirazione fondamentalista, rigidamente ancorati alla legislazione di derivazione coranica. [...] E' opportuno illustrare, anche se brevemente, cosa si trova nei testi sacri dell'Islam, per esempio negli Hadith (sentenze) del profeta. La considerazione di Muhammad per le donne: dagli hadith (editti) del profeta: [...] Sahih Al Bukhari, Hadith 3826, narrato da Abu Said Al Khudri Il Profeta disse: "Non è vero che la testimonianza di una donna equivalga alla metà di quella di un uomo?". La donna rispose: "Sì". Lui disse: "Il perché sta nella scarsezza di cervello della donna". [...] L'AFFERMAZIONE SULLA INFERIORITÀ DELLA DONNA RISPETTO ALL'UOMO, HA CONSEGUENZE IMPORTANTI PER LA VITA DI TUTTI I GIORNI. Non ci si riferisce qui alle disuguaglianze che possono esistere a livello sociologico tra uomo e donna, queste sono purtroppo diffuse in tutte le società, nel mondo musulmano come in altre culture o civiltà. È necessario parlare della disuguaglianza giuridica, che ha delle conseguenze durature perché è normativa, spesso impedendo o comunque ritardando qualunque adeguamento alla mentalità dei musulmani e delle musulmane di oggi. [...]
1. LA DONNA HA SOLO IL RUOLO DI OGGETTO DI PIACERE E DI RIPRODUZIONE. C'è anzitutto una disparità nella possibilità di contrarre il matrimonio. All'uomo viene riconosciuta la possibilità di avere contemporaneamente fino a quattro mogli (poligamia), mentre alla donna viene negata la facoltà di sposare più di un uomo (poliandria). La poligamia legalmente sancita significa una differenza radicale tra uomo e donna. All'uomo dà la sensazione che la donna è fatta per il suo piacere e, al limite, che è una sua proprietà che può "arare" come vuole, come afferma letteralmente il Corano (sura della Vacca II, 223). Se ha la possibilità materiale, ne "acquista" un'altra. La donna si trova in una condizione di sottomissione nel ruolo di oggetto di piacere e di riproduzione; questo ruolo è confermato dal fatto che non viene mai chiamata con il suo nome, ma sempre in relazione a un uomo: figlia di…, moglie di…,
2. I FIGLI NATI DA UN MUSULMANO SONO AUTOMATICAMENTE MUSULMANI (LA RELIGIONE DELLA MOGLIE NON CONTA). La donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra fede, a meno che questi non si converta prima all'Islam. Il divieto è dovuto al fatto che, nelle società patriarcali orientali, i figli adottano sempre la religione del padre. Ma è anche giustificato dal fatto che il padre è il garante dell'educazione religiosa dei figli, e quindi solo se è musulmano può assicurare la loro crescita secondo i principi islamici. Ricordo a questo proposito che i figli nati da un musulmano sono considerati a tutti gli effetti musulmani, anche se battezzati. Perciò ogni matrimonio misto (tra un musulmano e una cristiana o un'ebrea, gli unici due casi contemplati nella sharia) accresce numericamente la comunità musulmana e riduce la comunità non musulmana. Non mi soffermo in questa sede per approfondire questo argomento così tragico per le conseguenze delle mogli cristiane sposate a un musulmano. I fatti di cronaca sono lì a dimostrare quanta leggerezza, e ignoranza, ci sia da parte delle nostre donne e da parte della Chiesa cattolica nel contrarre e nel concedere la dispensa per questi matrimoni misti.
3. L'UOMO PUO' RIPUDIARE LA MOGLIE QUANDO E COME VUOLE (LA DONNA NON PUO'). Il marito ha la facoltà di ripudiare la moglie ripetendo tre volte la frase «sei ripudiata» in presenza di due testimoni musulmani maschi, adulti e sani di mente, anche senza ricorrere a un tribunale. La cosa più assurda è che se il marito dovesse in seguito pentirsi della sua decisione e intendesse "recuperare" nuovamente sua moglie, quest'ultima dovrebbe prima sposarsi con un altro uomo che dovrà a sua volta ripudiarla. La donna passa in tal caso di mano in mano per rispettare formalmente la Legge. La moglie invece non può ripudiare il marito. Potrebbe chiedere il divorzio, che però diviene per lei motivo di riprovazione e la mette in una condizione sociologica molto fragile. Il ripudio è comunque vissuto come un'umiliazione per la donna e si presume sempre che lei abbia qualche problema a livello fisico o morale. Infine, la facilità con la quale il marito può ripudiare la moglie senza dover giustificare la decisione, la rende totalmente dipendente dal suo stato d'animo, con il costante timore di essere allontanata. È come una spada di Damocle che pende sulla sua testa: se non si comporta secondo il desiderio del marito potrebbe essere ripudiata, e allora dovrà cercarne un altro che accetti di prenderla con sé.
4. DIVORZIO FACILE SENZA TRIBUNALE. In quarto luogo c'è da considerare la facilità con cui si ottiene il divorzio, che avviene quasi sempre su richiesta dell'uomo. Tradizionalmente, non c'è neppure bisogno di andare in tribunale. È vero che un hadith di Muhammad, il Profeta, dice che «il divorzio è la più odiosa delle cose lecite», ma comunque è permesso.
5. I FIGLI SONO CONSIDERATI DI PROPRIETA' DEL PADRE (ANCHE IN CASO DI DIVORZIO). L'affidamento della prole, in seguito al divorzio, è un altro esempio di disuguaglianza. I figli "appartengono" al padre, che decide della loro educazione, anche se sono provvisoriamente affidati alla madre fino all' età di sette anni. Solo il padre ha la potestà genitoriale.
6. ANCHE NELL'EREDITA' LA DONNA E' CONSIDERATA INFERIORE. C'è poi la questione dell'eredità. Alla femmina ne spetta la metà del maschio, un provvedimento che trova fondamento nella situazione socio-economica in cui la famiglia viveva anticamente: dato che, secondo il Corano, è l'uomo che ha l'obbligo di mantenere la donna e l'intera famiglia, era logico che dovesse disporre di un piccolo fondo a cui attingere. Anche in questo caso una disuguaglianza fissata dalla legge divina aumenta la dipendenza della donna dall'uomo.
7. LA TESTIMONIANZA DI UN UOMO VALE COME QUELLA DI DUE DONNE. Una settima differenza a livello giuridico è che la testimonianza del maschio vale come quella di due femmine. Questo si basa su un hadith di Muhammad, molto diffuso negli ambienti musulmani nonostante la sua autenticità sia piuttosto discussa, in cui si afferma che «la donna è imperfetta nella fede e nell'intelligenza». Quando si chiede ai fuqaha, agli esperti della legge, di spiegare il motivo rispondono che la donna è imperfetta quanto alla fede perché, in certe situazioni, ad esempio durante le mestruazioni, la sua preghiera e il suo digiuno non sono validi e la sua pratica religiosa è dunque imperfetta. Riguardo la seconda parte dell'affermazione – l'"imperfezione" nell'intelligenza- forse un tempo questo poteva essere spiegato sociologicamente tenendo presente che le donne studiavano meno, che erano meno coinvolte nella vita sociale e dedite soltanto ai lavori domestici, ma da tempo tutto ciò non vale più. Eppure nella maggioranza dei tribunali dei Paesi islamici vige ancora questo principio nonostante le proteste delle associazioni femministe. In alcuni Paesi i fondamentalisti chiedono anche che alle donne sia vietato di fare da testimoni nei processi in cui sono previste le pene coraniche.
Nota di BastaBugie: il Corano prevede esplicitamente che le mogli non ubbidienti vadano picchiate. Si potrebbe obiettare che ci sono anche cristiani che picchiano la moglie, ma il paragone non regge. Infatti il Nuovo Testamento prevede che non si possa mai picchiare la moglie. La lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini (Ef 5,25.28) nei rapporti tra moglie e marito afferma: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. (...) Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso". Dunque il cristiano che picchia la moglie è un cattivo cristiano, mentre un musulmano che picchia la moglie è un buon musulmano. Anzi il musulmano che non picchiasse la moglie ribelle sarebbe un cattivo musulmano che non applica il Corano. Consigliamo la lettura di un articolo pubblicato in BastaBugie n.170 del 10 dicembre 2010: IL CORANO PERMETTE AL MARITO DI PICCHIARE LA MOGLIE - Allah ha onorato le donne istituendo la punizione delle bastonate, che però vanno date secondo regole precise: senza lasciar segni visibili e solo per una buona causa (ad esempio se lei si nega a letto). Fonte: Io amo l'Italia, 07/09/2012 Pubblicato su BastaBugie n. 262
La parità uomo-donna è ancora una meta da raggiungere, non un fatto acquisito. Nella realtà, toccano spesso alle donne compiti gravosi e poco gratificanti. Le loro possibilità di coltivare i propri interessi e seguire le proprie inclinazioni possono essere fortemente limitate. Sul lavoro, una donna trova spesso più difficoltà di un uomo. L'obiettivo di tutelare i diritti delle donne è perseguito dai movimenti femministi e fatto proprio da alcuni soggetti politici. A livello di leggi, l'Italia può vantare un ordinamento fra i più avanzati del mondo. La parità di diritti e di dignità fra uomo e donna è affermata senza mezzi termini, nella famiglia come nella società. Poiché le discriminazioni esistono di fatto, è a volte necessario prevedere garanzie speciali per le donne, ma è auspicabile che queste diventino inutili con l'evoluzione del costume. Leggi che riguardano espressamente le donne si giustificano solo in casi particolari, per esempio per la tutela della maternità. Il cammino verso un'effettiva parità è in pieno svolgimento e i progressi nell'arco dei decenni sono evidenti. La emancipazione della donna dai soli compiti familiari e la partecipazione alla vita pubblica e al lavoro esterno è realizzata da un numero crescente di donne. Nelle scuole di ogni livello il numero di studentesse e studenti è uguale. Abbiamo buon numero di donne nella magistratura, nell'insegnamento, nella medicina, alla guida di autobus, operaie, commercianti. In campi come la politica, l'ingegneria, la dirigenza burocratica e industriale, il numero delle donne è ancora minore di quello degli uomini, ma la loro presenza non è vista come un fatto eccezionale. Sono state eliminate norme odiose, come il delitto d'onore o l'obbligo per la moglie di "seguire il marito" per la residenza. Oggi ogni donna ha realmente la possibilità di scegliere il tipo di vita che vuole intraprendere. Trova ancora, però, maggiori difficoltà di un uomo, e in particolare rischia spesso di dover scegliere fra realizzazione familiare e realizzazione sul lavoro. Gustavo Avitabile.
"Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". A parole progressisti, a casa sessisti. Dossier Istat sugli stereotipi di genere, scrive "L'Huffington Post" il 09/12/2013. La maggioranza schiacciante degli italiani (77,5%) è convinta che non debba toccare all'uomo prendere le decisioni più importanti della famiglia, e sempre una percentuale altissima (80%) è sicura che gli uomini non sono affatto dirigenti o leader politici migliori delle donne. Allo stesso tempo, nonostante per quattro cittadini su dieci le donne subiscano evidenti discriminazioni di genere, un italiano su due ritiene che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende di casa e la metà della popolazione in fondo trova giusto che in tempo di crisi i datori di lavoro debbano dare la precedenza ai maschi. Non solo: nelle coppie - anche in quelle che litigano per decidere chi carica la lavatrice e porta il bambino dal dottore - sia le donne che gli uomini arrivano alla conclusione che il carico di lavoro casalingo sia equo. E' il ritratto di una nazione ancora intrappolata negli stereotipi di genere quello presentato oggi dal dipartimento Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri e dall'Istat che ha curato lo studio "Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". "Sebbene una parte cospicua della popolazione sembra aver lasciato perdere la convinzione che gli uomini debbano prendersi maggiori responsabilità delle donne, continua a esistere uno zoccolo duro che resiste al cambiamento", commenta la curatrice dello studio Linda Laura Sabbadini, capo dipartimento dell'Istat. Gli stereotipi contro le donne - più diffusi al Sud, negli anziani e nei ceti sociali meno istruiti - sono maggiormente cari agli uomini: il 60,3% e' convinto che una madre lavoratrice non possa stabilire un buon rapporto con i figli come una madre che non lavora. E, in generale, quattro uomini su dieci stima che non esista alcuna discriminazione di genere nei confronti delle donne. Sorprendentemente sono anche le donne a nutrire gli stereotipi su se stesse oppure a negarli: se per la maggioranza degli italiani (57,7%) gli uomini godono di una situazione migliore, il 50,6% delle italiane pensa che le donne in Italia non patiscano alcuna discriminazione. Gli svantaggi riconosciuti sono legati al lavoro: le donne sono maggiormente svantaggiate nel trovare una professione adeguata al titolo di studio, nel guadagnare quanto i colleghi maschi, nel fare carriera e conservare il posto di lavoro. Ecco perché moltissime donne (il 44,1% contro il 19,9% degli uomini) ammettono di avere fatto rinunce in ambito lavorativo perché hanno dovuto occuparsi della famiglia e dei figli. "La politica non può intervenire proponendo una misura legislativa per cambiare l'immaginario degli italiani", afferma Maria Cecilia Guerra, viceministra al Welfare con delega alle Pari Opportunità. Meglio "fare in modo che la società si faccia carico dei soggetti deboli come i bambini, gli anziani, i disabili" liberando le donne da quel tradizionale compito di cura. Non esiste invece alcuna differenza di genere nelle discriminazioni che gli italiani (25%) dicono di avere subito, specialmente a scuola e nel lavoro, e legate secondo gli intervistati alla condizione sociale originaria e alla provenienza territoriale (Sud). Una scarsissima mobilità sociale che secondo Lucia Annunziata "e' accentuata dalla crisi economica e racconta la rabbia delle persone che sentono di essere escluse dalla possibilità di riscatto", un senso di impotenza specialmente avvertito nelle regioni del Meridione "che sta anche alla base del grillismo". Quanto alle donne, la direttrice dell'Huffington Post sente che "ancora faticano a proporsi con sicurezza nel campo delle professioni poiché si sentono in difetto e invece dovrebbero pensare che il lavoro non ha genere". E' ancora la parte economicamente più debole del Paese a colpire la curatrice Sabbadini: "nonostante la condizione delle donne nel Sud sia peggiore dal punto di vista lavorativo e sociale, la percezione degli stereotipi e delle discriminazioni subite sia molto meno evidente". Il segno che "la presa di coscienza degli stereotipi è ancora lenta nelle regioni meridionali". In definitiva, conclude, servirebbe "un barometro delle opinioni" curato dall'Istituto di Statistica per misurare le idee e le percezioni degli italiani sui fenomeni sociali politici. Uno strumento che darebbe il polso del Paese sulle questioni fondamentali.
IN EUROPA DOBBIAMO ESSERE TUTTI GAY.
A proposito di Sarri. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Gli interisti sono come i comunisti: quando perdono è perchè gli altri rubano (così risuccederà con la Juve) o gridano al "razzista" per farli degradare, come succede al Napoli. Se poi i media sono in mano a giornalisti di sinistra o comunque del nord è tutto dire. I salottieri si scandalizzano del "Frocio" dato al furbo Mancini, ma si sbrodolano con la parola "terrone" data a destra ed a manca in ogni tempo e in ogni dove. E' vero che ormai il potere è gay (vedi le leggi in Parlamento) e le femministe si sono prostate all'Islam (vedi le reazioni su Colonia), ma frocio è una offesa soggettiva. Terrone è una offesa ad un intero popolo. Ma tutti tacciono, anche i meridionali coglioni. Se "Terrone" vuol dire cafone ignorante: bèh , non prendo lezioni dai veri razzisti e ignoranti. (Se qualcuno ha qualche commento fuori luogo. Gli consiglio di leggere il mio libro "L'Italia Razzista"!
Oriana Fallaci (Firenze, 29 giugno 1929 – Firenze, 15 settembre 2006) è stata una famosa scrittrice e giornalista italiana. Nel 2004 Oriana Fallaci pubblica Oriana Fallaci intervista sé stessa - L'Apocalisse, il terzo libro della Trilogia di Oriana. È proprio nel phamphlet che la scrittrice esprime compiutamente il suo pensiero sull'omosessualità.
La giornalista, ad esempio, critica il primo ministro socialista spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero reo di aver consentito e sostenuto l'approvazione del matrimonio gay: «la bravata del senor Zapatero che imitando il sindaco di San Francisco, (antiamericani sì, ma non quando gli americani ti suggeriscono cattive idee), buttava alle ortiche il concetto biologico di famiglia e autorizzava il matrimonio gay. Quel che è peggio, mille volte peggio, l'adozione gay. E questo senza che nessuno gli rispondesse per le rime. Senza che nessuno gli dicesse almeno cretino: il mondo va a fuoco, l'Occidente fa acqua da tutte le parti, il terrorismo islamico non fa che tagliarci la testa, e tu perdi tempo coi matrimoni-gay e le adozioni-gay? Questo senza che la Chiesa Cattolica si ribellasse, senza che il Papa (di nuovo) si difendesse. Magari tirando in ballo la Madonna di Czestochowa a cui è tanto devoto e che certo non avrebbe gradito l'iniziativa di Zapatero. Tutti zitti. Tutti intimiditi, impauriti, incapaci di commentare la cosa in modo raziocinante lo spontaneo. Tutti ricattati dalla tirannia dei Politically Correct. Perché se dici la tua sui matrimoni-gay e l'adozione-gay, finisci al rogo come quando dici la tua sull'Islam. Ti danno di razzista, di fascista, di bigotto, di incivile, di reazionario. Come minimo ti accusano di pensarla come Hitler che gli omosessuali li gettava nei forni crematori insieme agli ebrei. Insomma ti mettono alla gogna. Be': dopo la sfuriata iniziale, anche stavolta caddi in una stanchezza profonda. Assai più profonda di quella in cui ero caduta a causa delle due Simonette. Perché sull'accettazione dell'omosessualità il senor Zapatero non ha da insegnarmi nulla.»
LE ICONE ARTEFATTE DELLA SINISTRA.
Le icone artefatte della sinistra. Ali prima di Ali, come nasce un mito. Lo scrittore. Intervista del 4 giugno 2016 su “Il Manifesto” di Guido Caldiron a Alban Lefranc, autore de «Il ring invisibile» sulla vita romanzata del campione da giovane: «Non si può capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva intorno». «Nei momenti di maggiore intensità, la boxe pare contenere un’immagine della vita così completa e potente – la bellezza della vita, la vulnerabilità, la disperazione, il coraggio inestimabile e spesso autodistruttivo – che è davvero vita, e nient’affatto gioco», scrive Joyce Carol Oates nel suo saggio Sulla boxe. Un grumo di sentimenti e di emozioni, di forza e di fragilità che Alban Lefranc, scrittore, traduttore e poeta francese, nato a Caen nel 1975, e che vive da tempo tra Parigi e Berlino, già autore di diverse biografie narrative dedicate a personaggi della cultura come dello spettacolo, ha cercato di cogliere ne Il ring invisibile, il suo libro dedicato a Muhammad Ali uscito da qualche anno per la casa editrice romana 66thand2nd. Un volume affascinante dove è il pugile stesso a raccontare la propria biografia, ricostruita in realtà da Lefranc a metà strada tra realtà e finzione narrativa, come un lungo e inesorabile corpo a corpo con la storia.
La sua scomparsa non aggiunge nulla alla figura di un uomo che è divenuto un mito quando era in vita. Lei perché ha scelto di raccontare in forma narrativa una parte della vita di Muhammad Ali?
«Sono partito dall’icona che ha rappresentato, per me come per il resto del mondo, per poi cercare di scoprire le fragilità dell’uomo, la sua anima, se così si può dire, proprio oltre il mito che era diventato, in qualche modo oltre e nonostante la sua maschera pubblica. Frequento una palestra di boxe da alcuni anni e ciononostante continuo a chiedermi perché non sia vietata e cosa ci affascini così tanto nel vedere due persone che si prendono a pugni fino a farsi davvero male. Volevo cercare di ricostruire attraverso la scrittura gli stati d’animo estremi che caratterizzano i campioni del pugilato. Ali è stato questo, elevato all’ennesima potenza, ma è stato anche uno dei simboli più forti e duraturi della comunità afroamericana, amico di Malcom X e dei Black Muslims. Un uomo che ha combattuto, sul ring come fuori, che ha vinto e che a perso ma che si è sempre messo in gioco, a cominciare da quel corpo che lo ha reso celebre ma che da tanto tempo minacciava ogni giorno di abbandonarlo a causa della malattia.
«Il ring invisibile» non parla tanto di Muhammad Ali, del campione ribelle che ha fatto sentire la sua voce ovunque, quanto piuttosto del giovane Cassius Clay, del ragazzo che sceglie la boxe per cercare di cambiare la sua vita, perché?
«Perché il mito di Alì, la sua leggenda dorata, è già stata raccontata, è già nota a tutti noi. Mentre invece il modo in cui tutto è cominciato per il giovane Cassius Clay è praticamente ignoto ai più. Diciamo che sono partito alla scoperta di “Ali prima di Ali” proprio per cercare di decifrare l’origine di quello chi si trasformerà poi in una sorta di icona pop, cogliere le sue contraddizioni, la sua fragilità così ben mascherata da un fisico possente. Volevo comprendere e cercare di raccontare il modo in cui il suo giovane corpo si è definito, plasmato, fino a diventare a un tempo la fortezza e la prigione di quest’uomo.
Nel libro, Cassius Clay, ancora ragazzo, decide di diventare un pugile dopo che un suo coetaneo di 13 anni, Emmett Till, un giovane nero di Chicago in vacanza nel Mississippi viene linciato dai razzisti, che ne sfigurano anche il volto, perché aveva osato guardare una donna bianca, era il 1955. Questa drammatica vicenda fu davvero decisiva?
«Senza dubbio, è quello che lui stesso ha raccontato più volte in seguito. Nello scrivere la sua storia ricordo come fu suo padre, in uno dei rari momenti in cui non era ubriaco, a raccontare l’accaduto a Cassius e come lui avesse reagito con rabbia e disgusto, identificandosi del tutto con la vittima. Così, gli faccio dire: «Ascolta la mia promessa Emmett: a te che non hai più la faccia, io darò la mia. Andrai nel mondo con i miei occhi e la mia bocca, sotto la protezione dei miei pugni». Credo non si possa capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva visto, e ha continuato a vedere fino ad oggi, intorno a sé.
Alì: libri film e gallerie, mito anche nell'arte. Ispirò premi Oscar e Pulitzer: "Il combattimento" opera storica, scrive "L'Ansa" il 04 giugno 2016. La farfalla non vola più, l'ape non punge. Ma a testimonianza di cos'è stato Cassius Clay/Muhammad Ali, il campione della gente, rimarrà la quantità innumerevole di libri, documentari e anche film che lo hanno celebrato come eroe dei tempi moderni. Una mole di 'documenti' che è stata riservata a pochi grandi personaggi del Ventesimo secolo. Ali è stato scrittore di se stesso, con l'autobiografia "Con l'anima di una farfalla" scritta assieme ad Hana Yasmeen Ali, una delle sue figlie. Il libro più celebre su di lui rimane invece, probabilmente, "Il Combattimento", che il premio Pulitzer Norman Mailer scrisse sul mitico match che oppose Ali e George Foreman a Kinshasa. Lo stesso evento venne immortalato nel memorabile film-documentario "Quando eravamo Re" che vinse un meritato Oscar. Un altro libro che ha decantato il mito dell'ex campione del mondo e' stato "Il Re del Mondo" dell'altro premio Pulitzer David Remnick, emozionante testimonianza della vita e delle idee del Più Grande. Altra perla è sicuramente "Facing Ali", "Affrontare Ali", per scrivere il quale l'autore Stephen Brunt, altro documentatissimo cantore del pugile, è andato a intervistare quindici fra coloro che avevano affrontato il Piu' Grande sul ring. Il concetto che ne emerge è che praticamente tutti, da Hunsaker a Cooper, da Chuvalo a Frazier, da Foreman a quel Wepner che ispirò a Stallone la storia di Rocky, diventarono più noti, e la loro vita cambiò drasticamente, per il semplice fatto di essere entrati in contatto "con la forza che era Muhammad Ali". E per questo ancora oggi gli sono grati. Nel lungo elenco di libri su Ali ci sono poi "His life and times" di Thomas Hauser e l'edizione celebrativa "monumentale", uscita per la prima volta nel 2003 e poi ripubblicata, "Greatest of All Time" della casa editrice Taschen. L'edizione "De Luxe", autografata dall'ex campione del mondo, e la cui prima copia è stata donata allo stesso Ali, costava 3.000 euro. Questo libro, anche nella sua versione meno costosa, ma comunque di notevoli dimensioni, è stato definito un capolavoro assoluto nel campo dei libri fotografici. In copertina c'è la celebre foto del Ko inflitto da Clay a Sonny Liston. Sul sito ufficiale di Ali veniva invece venduto "The Official Treasures of Muhammad Ali", altra chicca da non perdere che conteneva riproduzioni identiche agli originali di contratti firmati dall'ex fuoriclasse, biglietti e volantini dei suoi incontri. Fece epoca anche il fumetto della DC Comics, quelli di molti Supereroi, "Superman vs. Muhammad Ali" in cui i due si affrontavano per salvare il mondo dagli Alieni. Ebbe un successo planetario vendendo milioni di copie e per via delle richieste è stato ristampato anche pochi anni fa, in Italia dalla De Agostini. Una curiosità: nel celebre disegno della copertina, con i due superuomini sul ring, fra il pubblico viene raffigurato anche Pelè. Pure in Italia Clay/Ali ha avuto molti cantori, primo fra tutti l'amico Gianni Minà. Sul grande schermo va invece ricordato il film "Ali" in cui la parte del Più Grande" è stata interpretata da Will Smith, che poi ha più volte ricordato di quanto si sia sentito orgoglioso per essere stato scelto per un ruolo del genere.
Mohammed Alì, un mito ma non "il più grande", scrive Roberto Marchesini il 05-06-2016 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. A causa delle conseguenze del morbo di Parkinson, malattia che lo affliggeva dagli anni Ottanta, è morto a settantaquattro anni Mohammed Alì (nato Cassius Marcellus Clay Junior), il pugile autoproclamatosi «il più grande». Se i media hanno accettato di incoronare Alì con questo titolo (the greatest), qualche perplessità resta a chi di pugilato se ne intende. Fisicamente molto dotato (alto, agilissimo, con braccia esageratamente lunghe), l'unico pugno che ci abbia mai fatto vedere in tutta la sua carriera è, sostanzialmente, il jab, con il quale martellava gli avversari per tutta la durata dell'incontro tenendoli a distanza. Quando l'avversario si avvicinava, lo abbracciava impedendogli di boxare e costringendo l'arbitro a fermare l'azione. Ogni tanto, quando l'avversario era poco lucido (per la rabbia di non aver potuto boxare), esausto per i continui attacchi fermati dall'arbitro e con il volto massacrato, si esibiva in una serie di «sventole», schiaffoni dati con l'interno del guantone – proibiti dal regolamento – che solo un profano può scambiare per dei ganci (per un approfondimento sulla boxe di Mohammed Alì e sul suo significato clicca qui). E qui la faccenda si fa interessante. Come mai Alì è stato così protetto e vezzeggiato dai media, dal mainstream e dagli arbitri? Com'è possibile che un nero, nell'America dei conflitti razziali, che si era per di più rifiutato di partecipare alla guerra del Vietnam, sia divenuto quella icona che abbiamo conosciuto? Tutti, probabilmente, abbiamo visto il documentario Quando eravamo re, che racconta lo straordinario incontro tra Muhammed Alì e George Foreman tenutosi nel 1974 in Zaire. In questo documentario compare una intervista al giornalista e scrittore Norman Mailer. In realtà Mailer è più di una comparsa: egli è l'autore del libro The fight, che ha dato il tono epico all'incontro ed è stato sostanzialmente la sceneggiatura del documentario. Si potrebbe addirittura affermare che Norman Mailer sia l'uomo che ha costruito il mito Muhammad Alì. E chi sarebbe questo Mailer? Fu forse uno dei più importanti spin doctor americani, responsabile di molti stati d'animo degli Stati Uniti dell'epoca. Crebbe all'interno della comunità ebraica di Brooklyn, dove rimase fino a quando non divenne il portavoce della beat e della hipster generation, contribuendo ad esempio alla creazione del mito del Greewich Village, la comunità hippy di New York. Nel 1965 scrisse il saggio Il negro bianco, che può essere considerato il punto d'inizio del movimento per i diritti civili delle minoranze nere negli USA. In questo saggio Mailer descrive – non senza una punta di involontario razzismo – il negro come un concentrato di sessualità disordinata e prorompente, emarginazione insolubile, violenza bestiale; e accomuna l'hipster bianco al negro. Da questo momento l'emarginazione del negro americano divenne un punto d'orgoglio, di opposizione all'America tradizionalista e conservatrice. È più o meno nello stesso periodo che a Cassius Clay, vincitore della medaglia d'oro per i pesi mediomassimi alle olimpiadi di Roma nel 1960, viene affiancato l'allenatore (e ghost-writer) nero ma ebreo Drew Bundini Brown. Da quel momento Clay cessa di essere uno sportivo e diventa un simbolo. Nel 1964 divenne campione del mondo battendo Sonny Liston, implicato con la mafia e le scommesse. Il giorno seguente si convertì all'islam, assunse legalmente il nome di Muhammed Alì e aderì alla Nation of Islam di Malcolm X (associazione che si è autodefinita «setta islamica militante»). Fu immediatamente fissata la rivincita con Liston, che Alì mise ko al primo round senza nemmeno averlo colpito (il famoso «pugno fantasma»). Nel 1967 rifiutò l'arruolamento per il Vietnam adducendo motivi religiosi. In seguito a questa presa di posizione fu privato del passaporto e della licenza di pugile professionista ma, sorprendentemente, nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti annullò all'unanimità la condanna. Ottenuta nuovamente la licenza, Alì sfidò il campione Joe Frazier. Nonostante Frazier l'avesse sostenuto anche economicamente durante il periodo di sospensione della licenza, nei giorni precedenti l'incontro Alì lo insultò con epiteti razzisti simili a quelli che aveva riservato a Liston: scimmione, gorilla. Frazier vinse l'incontro. Alla ribalta del pugilato mondiale stava però salendo un giovane atleta dal fisico impressionante, George Foreman. Così venne organizzato l'incontro più mediatico della storia del pugilato, The rumble in the jungle, tra Alì e Foreman, che si tenne a Kinshasa il trenta ottobre 1974. Alì, il ricco e famoso nero razzista, convertitosi all'islam, che piaceva all'establishment WASP (white anglo-saxon protestant) statunitense, fu immediatamente identificato come «il buono», «l'eroe» della battaglia che i media avevano trasformato in epica; il giovane, povero e altrettanto nero Foreman era il cattivo che doveva essere sconfitto. Non solo per il mondo bianco occidentale, ma anche per gli zairesi, tra i quali cominciò a diffondersi l'orripilante slogan «Alì, bomaye»: Alì, uccidilo. Slogan ancora più spaventoso se si pensa che lo stadio di Kinshasa, dove si tenne l'evento, era il posto dove il sanguinario dittatore Mobuto eseguiva le condanne a morte dei suoi oppositori...Comunque sia, Alì vinse un incontro che sembra tratto da un copione hollywoodiano. Quello fu l'apice della sua carriera pugilistica e della sua fama. Da allora combatté ancora diversi incontri dal valore e dall'esito piuttosto controverso, e anche il suo status di simbolo della lotta per l'emancipazione nera cominciò a declinare. I media cominciarono a proporre un nuovo modello di nero americano: non più il giovane attivista, comunista e musulmano, orgoglioso della propria origine e del colore della pelle che lotta per i diritti civili; bensì il pappone. Intorno alla metà degli anni Settanta, infatti, Hollywood cominciò a diffondere una serie di film (il filone fu chiamato Blaxplotation) il cui protagonista era un uomo violento, dedito al crimine, al sesso e alla droga, che si fa mantenere dalle donne: Shaft, Superfly eccetera. Alì cessò così di essere il simbolo dei neri americani, sia per i ricchi liberal bianchi che per i giovani neri (con le conseguenze che conosciamo). Nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Nel 1996 commosse il mondo quando, ultimo tedoforo, accese tremante la fiaccola olimpica alle olimpiadi di Atlanta. Ora Muhammed Alì è morto. Dubito che sul ring sia stato davvero «the greatest». Fuori dal ring, per i media e per coloro che li governano, è sicuramente stato molto importante.
Il vero Alì. Per gentile concessione di Edoardo Perazzi, erede di Oriana Fallaci, il 5 giugno 2016 “Libero Quotidiano” pubblica ampi stralci dell’intervista con Mohammed Alì che la scrittrice fiorentina realizzò per L’Europeo. Il testo uscì il 26 maggio 1966, col titolo “Che aspettano a farmi presidente di uno Stato dell’Africa?”. L’intervista è contenuta nel volume antologico “Le redici dell’odio. La mia verità sull’Islam”, uscito per Rizzoli nel 2015 e appena ristampato in edizione economica.
"Un pagliaccio simpatico, allegro, e innocuo. Chi non ricorda con indulgenza le sue sbruffonate, le sue bugie, i suoi paradossi iniziati alle Olimpiadi di Roma quando mise in ginocchio ben quattro avversari, un belga un russo un australiano un polacco, e la medaglia d' oro non se la toglieva neanche per andare a letto, imparò per questo a dormire senza scomporsi, Dio me l'ha data e guai a chi la tocca. Nei ristoranti, nei night-club, entrava avvolto in una cappa di ermellino, in pugno uno scettro: salutate il re, io sono il re. Per le strade girava guidando un autobus coperto di scritte inneggianti alla bellezza, la sua bravura, o una Cadillac color rosa salmone, i cuscini foderati in leopardo. Sul ring combatteva gridando osservate come mi muovo, che eleganza, che grazia, e se lo fischiavano rideva narrando che il primo pugno lo aveva tirato alla mamma a soli quattro mesi, sicché la poveretta cadde knock out mentre i denti schizzavano via come perle di una collana. Un'altra menzogna, s'intende, dovuta al suo primitivo senso dell'humour; non avrebbe fatto torto a una mosca. Da quell' humour e dalla sua vanagloria fiorivano poesie divertenti: «La mia storia è quella di un uomo / nocche di ferro, di bronzo la pelle / Parla e si gloria d' avere / il pugno possente, ribelle / Son bello, son bello, son bello / il più grande di tutti, io / nel duello». La boxe aveva trovato con lui un nuovo astro, un personaggio quasi degno di Rocky Marciano, Joe Luis, Sugar Robinson. Era il simbolo di un'America fanfarona e felice, volgare e coraggiosa, priva di lustro ma piena di energia. Si chiamava, a quel tempo, Cassius Marcellus Clay. Ora si chiama Mohammed Alì ed è il simbolo di tutto ciò che bisogna rifiutare, spezzare: l'odio, l'arroganza, il fanatismo che non conosce barriere geografiche, né differenza di lingue, né colore della pelle. I Mussulmani neri, Neri, una delle sette più pericolose d' America, Ku-Klux-Klan alla rovescia, assassini di Malcom X, lo hanno catechizzato ipnotizzato piegato. E del pagliaccio innocuo non resta che un vanitoso irritante, un fanatico cupo ed ottuso che predica la segregazione razziale, maltratta i bianchi, pretende che un'area degli Stati Uniti gli sia consegnata in nome di Allah. Magari per diventarne capo: il sogno che quei mascalzoni gli hanno messo in testa approfittando del fatto che non capisce nulla, sa menar pugni e basta. Bisognava vederlo, mi dicono, quando a Chicago partecipò al raduno di cinquemila Mussulmani neri e, il pugno alzato, gli occhietti iniettati di sangue, malediceva Lincoln, Washington, Jefferson, altri bravissimi morti, strillava: «Entro il 1960 tutti i neri d' America saranno con noi, pregate per l'anima e il corpo dei nostri nemici, chi non è con noi è nostro nemico». (...) I Mussulmani neri, che hanno bisogno di un martire nella stessa misura in cui cercano pubblicità, lo istigano continuamente al litigio e sarebbero molto contenti di vederlo in prigione. Dove prima o poi finirà se si ostina a non fare il soldato con la scusa che lui appartiene ad Allah, non agli Stati Uniti. E questa sarebbe la patetica fine di un uomo che l'ignoranza e la facile fama distrussero mentre cercava di diventare un uomo. Ciò che segue è la cronaca bulla ed amara di due giorni trascorsi a Miami nell' ombra di Cassius Clay, alias Mohammed Alì, campione mondiale dei pesi massimi, eroe sbagliato dei nostri tempi sbagliati. Con l'aiuto del magnetofono e del taccuino ve la do così come avvenne. Era la vigilia del suo incontro con l'inglese Henry Cooper. La palestra dove si allena il pugile oggi più famoso del mondo è situata a Miami Beach, non lontano dal mare, sopra un negozio per pulire le scarpe. Il pubblico è ammesso per mezzo dollaro quando lui non c'è, un dollaro quando lui c' è. Lui c'è di solito all' una: seguito da una scorta di Mussulmani neri come un torero dalla sua quadrilla. Prima d' essere rinnegato per le sue idee non sufficientemente estremiste, lo seguiva ogni tanto anche Malcom X che nell' estate del 1963 gli donò il suo bastone d' avorio nero. (…)
Non le dispiacque, Mohammed, di cambiar il suo nome?
«Al contrario era duro avere il nome che avevo perché il nome che avevo era il nome di uno schiavo Cassius Marcellus Clay era un bianco che dava il suo nome ai suoi schiavi ora invece ho il nome di Dio. Mohammed Alì è un bel nome Mohammed Alì che bel nome Mohammed vuol dire Degno di Tutte le Lusinghe Alì vuol dire Il più Alto è il minimo che merito e poi gli uomini dovrebbero chiamarsi così mica signor Volpe signor Pesce signor Nonsocché gli uomini dovrebbero avere il nome di Allah. Sicché io mi arrabbio quando la gente mi ferma e mi dice signor Clay posso avere il suo autografo signor Clay io rispondo non Clay, Mohammed Alì. [...]».
Ma se è tanto cambiato, Mohammed, perché continua ad insultare i suoi avversari e ad odiarli?
«Io non li odio come esseri umani li odio come individui perché tentano di farmi del male tentano di mettermi knock out tentano di rubarmi il titolo di campione dell'intero mondo, io sono campione dell'intero mondo e non sta a loro pugili levarmi il titolo di campione dell'intero mondo a me che ho sempre tirato pugni capito? [...] E poi li odio perché hanno i nervi di salire sul ring sapendo che sono bravo come sono, grande come sono questo mi fa imbestialire così li insulto. E poi li insulto perché così perdon la testa e quando un uomo perde la testa diventa più debole e casca giù prima come accadde con Liston al quale Liston dicevo che è brutto, brutto come un orso, bè non lo è? E poi gli dico vigliacco coniglio crepi di paura fai bene ad avere paura perché da questo ring tu esci morto, hai voluto sfidarmi vigliacco vedrai cosa ti tocca. Loro non lo sopportano e vinco [...]
Ma non le prende mai il dubbio che un giorno qualcuno le possa suonare a lei?
«Io non ho dubbi perché non ho paura e non ho paura perché Allah è con me e finché Allah è con me io rimango il campione dell'intero mondo, solo Allah può mettermi knock out ma non lo farà. Io non ho dubbi perché l'uomo che batterà Mohammed Alì non è ancora nato [...]. Io durerò ancora per quindici anni e poi a quarant' anni mi ritirerò nella campagna perché ho trecento acri di terra vicino a Chicago e ho anche comprato due trattori e con quelli ci coltivo i cavoli e i pomodori e le galline [...] E con quel cibo diventerò molto ricco e comprerò un aereo da seicentomila dollari e poi voglio una limousine in ogni città d' America per ricevermi all'aeroporto e poi voglio uno yacht da duecentomila dollari ancorato a Miami e poi voglio una di quelle case che ho visto sulle colline di Los Angeles a centocinquantamila dollari perché il paradiso io non voglio in cielo da vecchio io lo voglio sulla terra da giovane. [...]
Mohammed, ha mai letto un libro?
«Che libro?»
Un libro.
«Io non leggo libri non ho mai letto libri io non leggo nemmeno i giornali ammenoché i giornali non parlino di me io ho studiato pochissimo perché studiare non mi piaceva non mi piace per niente si dura troppa fatica e non è affatto vero che io volevo diventare dottore ingegnere. Gli ingegneri i dottori devono lavorare ogni giorno ogni notte tutta la vita con la boxe invece uno lavora per modo di dire in quanto si diverte e poi con un pugno si fa un milione di dollari all' anno. [...] Come quando mi chiamarono alle armi e mi fecero l'esame della cultura mi dissero se un uomo ha sette vacche e ogni vacca dà cinque galloni di latte e tre quarti del latte va perduto quanto latte rimane? Io che ne so. [...] E così dicono che sono inabile ma d' un tratto scoprono che non sono inabile affatto per morire nel Vietnam sono abilissimo eccome ma io questo Vietnam non so nemmeno dov' è io so soltanto che ci sono questi vietcong e a me questi vietcong non hanno fatto nulla sicché io non voglio andare a combattere coi fucili che sparano io non appartengo agli Stati Uniti io appartengo ad Allah che prepara per me grandi cose».
Quali, Mohammed?
«[...] Magari divento il capo di un territorio indipendente oppure il capo di qualche Stato in Africa magari di quelli che hanno bisogno di un leader e così pensano abbiamo bisogno di un leader perché non prendiamo Mohammed che è bravo e forte e coraggioso e bello e religioso e mi chiamano perché sia il loro capo. Perché io non so che farmene dell'America degli americani di voi bianchi io sono mussulmano...».
Mohammed, chi le dice queste cose?
«Queste cose me le dice l'onorevole Elijah Mohammed messaggero di Allah ma ora basta perché voglio andare a dormire io vado presto a dormire perché la mattina mi alzo alle quattro per camminare».
N.B. Elijah Mohammed è il capo dei Mussulmani neri. Lo divenne dopo l'assassinio di Malcom X. Abita a Chicago, in una villa di diciotto stanze, viene dalla Georgia. Ha studiato fino alla quarta elementare ed è stato in carcere più volte, per crimini e infrazioni diverse. Suo figlio è il vero manager del Campione e si fa pagare dal Campione, per questo, non so quante centinaia di dollari la settimana. (...)
Le è dispiaciuto, Mohammed, divorziar dalla moglie?
«Nemmeno un poco è stato come voltare la pagina di un libro le donne non devono andare in giro mostrando le parti nude del corpo come i selvaggi come le vacche come i cani come fa lei è un vero scandalo. Un uomo deve avere una moglie che gliela guardano con ammirazione rispetto lo dice anche Elijah Mohammed apri la TV e cosa vedi, vedi le donne nude che cantano che reclamizzano le sigarette vai nei negozi e che vedi, vedi le donne nude che comprano le cose non è decente le donne hanno perso tutta la morale non è decente non è decente non è decente».
Mohammed, perché non mi guarda negli occhi? È arrabbiato?
«Non sono arrabbiato nella mia religione ci insegnano a non guardare le donne noi le donne le avviciniamo in modo civile parlando prima coi genitori per chiedergli se ci danno il permesso di guardar la ragazza come in Arabia come nel Pakistan come nei paesi dove si crede al Dio giusto che si chiama Allah non si chiama Geova o Gesù. E poi non mi piace questo mischiarsi coi bianchi lei cosa ci fa qui con me cosa vuole da me come prima cosa è una donna come seconda cosa è una bianca io se fossi in Alabama voterei per il governatore Wallace che non mischia i bianchi coi neri, io non voto per quelli che dicono oh io voglio bene ai neri io non voto pei neri come Sammy Davis che si sposan la bionda, cobra, serpenti, la gente dovrebbe sposare la gente della sua razza. Lo dice anche Elijah Mohammed i cani stanno coi cani i pesci stanno coi pesci gli insetti con gli insetti i bianchi coi bianchi è la natura è la legge di Dio è scritto perfin nella Bibbia che a voi piace tanto e questa integrazione cos' è? [...] Io non sono americano io non mi sento americano io non voglio essere americano io sono asiatico nero come la mia gente che voi bianchi avete portato qui come schiavi e si chiamavano Rakman e Assad e Sherif e Shabad e Ahbad e Mohammed e non John e George e Chip e pregavano Allah che è un dio molto più antico del vostro Geova o del vostro Gesù e parlavano arabo che è una lingua assai più vecchia del vostro inglese che ha solo quattrocento anni, ed ora queste cose le so per via di Elijah Mohammed che amo più della mia mamma».
Più della mamma, Mohammed?
«Certo sicuro più della mamma perché la mia mamma è cristiana Elijah Mohammed mussulmano e per lui potrei anche morire per la mia mamma no che a voi bianchi piaccia o non piaccia».
N.B. Eppure v' è qualcosa su cui meditare in questo ignaro al quale fanno credere che la lingua inglese abbia solo quattrocento anni, che Maometto sia nato prima di Cristo, che Elijah Mohammed vada amato più della mamma colpevole d' esser cristiana. V' è qualcosa di commovente, di dignitoso, di nobile in questo ragazzo che vuole sapere chi è, chi fu, da dove venne, e perché, e quali furono le sue radici tagliate. Nel suo fanatismo v' è come una purezza, nella sua passione v' è qualcosa di buono. Vorrei essergli amica. (...) Scrivo questi appunti sull' aereo che mi riporta a New York dove spero di sfuggire ai Mussulmani neri che sono arrabbiati con me. E quando i Mussulmani neri sono arrabbiati con te l'unica cosa è darsela a gambe al più presto e più lontano che puoi. Perbacco che corsa. [...]
Alì, ne hanno fatto un santino...ma era un «bastardo islamico», scrive “Piero Sansonetti” su “Il Dubbio” il 6 giugno 2016. È morto Alì, il più grande pugile di tutti e tempi. Il mondo intero in questi giorni lo sta celebrando, con frasi bellissime e tanta ammirazione. «Era un genio, era un uomo buono». Gli intellettuali in prima linea. I grandi giornali. Non è vero: non era buono. Per usare una espressione che recentemente ha fatto fortuna nel dibattito politico italiano, Alì era un «Bastardo islamico», era un picchiatore selvaggio che infieriva su tutti e soprattutto sul suo paese. Era un nemico dell’America. E l’America lo trattò da nemico. Lo condannò a cinque anni di prigione, lo mandò in esilio, gli tolse il titolo mondiale dei massimi. Muhammad Alì, lo sapete tutti, si chiamava Cassius Clay, e ripudiò il suo nome il 6 marzo del 1964, a 22 anni, un paio di settimane dopo aver spedito al tappeto Sonny Liston, un toro nero di dieci anni più grande, che sembrava invincibile, eterno. Decise di chiamarsi Muhammad Alì e divenne un sostenitore di Malcolm X, rivoluzionario separatista afroamericano, che predicava la religione musulmana, non voleva l’integrazione e chiamava i neri alla lotta violenta. Alì quel giorno, sfoderando il suo ghigno - dolce, certo, ma ferocissimo - disse ai giornalisti: «Sono un guerriero della causa musulmana». Beh, pensate un po’ se oggi un campione sportivo dichiarasse qualcosa del genere, come lo tratterebbero i giornali e i capi della politica! Allora non fu molto diverso. Né lì in America né in Italia. Il ‘68 doveva ancora venire e anche il movimento pacifista americano era agli albori. Alì fu un precursore del movimento pacifista. Era un pacifista violento. I giornali non lo avevano per niente in simpatia. Non potevano ignoralo, certo, perché al mondo non era ancora apparso, né apparirà, un pugile bravo come lui. Combatteva senza mai alzare la guardia, si difendeva schivando, danzava con una grazia incredibile, era uno spettacolo vederlo sul ring, e poi, a un certo momento, vibrava un colpo micidiale e mandava giù l’avversario. Era rarissimo che Alì prendesse lui un colpo, nei primi anni della sua carriera, fin quando, a 25 anni appena, fu costretto a interromperla per via del suo rifiuto di andare a sparare ai vietcong. I giornali ne parlavano, ma continuavano a chiamarlo Cassius Clay. Un po’ perché il nome era più semplice - e più breve nei titoli - un po’ perché erano razzisti. Allora il razzismo contro i neri era davvero molto diffuso. Specie in America, naturalmente. Un po’ come è oggi il razzismo, qui da noi, contro gli immigrati. Era senso comune tra i bianchi e nell’establishment. Alì, che era un ragazzetto che veniva dal Kentucky, da Louisville, trasformò la sua incredibile abilità di boxer in strumento politico. E iniziò una battaglia furibonda, un corpo a corpo contro il razzismo. Parliamo dei primi anni ‘60, quando in Alabama un governatore democratico si rifiutava di far entrare nell’università gli studenti neri. E quando un giovane ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti, che si chiamava Colin Powell (ed era destinato dopo qualche anno a diventare il capo delle forze armate) si sentì dire, entrando in un bar: «Non serviamo i negri, ragazzo. Se vuole può accomodarsi alla porta di servizio». E’ in quel clima lì che Alì si unisce a Malcolm X, capo della “Nazione Islamica”, e fonde boxe e politica. Non parte per il Vietnam, come sapete, spiegando che a lui «i vietcong non lo hanno mai chiamato nigger». E paga, paga cara questa sua impuntatura. Milioni e milioni di dollari al vento. E poi la condanna a 5 anni di prigione. E l’esilio. E il titolo perduto. E la più fantastica carriera che mai un pugile abbia avuto, bloccata a 25 anni, quando era ancora un ragazzino. Capite che vuol dire? Voi credete che c’è molta gente disposta a rischiare tutto - patrimonio, fama, successo, agiatezza - per un’idea pacifista? Così fece Alì, che tutti chiamavano Clay. E così costruì la sua fama, creando provocazioni, sfidando i bianchi, e sfidando l’America, perché l’America era guerra, era potere bianco, era conformismo, ipocrisia. Oggi lo commemorano, con tanta retorica, molti di quelli che lui odiava. Se la prendeva anche coi neri, spesso, se erano integrati. Li chiamava zio Tom. Si riferiva al personaggio del celebre romanzo della scrittrice antischiavista Harriet Stowe, il quale era un negro che amava il suo padrone, e si sottometteva. Alì ballava sul ring, sempre con le braccia basse, lungo i fianchi, e gridava all’avversario: «coraggio, zio Tom, vieni avanti!». E quello allora avanzava e provava a colpirlo, ma Alì, con un balzo, non c’era più. Spuntava da un altro angolo del ring e di nuovo ringhiava e rideva: «Avanti, zio Tom, vieni... vieni qui che ti uccido». La Capanna dello zio Tom era un romanzo ambientato in Kentucky. Giusto nella terra di Alì. Cioè nello Stato dove nacquero le leggi del Jim Crow. Le conoscete queste leggi? Erano un pacchetto di norme che - dopo la liberazione degli schiavi e la fine della guerra civile - erano riuscite, in una grande svolta reazionaria, a ristabilire la discriminazione razziale, al Sud, e la sottomissione dei neri. Si chiamavano così per via di uno spettacolino, molto famoso, proprio a Louisville, dove un certo Jim Crow era il ridicolo personaggio, sgrammaticato e da tutti umiliato, che rappresentava la figura del nero-standard. Ne ha parlato anche Bob Dylan di quelle leggi, in una canzone molto nota del 1965, dedicata ad Emmet Till, un ragazzino di 14 anni ucciso a frustate e poi annegato dai razzisti, in Mississippi: «La giuria ha detto che sono innocenti/ che se ne posso andare/ Mentre il corpo di Emmett fluttua nella schiuma orrenda/ del Jim Crow, giù, giù fino al mare...». A proposito di frustate, ne aveva prese tante anche Sonny Liston, il toro, e cioè il primo grande avversario di Clay - perché si chiamava ancora così - che lo affrontò nel ‘64 e lo rese grande. Clay vinse alla settima ripresa e fece impazzire le scommesse, perché tutti erano convinti che avrebbe vinto Liston. Ne aveva prese tante di frustate, Sonny, quando era un bambino e faceva il raccoglitore di cotone in Missouri. Lo pagavano qualche cents al giorno e se lavorava male il padrone lo frustava, perché si usava ancora così, perché lo schiavismo in alcuni stati del Sud è durato almeno fino agli anni sessanta, o forse anche settanta. Il razzismo se ne è infischiato di Roosevelt e di Kennedy. Quando gli hanno fatto l’autopsia, a Sonny, hanno trovato i segni, indelebili, sulla schiena. Alì disse delle parole di vera ammirazione verso Liston, quando Liston morì. Era così forte, Liston, che da ragazzetto faceva le rapine senza armi: a cazzotti. Lo presero subito e si fece tre anni di galera. Poi uscì e salì sul ring. Vinse tutti gli incontri. Capite che vuol dire tutti? Tutti. Finché non incontrò Clay, e allora perse. Poi lo incontrò di nuovo l’anno dopo, quando già si chiamava Alì, e finì al tappeto alla prima ripresa. Dicono che il pungo di Alì lo avesse appena sfiorato. E che lui si sia buttato giù per fare i soldi con le scommesse. Non credo che sia così. Alì era proprio forte, e quel pugno, che pure non era dinamite, prese Sonny alla tempia e lo tramortì. Poi li conoscete tutti i grandi incontri affrontati dopo l’interruzione di cinque anni. Nel ‘71, in appello, vinse il processo sull’obiezione di coscienza e potè tornare negli Stati Uniti e riprendersi la licenza da boxer. Non era più allenato, e neanche più giovanissimo. Ma era sempre lui, Alì. Tornò a combattere, subito: fu un errore. Sfidò Joe Frazier che si era preso il suo titolo quando lui era all’estero. Alì diceva che era l’usurpato. Però fu sconfitto, per la prima volta nella sua vita, ai punti, dopo 15 riprese da incubo. Si riprese il titolo tre anni dopo, nel ‘74, nella famosa battaglia di Kinshasa contro Foreman che aveva battuto Frazier ed era diventato lui campione dei pesi massimi. Fu grandioso quella volta, Alì. Nessuno scommetteva un dollaro sulla sua vittoria. Lui invece era certo. Foreman lo pestò. Alì tirò un solo pugno vero. Uno solo. Ma così forte che stese Foreman e vinse la partita. Quante frasi feroci, in quei giorni. Contro i bianchi, contro i neri traditori, contro l’America. E la gente, lì in Africa, che gridava impazzita per lui: «Alì, boma ye», cioè Alì, uccidilo. Durante tutto l’incontro gridava: «Uccidilo, uccidilo». E lui riprendeva il grido, gridava pure lui, appena Foreman gli lasciava qualche secondo di respiro: «boma ye, boma ye». Che ipocrisia i santini che scrivono ora i giornali. Era proprio un «bastardo islamico», altroché. Era un gigante del pugno e un gigante della politica, e della lotta dei neri, e dei diritti dei musulmani. Era un moderato, Alì? Ma non dite sciocchezze: era un radicale, era con Malcolm X e con le pantere nere, con Stokley Carmichel, con Huey Newton e con Bobby Seale. Non era del gruppo gandhiano di Luther King. L’orazione funebre la terrà Bill Clinton. E’ giusto così? Bill Clinton nel 1968 aveva 22 anni, studiava legge. Anche a lui arrivò la cartolina e doveva partire per il Vietnam. Una volta ha raccontato di avere passato la notte, insieme a un suo amico, che si chiamava Haller, per decidere che fare. Partire o disobbedire? Alla fine Haller decise di bruciare la cartolina e scappare in Canada. Clinton invece chiamò il suo amico William Fulbright, icona della politica americana, senatore dell’Arkansas e padre putativo, politicamente, di Bill. Chiese il suo aiuto. Fulbright riuscì a farlo riformare. Il giovane Haller visse un pessimo esilio. Per tre anni. Poi si suicidò. Clinton lo seppe mentre stava facendo campagna elettorale per George McGovern, sfidante di Nixon. Per un mese, per via del rimorso, dovette interrompere il suo impegno politico. Clinton ha sempre detto che Haller era un politico molto migliore di lui. E allora, è giusto che parli Clinton ai funerali di Alì? Si forse è giusto. Toni Morrison, che è una delle più importanti scrittrici afroamericane, qualche anno fa – durante il caso Lewinsky, quando Obama ancora non era all’orizzonte – scrisse che Clinton è stato il primo presidente nero degli Stati Uniti. Nero? Perché nero? Perché dice bugie - rispose la Morrison - suona la tromba, mangia gli hamburger con le patatine fritte e il ketchup, è appassionato, onesto e imbroglione. Come noi negri...
L’ITALIA RAZZISTA.
Clandestini e islam, la Rai diventa Teleboldrini: paghi per vedere queste robe, scrive di Enrico Paoli il 13 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Paolo Messa, consigliere di amministrazione della Rai, in una recente intervista a Libero chiedeva esplicitamente alla tv pubblica di aprirsi al mondo dedicando a turisti e residenti stranieri almeno un notiziario, se non addirittura un programma, in lingua inglese. Dalle buone intenzioni ai fatti c’è stato il solito silenzio. In tutte le lingue del mondo. Ma se la sollecitazione arriva dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, cambia tutto. Soprattutto se il tema sono l’integrazione e l’Islam. Con una solerzia quanto meno sospetta l’amministratore delegato, Antonio Campo Dall’Orto, accompagnato dalla presidente del consiglio di amministrazione del board di viale Mazzini, Monica Maggioni, ha squadernato una serie di appuntamenti da far invidia alle migliori tv arabe. Le quali, per contrasto, ironizzano su ciò che noi prendiamo maledettamente sul serio. Sul canale Saudita Mbc, per esempio, va in onda una serie tv di humour nero: si intitola «Selfie» e gioca a ironizzare sulle abitudini religiose dei Sauditi. Imam e sapientoni religiosi vengono presi in giro senza difficoltà. Così, tanto per scherzare. Noi, invece, facciamo i seriosi. Citando Pasolini e Calvino il dg Campo Dall’Orto, intervenendo in commissione Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio istituita dalla Camera con il compito di condurre attività di studio e ricerca su tali temi, ha sottolineato la necessità di sconfiggere l’ignoranza. Nel documento che il numero uno di viale Mazzini ha consegnato alla commissione presieduta dalla Boldrini è tracciato il primo percorso della programmazione Rai su questi temi. Rai Uno si concentrerà sul contrasto delle intolleranze, da quella razziale a quella religiosa e sessuale, con finestre nei programmi più importanti. La fiction, però, sarà il punto di forza. A settembre va in onda «Lampedusa», miniserie che racconta la quotidianità degli uomini e delle donne che operano in prima linea, laddove i volontari prestano i primi soccorsi ai clandestini sbarcati dai gommoni degli scafisti. Poi «Chiedilo al mare», miniserie interpretata da Giuseppe Fiorello che affronta il contrastato tema degli sbarchi illegali attraverso la drammatizzazione di un evento che può essere considerato la più grave sciagura navale del Mediterraneo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Su Rai3 c’è «Radici «che racconterà l’altra faccia dell’immigrazione, quella degli immigrati regolari. Da segnalare «Fuocoammare» che andrà in onda in prima serata il 3 ottobre (anniversario dell’affondamento al largo di Lampedusa di un barcone con a bordo centinaia di migranti). A seguire la serie «Islam», in onda dal 13 novembre, dedicata al mondo islamico e dove attraverso la chiave narrativa del reportage sul campo si racconterà la vita di donne e uomini musulmani, imam, madri di jihadisti, portavoci delle comunità immigrate e volontari dell’accoglienza. Il punto di forza sarà il nuovo programma di Gad Lerner Islam-Italia. E ancora «Io ci sono», in onda per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne a novembre e tratto dal libro autobiografico di Lucia Annibali. Dalla violenza sulle donne all’affido famigliare, dalla donazione degli organi all’emergenza lavoro e all’omofobia. Un bouquet di 16 programmi in cui nessuna declinazione del politicamente corretto non troverà spazio. Buona visione.
E poi c’è l’esempio dell’ipocrisia a sinistra.
Il pupillo di Beppe Sala? Vuole "bruciare i terroni" e insulta le "scimmie", scrive di Marianna Baroli il 14 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Insulti razzisti, omofobi e chi più ne ha più ne metta. Non ha risparmiato nessuno Daniele Mascolo, il fotografo di Expo 2015 pupillo di Giuseppe Sala e sua ombra durante le lunghe giornate all’interno dell’Esposizione Universale e, poi, della campagna elettorale. Il trentatreenne era una delle punte di diamante del team di Sala, affiancato in Expo dove in quattro anni ha incassato circa 131mila euro. Mascolo era poi diventato il fotografo ufficiale del candidato Pd durante la sua campagna elettorale. Il sindaco, si vocifera da Palazzo Marino, stava pensando a lui come fotografo ufficiale del Comune. Ipotesi tramontata dopo le polemiche di ieri (Sala si avvarrà di due fotografi interni già presenti a Palazzo Marino). Dalla bacheca di Facebook di Daniele Mascolo emerge una fotografia del giovane che delinea un ragazzo non certo affine alla sinistra. Nel 2011, si legge chiaramente sulla sua bacheca: «Avanti Lega, indietro i clandestini». O ancora: «Cacciare gli extracomunitari a calci nel culo! Senza se e senza ma». E che dire dell’ex sindaco Giuliano Pisapia con cui Mascolo si è ritrovato più e più volte a contatto durante la campagna elettorale di Beppe Sala? La vittoria arancione, nel 2011, veniva salutata da Mascolo con un pesante «il vento che cambia puzza sempre più di merda». Nessuna pietà nemmeno per i «froci» e i «finocchi» con cui Mascolo fino a qualche settimana fa sfilava durante il gay pride, o le «scimmie» e i «terroni» che, secondo il giovane fotografo «dovevano essere lavati con il fuoco del Vesuvio». Ora, cliccando sul profilo di Daniele Mascolo sul social network, la pagina che compare riporta un messaggio unico: «Scusateci, il contenuto che cercate non è disponibile». La pagina è stata disattivata ma, per Mascolo, ormai è troppo tardi tanto che, i compagni del Pd, hanno già iniziato a prendere le distanze dal fotografo. Rosaria Iardino, ex consigliera Pd, ha chiesto pubblicamente su Twitter che Sala prenda «le distanze» da Mascolo e «manda a casa questo cretino». «Certe cose - per Iardino - non si dicono nè per gioco o goliardia». Duro anche Daniele Nahum del Pd. «Sono convinto che Sala non sapesse nulla delle dichiarazioni di questo tizio» commenta Nahum «ora che ne siamo venuti tutti a conoscenza, nessuno si azzardi di dargli un incarico comunale. Perché se scrivi quelle cose te ne assumi le responsabilità. Anche se fai il fotografo». A non risparmiarsi anche Riccardo De Corato di Fratelli d’Italia che chiede che «Sala dica qual è la sua posizione in proposito». «Ci manca che adesso i milanesi paghino anche uno stipendio a questo ragazzo» ha dichiarato De Corato «o Sala prende collaboratori seguendo non si sa quale meritocrazia e ignorando tutto delle persone che paga o non ha ritenuto gravi i comportamenti di Mascolo».
Sapete perché esiste la Kyenge? La spietata verità sull'ex ministro, scrive di Marco Gorra il 14 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Tra gli effetti collaterali meno gradevoli della - già brutta di per sé - storia dell’immigrato ucciso a Fermo va annoverato il ritorno in grande stile dell’ex ministro Cécile Kyenge. La quale Kyenge da qualche giorno si è ripresa il proscenio politico come nemmeno ai tempi del governo. Dichiarazioni appariscenti («Emanuel è morto per l’odio alimentato da politici»), polemiche coi media (per l’esattezza contro questo giornale, reo di avere messo in dubbio la vulgata dell’Italia patria del razzismo), passerelle in favore di telecamera (in prima fila al funerale della vittima con tanto di lettera per la vedova consegnata prima alle agenzie che alla destinataria), iniziative ad effetto («Mi costituirò parte civile nel processo perché è una questione di dignità della persona»). Un fuoco di fila impressionante. Perfettamente prevedibile e perfettamente in linea col personaggio. Che è venuto ad esistenza in quanto incarnazione dell’idea stessa di antirazzismo militante e che continua a tenere ammirevole fede alla propria ragione sociale. Perché se alla vicenda politica della Kyenge va trovato un filo conduttore, ebbene non è possibile non trovarlo nel suo essere quanto di più vicino si possa trovare quaggiù alla figura che gli anglosassoni indicano col termine token black. Di difficile traduzione letterale (si potrebbe azzardare una cosa del tipo “nero simbolico”), l’espressione sta ad indicare quel personaggio di colore (o appartenente ad altra minoranza) che viene incluso in qualcosa - che sia il cast di un telefilm o un governo cambia poco - unicamente in nome del proprio essere minoranza. Il tutto, si capisce, a maggior gloria dell’inclusione e soprattutto dell’allontamento da sé di ogni possibile accusa di discriminazione e di razzismo. E la carriera della Kyenge è un vero e proprio inno al tokenism. Nata in Congo, arriva in Italia con un visto da studente e qui si laurea in Medicina. Parallelamente agli studi, intraprende la via della militanza politica attivandosi nel campo immigrazione e problemi connessi (e dove sennò). La scalata della dottoressa Kyenge inizia a metà anni Zero: eletta in circoscrizione a Modena coi Ds, eletta in consiglio provinciale col Pd, cooptata dal partito onde diventare responsabile regionale delle politiche dell’immigrazione (e di cosa sennò). Con le Politiche del 2013 arriva il grande salto: eletta alla Camera. Nemmeno il tempo di insediarsi e già produce la prima proposta di legge per introdurre nel nostro ordinamento la concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati (e a chi sennò). Naufragato Bersani, a formare il governo deve pensarci Enrico Letta. Il quale, vistosi scoperto alla voce rinnovamento e società civile, decide di cooptarla nell’esecutivo, affidandole la delega all’Integrazione (e a cosa sennò) e consentendole di infrangere il tabù del primo ministro nero nella storia repubblicana (e quale sennò). Complici la effimera durata del governo Letta e la natura non esattamente incisiva del dicastero affidatole, quanto a politica spicciola della signora non restano grandi tracce. Poco male, però. Quello che è deficitario in termini amministrativi, però, viene compensato da quello che eccede sul piano mediatico. Dove la nostra è naturalmente diventata figura di primissimo piano e dove si consuma il meglio della sua parabola pubblica. Merito suo, certamente, ma anche dell’entusiastico contributo che arriva dall’opposizione. Segnatamente, dalla Lega Nord. Agli occhi del cui personale la Kyenge rappresenta l’Arcinemico e come tale viene affrontata. Testa d’ariete dell’offensiva padana risulta il vulcanico senatore Roberto Calderoli, che con la signora ingaggia un duello destinato ad entrare nella leggenda. Comincia in tono minore: qualche insulto (memorabile l’«orango» che lui ad un certo punto le scaglierà contro), qualche baruffa, qualche minaccia di carte bollate. Poi, all’improvviso, irrompe il soprannaturale: «Il padre della Kyenge mi ha fatto una macumba», comunica un giorno Calderoli. Il pubblico viene così a conoscenza di Kyenge senior, che di nome fa Clement Kikoko, ha quattro mogli e trentotto figli e - soprattutto - vanta rapporti privilegiati con gli spiriti degli avi incaricati di rendere giustizia alla figlia vilipesa dall’incauto collega. E che efficacia: «Sei volte in sala operatoria, due rianimazione, una in terapia intensiva, è morta mia mamma e nell’ultimo incidente mi sono rotto due vertebre e due dita. E adesso un serpente di due metri in cucina», elenca minuziosamente il senatore. Da cui il «messaggio distensivo» inviato a Kyenge senior unitamente alla richiesta di «revoca del rituale». Il lieto fine è fortunatamente dietro l’angolo: poco tempo dopo, sarà lo stesso Clement Kikoko a dare notizia della avvenuta contromacumba. Che placa sì gli spiriti ma presenta un inatteso effetto collaterale: in forza del nuovo rituale, fanno sapere infatti dal Congo, Calderoli e la Kyenge sono diventati ufficialmente fratelli. Nel frattempo, però, intorno alla signora si è aperto un altro caso: quello del marito Domenico Grispino. Costui - placido ingegnere sessantenne modenese - ha la ventura di concedere un’intervista a Libero nella quale rivela che il Pd ha fatto firmare alla moglie (e si suppone al resto dei candidati) un impegno a versare al partito 34mila euro in caso di elezione a titolo di rimborso elettorale. «Ma la campagna l’avevo pagata tutta io». Il problema è che il Grispino di lavoro fa il direttore del Consorzio attività produttive, aree e servizi della Provincia di Modena. Consorzio il cui presidente è l’assessore comunale competente (casualmente del Pd) e consorzio dal quale il marito del ministro viene fatto fuori senza troppe cerimonie (e nonostante gli ottimi risultati conseguiti) poco dopo l’uscita dell’intervista di cui sopra. Ma sono gli ultimi fuochi. Il ciclone renziano è già arrivato e Letta ha già iniziato a stare sereno. A defenestrazione avvenuta, Renzi non conferma la Kyenge al governo e la dirotta al Parlamento europeo. Trionfalmente eletta, la ormai ex ministra si trasferisce dunque a Strasburgo dove diventa, tra le altre cose, relatrice del rapporto di iniziativa sulla situazione nel Mediterraneo e la necessità di un approccio olistico al fenomeno migratorio (e su cosa, sennò) e co-presidente dell’Intergruppo “Anti-Racism and Diversity” (e di cosa, sennò). Il resto è storia dei giorni nostri. Un comunicato sulle elezioni in Burkina Faso, una dichiarazione in occasione di qualche tragedia dell’immigrazione, una visita istituzionale da qualche parte in Africa, un tour de force in Italia perché è stato ucciso un immigrato e c’è da lanciare alto e forte l’allarme contro il ritorno del razzismo E contro che cosa, sennò.
Detto ciò è ipocrita che un paese razzista intrinsecamente si scandalizzi di un fatto marginale e monti un evento mediatico ed istituzionale per sugellare ed incentivare l’invasione islamica.
Il governo inventa l'Italia razzista. Le signore snob Boldrini e Boschi dicono che siamo degli sporchi razzisti. Ma che lo sanno loro chi sono gli italiani? Si chiede Alessandro Sallusti, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". Ce la stanno mettendo tutta, ma per quanto ci riguarda non ce la faranno a farci sentire in colpa, a farci sentire responsabili di tragedie private e collettive nei confronti delle quali il Paese Italia e gli italiani non hanno alcuna responsabilità. L'immancabile Boldrini e l'onnipresente ministra Boschi ieri hanno fatto passerella ai funerali di Emmanuel, il profugo nigeriano morto a Fermo aggredito da un balordo violento. Non discuto l'opportunità che lo Stato e il governo testimonino solidarietà dove meglio credono, mi inquieta il tentativo di trasformare un grave fatto di cronaca nera in un fatto politicamente rilevante. Siamo addolorati per Emmanuel, come lo siamo ogni volta che un uomo uccide un suo simile, come ogni volta che una tragedia miete vittime innocenti. Ma, detto con grande serenità, che cosa dobbiamo fare di più noi italiani nei confronti degli immigrati? I nostri marinai ne salvano da morte certa a migliaia ogni mese, i nostri centri di assistenza ne sfamano e curano altrettanti, il nostro governo per occuparsi di loro stanzia un miliardo di euro all'anno, tanti soldi sottratti a bisogni primari di molti cittadini italiani. Nelle nostre città spesso veniamo lasciati soli a gestire il degrado causato da flussi di immigrati eccessivi e fuori controllo. Le nostre carceri sono diventate ancora più invivibili per una criminalità di importazione senza legami con la società civile e, quindi, senza scrupoli e remore morali, purtroppo quasi impossibile da redimere. E non abbiamo neppure colpe politiche perché l'Italia, con i governi Berlusconi, è stata l'unico Paese occidentale ad opporsi ai due errori che hanno provocato queste invasioni e la nascita dell'Isis: la guerra all'Irak di Saddam e quella alla Libia di Gheddafi. Sopportiamo, e paghiamo, tutto questo per sentirci dire dalla Boldrini e dalla Boschi che siamo degli sporchi razzisti? Ma che lo sanno loro chi sono gli italiani? Sono anni che non li frequentano, chiuse nei loro palazzi, ben protette dai disagi e dalle paure che ogni cittadino deve affrontare quotidianamente. Io non ci sto a farmi insultare da queste signore snob. E con umiltà lo dico anche al Santo Padre, Papa Francesco, che ieri, forse non a caso, ha detto che «Dio è nel migrante che vogliamo cacciare». Giusto, direi ovvio: Dio è ovunque, quindi anche negli italiani che non ce la fanno più a convivere con un fenomeno che, a prescindere da colore e razza dei protagonisti, sta rompendo il patto sociale di una civile convivenza. Che Dio faccia Dio, senza priorità, ma Cesare, cioè lo Stato, deve fare Cesare e deve dare ordine alle cose, come disse Gesù ai farisei, casta ipocrita di saggi tutta forma e niente sostanza, i Boldrini dell'epoca.
L'Italia non è razzista, ma razzisti ci sono, scrive Paolo Lambruschi l'8 luglio 2016 su “Avvenire”. La vera Italia non è razzista. Lo pensiamo anche noi, perché lo abbiamo verificato tante volte e continuiamo ad averne conferme. Non ci fa cambiare idea neanche il pestaggio mortale di Emmanuel, nostro fratello nato in Nigeria. Non ci fa mutare avviso neanche il gesto orribile di un ultrà della locale squadra di calcio, fermato per «omicidio preterintenzionale con l’aggravante della finalità razziale» e, a quanto pare, non nuovo a intemperanze e violenze. Non è razzista l’Italia, né lo è la popolazione marchigiana e crediamo sia sincero chi oggi si commuove ed è addolorato per quello che è accaduto. L’Italia accogliente di Lampedusa e di Ventimiglia ha molto in comune con le Marche solidali. Questa profonda convinzione non consente, comunque, di abbassare la guardia, perché i segnali di allarme sono numerosi. E i cinici e i razzisti purtroppo ci sono. Per anni li abbiamo visti sistematicamente sottovalutati. Infatti, accanto ai grandi gesti di solidarietà e accoglienza compiuti dalla parte sana del Paese in tante emergenze gestite in modo altalenante dalla pubblica amministrazione, cattivi maestri hanno potuto imperversare diffondendo impunemente in tv, per radio, attraverso giornali compiacenti e sul web fior di menzogne pur di parlare alla “pancia” della gente e guadagnare consensi, popolarità, voti. Come non ricordare, per esempio, chi in Senato ha dato dell’«orango» ad avversari politici nati in Africa, portando l’insulto da osteria nella sede più alta della rappresentanza popolare? E soprattutto come dimenticare chi ha continuato a gridare su tutti i mass media all’«invasione» dei migranti– incurante di ogni smentita dei numeri – ad alimentare sentimenti xenofobi e a predire la «violenza nelle strade»? Questi cinici 'profeti di sventura' l’hanno azzeccata. Alcuni si preoccupano di offrire pubblica solidarietà alla fidanzata della persona uccisa. Non è mai troppo tardi, ma non basta. Troppi veleni e troppo male sono stati messi in circolo. Davvero troppi, per non farci altrettanto pubblicamente i conti. È importante, adesso, non sottovalutare più alcun segnale d’allarme. A cominciare, ad esempio, dagli attentati alle chiese di Fermo compiuti nei mesi scorsi, come ha ricordato più volte don Vinicio Albanesi, e dalle continue intimidazioni ai danni di diverse Caritas diocesane che praticano l’accoglienza (in Romagna non è stato risparmiato neppure un convento di clausura). Gesti compiuti da estremisti di destra. Comunque sia andata l’aggressione mortale (sarà l’autopsia a stabilirlo) anche l’uomo che ha ucciso Emmanuel ha fama di essere di quella brutta scuola e di quegli oscuri manipoli. L’opinione pubblica italiana – che, insistiamo, non è razzista – ha un grosso problema che si potrà risolvere soltanto nel lungo periodo: è il Paese più «ignorante» dell’area Ocse in materia di immigrazione. E la colpa è soprattutto dei giornalisti e dei politici che disinformano o distorcono la realtà dei fatti per mediocri tornaconti. Per di più, storie come quella del giovane nigeriano pestato a sangue, e stavolta a morte, per aver difeso la propria donna, la propria madre, la propria sorella da chi la oltraggia o la chiama «scimmia africana» sono sconosciute ai più, anche se sono purtroppo dannatamente comuni. Raccontiamola di nuovo, in breve. Emmanuel, 36enne richiedente asilo, era un profugo dalla Nigeria, un cristiano che in un assalto compiuto dai terroristi jihadisti di Boko Haram contro la sua chiesa aveva perso i genitori e una figlioletta. Con la sua promessa sposa Chinyery aveva raggiunto la Libia e anche lì i due erano stati aggrediti e picchiati da trafficanti, lei aveva anche subito un aborto durante la traversata. Da settembre la coppia viveva nel seminario vescovile di Fermo, che accoglie profughi e migranti in attesa di documenti, avevano di recente celebrato il rito della benedizione degli anelli. Un fidanzamento davanti a Dio e alla comunità. È la storia semplice di un amore profondo, di due persone che avevano deciso di condividere la vita e che hanno avuto il torto di nascere e amarsi in una terra dalla quale i cristiani sono costretti a fuggire per sopravvivere. Emmanuel aveva chiesto asilo, Chinyery l’ha ottenuto ieri mentre cantava straziata il dolore per l’amato ucciso. Non si torna indietro, ma se si vuole avere davvero rispetto di quest’uomo e di questa donna e della loro speranza infranta, questa volta non possiamo dimenticare nulla, non possiamo farci riprendere dall’indifferenza. La vera malattia da cui dobbiamo difenderci per non lasciare che i professionisti della paura e della menzogna narcotizzino le nostre coscienze e preparino altre tragedie.
Dopo il massacro del nigeriano a Fermo, nuova vergognosa aggressione ai danni di un immigrato", scrive “Leggo” il 7 luglio 2016. È l'accusa mossa e pubblicata sul proprio profilo facebook da "Cronaca Vera" che ha anche postato il video di una lite in spiaggia tra un venditore ambulante e un uomo italiano in Calabria. "La scena vergognosa - prosegue nel post - si è svolta sulle coste calabresi dove un giovane del posto si è rifiutato di pagare un venditore ambulante, ed alle rimostranze dello straniero lo ha colpito in modo brutale". Le immagini sono evidenti e mostrano il venditore chiedere i soldi al "cliente" per un tatuaggio minacciando anche di chiamare i Carabinieri. L'uomo, sdraiato sul suo asciugamano, non ne vuole sapere e dopo le insistenze reagisce sferrandogli un due calci in testa.
Ed Ancora. Palermo. Non pagano il tatuaggio a un immigrato, un amico lo picchia, scrive il 7 settembre 2009 “Blitz Quotidiano”. Un extracomunitario di 26 anni originario del Bangladesh è stato malmenato a Palermo da un diciassettenne intervenuto a difesa di alcune ragazze che si erano rifiutate di pagare l’immigrato per i tatuaggi che aveva loro praticato sulla spiaggia di Mondello. Lo straniero si era lamentato per il mancato pagamento del prezzo pattuito, 15 euro, e nell’allontanarsi aveva minacciato di contattare la polizia. Il diciassettenne lo ha raggiunto poi in un bar e lo ha colpito con un pugno. È intervenuta la polizia che ha identificato il diciassettenne, tranquillamente tornato intanto in spiaggia con le sue amiche, e lo ha denunciato per lesioni personali.
L’omicidio di Fermo è l’ultimo atto del profondo razzismo italiano, scrive Igiaba Scego, scrittrice, su "Internazionale" il 7 luglio 2016. Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, è morto. Quando ho letto la notizia mi è mancato il fiato. Davvero è successo? Davvero si può scappare da Boko haram, uno dei gruppi terroristici più efferati del mondo, e non sopravvivere all’Italia? Davvero l’Italia è peggio di Boko haram? Penso alla moglie che ha assistito impotente all’omicidio. Penso a quegli attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in una tranquilla sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il futuro. E poi un uomo nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue, il cervello che schizza tutto intorno, la paura, il dolore, la furia. Dicono che è stato un ultrà. Che parola strana ultrà. Non ha un reale significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde a volte anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto di menar le mani. Ma dire ultrà, ripeterlo in tutti i telegiornali, è anche un modo di non prendersi le responsabilità di un atto efferato. È lui, solo lui, l’uomo con la spranga, il colpevole, sembrano giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno strano, un emarginato in fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è colpa nostra se ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia non nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo. “Not in my name”, l’ho scritto e detto tante volte contro gli attentati jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e odiosamente nessuno lo ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa di essere la prima vittima del terrorismo, ma sa anche che il terrorismo nasce dalle sue devianze. E anche il razzismo, l’odio di cui è avvolto tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy. Non è un fatto isolato. E ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far finta di nulla. Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause profonde di questa sciagura. Dopo l’omicidio di Jerry Maslo, nel 1989, l’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Ed ecco che il nome di Emmanuel Chidi Namdi si mischia con tanti altri con Ahmed, Jerry, Abba, Samb. Non è la prima volta che succede. Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama. Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di studio in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo a cui credeva più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua vita. L’Unione Sovietica lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo comportamento era stato considerato inopportuno. La motivazione ufficiale era che “beveva troppo”. Ma Ahmed Ali Giama sapeva di non bere più degli altri, sicuramente non più di quanto si faceva in Russia. Si sentiva vittima di una profonda ingiustizia. Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella di Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una vita sempre più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’ di cibo. E poi quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979, quattro ragazzi annoiati gli danno fuoco e lui muore senza un perché sotto l’arco del tempio della Pace, a Roma. I ragazzi erano fascisti? Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza era una che stava nei movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di sinistra. Solo un grande squallore. Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante. Anche la sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si vedono nei telefilm americani. Il padre era stato cancelliere dell’ambasciata italiana in Jugoslavia e la madre era una splendida somala di nome Egal Ubax Osman. Una coppia che univa il bianco e il nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A Udine una famiglia così non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in visibilio per quei Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di sinistra e questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a scuola discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava avanti a testa alta. Sapeva di valere. Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella famiglia troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro” di frequentare una scuola friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era troppo di sinistra. E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due compagni di classe lo attirarono con una scusa in un capanno e lì giù botte e coltellate. Daniel P. (14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano dare una lezione a un diverso. E la lezione furono 63 coltellate che lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era il 1985. L’Italia dell’apartheid. In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da parecchi anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la raccolta dei pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per un lavoro faticoso ed estenuante. I ragazzi dormivano in baracche fatiscenti e anche se non c’era spazio per nulla, loro cercavano comunque di trovare un posticino per i loro sogni e il loro futuro che prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti, “non sarà per sempre”. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano scappato dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli dicesse dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine dell’apartheid. Non mancava molto. Nelson Mandela aveva resistito così tanto in carcere anche per lui. Jerry lo sapeva, ci sperava. Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di segregazione razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della sua pelle. Non era il Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia dell’apartheid. Quattro persone, con delle calze di nylon sulla testa, fecero irruzione nelle baracche dove dormivano gli africani e cominciarono quella mattanza insensata. Si impossessarono anche di due spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo dell’incursione. Il motivo era lo stesso degli assassini di Giacomo Valent: dare una lezione al diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia che il razzismo non era solo quello degli altri. L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò tanto di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi accompagna la morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di Jerry Maslo. Il funerale fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se stessa che per Jerry. Era stato un colpo scoprirsi razzista. Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi simili ai nostri. A quello di Jerry Maslo seguirono altri omicidi. Abdul Salam Guibre, detto Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario del Burkina Faso preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco di biscotti. Lenuca Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu Caldaran, bambini rom morti in un rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor, uccisi a Firenze da un simpatizzante di Casa Pound. E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma? Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno spettacolo teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale senegalese. Mohamed il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava l’autobus a Milano. Un uomo gli si era avvicinato dicendo: “Qui c’è qualcosa che non va”. Poi arrivò quella pugnalata allo stomaco. Mohamed Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente non si fermò ad aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma anche nello sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava dissanguando. Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai nostri. Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso ogni giorno da giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci siamo abituati ai titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione, alle battute politicamente scorrette e agli articoli “perbene” scritti da persone “insospettabili” che parlano di civiltà superiori, di occidente moderno contro selvaggi di diversa provenienza. E siamo indifferenti verso la storia di questa Italia che si è formata e costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del diverso. Dopo l’unità d’Italia si dovevano fare gli italiani, quante volte ce lo hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non esistevano. Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani. L’Italia era pura astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare l’idea di un italiano bianco ed europeo. Diverso dal suo meridione per prima cosa. Quindi prima si colonizzò il sud Italia, poi si colonizzò l’Africa per rimarcare questa unicità e diversità italiana. E il nero (ma anche il meridionale) divenne, di fatto, quello a cui l’Italia si doveva opporre. Una giovane studiosa, Marta Villa, in un suo saggio (contenuto in Costruire una nazione) ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato all’impresa africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu oggetto di uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso schiacciato, la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini aveva non solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma anche una campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto ubriacare da alcuni abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la faccia di nerofumo per farlo assomigliare ancora di più a un africano. Infine fu avvolto in un lenzuolo bianco e fu fatto montare su un asino. Così conciato venne portato in giro per il paese, che sfogò la sua violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni genere. Gli omicidi a sfondo razziale non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo mai sradicato. L’Africa, o almeno l’idea di un’Africa da conquistare e sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisa”. I riferimenti alla violenza contro l’altro si ritrovano spesso nelle canzoni fasciste della conquista dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. In Povero Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”. In una canzone per bambini, Topolino va in Abissinia, c’è un Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti. Imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella canzone Topolino dichiara candidamente che “appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non gli basta. Topolino vuole massacrare tutti. E ha un motivo ben preciso, che spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non è l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con quei cioccolatini”. Topolino va in Abissinia, una canzone per bambini…. La macchina del razzismo. Gli omicidi a sfondo razziale in Italia non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono atti quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una rottura del quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le frustrazioni di una società in crisi. Ecco perché il colonialismo e l’antisemitismo in Italia non sono fatti secondari, incidenti di percorso della nazione. Come ha detto Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione dell’identità nazionale italiana”. Paola Tabet lo aveva già perfettamente spiegato nella prefazione di un volume fondamentale per capire il razzismo in Italia, La pelle giusta. L’antropologa aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal titolo “Se i miei genitori fossero neri”. In questi temi i bambini scrivono cose come “se i miei genitori fossero neri li metterei in lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino Bianco, Atlas, Ace detersivo, Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei sicuro che ritornerebbero normali”. I bambini sono razzisti allora? No, certamente. Ma hanno respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e l’altra sbagliata. Per Paola Tabet il dispositivo xenofobo è “come un motore di un’automobile” che “può essere spento, può essere in folle, andare a cinquemila giri. Ma anche spento, è un insieme coordinato. Il sistema di pensiero razzista, che fa parte della cultura della nostra società, è come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi, partire”. Ed è ripartito a Fermo, città che già nel 2011 aveva visto l’aggressione di alcuni somali presi di mira da un commando squadrista. Occorre fermare quel ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di mezzi d’informazione che flirtano con il razzismo, di leader politici che incitano all’odio per una manciata di voti, di benpensanti che pensano male abbracciando apocalittici scontri di civiltà. Dobbiamo fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di vivere in armonia abbracciando tutti i suoi colori.
Emmanuel, l'Italia e l'escalation razzista. Per l'Unar nel 2015 le aggressioni xenofobe nel nostro Paese sono state 57. Ma la stima è al ribasso, perché in molti non denunciano. Ecco come si propaga l'odio, scrive Francesca Buonfiglioli il 7 Luglio 2016 su “Lettera 43”. La tragedia di Emmanuel Chidi Namdi, massacrato da un coetaneo fermano di estrema destra per aver reagito alle offese e rivolte alla compagna, è un colpo allo stomaco. Buona parte dell'opinione pubblica ora si indigna accorgendosi che esiste anche nella profonda provincia italiana il germe dell'odio razziale. Eppure i casi di aggressioni e violenze a fondo xenofobo aumentano di anno in anno. Ma in Italia non esistono statistiche complete, né una banca dati di tutti gli gli episodi nonostante sul tema lavorino diversi enti, a partire dall'Unar. UNAR: NEL 2015, 57 AGGRESSIONI. Secondo l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio non si può parlare di vera e propria escalation: nel 2015 le segnalazioni di aggressioni fisiche di stampo razzista, dicono a Lettera43.it, sono state 57; 78 se si comprendono anche quelle verbali. Contro le 56 del 2014. In Germania, per fare un confronto, secondo le statistiche del Bundeskriminalamt (Bka), l'ufficio criminale federale, e del Bundesamt für Verfassungsschutz, il controspionaggio, gli episodi di intolleranza nei confronti degli stranieri sono stati 198 nel 2014 e 817 nel 2015. I dati Unar sono però raccolti nel contact center e dall'osservatorio media dell'Ufficio e dall'Oscad, il centro interforze del ministero dell'Interno. Va da sé che non rappresentano la totalità degli episodi che si stimano essere molto di più. LA DENUNCIA EUROPEA. A parlare chiaro, invece, è la Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza che nell'ultimo rapporto 2016 ha sottolineato come le autorità italiane non siano ancora in grado di raccogliere dati «in modo sistematico e coerente». «Le fonti principali dei dati sui reati legati al discorso dell’odio», si legge nel report, «sono l'Unar, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), la banca dati del sistema di indagine della Polizia giudiziaria (Sdi), il ministero della Giustizia e l’Istituto nazionale di statistica (Istat). Tali sistemi non utilizzano tuttavia le stesse categorie e non fanno sempre una distinzione tra il discorso dell’odio e altri reati riconducibili al razzismo e alla discriminazione razziale». La tragedia di Fermo, con il suo carico emotivo, ha riacceso i riflettori sulla piaga della xenofobia. L'opinione pubblica si è commossa per la storia della coppia. Scampati all'orrore di Boko Haram che ne ha decimato le famiglie, i due ragazzi hanno affrontato le violenze in Libia, attraversato il Mediterraneo, perso due figli. Sembrava che la loro vita potesse ricominciare in Italia. E invece così non è stato. Non erano nemmeno sposati ufficialmente, perché al loro arrivo Emmanuel e Chimiary non avevano documenti. E lei, in assenza di altri famigliari, non ha potuto dare il consenso per l'espianto degli organi. La verità, però, è che di Emmanuel e Chimiary ne sbarcano a decine ogni giorno sulle nostre coste. Fuggono tutti dalla violenza jihadista, dalla guerra e dalla fame. Solo che non hanno nome e finiscono triturati in numeri e statistiche. Bollati indistintamente come «clandestini», spiega a Lettera43.it don Giancarlo Perego direttore di Migrantes, associazione che aiuta i profughi a integrarsi in Italia. Per questo la tragedia di Fermo ora può cambiare qualcosa. E aprire gli occhi. «Hanno ammazzato Emmanuel, Emmanuel è vivo», dice don Perego parafrasando Pablo di De Gregori. «Emmanuel è vivo, nella sua famiglia, in sua moglie e nella sua figlia morta in grembo, negli altri giovani richiedenti asilo accolti nel seminario vescovile di Fermo, nei tanti giovani che sono arrivati o stanno arrivando in Italia e in fuga soprattutto dall’Africa violentata e offesa da terrorismo, guerre, sfruttamento», continua, «tocca a noi ora responsabilmente aiutare a guardare a questi volti e a queste storie con occhi diversi, con parole diverse, con una cura diversa». La speranza è che questa assurda morte «aiuti le vite degli altri migranti». Quelle aggressioni relegate alle cronache locali. Quello di Fermo non è un caso isolato. Ma si tratta di storie che per lo più restano impigliate nelle pagine delle cronache locali. Come quella di un maliano che a Parma, nemmeno un mese fa, è stato minacciato con un accendino da un autista di un bus di linea: «Ora ti do fuoco», gli ha gridato in faccia. La sua colpa? Essere salito sul mezzo con un carrellino. Il primo giugno, invece, un giovane di colore stava cercando come ogni giorno di vendere la sua merce ai tavolini di un bar a Livorno. Un cliente lo ha sbattuto a terra prendendolo a calci. L'unico presente a prendere le sue difese è stato un consigliere comunale della lista civica Buongiorno Livorno. Infine a gennaio di quest'anno 13 estremisti di destra (tra cui uno di Forza Nuova) sono stati indagati a Roma per aver compiuto raid tra Tor Pignattara, Casilino, Pigneto e Prenestino contro negozianti del Bangladesh, «perfetti per le spedizioni punitive» commentavano i neofascisti, «perché non reagiscono e non denunciano». L'intolleranza nei confronti del diverso, dell'immigrato cresce, è palpabile. Ed è alimentata «da certi talk show, dall'hate speech sui social, da una informazione che falsifica i dati e da una certa politica», mette in chiaro don Perego. «Secondo le statistiche dell’Unar», conferma la Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza, «le segnalazioni relative a discorsi di incitamento all’odio nei media (compreso internet) rappresentano il 34,2% dell’insieme delle denunce ricevute nel 2013, rispetto al 19,6% nel 2012». E certo non solo nelle Marche, una delle tre regioni insieme con il Veneto e l'Umbria dove il numero di migranti è diminuito. Nonostante ciò, sottolinea il presidente di Migrantes, «si continua a parlare di ‘invasione inarrestabile’ in riferimento a 130 mila richiedenti asilo e rifugiati accolti. Falsificazioni che impediscono ancora una adeguata politica dell’immigrazione». La morte di Emmanuel è stata così «preparata da questo clima sociale e politico che si nasconde dietro la mano omicida». Sono evidenti le responsabilità di una politica che «non ha governato il fenomeno migratorio», continua il direttore di Migrantes. «Basta pensare agli effetti della Bossi-Fini. L'immigrazione è sempre stata considerata esclusivamente dal punto di vista della sicurezza, e non quello dell'inclusione e dell'incontro». Questi giovani, prosegue il sacerdote, tra l'altro «portano forza lavoro, voglia di vivere, capacità, carica vitale». La strada da fare, insomma, è lunga. E passa da una rivoluzione culturale e sociale. «Prendiamo la legge sulla cittadinanza», fa notare, «è ancora ferma in Senato. Mentre il diritto di voto amministrativo per gli immigrati è di là da venire». Senza parlare del pantano burocratico per il diritto d'asilo. Emmanuel, un «clandestino» fino a ieri e oggi un «uomo, un marito che voleva ricostruirsi una vita in Italia», aveva reagito ad Amedeo Mancini, 38enne titolare di una grossa azienda zootecnica e volto noto della tifoseria della Fermana, che per strada aveva strattonato e dato della «scimmia» alla sua compagna. Tre anni fa, però, a definire «scimmia» un ministro della Repubblica di colore non era stato un ultrà di estrema destra e già raggiunto da Daspo ma un senatore: il leghista Roberto Calderoli. Il parlamentare però nel settembre dal 2015 è stato salvato dal Senato. Per lui autorizzazione a procedere solo per diffamazione nei confronti di Cécile Kyenge, non per istigazione all'odio razziale. E che dire dell'europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, scomparso recentemente, che definì i rom «feccia della società». Parole d'odio che in qualche misura contribuiscono a «legittimare» la violenza, sottolineano da Lunaria. Come è evidenziato anche nel report della Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza che ricorda come «un certo numero di episodi di discorsi dell’odio da parte di rappresentanti politici» abbiano avuto «come bersaglio immigrati, rom, musulmani e persone Lgbt». La discriminazione, alimentata dalla paura, così si insinua, e sconfina in ambienti estranei a quelli di Radio Padania. Il 29 giugno su Radio Tre è stata data la notizia del recupero del peschereccio Ivory che nell'aprile 2015 naufragò nel canale di Sicilia, al largo delle coste libiche, portando con sé, sul fondo del mare, 700 vite. I commenti degli ascoltatori alla rassegna stampa parlano da soli: «Chi lo ha autorizzato, e quanto costa?»; «il recupero è offensivo nei riguardi degli italiani in difficoltà, le sepolture vanno fatte da sempre in mare»; «non ci sono soldi per la sanità, per le pensioni, per la manutenzione delle strade, ma poi ci beiamo di aver recuperato il relitto di un barcone naufragato». Dal Not in my name siamo così passati al Not in my backyard, non nel mio cortile. Al grido del salviniano «Prima gli italiani».
“Dire che l’Italia è un Paese razzista non aiuta”. Il direttore generale dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali: «Il 2015 è stato un anno nero: 1.800 segnalazioni». Nel giorno dello sgomento per l'omicidio di Fermo, sono dati che fanno riflettere: «Il mostro del razzismo è una bestia. Ma non bisogna lasciargli spazio», scrive Luca Sappino il 7 luglio 2016 su “L’Espresso”. «Il 2015 è stato un anno nero per le segnalazioni riguardanti ogni forma di discriminazione: sono state 1.800 rispetto alle 1.300 del 2014». I dati li dà Francesco Spano, direttore generale dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, ufficio di palazzo Chigi, che conta così le segnalazioni ricevute dal suo osservatorio, segnalazioni che vanno dall'insulto all'utilizzo di stereotipi fino all'aggressione fisica. Nel giorno dello sgomento per la storia di Emmanuel Chidi Namdi, ucciso a Fermo, sono dati che fanno riflettere: «Il mostro del razzismo», dice Spano, «è una bestia che non si deve mai dare per definitivamente debellata». Una bestia che però non va neanche mitizzata.
È allora una storia di un’Italia razzista quella di Fermo?
«In molti mi chiedono se questo sia una Paese razzista e io a tutti, anche quando vado nelle scuole e la domanda me la pone un bambino, dico che il razzismo non si può mai considerare sconfitto. Perché ogni volta che lo si sottovaluta arriva un caso come questo ci dà una brutta sveglia. Però parlare di un’Italia razzista è certamente un errore».
Le 57 aggressioni con movente razziale di cui 37 compiute in gruppo che voi stessi avete censito, sono però un dato allarmante.
«E sono un dato parziale. Ma se sbagliamo a non censurare chi strumentalizza storie e dati, come accade spesso sull'immigrazione, e chi fomenta l’odio razziale, sbagliamo anche a dipingere un Paese a tinte fosche. Non è così, ci sono centinaia di persone che costruiscono e lavorano per una società diversa, inclusiva e quindi democratica».
Ce ne sono molte che però soffiano sulla rabbia e la paura. Bufale sui social, politici spesso sopra le righe quando non direttamente razzisti. Quando l’Unaar suggerì a Giorgia Meloni di lasciar perdere le pericolose semplificazioni in tema di migranti, lei gridò alla libertà violata, si imbavagliò sotto palazzo Chigi. Avete gli strumenti necessari per intervenire?
«Io penso che il compito dell’Unar non sia intervenire su specifiche situazioni ma puntare sull’educazione, sugli interventi sulla grande massa, sui giovani. Non è certo il dibattito tra le forze politiche, infatti, che fa scaturire aggressioni come quella di Fermo, particolarmente violenta. C’è un elemento di responsabilità sociale che dobbiamo segnalare, questo sì, e lo facciamo».
Michela Murgia commentando Fermo, alla ricerca di responsabilità politiche, dice che non dovrebbero sentirsi tranquilli neanche i senatori che hanno evitato che Calderoli rispondesse dell’insulto a Kyenge.
«Che le parole siano importanti è sicuramente vero, soprattutto in una società che vive di parole, troppo spesso rapide, dette o scritte sull’istinto, di pancia. Chi esercita una funzione pubblica dovrebbe quindi porre maggior attenzione nel far precedere un pensiero alla parola».
Non avviene spesso. È un continuo di frasi così, nell’Italia che non è razzista ma lo è almeno ad ondate, ogni volta con un nemico diverso. Dopo l’attentato di Dacca, ci sono stati titoli sui bengalesi in Italia, per esempio: Libero in prima ha scritto «Paghiamo chi ci uccide». Succede sempre, senza che poi accada nulla, che si possa contrastare...
«Ci sono strumenti, ci sono codici di autodisciplina e sanzioni che possono e devono esser attivate: non bisogna abbassare la guardia. In ogni campo, compreso quello dei giornalisti, si può arrivare fino a individuare illeciti, civili e penali. A volte si fa, ma non sempre».
Don Albanesi, il presidente della comunità di Capodarco che conosceva Emmanuel Chidi Namdi e la moglie Chimiary, li aveva uniti in matrimonio a gennaio nella chiesa di San Marco alle Paludi, collega la morte di Namdi con i quattro ordigni piazzati nei pressi di altrettante chiese a Fermo negli ultimi mesi. Per lui erano manifestazioni di intolleranza nei confronti di chi accoglie i migranti. È così?
«Ho parlato con il garante per i diritti della regione Marche, ma non so dire se quella che abbiamo visto è stata un escalation o no. Perché costantemente verifichiamo ipotesi di tensione sociale che non sfocia in aggressioni e a volte invece abbiamo invece l’episodio cruento che proprio non ti spieghi. Sicuramente però, la vicenda, ci ricorda che certi sentori vanno presi per tempo e molto sul serio, che non bisogna sottovalutare i segnali. Ma soprattutto che dobbiamo fare di più».
Come?
«Anche fornendo una contro narrazione, come le dicevo. Dobbiamo raccontare l’inclusione, la collaborazione, le cose buone che porta la convivenza, a noi e ai migranti. Perché non raccontare che c’è un altro Paese, e lasciare la scena tutta a quello della violenza e della diffidenza è come aggiungere una voce al coro di chi insulta».
Beau Salomon e Emmanuel Namdi due stranieri morti ammazzati da italiani, ma con diseguale trattamento per fini ideologici della sinistra. Se la sinistra parteggia per gli immigrati per giustificare l'invasione e declama il razzismo italico, solo il Papa ha reso omaggio all'americano, incontrando i suoi genitori.
Beau Salomon e Emmanuel Namdi, morti che pesano come montagne, scrive Rita Di Giovacchino il 7 luglio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Non ci sono morti che pesano come piume, ma certamente i due ragazzi stranieri uccisi nella nostra civile Italia in questi giorni, pesano più di una montagna. Beau Salomon ed Emmanuel Namdi, l’americano e il nigeriano, vittime lontane anni luce per razza, religione, continente, estrazione sociale, hanno trovato identico destino nella triste guerra che da tempo insanguina e imbarbarisce il nostro paese. Nella settimana della strage di Dacca questi due omicidi, maturati in circostanze assurde, hanno scosso le nostre atrofizzate coscienze anche perché a ucciderli sono stati altri giovani, non extracomunitari, clandestini o zingari ma italiani, italianissimi. Anche loro infinitamente diversi per ambiente, scelte di vita e ideologia, e ugualmente uniti dall’assenza di umanità e dal degrado culturale che li circonda. Secondo l’accusa, Beau Salomon, lo studente americano di 20 anni, appena sbarcato a Roma per uno stage-vacanza presso la Cabot, prestigiosa università americana, è stato spinto nel Tevere da tal Massimo Galioto, “punkbestia”, tossico, domiciliato sul lungofiume all’altezza di Ponte Garibaldi, nel cuore di Trastevere, la zona più turistica della città che in questo periodo ospita quanto resta dell’estate romana: bancarelle, bar, ristoranti esotici. Luci, chiasso, puzza di frittelle infastidivano la privacy del Galioto che da tempo aveva recintato la propria esistenza attorno a una tenda e a un barbecue, disposto a ospitare soltanto i suoi cani e la fidanzata, l’ineffabile Alessia che dai microfoni dei Tg lo accusa del delitto ma intanto lo magnifica come idealista. “Che sarà mai successo”, lamenta la punk. Un tafferuglio, qualcuno aveva rapinato l’americano che se l’è presa con Max e lui l’ha buttato in acqua. “Poi hanno dato l’allarme e noi sciamo andati a dormire”. Problema risolto. Beau è morto annegato, senza quella spintarella sarebbe ancora vivo, poteva ancora godersi la sua bella vacanza romana e sarebbe tornato nel Wisconsin dai genitori oggi straziati. Da bambino aveva sconfitto un cancro raro e devastante, ma un uomo dalla coscienza oscurata dall’alcol e dalla droga gli ha impedito di diventare adulto. E forse non era la prima volta che il “punkbestia” risolveva in questo modo i suoi problemi di vicinato. Il17 luglio 2015 un artista di strada, Federico Carnicci, è morto affogato nel Tevere proprio all’altezza di Ponte Garibaldi. Sono gli amici di Alessia e Max, su Facebook, a riaprire il caso attraverso tablet e smartphone, che tra bracieri e tende pullulano sul lungo fiume. “Ma che la droga v’ha bevuto er cervello!”, scrivono. Ancora più crudele l’omicidio a colpi di cartello stradale di Emmanuel Namdi, il profugo nigeriano sfuggito alla violenza di Boko Haram, sopravvissuto alla traversata del deserto libico e a quella del Mediterraneo durante la quale la giovane moglie Chinyery ha perso il bambino per le percosse ricevute dai trafficanti. Grazie alla Caritas Emmanuel aveva finalmente trovato rifugio a Fermo, nelle Marche, l’ “isola felice”. Al momento dell’aggressione stava passeggiando con Chinyery verso Piazza del Popolo quando un energumeno, tal Amedeo Mancini, ultra della locale Fermana calcio li ha circondati, insultando e aggredendo la donna. “Scimmia africana”, l’ha appellata mentre la colpiva con pugni e calci. Alla reazione di Emmanuel si è scagliato contro di lui e dopo aver divelto il palo di ferro di un cartello stradale lo ha massacrato riducendolo in fin di vita. Emmanuel è morto dopo 24ore di agonia, Mancini è stato fermato. Siamo di fronte a un omicidio frutto di odio razziale come nei periodi più bui della nostra storia. La tragica fine di Emmanuel, che ci saluta felice e sorridente dalla foto del suo matrimonio, il suo unico giorno felice, va oltre l’accusa alle classi dirigenti per lo stato di degrado che ha devastato la Capitale, chiama direttamente in causa l’ultima velenosa campagna elettorale nella quale politici senza scrupoli hanno sperato di trarre consenso pescando nel mal di pancia della gente, incitando all’odio contro gli immigrati senza neppure fare distinzione tra clandestini e profughi. Potremmo prendercela con il tronfio e panciuto Salvini che ci siamo sorbiti a colazione, pranzo e cena, mentre lui saltellava da un canale all’altro, e che ora è sprofondato in un tombale silenzio per via di una sconfitta elettorale che ci aveva fatto sperare nel buon senso degli italiani. Ma i cattivi semi che in molti, non soltanto Matteo due, hanno seminato stanno dando frutti avvelenati. Che fare contro il buio della ragione? Forse pure noi, come gli amici di Max e Alessia, potremmo prendere i nostri smartphone e scrivere: “Ma vi sieti bevuti il cervello”.
Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano del 7 luglio 2016 e il nigeriano ammazzato a Fermo: "L'Italia non è razzista, lo prova questo numero". "L'Italia non è un paese razzista. Si sta sottovalutando il problema? Francamente credo lo si stia sopravvalutando, invece". Vittorio Feltri, ospite di una movimentata puntata di In Onda su La7 (dopo un acceso diverbio con il dem Gennaro Migliore, il direttore si alza e se ne va), commenta l'omicidio di Fermo, e va controcorrente. "Non possiamo dare giudizi definitivi, per ora sento solo slogan e mi oppongo", ha attaccato Feltri. Il nigeriano Emmanuel Chidi Namdi è morto dopo una colluttazione con l'italiano Amedeo Mancini. Una tragedia di cui la dinamica non è ancora chiara. "Certo, c'è un elemento razzista", spiega Feltri in riferimento alla provocazione di Mancini, che avrebbe chiamato la moglie del nigeriano "scimmia africana" portando alla reazione violenta della vittima. Come poi siano andate le cose per gli inquirenti è ancora un mistero: Mancini, accusato di omicidio preterintenzionale, ha colpito con un pugno poi rivelatosi fatale dopo essere stato aggredito da Emmanuel (come sostengono alcuni testimoni) oppure ha infierito sul nigeriano dopo averlo fatto cadere? Feltri parla di Mancini come di un "balordo". C'è un problema di razzismo in Italia? "Non credo si stia sottovalutando il problema, anzi lo si sta sopravvalutando - ribatte Feltri -. Sono stati 54 i fenomeni di razzismo in un anno, è imprudente sostenere che l'Italia sia un paese razzista o avviato a diventare tale. L'integrazione continua, non stanno avvenendo casi frequenti di violenza. Bisogna essere sempre vigili, certo, avere attenzione ma senza drammatizzare".
"Italia razzista? Allora la Kyenge è...": Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano del 9 luglio 2016 svela la "grande balla". I soliti campioni della sinistra, profittando di uno squallido episodio di cronaca (un italiano che ha stecchito con un pugno un nero durante una rissa) hanno dato fuoco alla miccia di una vecchia polemica stolta e priva di fondamento: gli italiani stanno diventando o sono già diventati razzisti. Il che, pur essendo falso, viene spacciato per verità allo scopo di far sentire in colpa tutti noi, costringendoci moralmente ad accettare di buon grado le incessanti invasioni barbariche, che hanno ridotto parecchie nostre città ad accampamenti di stranieri più o meno sbandati. Non vedo per quale altro motivo si tenda ad accusare senza lo straccio di una prova il popolo di xenofobia e intolleranza. È vero che stando alle statistiche ogni anno si registrano una cinquantina di aggressioni ad opera di nostri connazionali nei confronti di poveracci immigrati, ma è altrettanto vero che si tratta di una cifra trascurabile se si considera che gli abitanti della penisola sono oltre 60 milioni. Non solo. I reati compiuti dagli extracomunitari dalle nostre parti sono numericamente impressionanti, tanto che un terzo e oltre della popolazione nelle patrie galere è costituita da extracomunitari. Significa che se gli italiani sono razzisti perché (per fortuna raramente) picchiano e uccidono i profughi, sono ancora più razzisti gli stessi profughi che commettono a nostro danno reati d'ogni tipo: stupri, omicidi, rapine, furti e quant’altro. Volendo discettare sul piano statistico, per ogni delinquente di casa nostra ce ne sono almeno tre di importazione. Questi scarni e approssimativi dati dovrebbero bastare a zittire coloro che ci diffamano dandoci dei razzisti. Evidentemente non sanno fare di conto o parlano a vanvera ispirati da una sorta di ideologia buonista che in realtà è soltanto cialtroneria. La vicenda di Fermo è paradigmatica in questo senso. Un imbecille dà della scimmia alla moglie di un nero. Questi perde il lume degli occhi e reagisce menando le mani di brutto, cioè massacrando a legnate colui che ne ha oltraggiato la consorte. Nel bel mezzo della zuffa - stando alle testimonianze - il cafone italiano, ormai sopraffatto, ha sferrato un cazzotto terrificante al nero, abbattendolo. Morto. Non è di sicuro una storia edificante e non tale da giustificare l'assassino. Ci mancherebbe. Ma non si può nemmeno affermare che l’omicida vada condannato subito, ancor prima che sia stato accertato come si siano svolti i fatti. Né si può altresì concludere che il delitto in questione, per quanto esecrabile, sia il frutto marcio di un clima di assoluta ostilità italiana verso il “diverso” ossia il nero. Prima di cianciare di razzismo strisciante serve attendere i risultati dell’inchiesta giudiziaria che, invece, non è neppure iniziata. Giovedì sera, quando ancora poco o nulla si sapeva di come si fosse svolta la tragica lite, sono stato ospite di In onda, programma televisivo de La7, condotto da Parenzo e Labate, insieme con Gennaro Migliore (ex Sel e ora Pd) e Montanari che non avevo il piacere di conoscere. Tema della conversazione, il razzismo. Migliore ha improvvisato una arringa contro gli italiani xenofobi, tra i quali ha inserito anche noi di Libero, rei di aver definito Bastardi islamici gli stragisti del Bataclan. E come dovevamo chiamarli? Boy-scout? Egli ha aggiunto nella sua filippica che i giornali fomentano l’odio con un linguaggio scriteriato. E ha citato un esempio ancora riguardante Libero, che in occasione di un femminicidio a Roma scrisse che la ragazza era stata arrostita. Come dire che se la fanciulla è morta bruciata la colpa non è dell'assassino, ma nostra che abbiamo usato un vocabolo sgradevole a giudizio di Migliore. Il problema, insomma non è che una signorina sia stata ammazzata col fuoco, ma la parola da noi usata per stigmatizzare l'atrocità del fatto. Ecco come ragionano le briscole della sinistra: non si interessano dei concetti, ma processano il lessico con cui vengono espressi, e va da sé che il dibattito seguente è stato penoso ancorché istruttivo. Io tentavo di argomentare e lui, Migliore (smentendo il luogo comune: nomen omen) anziché ascoltarmi onde replicare con cognizione di causa, sovrapponeva la propria voce alla mia, secondo una forma di maleducazione assai diffusa non solamente fra i progressisti. Niente di grave, ma me ne sono andato via perché discutere con un villano comporta un rischio: quello di assomigliargli. In questo mi vanto di essere razzista. Una tantum. di Vittorio Feltri.
Fermo, governo ai funerali. E le vittime di Dacca? Boschi e Boldrini parteciperanno ai funerali del nigeriano ucciso a Fermo. Il ministro rappresenterà il governo, scrive Claudio Torre, Sabato 9/07/2016 su “Il Giornale”. Domani alle 18 l'addio a Emmanel Chidi, il 36enne nigeriano richiedente asilo ucciso martedì scorso in centro a Fermo in seguito a insulti razzisti alla moglie e successiva colluttazione con un ultrà della Fermana. I funerali dell'uomo si terranno in Duomo alla presenza, anche, del ministro Maria Elena Boschi e della presidente della Camera Laura Boldrini. Alle esequie, celebrate dall'arcivescovo Luigi Conti, con don Vinicio Albanesi, ci sarà anche il presidente del Consiglio regionale delle Marche Antonio Mastrovincenzo, di altre autorità e di rappresentanti di movimenti e associazioni laiche e religiose. Spicca tra le presenze al funerale quella della Presidente della Camera e quella del Ministro Boschi che in una nota del Pd sottolinea come "la sua presenza sia in qualità di rappresentante del Governo italiano". Rappresentanza che però, come qualcuno comincia a chiedersi, non c'è stata ai funerali delle nove vittime del massacro di Dacca. Ieri infatti si sono tenuti i funerali di 7 dei nove morti trucidati in Bangladesh dai jihadisti. Ai funerali di Claudia D'Antona, Claudio Cappelli, Cristian Rossi, Maria Riboli, Simona Monti, Nadia Benedetti e di Vincenzo D'Allestro hanno partcepitato, va detto, sindaci, governatori e prefetti. Ma nessun ministro del governo. Stessa sorte è toccata a Marco Tondat e ad Adele Puglisi. Alle loro esequie i rappresentanti delle istituzioni locali, ma nessuno è arrivato da Roma.
Nigeriano ucciso a Fermo, minacce e insulti alla testimone. Chiamò lei il 118. "Mi danno della razzista, vivo in un incubo", scrive Fabio Castori il 9 luglio 2016 su “Il Resto del Carlino”. Non vive più Pisana Bachetti, la donna che ha assistito alla rissa tra Amedeo Mancini, Emmanuel Chidi Namdi e la moglie. La sua vita, tra insulti, minacce e accuse di mitomania, è diventata un inferno. Eppure la testimone, che è stata persino cancellata da Facebook, appartiene a una famiglia notoriamente di sinistra e antirazzista.
Signora Bachetti, cosa è accaduto dopo la sua testimonianza alla polizia e il racconto fatto su Facebook?
«La mia vita è diventata un inferno. E questo solo per aver fatto quello che ogni cittadino nella mia situazione avrebbe dovuto fare: chiamare la polizia perché c’era un rissa in corso».
Cosa ha visto quel maledetto pomeriggio?
«Purtroppo ho assistito alla scena e ho visto che il giovane fermano, prima di sferrare un pugno, è stato letteralmente assalito dalla vittima e da sua moglie. Lo hanno picchiato per quattro o cinque minuti e lo hanno colpito anche con un segnale stradale trovato nei pressi. Quando ho assistito a quella scena, ho chiamato la polizia perché temevo per l’incolumità del 39enne fermano, che ha reagito con un colpo, purtroppo per la vittima, ben assestato. Qualcuno ha cercato di intervenire, ma è stato preso a scarpate dalla moglie del giovane di colore».
È vero che dopo la sua testimonianza le giungono minacce e insulti da tutte le parti d’Italia?
«Si è vero. Ricevo chiamate da tutta Italia. Appena dieci minuti fa mi è stato inviato l’ultimo messaggio in cui mi davano della nazista. Ed è solo uno dei tanti che mi giungono. Ora mi dovete lasciare in pace. Tutti. Non voglio più essere disturbata, basta, lasciatemi in pace, non voglio dire più niente né parlare con nessuno. Sono stata sbattuta in prima pagina prima del nome del presunto assassino solo per aver detto la verità».
Che tipo di insulti ha ricevuto?
«L’elenco è lungo: xenofoba, e tanto altro ancora. Sto vivendo un incubo. Sono solo una cittadina fermana, mai stata razzista, che ha avuto la sfortuna di trovarsi in quel luogo e di assistere alla rissa che ha portato alla morte di quel povero ragazzo. Ho fatto solo il mio dovere da cittadina e ora mi trovo all’inferno. Non mi resta altro da fare che aspettare la fine di questo incubo. Mi hanno cancellato il profilo Facebook, non c’è più niente, hanno cancellato i miei amici, tutte le mie foto, tutti i miei ricordi. Basta ora, lasciatemi in pace».
Fermo, altra supertestimone. "Nigeriano colpì per primo". Il pm la considera attendibile. La tragica zuffa dopo le frasi razziste, scrive Fabio Castori l'11 luglio 2016 su “Il Giorno”. Sono due ora i supertestimoni che confermano l’aggressione ad Amedeo Mancini con un segnale stradale da parte di Emmanuel Chidi Namdi, il rifugiato politico nigeriano morto tragicamente dopo la zuffa scaturita dagli insulti razzisti dello stesso Mancini alla moglie di Emmanuel. C’è un’altra donna, ritenuta attendibile dal sostituto procuratore di Fermo, Francesca Perlini, che ha assistito alla rissa e che parla chiaramente dei colpi sferrati con il paletto metallico che hanno abbattuto l’ultrà fermano, prima della sua reazione fatale. La sua testimonianza risulta nei verbali degli inquirenti che sono inequivocabili. "Dopo essere scesa dall’autobus – si legge nel documento – la donna ha udito delle urla provenire dalla via sottostante dove notava parlare animatamente due persone di colore e Mancini. Riferiva che il ragazzo di colore iniziava a spintonare Mancini e, dopo aver preso un segnale stradale mobile, ivi presente, lo colpiva con il medesimo alle gambe, facendolo cadere a terra. Dopo ciò il ragazzo di colore si allontanava, ma veniva raggiunto da Amedeo Mancini e tra i due iniziava una scazzottata a seguito della quale l’uomo di colore rovinava a terra. Aggiungeva inoltre di aver sentito dire dal ragazzo, che si trovava in compagnia di Mancini, le seguenti parole rivolte all’amico: ‘Lascia perdere, c’è una donna, non reagire, c’è una donna’". Una versione che collima con quella dell’altra testimone, anche questa presente nei verbali della Procura della Repubblica. "Veniva sentita anche(omissis), testimone presente ai fatti, la quale dichiarava di aver visto l’intera scena i cui vi erano tre soggetti, due di colore e uno di carnagione bianca, che litigavano animatamente e si scambiavano dei colpi. In particolare descriveva che l’uomo di colore sferrava dei colpi tipo mosse di karate verso l’uomo di carnagione chiara e la donna colpiva quest’ultimo con le proprie scarpe, urlando verso di lui: “chi scimmia, chi scimmia?”. Dopodiché notava l’uomo di colore prendere un segnale stradale munito di pedana e zavorra e, dopo averlo sollevato, spingerlo contro l’uomo di carnagione chiara, colpendolo ad una spalla e facendolo cadere a terra. Infine notava che l’uomo di carnagione bianca, colpiva con un pugno quello di colore, facendolo rovinare a terra". Le due testimonianze sono tenute nella massima considerazione dal sostituto procuratore Perlini che scrive nel provvedimento di fermo emesso: "Le dichiarazioni circostanziate rese dalle signore (omissis) sono da ritenersi di sicura credibilità, in quanto persone estranee ai fatti in quanto distanti in termini di parentela e conoscenza sia dalla persona offesa sia dall’indagato". Testimonianze che dovranno essere esaminate dal gip del tribunale di Fermo, Marcello Caporale, durante l’interrogatorio di garanzia che si terrà oggi. Intanto Mancini resta rinchiuso nel carcere di Marino del Tronto dove, dice il suo avvocato, distrutto dal dolore, piange spesso. Il legale lo descrive come una persona disperata, che sembra non capacitarsi di quello che è accaduto. Agli investigatori ha confessato che la parola scimmia faceva parte del suo vocabolario perché da piccolo lui stesso era soprannominato così: «Gli amici mi chiamavano scimmia, ma non l’ho mai considerato un insulto grave".
Il medico legale gela il Governo: "Amedeo Mancini aggredito, bastonato e morso dal nigeriano…", scrive Alessandro Pecora il 10 luglio 2016 su “Sostenitori.info”. Amedeo Mancini, l’estremista di destra legato all’ambiente ultrà accusato dell’omicidio preterintenzionale del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, avvenuto a Fermo, avrebbe sul corpo chiari segni di aggressione e in particolare è stato riscontrato un ematoma diffuso al costato che evidenzierebbe il fatto che sia stato colpito con un palo della segnaletica stradale. Trovati anche i segni di un morso ed altri lividi concentrati soprattutto sulle braccia, compatibili con un tentativo di difesa. Lo ha riferito l’avvocato dell’uomo, Francesco De Minicis. Le ferite sarebbero emerse nell’ispezione medico legale effettuata nel primo pomeriggio nel carcere di Marino del Tronto, dove Amedeo Mancini si trova rinchiuso. La perizia è stata disposta dalla Procura della Repubblica per stabilire la veridicità di quanto affermato dall’indagato, oltre che dalla supertestimone che sostiene di aver visto il nigeriano poi ucciso aggredire per diversi minuti Amedeo Mancini, il quale – rialzatosi poi da terra – avrebbe inferto un pugno, ben assestato alla vittima e lo avrebbe ucciso. L’ispezione è stata eseguita dallo stesso staff che sta effettuando l’autopsia, guidato dalla dottoressa Alice Romanelli. Sono diverse le versioni contrastanti in questa vicenda: oltre a quella dell’aggressione prolungata da parte del nigeriano, c’è chi parla di un secondo uomo che avrebbe spalleggiato Amedeo Mancini, che peraltro viene dipinto da alcuni quotidiani locali come “un folle travestito da ultrà”. Controverse anche le versioni sulla sua militanza a destra: in un fotogramma successivo al momento dell’aggressione si vede infatti il 39enne indossare una t-shirt degli ZetaZeroAlfa, il cui leader è Gianluca Iannone, fondatore di CasaPound. “Non viene da una tradizione di destra”.
Passerella di Stato ai funerali: è la finta emergenza razzismo. La sinistra strumentalizza la tragedia del nigeriano ucciso a Fermo dall'ultrà per fare campagna elettorale, scrive Jacopo Granzotto, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". È un'afosa, caldissima domenica di luglio. Quanto basta per limitare al minimo sindacale la passerella dei politici nel Duomo di Fermo, dove si svolgono le rumorosissime esequie del profugo nigeriano Emmanuel Chidi Namdi. Adagiata in terra su un tappeto, davanti all'altare, la bara di legno chiaro con la salma di Emmanuel. Sopra al feretro, un cuscino di rose rosse e la foto del giovane migrante, sorridente nel giorno in cui don Vinicio Albanesi l'aveva simbolicamente unito in matrimonio con la compagna. In prima fila, l'una accanto all'altra, la presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini e la ministra per le riforme Maria Elena Boschi. La Boldrini tiene a ribadire il concetto: «Ora qualcuno dirà che questa presenza delle istituzioni è una semplice passerella. Figuriamoci. Non venire sarebbe stato peggio e comunque queste considerazioni non ci intimidiscono». Boldrini, che alla vedova Chinyery ha assicurato la vicinanza delle istituzioni «nei modi più appropriati». Nel frattempo la povera donna, vittima di un paio di svenimenti nel corso della cerimonia, è stata medicata dagli uomini del 118 prima di rientrare in chiesa. Chissà se gli saranno state di conforto le parole della rediviva Cecile Kyenge che, in una lettera, la invita a restare in Italia e realizzare qui il sogno di diventare medico. «Anche io sono arrivata in Italia con una grande valigia azzurra, vuota - fa sapere l'ex ministra per l'integrazione -, ma piena del mio sogno di diventare un giorno medico. Come te, se avessi potuto realizzarlo lì, in Congo, sarei rimasta nel mio Paese d'origine. Tu hai diritto a essere felice qui in Italia, ti aiuteremo». Presente in chiesa anche il vicepresidente del Parlamento Europeo David Sassoli: «Oggi siamo qui perché un uomo è stato ucciso per il colore della sua pelle, perché una donna ci ha straziato il cuore, per stare vicino a chi ci ricorda di essere migliori. Siamo qui perché vogliamo ricordare che le crisi che attraversiamo, anche quella dell'Europa, non potranno essere superate se non mettendo al centro il valore dell'essere umano. È inconcepibile che le persone vengano umiliate così in Europa e in Italia nel 2016». Anche se assente alla cerimonia, l'azzurro Maurizio Gasparri ha voluto dire la sua accusando la Presidente della Camera di avere il paraocchi: «Bene ha fatto il presidente della Camera a recarsi a Fermo. Avrebbe fatto ancora meglio se avesse partecipato ai funerali di una delle vittime italiane uccisa dai terroristi islamici a Dacca. Ottimo sarebbe stato se poi avesse espresso analoghi sentimenti quando l'italiano David Raggi venne ucciso a Terni da alcuni extracomunitari. Il razzismo va combattuto sempre. A Fermo, a Terni, a Dacca. Augurandomi che non ci siano più episodi di violenza, sono comunque certo che la Boldrini dimostrerà la sua sensibilità sempre e non solo in alcune occasioni». Una cerimonia pubblica, celebrata da monsignor Luigi Conti e costantemente interrotta (italica consuetudine) dagli applausi. Nel corso dell'omelia l'arcivescovo ha tenuto a ribadire che Fermo è una città «ospitale». «Qui non abita il razzismo - ha aggiunto -. Ma il dolore chiede con forza un supplemento di vicinanza, di fraternità e di dialogo. Alimenta la speranza di chi approda tra di noi. Noi fermani siamo ospitali». Aggiunge monsignor Vinicio Albanesi, capo della comunità di Capodarco, dove era ospitato Emmanuel: «Anche l'aggressore di Emmanuel è una vittima e se qualcuno lo avesse aiutato a controllare la sua istintività, la sua aggressività avrebbe fatto bene». Per volontà dei familiari la salma di Immanuel sarà portata appena possibile in Nigeria. Intanto, questa mattina presso il Tribunale di Fermo, ci sarà l'udienza di convalida per Amedeo Mancini. È accusato di omicidio preterintenzionale, ipotesi avvalorata dall'autopsia.
E poi, mai dire aggressione fascista…per poter santificare la vittima.
Fermo, fermato l’ultrà con il vizio delle risse. Il fratello: “L’insulto? Era solo una battuta”. Disoccupato con precedenti, è accusato di omicidio con aggravante razziale, scrive Paolo Crecchi l'08/07/2016 su “La Stampa”. Scimmia, sì, pare proprio che gliel’abbia sibilato l’insulto infamante, ma che esagerata è stata Chimiary a risentirsi e suo marito Emmanuel a venire alle mani. Di solito Amedeo Mancini «tira le noccioline, quando vede un negro, ma lo fa per scherzare perché è un allegrone, ha avuto una vita difficile e a 39 anni non può neppure andare allo stadio: è diffidato». Da ieri Amedeo Mancini è in stato di fermo, e per lui si profila un processo per omicidio preterintenzionale. Il fratello Simone lo difende. Vive con lui in un abituro, in mezzo ai campi di girasole, e giura che «diventa violento solo se lo vai a cercare». E l’insulto alla signora? «Boh, quei due potevano starsene. Mica li abbiamo chiamati noi in Italia». L’offesa dunque pare assodata. Potrebbe averla pronunciata Andrea Fiorenza, l’amico che era con Amedeo, come lui disoccupato e davanti all’ennesimo pomeriggio da buttare via: «L’avvocato mi ha detto che non posso parlare». La parrucchiera Pisana Bacchetti arriva che la rissa è già cominciata, «ero in macchina e non so dire chi abbia cominciato. C’era il nigeriano con un palo della segnaletica stradale in mano, blu con la freccia bianca. Ha colpito Amedeo allo stomaco, e poi glielo ha tirato addosso quando è caduto. Anche la ragazza picchiava. Mordeva. L’altro giovane cercava di separarli ma non c’è riuscito. Amedeo si è rialzato e ha colpito il nigeriano con un pugno. Quello è caduto. Ha sbattuto la testa sul marciapiede. Ho chiamato io la polizia». Chimiary sostiene l’opposto, dice che il palo era in mano all’italiano. L’autopsia dovrebbe chiarire chi mente, ma la procura tende ad avvalorare la testimonianza della parrucchiera. Resta la provocazione. Restano i precedenti di Amedeo, tafferugli da stadio e violenze assortite. Dice Simone Mancini: «Lo hanno già condannato, e allora chissà se fosse capitato a me che sono stato in galera per spaccio di droga. La verità è che ci facciamo un mazzo quadrato per tirare avanti, io a stampare suole di scarpe in fabbrica e lui a lavorare a giornata in campagna: raccoglie cipolle, taglia la legna». L’amico d’infanzia Sandro Rossi giura che è stato un equivoco. «Probabilmente voleva scherzare. Amedeo non è razzista, ha anche un amico del cuore maghrebino. E con me è stato generosissimo: se non mi sono ammazzato dieci anni fa, quando la ragazza mi ha mollato, lo devo a lui». Sono questi i giovani che inneggiano alla razza ariana dei quali parla monsignor Vinicio Albanese, presidente della Fondazione Caritas che ha accolto la coppia in fuga da Boko Haram? Il prete sostiene che «a Fermo si respira un bruttissimo clima di violenza», e tira in ballo misteriosi attentati dinamitardi a ben quattro chiese della zona. «Ma quali bombe! - replica il fratello dell’assassino - Quello ci ha fatto i soldi, con gli immigrati: per forza li difende». Adele Dari, mamma di Andrea Fiorenza: «Pensasse a difendere i cristiani, prima». Fermo è una città particolare. Antica roccaforte papalina, ancora oggi è governata da un potere ecclesiastico che si appoggia a Comunione e Liberazione e ai Neocatecumenali. I bene informati sostengono che Cl spadroneggi nella sanità, nel pubblico impiego e nell’istruzione pubblica, mentre gli oltranzisti che a suo tempo riuscirono a ottenere la visita in città di Giovanni Paolo II rappresentano una formidabile lobby trasversale. Contro di loro sono state fatte esplodere le bombe d’avvertimento? Don Vinicio Albanesi: «Lo escluderei». La procura non si esprime e studia i possibili collegamenti tra i balordi locali e più temibili criminali, magari forestieri. Di certo gli ultras della Fermana appartengono alla prima categoria, e a parlare con Simone, Sandro, Andrea non si coglie una particolare brillantezza delinquenziale. Disgraziati, piuttosto. Amedeo Mancini «è sempre stato comunista: come fa a essere razzista?», lo difende il fratello, azzardando un’equazione insensata come la sua analisi politico-sociale: «Gli immigrati rubano. Non è giusto che le leggi italiane li difendano. Noi dovremmo venire prima», e almeno non facessero i permalosi: «Una battuta, via…».
Il Sindaco di Fermo: «La mia città è ferita, ripartiamo dai bambini». Il giorno dopo l’omicidio Chidi, la città si divide sulla ricostruzione del fatto. Il Sindaco: «Qui duecento profughi sono la normalità. Voglio portare i rifugiati nelle scuole, per immunizzare i bambini dal razzismo», scrive Francesco Cancellato l'8 Luglio 2016 su “L’Inkiesta”. La realtà è sempre diversa da come si immagina. L’angolo tra via Vittorio Veneto e via Venti Settembre, ad esempio, quello in cui Amedeo Mancini ha ucciso Emmanuel Chidi, è un affaccio da cartolina che si apre sulla val d’Ete, tra colline e girasoli: «Troppo bello per essere un luogo del delitto», commenta un ragazzo, tra i tanti che si fermano di fronte ai fiori e ai cartelli in ricordo del trentaseienne nigeriano. Alcuni scattano delle foto, altri si guardano intorno per provare a immaginare la dinamica di quanto è accaduto. Più che della visita del ministro degli interni Angelino Alfano, a Fermo si parla delle diverse ricostruzioni dei fatti. Soprattutto, della ricostruzione fornita da Pisana Bachetti, la “supertestimone” intercettata dal Resto del Carlino, secondo cui «quel povero ragazzo nigeriano, prima di cadere a terra per un pugno subìto, si è reso protagonista di un vero e proprio pestaggio del 39enne fermano», che a suo dire «per quattro o cinque minuti è stato attaccato simultaneamente dal giovane di colore e da sua moglie». È stata lei a chiamare la polizia sul posto, amara ironia della sorte, «perché temeva per l’incolumità» di Amedeo Mancini, ora in galera per omicidio con aggravante razzista. Soprattutto, perché «erano arrivati una quindicina di nigeriani pronti ad entrare in azione». Vero? Falso? I fermani fanno spallucce, vallo a capire: «Stanno trasformando l’aggressore in una vittima. Io non ce lo vedo un energumeno come Amedeo a farsi pestare per cinque minuti», dice qualcuno. «Lo difende l’avvocato dei Della Valle…», sussurra a mezza bocca qualcun altro, lasciando intendere chissà cosa. È la festa del mercatino d’inizio estate, a Fermo, il secondo grande rito collettivo del più piccolo - neo e già ex - capoluogo di provincia marchigiano, dopo il palio dell’Assunta di agosto. La città si è riversata in massa nelle vie del centro storico. Ci sono tutti, tranne il sindaco Paolo Calcinaro. La luce del suo ufficio, al terzo piano del palazzo comunale che ci affaccia su piazza del popolo è l’unica accesa. È solo, nel palazzo vuoto, costantemente al telefono: «Sono distrutto - ammette lasciandosi cadere sulla sedia - ieri dal dolore, oggi nel trovare Fermo sulle prime pagine dei giornali, come fosse un luogo d’intolleranza. Non ce lo meritiamo». Racconta, Calcinaro, della festa di fine ramadan cui è stato invitato solo due giorni prima, coi membri della comunità islamica che lo chiamavano Paolo, non “Signor sindaco”. Soprattutto, racconta i suoi sensi di colpa: «Ho paura di essere stato superficiale - spiega - di non avere intuito quel che stava accadendo, di non aver saputo riconoscere l’humus da cui è generata questa follia». Conosceva bene Amedeo Mancini, il sindaco, come tutti a Fermo. Lo aveva anche difeso, da avvocato, quando gli avevano comminato il divieto ad assistere a manifestazioni sportive: «È l’ignorantone del Paese, un bullo, - racconta - Ultimamente aveva preso questa piega intollerante». C’è chi dice di chiamarlo col suo nome, di dire che era fascista. Al sindaco scappa un mezzo sorriso: «Qualche anno fa diceva di essere comunista, sempre con quell’atteggiamento prevaricatore - racconta -. Mancini non sa nemmeno cosa sia, il fascismo. E di sicuro non c’entra nulla con le bombe davanti alle chiese. Non è una persona capace di arrivare a quel livello». Dalla finestra si sente l’organizzatore del mercatino chiamare il minuto di silenzio in onore di Emmanuel. La gente più che ammutolirsi, applaude, in realtà: «Questa è una città colpita nel suo orgoglio - spiega il sindaco - Da noi duecento profughi sono la normalità. Siamo pieni di comunità di accoglienza e recupero da queste parti, grazie a don Vinicio ma non solo. Di rifugiati a Fermo ce ne sono sempre stati. Uno di loro, durante la veglia funebre di Emmanuel, ha ringraziato la città per come è stato accolto». Eppure anche qui, in un luogo all’apparenza immune, si è incistato il germe dell’intolleranza: «La retorica populista trova terreno fertile in territori dove le cose non vanno bene - riflette -. Forse la disperazione sociale portata dalla crisi fa salire a galla questo senso strisciante di conflitto. E alcuni si sentono giustificati, da questo stato di cose, in diritto di poter dire e fare qualunque cosa». Sulla facciata del palazzo comunale, fanno bella mostra i simboli delle contrade della città: «A me spaventano soprattutto le conseguenze che un evento come questo può generare - spiega il sindaco -. Temo ci divideremo nelle solite fazioni. Sobillati ad arte da chi vuole fare di in un fatto tragico come quello che è accaduto un’arma per raccogliere consenso». Lui, invece, vuole ripartire dai bambini: «Con don Vinicio vogliamo portare i rifugiati nelle scuole - racconta -, fargli raccontare in classe le loro storie. Far capire cosa c’è dietro quelle facce, che storie terrificanti li hanno portati qua. Solo così possiamo immunizzare i ragazzi dalla follia razzista». Scuote la testa, come stupito delle parole che ha appena pronunciato. La realtà è sempre diversa da come la si immagina.
Nigeriano ucciso, valanga-Cacciari: "Ma quale fascismo? È colpa di...", scrive "Libero Quotidiano" il 12 luglio 2016. "Macché fascismo! Non diciamo stupidaggini. Quello che è successo a Fermo è l'atto di un disadattato. Ma la colpa è di chi non sa governare i fenomeni migratori. E così anche gli stupidi si fanno impressionare". Massimo Cacciari non ha dubbi sull'omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi ucciso durante una rissa da Amedeo Mancini: "È stato chiaramente un episodio legato al razzismo", dice in una intervista a Il Giorno, "ma una rissa del genere cosa c'entra con il fascismo?". "Figurarsi se Fermo è una città pericolosa e fascista! Si tratta di fatti dolorosi, a Venezia mi sarà successo due o tre volte. Le botte a un egiziano per strada o un attacco contro un ristorante magrebino: atti di razzismo sempre per colpa di ignoranti poveracci. E un sindaco cosa vuole che faccia in questi casi? Non può fare altro che portare la sua solidarietà alle vittime e stigmatizzare la violenza senza se e senza ma. Purtroppo sono cose che possono sempre succedere e succederanno". E il motivo è semplice: "La gente sta sempre peggio. C'è un clima di caccia all'altro, al diverso. E persone deboli e sprovvedute, disadattate, possono farsi impressionare facilmente. Parlavamo di fascismo? Ma va', anche il tizio di Fermo, l'ultrà che ha ucciso il ragazzo nigeriano, era solo un ignorante all'ultimo stadio. Di sicuro una persona con difficoltà e disagio sociale". Ma "se ci fosse una politica europea forte sull'immigrazione, probabilmente non succederebbero episodi così".
"Mio marito ucciso da 4 clandestini. Per lo Stato io vedova di serie B". Federica Raccagni ha deciso di realizzare un video per denunciare la disparità di trattamento tra le vittime italiane e le vittime straniere: "Bene la solidarietà ad Emmanuel, ma io non ho ricevuto attenzioni", scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". Buonismo di Stato. Passerella. Opportunismo politico. Strumentalizzazione. Chiamatela come volete la corsa delle alte cariche dello Stato verso la prima fila ai funerali di Emmanuel, il nigeriano morto a Fermo dopo una lite con un ultrà locale. C'erano tutti: Laura Boldrini, Maria Elena Boschi, Cecile Kyenge e altri ancora. Angelino Alfano è andato il giorno dopo la tragedia, quando ancora si sapeva poco o nulla della dinamica. Matteo Renzi ha detto che l'Italia non lascerà sola Chinyery. Giusto. Giustissimo: ogni tragedia merita rispetto. O forse no. Venerdì, infatti, non era un giorno qualsiasi: nella notte dell'8 luglo di due anni fa, quattro albanesi entrarono nella casa di Pietro e Federica Raccagni, colpirono con una bottiglia il macellaio di Pontoglio e lo uccisero. Erano clandestini e facevano parte di una banda che aveva messo a soqquadro la zona. Federica ricorda ancora con dolore quel giorno. La morte del marito, i funerali e l'assenza dello Stato. Sì, assenza. Perché né il ministro dell'Interno, né Renzi, né l'allora Presidente della Repubblica andarono ai funerali di Pietro. Non c'era Maria Elena Boschi. Non c'era Cecile Kyenge a dichiarare che la clandestinità può portare alla malavita e la malavita distrugge la vita degli italiani. Non c'era Laura Boldrini al fianco di Federica, a rincuorarla, a dirle che lo Stato è con lei. Per questo la processione al funerale di Emmanuel, la vedova Raccagni la chiama diversamente: discriminazione. "Io sono vicina a Emmanuel e alla moglie - dice in un video - perché conosco il dolore e cosa vuol dire un atto di violenza. Ma quello che mi ha colpito più di tutto è stata la solidarietà del governo nei confronti della vedova. Una solidarietà che io non ho ricevuto. Per lei si è mosso Alfano, il Presidente della Repubblica ha speso belle parole nei suoi confronti. Renzi ha detto di non abbandonarla. Ecco: volevo denunciare che io tutte queste attenzioni non le ho avute". Federica è come se non esistesse agli occhi dello Stato. Nessuna pacca sulla spalla. Anzi: solo quella fitta quotidiana di sapere gli assassini condannati ad appena 10 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. "Si parla di discriminazione razziale - attacca Federica -: penso di averla ricevuta io la discriminazione. Perché ci sono vedove di serie A e vedove di serie B. Ci sono vittime di serie A e vittime di serie B. Mio marito era una persona onesta, un marito esemplare, un padre esemplare, un cittadino onesto che ha sempre pagato le tasse. Era un uomo giusto e non ha ricevuto tutte queste considerazioni dallo Stato. Nonostante i miei richiami, nonostante io abbia fatto di tutto in questi due anni per sensibilizzare il governo". I familiari e gli amici di Pietro dovettero addirittura scrivere una lettera a Renzi per farsi ascoltare. "Non sono stata tutelata prima e non sono stata tutelata dopo - conclude Federica - Che l'esecutivo si sia mosso per la vedova di Emmanuel va benissimo. Ma deve muoversi per tutti. Perché io in questi due anni ho conosciuto moltissimi italiani che hanno subito aggressioni e nessuno si è interessato di loro. E questo non è giusto. Io voglio attenzioni. Io voglio che il governo ci tuteli. Si devono rendere conto che ci siamo anche noi italiani".
DIRE “SCIMMIA” E’ PEGGIO DI DIRE “TERRONE”? Gli islamici meglio dei meridionali?
L’antirazzismo ipocrita. Il paradosso antirazzista. Per la Cassazione l’espressione “sporco negro” è razzista, l’ingiuria “italiano di m…” no, scrive Silvia Cirocchi, il 9 agosto 2013 su “Quelsi”. Secondo la Corte di Cassazione, al contrario dell’espressione “sporco negro”, l’ingiuria “italiano di merda” non ha una connotazione razzista, in quanto se fosse connotata in termini razzisti implicherebbe “una esteriorizzazione immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avendo riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore” (Cassazione, sez. V, 11 luglio 2006, n. 37609), che dunque “veicoli l’espressione di un pregiudizio di inferiorità e di negazione dell’uguaglianza”. Se, dunque, l’espressione “sporco negro” integra l’aggravante della connotazione razzista dell’ingiuria perché è correlata nel contesto territoriale ad un pregiudizio di inferiorità razziale, come riconosciuto dalla Cassazione con la sentenza n. 9381/2006, lo stesso non può dirsi per la frase ingiuriosa “italiano di merda” in quanto nel comune sentire del nostro Paese il riferimento all’italiano non è connaturato ad una situazione di inferiorità, essendo la comunità etnica italiana maggioritaria e politicamente egemone nel nostro Paese. Così ha deciso la Corte di Cassazione, nella sentenza della sez. V., n. 11590 dd. 25 marzo 2010, respingendo il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Trieste avverso la sentenza del Giudice di pace di Pordenone. In parole povere, se uno straniero insulta un italiano esclamando “italiano di merda”, in Italia, non è punibile in alcun modo per istigazione all’odio razziale. Così ha deciso la Cassazione nel 2010.
PERCHE’ GLI ISLAMICI SON DIVERSI?
Tutti i movimenti d’opposizione alla Repubblica iraniana, scrive l'11 gennaio 2018 Luca Fortis su "Gliocchidellaguerra.it" de "Il Giornale". Gli iraniani che sostengono il regime non sono meno del trenta per cento. Certo non tutti gli oppositori sono laici, semplicemente sono moltissime le ragioni per opporsi alla Repubblica Islamica e al suo concetto di “Velayat e Faqih”, la tutela del giurisperito. Il governo iraniano, pur essendo una “burocrazia elastica”, più che un potere accentrato nelle mani di un solo dittatore, ha finito per escludere troppe persone. La nomenclatura iraniana è più simile a quella del partito comunista cinese, che a quella di dittature personalistiche, com’era per esempio quella Saddam Hussein in Iraq. È fatta da mille anime, anche con posizioni enormemente differenti. Quello che le unisce è l’accettare l’ideologia della “Velayat e Faqih” o semplicemente la condivisione del potere. Anche perché, come per la Cina il comunismo oggi è una bandiera dietro cui si cela il capitalismo più sfrenato, per l’Iran Khomeini è ormai un’icona dietro cui si cela la gestione, a volte anche molto spericolata, del potere. La figura della guida suprema e le altre istituzioni del regime, che danno il via libera non solamente alle candidature alle elezioni, ma anche alle leggi firmate dal parlamento, sono proprio un tentativo di mettere insieme tutte le diverse anime della Repubblica Islamica. Le istituzioni iraniane sostengono di essere le uniche custodi dell’interpretazione del Corano e quindi della legge in Iran. È proprio questa pretesa che ha creato una delle opposizioni al regime più interessanti e meno conosciute in occidente, quella religiosa. Nella tradizione sciita, come in generale sunnita, non vi è un Papa al vertice, motivo per cui è impossibile dire quale sia la giusta e unica interpretazione del Corano o nominare il clero. Si tratta di un meccanismo molto simile a quello della religione ebraica. L’Islam, come l’Ebraismo, è una religione che tende a regolare la vita di tutti i giorni, ma lascia tradizionalmente liberi di scegliere il religioso che indicherà quali siano queste regole. Per essere titolato a interpretare il Corano, basta studiare per anni il testo sacro, scrivere molti libri e avere molti musulmani che ritengano che si sia titolati a interpretare. Questo fa sì che le interpretazioni tradizionalmente date possano differire molto da religioso a religioso o da scuola giuridica a scuola giuridica. La maggiore differenza tra sciiti e sunniti è data dalla successione di Maometto. Se per i sunniti dopo Maometto i califfi possono solamente comandare la comunità, ma non interpretare in modo unico e centralizzato il Corano, per gli sciiti dopo il profeta vi sono stati altri dodici Imam che ispirati da Dio davano un’interpretazione del Corano che era da considerarsi come definitiva e certamente vera. Il dodicesimo, il Mahdi, però disgustato dal mondo, si è nascosto e non è mai morto. Tornerà alla fine del mondo con Gesù Cristo per giudicare gli uomini. Ecco perché anche per lo sciismo, tradizionalmente da allora non è stata più possibile un’interpretazione unica del Corano. Non essendo morto il Magdi, che si è solo nascosto in attesa di tornare alla fine del mondo, non si può nominare un successore, quindi nessuno può più essere l’unico interprete delle scritture sacre. L’ayatollah Khomeini riformò proprio questo punto, creando una nomenclatura che si è appropriata dell’interpretazione del Corano per farla legge unica dello Stato. Inoltre non ha mai smentito l’idea che circolava tra alcuni dei suoi fedeli di essere lui il Mahdi. È proprio di questo di cui lo accusano molti religiosi sciiti. Aver cristallizzato attraverso la legge dello Stato l’interpretazione del Corano ha reso impossibile la naturale e tradizionale libera interpretazione del testo sacro, libertà che avrebbe dovuto terminare solamente con la fine del mondo e l’arrivo del Mahdi e di Gesù Cristo. Quest’accusa fu fatta già negli anni della rivoluzione e non fu lanciata solamente dai religiosi che vi si opponevano o dall’ala sinistra e maggioritaria dei rivoluzionari, ma anche dagli stessi che avevano inventato il concetto di “Velayat e Faqih”, come l’ayayollah Hossein Ali Montazeri, che avrebbe dovuto essere il successore di Khomeini e che invece passò il resto della sua vita ai domiciliari. L’ayatollah nel 1989 disse: “Il diniego dei diritti del popolo, l’ingiustizia e il disconoscere i veri valori della rivoluzione hanno portato i più severi colpi alla Rivoluzione. Prima di ogni ricostruzione, ci deve essere una ricostruzione politica ed ideologica … Ciò è qualcosa che il popolo si aspetta da un leader”. Oggi l’accusa non solo è portata avanti da milioni di Sufi, ma anche da molti ayatollah, in Iran, come in altri Paesi con forti comunità sciite come Iraq e Libano. Ma i gruppi che hanno motivo di sentirsi tagliati fuori dalla Repubblica Islamica, sono molti di più. Vi sono per esempio i Bahai, che rappresentano la seconda religione del paese e che sono illegali perché considerati un’eresia moderna dello sciismo. Anche i sunniti del Paese sono scontenti come anche le minoranze culturali curde e azere. Tutti chiedono che l’Iran tenga in maggior conto le loro specifiche diversità culturali o religiose. Per non parlare delle tribù nomadi, che contano ancora più di un milione di persone, anch’esse hanno visioni religiose e culturali molto diverse da quelle della repubblica islamica. Vi sono poi le piccole comunità ebraica, armena e zoroastriana che anche se rispettate e istituzionalizzate, sono comunque obbligate a rispettare le leggi della repubblica islamica fuori dalle proprie abitazioni. Vi sono poi anche gli Yazidi, che però al contrario che in Armenia e Iraq sono illegali, perché considerati per errore come adoratori del male. Se si uniscono insieme tutti questi gruppi alle vaste masse cittadine laiche e ai moltissimi scontenti per la situazione economica, ecco che si comprende che la grande maggioranza della popolazione è contraria alla Repubblica Islamica. Secondo molti osservatori il regime ha però sempre potuto sopravvivere grazie a un mix di elasticità e violenza. Khomeini tenne tutti i pezzi insieme anche grazie alla guerra con l’Iraq. La risposta all’invasione irachena fu vista come prioritaria dagli iraniani e permise al regime di nascondere sotto il tappeto tutte le divisioni e le ambiguità dei rivoluzionari. Finita la guerra e morto Khomeini, il suo successore, l’ayatollah Khamenei, si ritrovò per le mani la “la patata bollente” dell’esplosione delle mille contraddizioni della Repubblica Islamica in tempo di pace. Khamenei è riuscito a tenere insieme il Paese grazie a un misto di pragmatismo e di svuotamento del valore delle leggi senza mutarle. Il tutto è avvenuto attraverso la corruzione delle forze dell’ordine e alla pratica di chiudere gli occhi davanti al non rispetto delle leggi, finché esso non diventi una precisa richiesta di modificarle. Allo stesso tempo non ha avuto remore ad appoggiare le condanne a morte di chiunque mettesse in dubbio le leggi o il potere della Repubblica. In pratica, secondo molti, ha fatto intendere alle masse, stanche dopo la rivoluzione e la guerra Iran-Iraq, che potevano fare quello che volevano a patto di farlo dentro casa e di non rivendicarlo come diritto. Ma ha anche chiarito, che se avessero oltrepassato la linea rossa trasformando quello che facevano di nascosto in rivendicazione politica, rischiavano di essere uccisi per aver messo a rischio le fondamenta della Repubblica Islamica. Anche l’emigrazione degli scontenti verso altri paesi è stata tollerata pur di rendere meno esplosiva la situazione in patria. Un altro punto di forza del regime è che quasi nessun politico dell’opposizione è stato capace di parlare sia ai laici, che agli oppositori religiosi, tribali o culturali. In fondo tutti chiedono uno stato meno presente nella loro vita. Solamente gli ex candidati presidenziali Mussavi e Karrubi e l’ex sindaco di Teheran, Karbaschi, vi erano in parte riusciti. Per altro essendo nomi di peso della stessa Repubblica Islamica. Fu proprio per questo che, secondo molti osservatori, vinsero le elezioni contro Ahmadinejad nel 2009 e che il regime spaventato dalla propria inaspettata deriva libertaria e progressista, truccò il voto, li incarcerò e represse le proteste dell’onda verde con massima violenza. Il regime oggi vive un nuovo momento di fragilità. Khamenei è molto anziano e ha un tumore, bisogna quindi capire se la nomenclatura della Rivoluzione Islamica sarà capace di eleggere un nuovo leader supremo che metta insieme tutte le sue anime e se esso sarà capace di convincere o obbligare la maggior parte degli iraniani ad accettare un’ideologia da cui, secondo molti osservatori, si sentono tagliati fuori per i motivi più disparati.
Perché la mente degli islamici è diversa. Non siamo tutti uguali, non è uno scandalo. Ogni cultura per sua natura genera una nevrosi con meccanismi peculiari, scrive Karen Rubin su “Il Giornale”. Marwan Dwairy è uno psicologo palestinese. Ha scritto un manuale per terapeuti dal titolo Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani. Il libro trasmette un concetto di base dell'etnopsichiatria: i disturbi psicologici sono influenzati dalla cultura di appartenenza che produce nei gruppi etnici differenze psichiche profonde. La mente degli islamici è diversa da quella degli occidentali e per curarle servono terapie specifiche che ne tengano conto. Lo studioso pone l'accento sulla diversità tra i popoli, mentre noi, ipocritamente, l'abbiamo bandita dalle nostre riflessioni come se fosse in automatico discriminazione e mancanza di tolleranza per il diverso da sé. Non siamo tutti uguali, non è uno scandalo. Se parlare di scontro di civiltà incita il razzismo, non conoscere le differenze impedisce la mediazione e il rispetto reciproco, le uniche armi a disposizione contro l'ostilità. Ogni cultura per sua natura genera una nevrosi con meccanismi peculiari. In Occidente la cultura giudaico-cristiana e la secolarizzazione hanno favorito un processo d'individuazione per cui l'uomo, dotato di libero arbitrio, è padrone e unico responsabile della sua vita e delle sue azioni. Ogni persona ha una percezione di sé come diversa dall'altra, dall'ambiente e dalla collettività in cui è immersa. La cultura è interpretata e adattata in base ai bisogni e le aspettative personali. Un individualismo che pone l'accento sul valore morale dell'uomo e dei suoi obiettivi d'indipendenza e di autonomia. L'esatto contrario di quanto avviene nei paesi islamici in cui la cultura coincide con una religione pervasiva in cui gli individui non hanno valore in sé ma perché appartenenti a un corpo unico di fedeli che ha rinunciato alla libertà in cambio della tutela divina, che detta le regola per ogni comportamento. Il singolo s'identifica con la collettività che è sottomessa agli ordini degli imam, indiscutibili e immutabili perché discendono direttamente dalle parole del profeta. Entrambe le posizioni generano mali psicologici e sociali che sono sotto gli occhi di tutti. L'individualismo occidentale che doveva garantire uguale libertà e diritti civili per tutti gli uomini sembra aver perso il suo fascino. L'uomo è in balia di un narcisismo sfrenato che nega l'altro e impedisce relazioni solidaristiche tra gli individui. La corsa alla realizzazione personale lo fa sentire sempre più isolato e più solo, incapace di dare significato all'esistenza e alla morte. Vivere e combattere per un'ideologia religiosa, come avviene nell'islam radicale, fornisce una certezza granitica e una promessa di eterna felicità che per i fedeli vale la rinuncia della libertà. Nei paesi islamici la massa sposa un'ideologia in modo acritico smarrendo quel senso della realtà che può trasformare la religione in un delirio collettivo per cui diventa legittimo lapidare una donna accusata di adulterio o di apostasia. Al singolo, privato del suo sé e quindi di pensiero autonomo, è vietato contrapporsi a qualsiasi forma di barbarie che colpisca la sua persona o la sua famiglia. Prescindere dal pensiero individuale favorisce i fanatismi di massa che hanno generato in occidente il nazismo e lo stalinismo e che nell'islam sono il terreno di coltura per Hamas, Isis e Boko Haram. Dobbiamo ricordare che se è possibile e legittimo realizzare i nostri desideri di crescita personale è perché abbiamo combattuto per fondare la nostra struttura sociale su ideali di libertà e uguaglianza basati sulla ferma convinzione del valore morale che ogni uomo come essere unico e originale possiede. Recuperare questa ideologia, perseguire la via della civilizzazione, pretendere e garantire comprensione e rispetto difendendo il valore oggettivo che attribuiamo alla libertà è l'unico modo possibile per convivere pacificamente con chi, anche se diverso da noi, scelga di vivere nel nostro paese.
Con gli islamisti non si può dialogare. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Rispetto al fondamentalismo islamico, e all'esigenza di conviverci senza danni per noi, alcuni studiosi americani suggeriscono che l'Occidente prenda ad esempio la propria storia degli ultimi cinquecento anni. Gli Asburgo, la maggior dinastia europea, «erano dei principi - scrive John M. Owen in Confronting political Islam, Six lessons from the West's Past - non dei preti». E si comportarono di conseguenza. Di fronte al radicalismo genericamente anticattolico del protestantesimo, non fecero di ogni erba un fascio, confondendo eretici estremisti ed eretici moderati e trattandoli allo stesso modo, ma constatarono che il protestantesimo era diviso fin dalla nascita in varie fazioni - luterani, calvinisti, anabattisti - e si acconciarono a sfruttarne le divisioni. Fu un grosso rischio? L'approccio non era meno rischioso di quello di fare la faccia feroce ad entrambi, ma ha funzionato. Parimenti, nel XX secolo, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la moderna sinistra politica, ostile alla democrazia liberale, al capitalismo e al libero mercato. Ma non la considerarono, e per lo più non la trattarono, come faceva la destra, come fosse un monolite, bensì utilizzarono ciò che divideva i socialisti dai comunisti. E hanno avuto la meglio sul comunismo. L'islamismo moderato - a differenza di quello fondamentalista, che ricorre volentieri alla violenza - utilizza i mezzi pacifici e legali della democrazia liberale per diffondere la sharia, la morale islamica. Non è liberale, ma rimane una teocrazia che ha fatto una scelta strategica contro la violenza. Ciò non significa, ovviamente, che l'Occidente possa, e debba, instaurare con esso «un dialogo», come suggeriscono certe nostre anime belle. La stessa storia della cooperazione fra gli Asburgo, cattolici, e i protestanti contro i calvinisti insegna che distinguere fra fondamentalisti e moderati non è sempre facile e, se può rivelarsi positivo nel breve termine, minaccia di essere fallimentare nel lungo. La prudenza non è mai troppa. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia; che, rispetto alla democrazia liberale, rimane pur sempre una soluzione clericale. Forse, c'è un altro esempio che l'Occidente dovrebbe seguire: quello di Edmund Burke, il liberal-conservatore che difese il diritto delle colonie americane di tassare i propri cittadini solo secondo i dettami delle proprie assemblee e non secondo quelli del Parlamento di Londra. «I vostri affari - aveva scritto Burke ai suoi amici francesi a proposito della Rivoluzione del 1789 - riguardano voi soli; noi ce ne siamo occupati come uomini, ma ce ne teniamo alla larga perché non siamo cittadini della Francia». È il linguaggio che, auspicabilmente, l'Occidente dovrebbe usare nei confronti dell'islamismo...
Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.
Follia islam, fatwa per fatwa. Vietati rock, calcio, cani e bici. Le scomuniche religiose possono costare la vita. Ma osservarle tutte vuol dire non vivere più, scrive Massimo M. Veronese su “Il Giornale”. Ha una fama sinistra ma la fatwa, o fatawi al plurale, in fondo, è solo un codice di comportamento quotidiano e non è obbligatorio rispettarlo. Per avere valore deve uscire dalla bocca di un'autorità religiosa, ma in troppi, hanno denunciato alcuni analisti algerini, si attribuiscono un ruolo nell'Islam e si sentono autorizzati a dettare legge a caso. Le fatawi vietano gadget, oroscopi, la riproduzione di cd e dvd. Per non dire del nuovo profumo «Victoria's Secret: Strawberries and Champagne» ritirato dal governo dagli scaffali di Doha senza bisogno di una fatwa perchè «va contro le abitudini, le tradizioni e i valori religiosi del Qatar». Ma in questi anni abbiamo visto anche di peggio.
Le palle di neve. É l'ultima in ordine di apparizione: vietato costruire pupazzi di neve in Arabia Saudita, fatwa dell'imam Mohammad Saleh Al Minjed. Dice che realizzare uomini o animali di neve è contrario all'Islam. Unica eccezione, riporta Gulf News , i pupazzi di neve raffiguranti soggetti inanimati cioè navi, frutta o case. La reazione però è stata piuttosto gelida.
I pokemon. Pikachu, Meowih, Bulbasaur, sono stati accusati di complotto giudaico-massonico, e messi al bando dallo sceicco saudita Yusuf al-Qaradawi, ideologo dei Fratelli musulmani. Vietata la loro vendita in tutta l'Arabia Saudita. I Pokemon, sentenzia la fatwa, si sono coalizzati per far diventare ebrei i musulmani. Bastasse un cartoon.
I tatuaggi. Fresca anche questa. La Direzione Affari Religiosi di Turchia guidata dal Gran Mufti Mehmet Gormez, principale autorità religiosa islamica del paese, ha emesso una fatwa contro i tatuaggi: «Allah ha maledetto coloro che cambiano il loro aspetto creato da Dio». Spacciati Materazzi e Belen.
Il calcio. La fatwa dello sceicco Abdallah Al Najdi si basa sul principio che vieta ai musulmani di imitare cristiani ed ebrei. Si può giocare ma con regole diverse: niente linee bianche in campo, niente squadre di 11 giocatori, porte senza traverse, chi grida gol va espulso e niente arbitro perchè superfluo. Come del resto nel nostro campionato...
I croissant. Ad Aleppo una commissione sulla sharia ha emanato un editto religioso contro il consumo di croissant, considerati il simbolo della colonizzazione dell'Occidente. Il babà invece va bene ma solo se si chiama alì...
La chat. Chi chatta online attraverso i social network con persone dell'altro sesso commette peccato. Lo stabilisce la fatwa dello sceicco Abdullah al-Mutlaq, membro della Commissione saudita degli studiosi islamici. Poi hanno fatto retromarcia: si riferiva a un caso isolato da non generalizzare. Non mi piace.
Il rock. L'ha decisa in Malaysia la Commissione del consiglio per gli affari islamici secondo la quale la musica rock va spenta perché fa male allo spirito. E c'è una variante, il black metal, che essendo dominata dall'immaginario occulto, ha il potere di traviare e stravolgere le anime dei giovani musulmani. Il liscio non si sa.
Il sesso. Fare l'amore si può. Ma non nudi. «Esserlo durante l'atto sessuale invalida il matrimonio» la fatwa imposta dallo sceicco Rashar Hassan Khalil. Non tutti sono d'accordo. Il presidente del comitato delle fatwa di alAzhar, Abdullah Megawer, ha corretto, come si suol dire, il tiro: nudità ammesse, ma a patto che i partner non si guardino.
La bicicletta. A lanciarla è stata la guida suprema della Repubblica islamica, l'ayatollah Ali Khamenei in persona: proibisce nel modo più assoluto la bici alle donne iraniane.
Il cane. Nonostante sia per l'Islam un animale impuro, il cane è molto diffuso come animale domestico in Iran. Così il grande ayatollah Nasser Makarem-Shirazi ha emesso la sua fatwa: «Non c'è dubbio che il cane sia un animale immondo». Pur ammettendo che il Corano non dice nulla in proposito. E allora?
Lo yoga. Oltre 10 milioni di persone hanno partecipano in India a una lezione di massa di yoga per il Guinness dei Primati. La cosa però non è piaciuta ai vertici religiosi musulmani di Bhopal che hanno lanciato una fatwa per condannare l'esercizio come «antislamico» e «pagano» per il riferimento al dio Surya.
La festa di compleanno. Celebrare compleanni e anniversari di nozze non può avere spazio nell'Islam. Lo dice il Gran Muftì dell'Arabia Saudita, Sheikh Abdul Aziz Al-Alsheikh. «Un musulmano dovrebbe solo ringraziare Allah se i suoi figli stanno bene e se la sua vita matrimoniale è buona». Le classiche nozze con i fichi secchi.
L'eclisse. Una fatwa lanciata dal gran mufti d'Egitto proibisce ai musulmani di osservare l'eclissi. «Mette in pericolo la vista dell'essere umano e poiché l'islam proibisce all'uomo di mettere in pericolo la sua vita è peccato guardare l'eclisse». E con questa siamo al buio pesto.
La sinistra tace sulla mercificazione dei bambini.
Nuovo video shock Isis, bambino spara ai prigionieri. Ragazzino di 10 anni giustizia due uomini, scrive Benedetta Guerrera su “L’Ansa”. Non c'è limite all'orrore jihadista: dopo le bambine kamikaze in Nigeria, costrette dai terroristi di Boko Haram a farsi saltare in aria imbottite di esplosivo, un nuovo terribile video dell'Isis mostra un ragazzino che impugna una pistola e fredda due ostaggi come un boia consumato. Immagini scioccanti, che dimostrano come la follia del terrore non si fermi più davanti a nulla. Nei nuovi otto minuti di orrore, pubblicati sui siti jihadisti e rilanciati dal Site (il sito Usa di monitoraggio dell'estremismo islamico sul web), la scena è simile a tante altre diffuse in questi mesi di atroce propaganda da parte degli assassini dell'Isis. Solo che in questo caso, il boia ha il volto pulito di un bambino che non avrà neanche 10 anni. "L'Isis ha raggiunto un nuovo livello di depravazione morale: usano un bambino per giustiziare i loro prigionieri", ha commentato postando un fermo immagine del video sul suo account Twitter Rita Katz, la direttrice del Site. Le vittime vengono presentate come due kazaki, di 38 e 30 anni, accusati di essere "spie russe". Prima della loro esecuzione i due confessano di essere "agenti del Fsb", i servizi russi, inviati in Siria per raccogliere informazioni sui jihadisti e soprattutto sui 'foreign fighter' russi. Dalle parole delle due spie si evince che sono stati in Turchia sulle tracce di qualche 'pezzo grosso' dell'Isis, il cui nome è però omesso. Il più giovane dei due 'rivela' anche di essere stato reclutato per uccidere "un leader dello Stato islamico". Il filmato, intitolato "Uncovering the enemy within" (Scoprire il nemico interno) e targato al Hayat media center - la 'casa di produzione' dello Stato Islamico - è di ottima qualità e ha un montaggio quasi cinematografico. Al momento dell'esecuzione ad opera del bambino, i due uomini appaiono inginocchiati a terra e hanno le mani legate dietro la schiena. Non indossano la tradizionale tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo, che di solito i jihadisti fanno mettere agli ostaggi occidentali, ma una divisa azzurra. Alle spalle dei due condannati ci sono il ragazzino armato di pistola e un terrorista con la barba lunga e il kalashnikov che parla in russo. E' lui che spinge il bambino verso le sue vittime. Proprio a questo punto, quasi a voler enfatizzare il momento, le immagini vengono trasmesse al rallentatore e con un gioco di dissolvenze, mentre il terrorista ripete le ennesime minacce ai "nemici di Allah": il ragazzino, che ha un vistoso orologio al polso e indossa una felpa nera e pantaloni mimetici come il suo 'superiore', solleva la pistola e spara un colpo alla testa di ciascuno dei due prigionieri. Un colpo secco, sulla nuca, con incredibile freddezza. I due cadono a terra, il ragazzino si avvicina e ne finisce uno con altri due spari. Poi solleva il braccio con la pistola in segno di vittoria e sorride. Un video agghiacciante, che potrebbe essere una squallida messa in scena, costruita ad arte dai jihadisti dell'Isis, abili comunicatori del terrore. Nonostante le due vittime vengano colpite alla testa infatti, non si vede il proiettile uscire, né il sangue sgorgare dalla nuca o dal collo. Ma sono immagini che comunque lasciano sgomenti. Anche perché subito dopo la sequenza dell'uccisione parte il frammento di un altro video che era già stato pubblicato dall'Isis a novembre in cui lo stesso ragazzino appare in un gruppo di bambini kazaki che si addestrano a usare i kalashnikov. "Sarò uno di quelli che vi sgozzerà, kafiri", diceva il ragazzino. Anche in quel caso il filmato era scioccante, quasi irreale. Una ventina di bambini che smontavano e riassemblavano kalashnikov e poi miravano inginocchiati ai loro bersagli. "Sono la nuova generazione, saranno loro che scuoteranno la Terra", recitava una voce fuori campo.
PERCHE’ I COMUNISTI SON DIVERSI?
Non solo apologia dell'Islam, ma anche tentativo di resuscitare una ideologia morta in nome di una falsa tolleranza.
I partigiani e la lezione di comunismo alle elementari. In Romagna l'Anpi celebra il Pci in un libro per le elementari. E le famiglie romene insorgono, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Papà cosa vuol dire "utero in affitto"?». Domande che ti vengono, all'età di dieci anni, solo se ti capita di leggere di femminismo, comunismo, guerra partigiana e D'Alema, in un libretto gentilmente donato dall'Anpi locale alle scuole elementari di Cervia, nella rossa Romagna, nel corso di una serie di lezioni. L'autore del librettino è Giampietro Lippi, presidente dell'Associazione nazionale partigiani a Cervia, «esponente del Pd» secondo un genitore di una delle scuole coinvolte, Raffaele Molinari, che sul suo blog denuncia l'«indottrinamento di partito» a spese dei bambini. Nel libretto distribuito nelle classi di quinta elementare, nel corso di vari incontri a scuola, non si rievocherebbe solo la storia dei partigiani e delle staffette, perché «tutte le storie sono raccontate per rendere idilliaco il ricordo del Pci, con innumerevoli note dove si citano personaggi del grande Partito comunista, le immagini col pugno alzato... Insomma comunismo ovunque», lamenta Molinari. Il quale riporta alcuni passi del libretto per rendere meglio l'idea: «Ho incontrato allora tanta brava gente. Tra i tanti, uno che ricordo con stima e simpatia, era il padre del nostro D'Alema, che aveva come nome di battaglia "Braccio"». O anche quest'altro: «Le portava l'Unità, perché la leggesse e incominciasse ad interessarsi alle cose vere della vita, ed Anna poco alla volta capì che era importante scegliere il fronte politico con il quale accasarsi e scelse il Pci». I genitori hanno chiesto spiegazioni alla scuola: «Dalle informazioni raccolte in un colloquio con la maestra - spiega Molinari - è risultato che Lippi è stato autorizzato ufficiosamente dalla direzione didattica di Cervia. Non una visita occasionale, ma un vero e proprio programma di lezioni, per tre settimane. Una sorta di arruolamento in vista del settantesimo anno della liberazione di Cervia». Il presidente dell'Anpi di Cervia, invece, è sconcertato dalle accuse: «Assurde, fuori luogo, senza senso - ci spiega al telefono - Io non faccio politica, racconto la storia, se le staffette partigiane erano comuniste o socialiste cosa devo farci, nasconderlo? Io sono un ex democristiano, si figuri, anche se adesso sì, sono iscritto al Pd. Questa iniziativa nelle scuole è nata insieme all'amministrazione comunale (guidata dal Pd, ndr ) e alla direzione didattica, per coinvolgere le scuole nel settantesimo anniversario della Liberazione a Cervia. C'è una bella differenza tra fare propaganda di partito e parlare delle staffette partigiane! Sono sconcertato dal livello culturale di certa gente, non meravigliamoci se l'Italia va male». I più arrabbiati per la sua iniziativa sono i genitori immigrati dall'Europa dell'Est, che del comunismo hanno un ricordo più vivo. Sui cancelli della scuola hanno appeso dei cartelli: «No al comunismo nelle scuole», «Il comunismo rovina i nostri figli», in romeno e altre lingue slave. E, mentre si parla di denunce partite all'indirizzo del presidente Anpi, oggi i genitori inscenano un corteo silenzioso nel centro della città: «In piedi, senza schiamazzi, senza rumore, reggendo in mano un libro di storia come segno della nostra protesta».
"Sì agli immigrati, convinci un leghista". Così la scuola indottrina i nostri figli. Bufera per il tema assegnato da un insegnante agli allievi di una scuola vicentina. Il Carroccio: "È inaccettabile", scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Un clamoroso caso di indottrinamento politico: è questa l'accusa con cui la Lega Nord del Veneto si scaglia contro un insegnante dell'istituto "Ceccato" di Thiene, in provincia di Vicenza, reo di aver assegnato agli studenti un tema dal titolo "Persuadi un tuo compagno leghista che l'immigrazione non è un problema bensì una risorsa". In difesa del Carroccio si è levata l'europarlamentare Mara Bizzotto, che della Lega è anche vicepresidente regionale: "Quanto successo all'istituto Ceccato è molto grave e conferma come esistano purtroppo insegnanti che mischiano, in modo scorretto e inaccettabile, i propri convincimenti politici con l'insegnamento - continua l'onorevole Bizzotto - La scuola dovrebbe essere un luogo di libertà e una palestra di educazione e di vita, non un luogo di indottrinamento politico secondo i convincimenti politici del professore di turno". "Bene hanno fatto i genitori e gli studenti che hanno segnalato questo grave comportamento da parte dell'insegnante che, mi auguro, sarà severamente ripreso dagli organi competenti - conclude la Bizzotto - I nostri ragazzi hanno bisogno di una scuola che insegni, che funzioni e che svolga il proprio ruolo: i professori che vogliono far comizi o proselitismi politici li devono fare rigorosamente fuori dalle classi e fuori dalle scuole!". L'episodio risale a qualche giorno prima delle ferie natalizie. "Un professore si permette - ha rincarato la dose il consigliere regionale leghista Nicola Finco - di dare giudizi politici in classe su un partito come se il problema in questi giorni non fosse l'islam; nel frattempo i benpensanti radical chic di sinistra si scandalizzano perchè l'assessore regionale all'Istruzione scrive alle scuole affinchè in classe si tratti del problema del terrorismo islamico che è solo e unicamente cronaca".
Tema: «Immigrati sono una risorsa convinci un tuo compagno leghista». La bufera sulla traccia assegnata agli studenti dell'istituto Ceccato di Thiene. Salvini: «Pazzesco». L’europarlamentare Fontana: Pd regali tessera al prof, scrive Elfrida Ragazzo su “Il Corriere della Sera”. La parola «leghista» nel testo di un’esercitazione di italiano scatena la polemica. A sollevarla è il Carroccio attraverso Michele Pesavento, della segreteria politica del partito di Vicenza. Sotto accusa è una traccia per un esercizio di argomentazione proposto da un’insegnante di lettere agli alunni di una classe terza dell’istituto tecnico Ceccato di Thiene. «Dopo aver preso in considerazione i dati sull’immigrazione in Italia e dopo aver letto l’articolo – si legge nel documento diffuso - scrivi un testo argomentativo in cui persuadi un tuo compagno leghista che il fenomeno migratorio non è un problema, bensì una risorsa». Venuto a conoscenza dell’accaduto da alcuni genitori, Pesavento attacca: «Quella traccia è offensiva e razzista, l’insegnante di lettere ha trasformato quell’aula in un “pensatoio politico”». Ed invita il preside a «vigilare su chi ha confuso l’istituto Ceccato con una tribuna elettorale» e la docente in questione «a lasciare a casa tessera e ideologie politiche». Interviene anche il segretario federale della Lega Matteo Salvini: «Pazzesco!», Scrive in un tweet. Il consigliere regionale della Lega Nord Nicola Finco ricorda il caso sollevato da lui stesso sulla presenza dell’eurodeputata Alessandra Moretti, candidata alle elezioni regionali venete per il Pd, ad una festa di un istituto comprensivo di Arzignano prima di Natale. «Basta con la politica in classe. Le aule scolastiche non sono circoli del Partito democratico o della sinistra, serve rispetto – dice – Altrimenti i veri fondamentalisti non sono i leghisti, bensì certi professori di cui si può fare volentieri a meno. Invece di preoccuparsi di leghisti da persuadere, il docente potrebbe spiegare ai ragazzi cosa accade nel mondo in queste ore». L’europarlamentare della Lega Nord Lorenzo Fontana commenta sarcastico il caso di Thiene, Fontana chiosa serio: «La scuola è luogo di istruzione e formazione, non di propaganda politica, anche se è noto come sia un vizio storico della sinistra metterci becco. E poi quel professore dà per scontato l’assunto che l’immigrazione è una risorsa. E se un alunno non la pensasse così che succede? Mi piacerebbe conoscere i metodi di questo prof». E conclude: «Quel professore se proprio ha la fregola della politica può sempre iscriversi al Pd, sempre che non lo sia già. Ma fossi del Partito democratico gli regalerei la tessera. Motivazione: alti servigi al partito e alla causa della sinistra».
L’ISLAM NON SI TOCCA.
Filippo Facci condannato e sospeso per aver criticato l'islam. Scrive Filippo Facci il 17 Giugno 2017 su "Libero Quotidiano". La notiziola è che il Consiglio di disciplina dell'Ordine lombardo dei Giornalisti ha deciso di sospendermi per due mesi dalla professione e dallo stipendio, questo a causa di un articolo che pubblicai su Libero il 28 luglio 2016 e che fu titolato «Perché l'islam mi sta sul gozzo». Una giovane collega, che non conosco, lesse l'articolo - che ebbe un certo seguito - e ritenne di fare un esposto contro di me: c' è gente che in agosto fa queste cose. Il risultato, dopo un pacato processino, è questa condanna incredibilmente severa rispetto alle abitudini dell'Ordine: è una sentenza comunque appellabile e, da principio, avevo pensato di riservare ogni reazione alle sedi competenti, come si dice: poi ho letto le motivazioni del giudice estensore (un avvocato che si chiama Claudia Balzarini) e sinceramente non ce l'ho fatta.
Questo per due ragioni: la prima è temperamentale mia, la seconda riguarda puramente la libertà di espressione garantita dalla Costituzione, che non è solo affar mio. Anticipo solo questo: trovo riprovevole che il regolamento del Consiglio di disciplina permetta che una non-professionista, che ho diritto di giudicare di dubbio livello culturale e di forte condizionamento ideologico, possa privare un giornalista e relativa famiglia dei mezzi di sostentamento per mesi due: e questo, a mio dire, non per una palese violazione di alcuna legge (in particolare viene citata la Legge Mancino, quella che vieta la diffusione di idee fondate sull' odio razziale) bensì, sempre a mio dire, per le sue personali visioni del mondo. Ci sarebbe il problema, ora, di illustrare l'oggetto del contendere (l'articolo) senza che suoni come un pretesto per riproporlo tale e quale: suonerebbe provocatorio e non mi va. Quindi dovrete fidarvi di una sintesi dei concetti che esprimeva: e lo faceva con grande chiarezza, vi assicuro.
Unica premessa: il linguaggio era durissimo, volutamente durissimo: e questo come reazione all' impossibilità, oggigiorno, di esprimersi liberamente sull' islam con lo stesso comune linguaggio che si riserverebbe ad altri temi, senza dover porre tremila distinguo ogni volta: «Ho esagerato consapevolmente e lucidamente», ho detto durante l'audizione all' Ordine.
Dopodichè, passando all' articolo, in esso ho espresso il personale diritto di poter odiare l' islam, tutti gli islam, dunque gli islamici e la loro religione che giudico addirittura peggiore di tutte le altre: perché - anche su questo sono stato chiarissimo, durante il processino - io le religioni le detesto tutte, alla maniera dei razionalisti inglesi: non sono mai stato un teo-con, non m' interessa contrapporre una religione a un' altra: tanto che, su questo giornale, ho espresso critiche durissime anche contro il Papa e il Vaticano (forse l' estensore della sentenza non avrebbe gradito neppure quelle, scrivendo lei su Famiglia Cristiana) e questo senza che nessuno mi denunciasse all' Ordine. Certo, alla teosofia islamica ho riservato un'intolleranza particolare perché trattasi di un credo totalizzante e imperniato sulla sottomissione altrui, o - per fare un solo esempio - sulla considerazione della donna come essere inferiore. Dal mio articolo: «Io non odio il diverso: odio l'islam, perché la mia (la nostra) storia è giudaica, cattolica, laica, greco-latina, rousseiana, quello che volete: ma è la storia di un'opposizione lenta e progressiva e instancabile a tutto ciò che gli islamici dicono e fanno». Da qui un' intolleranza (mia) anche per dettagli che sono liberissimo, credo, di poter detestare apertamente: dalle moschee ai tappeti che puzzano di piedi, dai veli femminili al cibo involuto, dall' ipocrisia sull' alcol a cose più serie come «le teocrazie, il loro odio che è proibito odiare», soprattutto «quel manualetto militare che è il Corano», che a sua volta devo poter criticare esattamente, ritengo, come posso fare col Vangelo o chessò, col Mein kampf: che trattano idee o ideologie - tali sono anche le religioni - e non singole persone. Sempre dal mio articolo: «Odio l'islam perché l'odio è democratico esattamente come l'amare, odio dover precisare che l'anti-islamismo è legittimo mentre l'islamofobia no, perché è solo paura: e io non ne ho, di paura... Odio l'islam, ma gli islamici non sono un mio problema: qui, in Italia, in Occidente, sono io a essere il loro».
Bene. Ora qualche estratto dalla sentenza, del cui livello possiamo avere un'idea sin dall' incipit: «Facci ha respinto con fermezza l'accusa di razzismo. Questa è la premessa che solitamente accompagna tutte le affermazioni di carattere razzista». Chiaro: è come dire che dirsi innocenti, in tribunale, sia un primo indizio di colpevolezza: il livello è questo, e per non essere scorretti tralasceremo gli errori materiali di scrittura (sbagliano a scrivere «jihad», ma a ciascuno il mestiere suo). A ogni modo, «Le affermazioni contenute nell' articolo hanno un evidente carattere razzista e xenofobo»: e qui, francamente, c' è da averne abbastanza dell' espressione «razzista» adottata ormai come termine passpartout quando ha invece un significato etimologicamente e storicamente preciso, vedasi vocabolario: è l' idea che la specie umana sia divisibile in razze biologicamente distinte - con diverse capacità intellettive, valoriali o morali - con la convinzione che un raggruppamento razziale possa essere superiore a un altro. Questo è il razzismo, imparentato con la xenofobia che è, invece, una generica paura dello straniero. Ma se è vero che il mio articolo parla di idee, attenzione, «la parte peggiore è proprio quella che riguarda le idee e che consiste in un attacco e in un offesa ad un intero sistema culturale». E se anche fosse? Siamo al reato di vilipendio islamico? «Facci offende una religione e un intero sistema di valori. Non può non rilevarsi che, per l'islam, il Corano ha un valore diverso di quello (sic) che per le altre religioni rivelate hanno i libri sacri». Ergo, se abbiamo letto bene: il Corano non si può offendere, gli altri libri già di più. Mistero: resta che trattasi, l'articolo, di «attacco diretto, indiscriminato e generalizzato verso un gruppo di persona (sic) che costituisce un quarto del genere umano». Verrebbe da rispondere che gli idioti forse sono anche di più, tuttavia la Costituzione non ci impedisce di criticarli. Nell' insieme, è semplicemente pazzesco. Mi avessero detto «hai ecceduto nel linguaggio e allora ti sanzioniamo», forse avrei capito. Ma questa è un'altra cosa. E rischia, sissignori, di essere lo specchio di un'epoca. Filippo Facci
Facci sospeso perché rivendica il diritto all'odio. Sull'onda degli attentati in Europa, il giornalista rivendicava il diritto ad odiare l'islam e gli islamici. Ora l'Ordine lo ha sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 17/06/2017, su "Il Giornale". L'Ordine dei giornalisti ha sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio Filippo Facci, collega di Libero e noto volto televisivo. Nell'articolo finito sotto inchiesta, scritto nel luglio dello scorso anno, Facci rivendicava il diritto ad odiare l'islam e gli islamici. Un articolo molto duro, nella forma e nella sostanza, scritto sull'onda degli attentati fatti nel nome di Allah che in pochi giorni provocarono in Europa oltre cento vittime, la maggior parte delle quali a Nizza. Conosco Filippo Facci e lo stimo, come collega e come intellettuale. È un uomo talmente libero da non aver raccolto quanto il suo talento gli avrebbe permesso accettando solo qualche piccolo e umano compromesso. No, non c'è verso: lui si infiamma e parte in quarta senza remore e limiti. Per questo piace a molti lettori, meno a direttori ed editori. Figuriamoci ai colleghi invidiosi, ai notai del pensiero, ai burocrati del politicamente corretto. Filippo Facci non farebbe male a una mosca (al massimo è capace di farlo a se stesso) e per questo non mi spaventa che abbia rivendicato il «diritto all'odio» di una religione e di una comunità che hanno generato i mostri assassini dei nostri ragazzi. L'odio inteso - nell'articolo è ben spiegato - non come incitamento alla violenza, ma come sentimento contrario a quello dell'amore, «detestare» come opposto di «ammirare». I sentimenti non si possono contenere, ma evidentemente non si possono neppure scrivere. Tanto più se sei un giornalista, se non sei di sinistra, se pubblichi su un giornale di destra, se si parla di islamici. Il tema posto da Facci sul diritto all'odio (Travaglio, tanto per fare un esempio, lo teorizzò nei confronti di Berlusconi) è questione aperta nonostante sia stata affrontata nei secoli da fior di filosofi e da grandi intellettuali. Che a differenza dei colleghi del tribunale dell'Ordine di Milano non sono mai arrivati a un verdetto unanime (e qualcosa vorrà pur dire). Qui non parliamo di una notizia falsa o di fatti e persone specifiche. Siamo di fronte all'opinione di un intellettuale. Il problema non è condividerla o meno. È non censurarla, non soffocarla, non punirla, come abbiamo sempre invocato per chiunque, compreso per Erri De Luca quando istigò al sabotaggio della Tav. Tanti islamici, anche se non terroristi, anche se non lo dichiarano, odiano noi e i nostri costumi. Noi stiamo per premiarli dando la cittadinanza automatica ai loro figli. Però puniamo Facci che non fa mistero dello stesso, reciproco, sentimento. Mi spiace per lui e mi spiace per la categoria così ridotta. Ma soprattutto mi spiace per tutti noi.
Islam, culo e bavaglio, Vittorio Feltri il 17 Giugno 2017 su "Libero Quotidiano" difende Facci: perché ha il diritto di critica. Il nostro eccellente Filippo Facci, editorialista di vaglia, è stato «condannato» a due mesi di disoccupazione per aver pubblicato un articolo nel quale egli manifestava odio e disprezzo nei confronti dell'islam in genere. La dura sentenza non è stata emessa da un tribunale della Repubblica bensì dall' Ordine lombardo dei giornalisti, ente legittimato a punire gli iscritti anche se si limitano a usare un linguaggio considerato dai giudici (improvvisati) volgare e offensivo. Il che è arbitrario. Secondo i colleghi al vertice dell'Albo, Facci merita di essere sospeso dalla professione (chiamiamolo correttamente lavoro) non solo perché detesta i precetti del Corano, ma pure perché la sua prosa cruda non è gradita alla categoria, la quale si ispira al più vieto conformismo e, pertanto, respinge il lessico che contrasti col cosiddetto politicamente corretto. Ormai l'Ordine, pur di adeguarsi alla moda progressista, invece di badare alla correttezza dell'informazione, si preoccupa di imporre agli scribi i propri canoni estetici, per altro discutibili. In sostanza fa la guerra alle parole e ne trascura il significato. Inoltre entra nel merito delle opinioni e se non condivide quelle di un collega le boccia e le sanziona in barba alla Costituzione che, in teoria, le ammette tutte, salvo quelle del fascismo, la cui apologia è proibita. Filippo nel suo pezzo critica ferocemente la religione musulmana (e non solo questa) e coloro che la praticano. Ha ragione o torto? Non importa. Bisogna riconoscere che è un suo diritto non essere d'accordo con gli adoratori di Allah. D' altronde nessuno ha mai impedito agli anticlericali occidentali, italiani in particolare, di essere ostili al cattolicesimo, al cristianesimo. Si è mai visto un cronista perseguito dall' ordine in quanto auspica la sparizione dei preti? Non c' è quindi ragione di prendersela con Facci perché non tollera gli islamici, i cui costumi sono antitetici rispetto ai nostri. Gli si rimprovera di aver fatto ricorso a termini quali «culo» e «merda». Ma ciascuno ha il proprio vocabolario, bello o brutto che sia. Non c' è motivo di censurarlo. Il culo è una realtà che accomuna l'intero mondo animale, quindi anche umano. È il terminale dell'intestino. È obbligatorio ignorarlo? Quanto alla merda, sfido la corporazione a dimostrare con argomenti scientifici che è una invenzione di Filippo tesa a diffamare chi non sopporta la parità tra maschi e femmine e combatte la democrazia in favore dello Stato etico, da noi superato da secoli. Se la merda c' è, e le cloache ne sono piene, non si comprende per quale motivo sia innominabile. Non si cambia la società, amici redattori, ignorando la semantica e confinando all' indice certi sostantivi e certi aggettivi. Tra l'altro non è compito dei giornalisti migliorare ciò che avviene sulla terra; al massimo siamo attrezzati per descriverlo. Cosa che Facci fa egregiamente, e forse per questo gli tappano la bocca senza neppure provare imbarazzo. La libertà è un bene prezioso per tutti tranne che per i soloni dell'Albo, i quali, non riuscendo a beneficiarne (per convenienza?), pretendono di negarla a noi, sono persuasi sia un lusso inaccessibile per gente disinibita come Filippo.
Facci, l’assurda condanna dell’Ordine, scrive Pierluigi Battista il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Il problema non è se Filippo Facci abbia scritto sul suo giornale castronerie o cose condivisibili. Il problema è che a decidere della liceità di ciò che ha scritto e addirittura a punirlo inibendogli per due mesi l’esercizio della professione sia chiamato un organismo per l’appunto nato nel clima del fascismo, in un’atmosfera per così dire poco favorevole all’ossigeno della libera stampa, e che si chiama Ordine dei giornalisti. Un organismo che infatti non ha eguali in tutto il resto delle democrazie occidentali, nessuna esclusa, che forse (forse?) con la libera informazione hanno una consuetudine più collaudata della nostra. Un organismo costoso e inutile, che si regge sul contributo coatto dei suoi iscritti, perché una norma liberticida, nata con il fascismo e purtroppo perfezionata nell’Italia antifascista, obbliga all’iscrizione nell’Albo dei giornalisti se si vuole esercitare, retribuiti e regolarmente assunti, la libertà di espressione in un giornale. Dicono i suoi difensori: ma anche gli avvocati, gli ingegneri, i medici e altri. Solo che gli avvocati, gli ingegneri, i medici hanno alle spalle un corso di studio, una piattaforma di conoscenze e di tecniche indispensabili per dimostrare la loro idoneità per professioni delicate per la vita di tutti. I giornalisti accedono all’Ordine dopo un esame una tantum consultando testi che, come nell’esame di guida, verranno dimenticati il giorno dopo l’acquisizione dell’obbligatorio tesserino. E soprattutto gli ordini degli avvocati, degli architetti, dei medici non mettono bocca sulle opinioni dei loro aderenti. In quello dei giornalisti, o meglio nelle burocrazie che ne detengono le leve, sì: c’è qualcuno, i cui titoli sono tutti da discutere e da vagliare, che si arroga il diritto di decidere cosa Filippo Facci, e tutti i giornalisti come lui, possa o non possa sostenere in piena autonomia e libertà. In un Paese passabilmente normale e liberale, se un giornalista commette un reato nell’esercizio della sua professione deve essere giudicato dalla giustizia al pari di tutti i cittadini. In Italia no: c’è l’organo corporativo che si sostituisce alla giustizia ordinaria e decide che Facci per due mesi non debba ricevere lo stipendio. Un’assurdità, che prescinde totalmente da quello che Facci ha scritto e può essere più o meno condivisibile. Ma in Italia, l’assurdo è normale.
L’assessore scambia l’Islam per terrorismo. Gli studenti: "Si deve dimettere". All’indomani della strage di Parigi Elena Donezzan, responsabile per l’Istruzione della giunta veneta, scrive un appello ai presidi per parlare di terrorismo, accostandolo alla religione islamica. Scoppia il caso e la rete degli studenti chiede che lasci il suo posto con pubbliche scuse e il ritiro delle frasi incriminate, scrive Michele Sasso “L’Espresso”. Una frase ha scatenato un putiferio: «Se non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono islamici e che molta violenza viene giustificata in nome di una appartenenza religiosa e culturale ben precisa». È giovedì 8 gennaio 2015 e a vergare l’appassionata lettera è l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donezzan, che pochi giorni prima aveva promosso un family day a scuola per difendere la famiglia naturale. Scossa per il massacro nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, torna alla carica non pensandoci troppo sopra. Una circolare indirizzata a tutti i presidi della sua regione intitolata “Terrorismo islamico: parliamone soprattutto a scuola” con passaggi forzati carichi di livore: «Alla luce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e dei loro genitori nelle nostre comunità, soprattutto a loro dobbiamo rivolgere il messaggio di richiesta di una condanna di questi atti, perché se hanno deciso di venire in Europa devono sapere che sono accolti in una civiltà con principi e valori, regole e consuetudini a cui devono adeguarsi e che la civiltà che li sta accogliendo con il massimo della pienezza dei diritti ha anche dei doveri da rispettare». Se il fine è la conoscenza e il dibattito dell’attualità tra i banchi il risultato di questa mossa è disastroso. Via change.org è partita una petizione dell’associazione studenti universitari e della rete degli studenti per chiedere le sue dimissioni con pubbliche scuse allegate e il ritiro delle frasi incriminate. In più di quattromila hanno sottoscritto le motivazioni: «Nella circolare si chiede a tutti i dirigenti di far discutere di quanto accaduto, condannando non solo i fatti e chiedendo a genitori e studenti stranieri di dissociarsi, ma anche la cultura islamica, che alimenta, secondo l’assessore, la genesi di tali attacchi terroristici». A scaldare gli animi l’accostamento della Donezzan tra il massacro di Parigi (e tutto quello che è seguito per 55 ore di paura) con l’aggressione alle porte di Venezia di un quattordicenne tunisino che ha accoltellato il padre di uno studente vittima di bullismo. «Fare un paragone tra un gesto di bullismo e un massacro con armi da fuoco è simbolo di un becero razzismo che non possiamo accettare, specialmente se proveniente da una figura con una certa carica istituzionale», continua la petizione: «Viene da domandarsi se questo parallelo sia frutto di una strumentalizzazione cosciente dei fatti oppure da semplice ignoranza: i casi di bullismo sono diffusi in tutto il Paese, non importa l’origine culturale del ragazzo». Dietro gli studenti anche la Cgil regionale ha preso posizione: «La lettera lascia stupefatti per il forte fondamentalismo ideologico sotteso nelle indicazioni impartite. La scuola deve formare le intelligenze e lo spirito critico di quelli che saranno i cittadini di domani, è un luogo di discussione e riflessione anche per capire quanto accaduto in Francia».
Basta coi finti Charlie. La sinistra si appropria dei simboli di ciò che ha sempre combattuto, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La mia libertà vale più o meno di quella dei colleghi di Charlie? La nostra libertà, quella di ognuno di noi, compresi la Le Pen e Salvini, quanto vale? E ancora: chi decide la classifica delle libertà? Mi chiedo questo perché stiamo assistendo al più ipocrita degli spettacoli e al più surreale dei dibattiti. Giornalisti, intellettuali e politici di sinistra si sono stretti - dico io giustamente - attorno ai colleghi sterminati dalla furia islamica. Ma, contemporaneamente, dagli stessi è partita una campagna contro chi, come noi, sostiene che il pericolo viene proprio dal Corano, dall'islam e dai suoi imam. In queste ore, in tv e sui giornali, ci stanno facendo passare per dei provocatori, dei seminatori di odio, degli incendiari. Ma dico: se c'è qualcuno che, in decimo, ha sostenuto e scritto negli anni ciò che Charlie ha divulgato con la sua tecnica, siamo proprio noi. Noi siamo Charlie, la Fallaci è Charlie, Magdi Allam è Charlie, Piero Ostellino è Charlie. I liberali tutti sono Charlie. Voi di sinistra siete solo degli approfittatori, vi siete impossessati del corpo di un nemico ucciso per quella libertà di opinione che voi di sinistra negavate prima della strage (satira religiosa sì, ma solo contro il Papa e Gesù) e che ancora ora vorreste negare a noi. Se questo Giornale avesse pubblicato una sola di quelle vignette blasfeme saremmo stati linciati come razzisti, fascisti, pazzi irresponsabili e messi al gabbio dalla solerte magistratura italiana per islamofobia (ci siamo andati comunque vicini, nonostante il reato non esista nei nostri codici). E invece, da domani, sarà gara anche a sinistra per pubblicare le nuove frecciate del primo numero di Charlie Hebdo post attentato. Perché Charlie domani potrà dire sull'islam ciò che pensa e noi dovremmo invece allinearci al politicamente corretto? Non condivido molte cose che sostengono la Le Pen e Salvini, ma se uno «è Charlie» deve essere anche Le Pen e Salvini. Cioè deve essere uomo libero e garantire la libertà di chiunque. Cara sinistra, è facile sostenere i diritti dei morti. Anche perché, se fossero vivi, quelli di Charlie vi farebbero un mazzo tanto, quantomeno una pernacchia lunga da Parigi a Roma.
Se la sinistra odia il popolo, scrive Alessandro Catto su “Il Giornale”. La marcia di Parigi, come da programma, ha scatenato apprezzamento e condanna, sentimenti di simpatia e lontananza. Un’ondata di contraddizioni provenente in primis da quelli che, da questa marcia, avrebbero dovuto sentirsi rappresentati, ovvero i cittadini europei. Un evento che più che storico per meriti fisiologici, si è voluto rendere storico nella sua formulazione, nella sua presentazione ai media, nel dipingerlo come unica risposta possibile ad un attacco verso l’Occidente e i suoi valori. Premetto che per me non è stata una marcia trionfale, tantomeno un successo, soprattutto per quanto riguarda la testa di quel corteo. Coi suoi leaders in giacca e cravatta, i capi di stato, sembrava una pratica di circostanza tremendamente ipocrita e fasulla, qualcosa di fatto perché così c’è scritto che bisogna fare. Un qualcosa incapace di rappresentarmi e di rappresentare moltissime persone come me che dovrebbero, in teoria, essere e sentirsi cittadini europei. Alla testa di quel corteo è andata in scena l’ipocrisia di numerosissimi politici europei che hanno grosse responsabilità riguardo la situazione mediterranea e mediorientale. Vi erano personaggi che fino a ieri ci mostravano i benefici della primavera araba di turno, il suo carattere evangelico ed evangelizzante. Vi erano gli alfieri della democrazia per esportazione, gli alfieri di una Europa che non unisce. C’era un trionfo di bandiere in Piazza della Repubblica, ma bandiere europee ce n’erano pochissime. Quella manifestazione ha avuto più il carattere di un secondo funerale ai morti di Charlie Hebdo che non quello di una rivendicazione di orgoglio, di identità e di appartenenza. Ce l’ha avuto a partire dalla sua formulazione, dall’aver fatto fin dal principio figli e figliastri. Quella manifestazione stessa è figlia pure di una porzione politica che, fin da quando il terribile agguato alla sede parigina di Charlie è avvenuto, si è preoccupata più di fare tribuna politica contro il Salvini o la Le Pen di turno che di offrire tutto il proprio supporto alle vittime. Pare esserci stata più veemenza nell’attaccare i capipartito di destra che sensibilità nel puntare il dito contro i responsabili del fatto di sangue. Ieri non è andata in scena la marcia di una Europa unita ma semmai quella di molte nazioni divise, divise pure al loro interno. Nel sud della Francia, mentre le anime belle europee marciavano a colpi di foto e riprese, è andata in scena la marcia sponsorizzata da Marine Le Pen e dal Front National. La marcia dei dannati, degli ultimi, degli esclusi da tutto. Di quelli che non vanno di moda, che fa sempre prurito ospitare in qualche salotto, di quelli che non parlano di Europa, di Diritti e Democrazia, di concetti maiuscolati. Un partito ed una leader scomodi, che è meglio cancellare ed evitare se si vuole andare in piazza imbellettati e col sorriso. Strano però, perché a suon di parlare di democrazia ci siamo forse dimenticati di farla a casa nostra, e ci siamo dimenticati che quel partito così odiato, temuto, becero per bocca dei professori dei nostri tempi, è il primo partito di Francia per consenso elettorale. Marciamo per la libertà dei popoli dimenticandoci di cos’è il popolo, del suo diritto ad essere rappresentato. Si è preferito usare un fatto tragico per trasformare il tutto nella solita, trita e oramai inascoltabile retorica sul rifiuto dei fascismi, dei razzismi, sull’accoglienza, sulla condanna di una ipotetica strumentalizzazione. Qui l’unica strumentalizzazione che ho visto, personalmente, è stata quella di chi, a cadaveri ancora caldi, ha subito messo in piedi un gioco orribile per colpire l’avversario politico, di chi ha approfittato dell’occasione per provare, tristemente, a ritornare rappresentante del popolo dopo l’usurpazione. La sinistra non dimentica, è vendicativa, non tollera usurpazioni. E quella del Front in Francia e pure della Lega in Italia è una usurpazione in piena regola. In termini elettorali, politici e in termini di consenso. La rabbia monta in partiti di sinistra che non riescono più a farsi intercettori delle istanze popolari più umili, che non sanno dar loro rappresentazione, che si ritrovano smarriti. In questi casi allora si tenta sempre di barrare la strada a chi può divenire l’intercettore della protesta al proprio posto. Può esservi la risposta più scaltra, quella di un centrosinistra in salsa renziana che tenta di attirare gli apparati più moderati della nazione. Ma c’è anche la risposta più rabbiosa, più puerile, e sta alla sua sinistra: quella di chi ha perso tutto, ha perso la propria dimensione elettorale, ha perso il passo nei confronti delle istanze del popolo, di chi come unica arma conserva una sola cosa: l’assalto indiscriminato all’avversario e al suo successo, con tutti i mezzi possibili. La sinistra di oggi pare odiare ferocemente il popolo perché l’ha smarrito, perché sa benissimo che moltissimi operai, cassaintegrati, esodati, sia in Francia che in Italia non vogliono salotti, sofismi, filosofie, teosofie, psicodrammi e buonismi. Vogliono soluzioni immediate, presenze tangibili, capacità di dialogo e rappresentazione, vogliono poter confessare le proprie paure e le proprie necessità, anche quelle politicamente scorrette. E questo ormai, in Europa, non lo si fa nella piazza di Parigi, lo si fa nella piazza di Beaucaire con la Le Pen, lo si fa a Musile di Piave con Salvini. Il popolo è lì, consegnato in toto al nemico a son di cianciare di populismo e demagogia. Parlando proprio di rapporto tra Islam e Occidente sentivo ieri, in una nota trasmissione serale di La7, un giovane dire che “non si può far parlare chi non arriva agli ottocento euro al mese”. Un giovane in giacca, occhiali da hipster, erre arrotata, espressione massima del ben pensare de sinistra in salsa europea. Non me la sento di attaccarlo perché esprime chiaramente quello che è la sinistra oggi. Rifiuto del più povero e del più debole, al quale si può pure tappare la bocca. Negazione del disagio, elogio del buonismo. Rifiuto per le classi più povere e disprezzo delle stesse. Non c’è cosa più trendy, al giorno d’oggi, di usare il termine populismo come offesa. E’ un qualcosa che potrebbe tranquillamente essere adottato come criterio di iniziazione per un percorso che parte dalle giovanili del PD, dalle università, dagli apericena meticci, dai lupanari dell’accoglienza. La sinistra oggi è questa, e sfila in giacca e cravatta dopo aver tentato di esportare la sua democrazia in giro per il mondo. Permetteteci di dissentire, e di preferire la piazza di Beaucaire. Che forse ha ancora il diritto di venir chiamata piazza, e non palcoscenico.
Alessandro Catto, laureato in Storia, collabora anche con l’Intellettuale Dissidente. Si occupa di politica e società. Nemico del pensiero unico, tradizionalista per reazione, popolare per collocazione, identitario per protesta, controcorrente per natura, nemico dichiarato della dittatura culturale da sinistra salottiera. Nato a Camposampiero (Padova) il 22/11/1991.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
Le vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.
Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. Li chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell'Annie Taylor Award, il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero: «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione. Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico»: «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.
L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera”. Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato. Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche. Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.
Caso Allam, una decisione sconcertante. Su "Il Giornale", il presidente dell'Odg: "Magdi potrà difendersi". Ma la vicenda resta sconcertante risponde Alessandro Sallusti.
Caro direttore, leggo i servizi dedicati all'Odg in relazione a una vicenda che riguarda Magdi Cristiano Allam. Debbo dirti che alcuni toni e non poche espressioni mi sconcertano. L'idea che ci siano degli intoccabili non appartiene alla mia cultura né, a leggere il Giornale, alla tua. Potrei tacere, perché solo un ignorante (nel senso che non conosce le cose) può non sapere che il Consiglio nazionale di disciplina è organismo autonomo, voluto come tale da una legge dello Stato. Ma, come ben sai personalmente, non amo le fughe, tanto da essere stato - doverosamente, a mio avviso, ma ugualmente andando contro «corrente» - accanto a te quando a Milano eri sotto processo. Se non si trattasse di Allam mi verrebbe il sospetto che questa vicenda vien cavalcata per riaccendere l'attenzione su un impegno personale e politico. Ma le cose non stanno esattamente come si afferma, pur citando correttamente i passaggi di un capo di incolpazione. Non so, essendo estraneo all'organismo, come finirà. Ma so che ad Allam sono state accordate, doverosamente, tutte le opportunità di acquisire i documenti, contenuti nel fascicolo, che riterrà utili. Di più: ha eccepito che i termini di 30 giorni non gli erano sufficienti e gli uffici, mi assicurano, gli hanno formalizzato un prolungamento che, mi riferiscono, è stato di sua soddisfazione. Ma si tende a trasmettere una informazione distorta. Allam non è stato processato. Ci si è limitati a ritenere «non manifestamente infondato» un esposto presentato da una associazione (sconosciuta, perchè sul web non c'è traccia), «Media e diritto», che si duole per alcune affermazioni contenute suoi articoli. Personalmente non mi sarei sentito oltraggiato (ma non mi sento «intoccabile», come scritto in premessa), ma, anzi, avrei colto la notizia non tanto (né solo) come l'opportunità di rivendicare la possibilità di dire quel che penso, ma anche per argomentarne più approfonditamente le ragioni. Ancor di più, non mi sarei scandalizzato perché questa procedura conferma che non ci sono «intoccabili» e che le ragioni di tutti vengono valutate con attenzione. Una differenza non marginale, ad esempio e senza generalizzazioni, con chi vive di una giustizia, sommaria e tutta sua, sgozzando davanti alla telecamera un giornalista. Enzo Iacopino, Presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti.
Caro presidente, in effetti ho provato sulla mia pelle la tua solidarietà e te ne sono riconoscente e grato. Il che non ha impedito che nostri solerti colleghi mi ri-processassero, nonostante la «grazia» che mi ha concesso il presidente Napolitano, e condannassero a due mesi di sospensione (l'appello, come saprai è a giorni). Ma questa è un'altra storia. È vero, come dici, che non ci devono essere intoccabili, ma chissà perché chi la pensa in un certo modo è più toccato di altri. E quando ad allungare le mani sono colleghi od organi che sia pure autonomi riconducibili all'Ordine dei giornalisti, allora mi preoccupo. Mi piacerebbe che l'Ordine, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, si battesse sempre e comunque per la libertà di pensiero ed espressione, di chiunque. Perché è questo, per stare in tema, che distingue la nostra società da quella islamica, il più delle volte fondata sulla sharia. A quei signori che hanno fatto l'esposto bastava spiegare questa semplice verità non trattabile: ci spiace, ma da noi si è liberi di pensare, dire e scrivere, ciò che si crede, per eventuali reati rivolgersi alla magistratura ordinaria. Alessandro Sallusti.
Vogliono toglierci la libertà di critica. Il cardine della democrazia è mettere in discussione (anche) le religioni, scrive Ida Magli su "Il Giornale". Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà. Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme. Siamo sempre nel campo della psichiatria. Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo. È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari? Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia. Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.
Haisam Sakhanh, il jihadista che andava in tv all'Infedele di Gad Lerner, scrive “Libero Quotidiano”. L'orrore dei tagliagole, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sconvolge l'Occidente. Solo poche ore fa, il video delle quattro sospette spie decapitate dai fanatici dell'Islam. Immagini strazianti, terrificanti, e che fanno ancor più paura perché è sempre più chiaro che i seguaci della jihad ce li abbiamo in casa. Sono molti, alcuni noti, altri no. C'è un Imam che giura: "Ci prenderemo il Vaticano". E c'è anche chi invece, in passato, andò in televisione. Due anni fa, per la precisione. Stiamo parlando di Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che un tempo viveva nel milanese e che, una volta, si fece vedere negli studi de L'Infedele, la trasmissione di Gad Lerner su La7. Da mercoledì la procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui: la sua foto, ora, appare su tutti i giornali. Eppure era chiaro da tempo chi fosse, questo Abu Omar. Come ricorda Il Giornale, già nell'aprile del 2013 fu girato un video in cui il siriano-milanese si rese protagonista dell'orrore: assieme ad altri militanti prese parte all'esecuzione di 7 soldati filo-governativi, un colpo e testa e via, gli uomini in ginocchio vengono ammazzati. Nel 2012, inoltre, le autorità italiane non ritennero necessario svolgere qualche approfondimento su mister Haisam, ex elettricista a Cologno Monzese, e la sua rete: fu arrestato al termine di un assalto all'ambasciata di Roma. Haisam e i suoi vengono interrogati, indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata e rinviati a giudizio per direttissima. Ma non accadde nulla: tornò libero e riprese a fare proselitismi, nel nostro Paese, a Milano e hinterland. La replica di Lerner, via blog, arriva nel pomeriggio ed è velenosa. "Fra gli altri siriani che parteciparono alla trasmissione come pubblico, senza intervenire, scopriamo ora da una fotografia pubblicata su Facebook che si infiltrò un elettricista di Cologno Monzese, tale Haisam Sakhanh, che nel frattempo è entrato nella milizia Isis col nome di battaglia Abu Omar". "Naturalmente - spiega Lerner - io non ho invitato proprio nessun jihadista in trasmissione, né tre anni fa né mai. Tanto meno costui ha mai preso la parola all'Infedele. Ma per certe testate ogni occasione è buona per insultare".
Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale, si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell'agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.
Le decapitazioni di Isis e gli allarmi della Fallaci. Il video dell'uccisione di James Foley riporta alla mente le parole (inascoltate) della scrittrice, scrive Marco Ventura su Panorama. E quindi non è "un conflitto di civiltà" quello che è sotto gli occhi di tutti in Iraq, Siria, Africa? Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sempre così graziosamente politically correct, nega in Parlamento la matrice di "civiltà" nei sanguinosi eventi di queste ore e nella risposta di Stati Uniti e Europa, quasi dovessimo vergognarci di difendere i valori dell'Occidente contro una versione esasperata e integralista dell'Islam globale. Ma è così? Arancione e nero. Sapete a cosa penso guardando quell’immagine surreale, terribilmente cinematografica, del giornalista americano James Foley in tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo inginocchiato davanti a un paesaggio desertico, il busto eretto e il mento dritto, la postura fiera incongruente con le parole che deve pronunciare, e poi guardando quella figura di morte nera accanto a lui, in piedi, quel tagliagole mascherato dell’Is, coltello in mano, che si rivolge direttamente in inglese a Barack Obama (“You, Obama”) prima di decapitare la sua vittima? Penso, ecco, a Oriana Fallaci. Ai profeti inascoltati che l’Italia ha avuto, e al fatto che per vedere meglio nel futuro si sono dovuti trasferire all’estero, negli Stati Uniti, e da lì vaticinare, puntare l’indice, declamare il j’accuse, le loro omelie laiche da italiani che amano l’Italia e disprezzano però una certa Italia (e Europa). La Fallaci come Prezzolini, isolato nel suo esilio americano (e svizzero). Penso a quanti hanno criticato la Fallaci degli ultimi anni considerando i suoi scritti, le sue invettive finali (o definitive) contro l’invasione islamica, il pericolo islamico, la brutalità islamica, una sorta di metastasi del pensiero, quasi un cancro dello spirito parallelo al male che le consumava il corpo. Ascoltate (sì, ascoltate) quello che Oriana scriveva “Ai lettori” all’indomani dell’11/9, in apertura de “La rabbia e l’orgoglio” (Rizzoli): “Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenya, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici poi trentadue. All’infinito”. Ognuno di quei paesi evoca oggi qualcosa di terribile che è avvenuto (che avviene). I talebani comandano ancora in Afghanistan (fino in Pakistan). In Egitto la primavera araba è morta con l’avvento dei Fratelli musulmani, finalmente stroncati dalla restaurazione del generale Al-Sisi. In Libia gli islamisti proclamano il Califfato di Bengasi, guerreggiano e spargono odio e caos anche se nelle elezioni hanno dimostrato di valere poco più del 10 per cento. Tra Somalia e Kenya i guerriglieri islamisti di Al Shabaab fanno incursioni omicide lungo le strade, stragi nei centri commerciali a Nairobi. In paesi come la Nigeria che la Fallaci non citava (la sua lista oggi sarebbe più lunga) i massacri islamisti e i rapimenti delle studentesse sono firmati dalle milizie di Boko Haram. Nello Yemen dei sequestri operano cellule di Al-Qaeda. In Palestina, Hamas usa i civili come scudi umani e lancia razzi su Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Con l’Iran rimane il contenzioso nucleare. Di Iraq e Siria sappiamo. In Libano spadroneggiano gli Hezbollah. L’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo non sono ancora usciti dall’ambiguità, chi più e chi meno, di sostenere o chiudere un occhio sui finanziamenti alle formazioni integraliste. E così via. Dal 2001 sono passati 13 anni e le parole de “La rabbia e l’orgoglio” si avverano. “Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri…”. Oriana tuonava contro “i nuovi Mori”. Dietro le figure in nero, che c’erano anche allora, vedeva i colletti bianchi, che ci sono ancora. Ascoltiamola. “I nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti. Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Chissà che non dovremo darle ragione, nonostante il nostro perbenismo intellettuale, pure sui rischi dei flussi migratori. Proprio in conclusione del suo pamphlet la Fallaci scrive infatti dell’Italia che “nonostante tutto esiste. Zittita, ridicolizzata, sbeffeggiata, diffamata, insultata, ma esiste. Quindi guai a chi me la tocca. Guai a chi me la invade, guai a chi me la ruba. Perché (se non l’hai ancora capito te lo ripeto con maggiore chiarezza) che a invaderla siano i francesi di Napoleone o i tedeschi di Hitler o i compari di Osama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem”. E per finire: “Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto… Ora basta. Punto e basta”.
Oriana Fallaci, la sua lezione su Libero Quotidiano: Maestra di libertà. La profezia sull'Islam fanatico, gli insulti della sinistra, i processi. Il testo di cui oggi iniziamo la pubblicazione - per gentile concessione di Edoardo Perazzi, nipote e erede della Fallaci - è quello di un discorso pronunciato da Oriana Fallaci nel novembre del 2005. La grande toscana fu insignita del Annie Taylor Award, un premio conferito dal Centro Studi di cultura popolare di New York. Il suo discorso, in versione integrale inglese, fu pubblicato pochi giorni dopo da Il Foglio. Poi, il primo dicembre del 2005, Libero ne pubblicò la versione italiana, col permesso della stessa Fallaci, che volle rivederne personalmente la forma (modificandola tramite memorabili telefonate con l'allora responsabile delle pagine culturali Alessandro Gnocchi). Abbiamo deciso di ripubblicare questo testo perché pensiamo che oggi, a quasi dieci anni di distanza, sia più attuale che mai. Bé: un premio intitolato a una donna che saltò sopra le Cascate del Niagara, e sopravvisse, è mille volte più prezioso e prestigioso ed etico di un Oscar o di un Nobel: fino a ieri gloriose onorificenze rese a persone di valore ed oggi squallide parcelle concesse a devoti antiamericani e antioccidentali quindi filoislamici. Insomma a coloro che recitando la parte dei guru illuminati che definiscono Bush un assassino, Sharon un criminale-di-guerra, Castro un filantropo, e gli Stati Uniti «la-potenza-più-feroce, più-barbara, più-spaventosa-che-il-mondo-abbia-mai-conosciuto». Infatti se mi assegnassero simili parcelle (graziaddio un’eventualità più remota del più remoto Buco Nero dell’Universo), querelerei subito le giurie per calunnia e diffamazione. Al contrario, accetto questo «Annie Taylor» con gratitudine e orgoglio. E pazienza se sopravvaluta troppo le mie virtù. Sì: specialmente come corrispondente di guerra, di salti ne ho fatti parecchi. In Vietnam, ad esempio, sono saltata spesso nelle trincee per evitare mitragliate e mortai. Altrettanto spesso sono saltata dagli elicotteri americani per raggiungere le zone di combattimento. In Bangladesh, anche da un elicottero russo per infilarmi dentro la battaglia di Dacca. Durante le mie interviste coi mascalzoni della Terra (i Khomeini, gli Arafat, i Gheddafi eccetera) non meno spesso sono saltata in donchisciotteschi litigi rischiando seriamente la mia incolumità. E una volta, nell’America Latina, mi sono buttata giù da una finestra per sfuggire agli sbirri che volevano arrestarmi. Però mai, mai, sono saltata sopra le Cascate del Niagara. Né mai lo farei. Troppo rischioso, troppo pericoloso. Ancor più rischioso che palesare la propria indipendenza, essere un dissidente cioè un fuorilegge, in una società che al nemico vende la Patria. Con la patria, la sua cultura e la sua civiltà e la sua dignità. Quindi grazie David Horowitz, Daniel Pipes, Robert Spencer. E credetemi quando dico che questo premio appartiene a voi quanto a me. A tal punto che, quando ho letto che quest’anno avreste premiato la Fallaci, mi sono chiesta: «Non dovrei esser io a premiare loro?». E per contraccambiare il tributo volevo presentarmi con qualche medaglia o qualche trofeo da consegnarvi. Mi presento a mani vuote perché non sapevo, non saprei, dove comprare certa roba. Con le medaglie e i trofei ho un’esigua, davvero esigua, familiarità. E vi dico perché. Anzitutto perché crediamo di vivere in vere democrazie, democrazie sincere e vivaci nonché governate dalla libertà di pensiero e di opinione. Invece viviamo in democrazie deboli e pigre, quindi dominate dal dispotismo e dalla paura. Paura di pensare e, pensando, di raggiungere conclusioni che non corrispondono a quelle dei lacchè del potere. Paura di parlare e, parlando, di dare un giudizio diverso dal giudizio subdolamente imposto da loro. Paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l’esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio. «Il segreto della felicità è la libertà. E il segreto della libertà è il coraggio», diceva Pericle. Uno che di queste cose se ne intendeva. (Tolgo la massima dal secondo libro della mia trilogia: La Forza della ragione. E da questo prendo anche il chiarimento che oltre centocinquanta anni fa Alexis de Tocqueville fornì nel suo intramontabile trattato sulla democrazia in America). Nei regimi assolutisti o dittatoriali, scrive Tocqueville, il dispotismo colpisce il corpo. Lo colpisce mettendolo in catene o torturandolo o sopprimendolo in vari modi. Decapitazioni, impiccagioni, lapidazioni, fucilazioni, Inquisizioni eccetera. E così facendo risparmia l’anima che intatta si leva dalla carne straziata e trasforma la vittima in eroe. Nelle democrazie inanimate, invece, nei regimi inertamente democratici, il dispotismo risparmia il corpo e colpisce l’anima. Perché è l’anima che vuole mettere in catene. Torturare, sopprimere. Così alle sue vittime non dice mai ciò che dice nei regimi assolutisti o dittatoriali: «O la pensi come me o muori». Dice: «Scegli. Sei libero di non pensare o di pensare come la penso io. Se non la pensi come la penso io, non ti sopprimerò. Non toccherò il tuo corpo. Non confischerò le tue proprietà. Non violenterò i tuoi diritti politici. Ti permetterò addirittura di votare. Ma non sarai mai votato. Non sarai mai eletto. Non sarai mai seguito e rispettato. Perché ricorrendo alle mie leggi sulla libertà di pensiero e di opinione, io sosterrò che sei impuro. Che sei bugiardo, dissoluto, peccatore, miserabile, malato di mente. E farò di te un fuorilegge, un criminale. Ti condannerò alla Morte Civile, e la gente non ti ascolterà più. Peggio. Per non essere a sua volta puniti, quelli che la pensano come te ti diserteranno». Questo succede, spiega, in quanto nelle democrazie inanimate, nei regimi inertamente democratici, tutto si può dire fuorché la Verità. Perché la Verità ispira paura. Perché, a leggere o udire la verità, i più si arrendono alla paura. E per paura delineano intorno ad essa un cerchio che è proibito oltrepassare. Alzano intorno ad essa un’invisibile ma insormontabile barriera dentro la quale si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se il dissidente oltrepassa quella linea, se salta sopra le Cascate del Niagara di quella barriera, la punizione si abbatte su di lui o su di lei con la velocità della luce. E a render possibile tale infamia sono proprio coloro che segretamente la pensano come lui o come lei, ma che per convenienza o viltà o stupidità non alzano la loro voce contro gli anatemi e le persecuzioni. Gli amici, spesso. O i cosiddetti amici. I partner. O i cosiddetti partner. I colleghi. O i cosiddetti colleghi. Per un poco, infatti, si nascondono dietro il cespuglio. Temporeggiano, tengono il piede in due staffe. Ma poi diventano silenziosi e, terrorizzati dai rischi che tale ambiguità comporta, se la svignano. Abbandonano il fuorilegge, il criminale, al di lui o al di lei destino e con il loro silenzio danno la loro approvazione alla Morte Civile. (Qualcosa che io ho esperimentato tutta la vita e specialmente negli ultimi anni. «Non ti posso difendere più» mi disse, due o tre Natali fa, un famoso giornalista italiano che in mia difesa aveva scritto due o tre editoriali. «Perché?» gli chiesi tutta mesta. «Perché la gente non mi parla più. Non mi invita più a cena»). L’altro motivo per cui ho un’esigua familiarità con le medaglie e i trofei sta nel fatto che soprattutto dopo l’11 Settembre l’Europa è diventata una Cascata del Niagara di Maccartismo sostanzialmente identico a quello che afflisse gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Sola differenza, il suo colore politico. Mezzo secolo fa era infatti la Sinistra ad essere vittimizzata dal Maccartismo. Oggi è la Sinistra che vittimizza gli altri col suo Maccartismo. Non meno, e a parer mio molto di più, che negli Stati Uniti. Cari miei, nell’Europa d’oggi v’è una nuova Caccia alle Streghe. E sevizia chiunque vada contro corrente. V’è una nuova Inquisizione. E gli eretici li brucia tappandogli o tentando di tappargli la bocca. Eh, sì: anche noi abbiamo i nostri Torquemada. I nostri Ward Churchill, i nostri Noam Chomsky, i nostri Louis Farrakhan, i nostri Michael Moore eccetera. Anche noi siamo infettati dalla piaga contro la quale tutti gli antidoti sembrano inefficaci. La piaga di un risorto nazi-fascismo. Il nazismo islamico e il fascismo autoctono. Portatori di germi, gli educatori cioè i maestri e le maestre che diffondono l’infezione fin dalle scuole elementari e dagli asili dove esporre un Presepe o un Babbo Natale è considerato un «insulto ai bambini Mussulmani». I professori (o le professoresse) che tale infezione la raddoppiano nelle scuole medie e la esasperano nelle università. Attraverso l’indottrinazione quotidiana, il quotidiano lavaggio del cervello, si sa. (La storia delle Crociate, ad esempio, riscritta e falsificata come nel 1984 di Orwell. L’ossequio verso il Corano visto come una religione di pace e misericordia. La reverenza per l’Islam visto come un Faro di Luce paragonato al quale la nostra civiltà è una favilla di sigaretta). E con l’indottrinazione, le manifestazioni politiche. Ovvio. Le marce settarie, i comizi faziosi, gli eccessi fascistoidi. Sapete che fecero, lo scorso ottobre, i giovinastri della Sinistra radicale a Torino? Assaltarono la chiesa rinascimentale del Carmine e ne insozzarono la facciata scrivendoci con lo spray l’insulto «Nazi-Ratzinger» nonché l’avvertimento: «Con le budella dei preti impiccheremo Pisanu». Il nostro Ministro degli Interni. Poi su quella facciata urinarono. (Amabilità che a Firenze, la mia città, non pochi islamici amano esercitare sui sagrati delle basiliche e sui vetusti marmi del Battistero). Infine irruppero dentro la chiesa e, spaventando a morte le vecchine che recitavano il Vespro, fecero scoppiare un petardo vicino all’altare. Tutto ciò alla presenza di poliziotti che non potevano intervenire perché nella città Politically Correct tali imprese sono considerate Libertà di espressione. (A meno che tale libertà non venga esercitata contro le moschee: s’intende). E inutile aggiungere che gli adulti non sono migliori di questi giovinastri. La scorsa settimana, a Marano, popolosa cittadina collocata nella provincia di Napoli, il Sindaco (ex seminarista, ex membro del Partito Comunista Italiano, poi del vivente Partito di Rifondazione Comunista, ed ora membro del Partito dei Comunisti Italiani) annullò tout-court l’ordinanza emessa dal commissario prefettizio per dedicare una strada ai martiri di Nassiriya. Cioè ai diciannove militari italiani che due anni fa i kamikaze uccisero in Iraq. Lo annullò affermando che i diciannove non erano martiri bensì mercenari, e alla strada dette il nome di Arafat. «Via Arafat». Lo fece piazzando una targa che disse: «Yasser Arafat, simbolo dell’Unità (sic) e della Resistenza Palestinese». Poi l’interno del municipio lo tappezzò con gigantesche foto del medesimo, e l’esterno con bandiere palestinesi. La piaga si propaga anche attraverso i giornali, la Tv, la radio. Attraverso i media che per convenienza o viltà o stupidità sono in gran maggioranza islamofili e antioccidentali e antiamericani quanto i maestri, i professori, gli accademici. Che senza alcun rischio di venir criticati o beffati passano sotto silenzio episodi come quelli di Torino o Marano. E in compenso non dimenticano mai di attaccare Israele, leccare i piedi all’Islam. Si propaga anche attraverso le canzoni e le chitarre e i concerti rock e i film, quella piaga. Attraverso uno show-business dove, come i vostri ottusi e presuntuosi e ultra-miliardari giullari di Hollywood, i nostri giullari sostengono il ruolo di buonisti sempre pronti a piangere per gli assassini. Mai per le loro vittime. Si propaga anche attraverso un sistema giudiziario che ha perduto ogni senso della Giustizia, ogni rispetto della giurisdizione. Voglio dire attraverso i tribunali dove, come i vostri magistrati, i nostri magistrati assolvono i terroristi con la stessa facilità con cui assolvono i pedofili. (O li condannano a pene irrisorie). E finalmente si propaga attraverso l’intimidazione della buona gente in buona fede. Voglio dire la gente che per ignoranza o paura subisce quel dispotismo e non comprende che col suo silenzio o la sua sottomissione aiuta il risorto nazi-fascismo a fiorire. Non a caso, quando denuncio queste cose, mi sento davvero come una Cassandra che parla al vento. O come uno dei dimenticati antifascisti che settanta e ottanta anni fa mettevano i ciechi e i sordi in guardia contro una coppia chiamata Mussolini e Hitler. Ma i ciechi restavano ciechi, i sordi restavano sordi, ed entrambi finirono col portar sulla fronte ciò che ne L’Apocalisse chiamo il Marchio della Vergogna. Di conseguenza le mie vere medaglie sono gli insulti, le denigrazioni, gli abusi che ricevo dall’odierno Maccartismo. Dall’odierna Caccia alle Streghe, dall’odierna Inquisizione. I miei trofei, i processi che in Europa subisco per reato di opinione. Un reato ormai travestito coi termini «vilipendio dell’Islam, razzismo o razzismo religioso, xenofobia, istigazione all’odio eccetera». Parentesi: può un Codice Penale processarmi per odio? Può l’odio essere proibito per Legge? L’odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico. Come l’amore, l’odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vità. È l’opposto dell’amore e quindi, come l’amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l’amore. Non nel giudizio d’un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio. Perché, se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio. Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio gli Ward Churchill, i Noam Chomsky, i Louis Farrakhan, i Michael Moore, i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. Li odio come odiavo Mussolini e Hitler e Stalin and Company. Li odio come ho sempre odiato ogni assalto alla Libertà, ogni martirio della Libertà. È un mio sacrosanto diritto. E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d’accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell’Istigazione all’Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell’odio hanno costruito la loro ideologia. La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali. Parentesi chiusa, e torniamo ai trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio dell’Islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della LICRA (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica sulla fronte) si unì ai mussulmani francesi del MRAP (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice Penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l’Orgueil o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: «Attenzione! Questo librò può costituire un pericolo per la vostra salute mentale». (Insieme volevano anche intascare un grosso risarcimento danni, naturalmente). Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweitz, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il Ministro della Giustizia osò chiedere al mio Ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell’Islam viene impartita nel mio paese. (Un paese dove senza alcuna conseguenza legale qualsiasi mussulmano può staccare il crocifisso dai muri di un’aula scolastica o di un ospedale, gettarlo nella spazzatura, dire che il crocifisso «ritrae-un-cadaverino-nudo-inventato-per-spaventare-i-bambini-mussulmani». E sapete chi ha promosso il processo di Bergamo? Uno dei mai processati quindi mai condannati specialisti nel buttare via i crocifissi. L’autore di un sudicio libretto che per molto tempo ha venduto nelle moschee, nei Centri Islamici, nelle librerie sinistrorse d’Italia. Quanto alle minacce contro la mia vita cioè all’irresistibile desiderio che i figli di Allah hanno di tagliarmi la gola o farmi saltare in aria o almeno liquidarmi con un colpo di pistola nella nuca, mi limiterò a dire che specialmente quando sono in Italia devo essere protetta ventiquattro ore su ventiquattro dai Carabinieri. La nostra polizia militare. E, sia pure a fin di bene, questa è una durissima limitazione alla mia libertà personale. Quanto agli insulti, agli anatemi, agli abusi con cui i media europei mi onorano per conto della trista alleanza Sinistra-Islam, ecco alcune delle qualifiche che da quattro anni mi vengono elargite: «Abominevole. Blasfema. Deleteria. Troglodita. Razzista. Retrograda. Ignobile. Degenere. Reazionaria. Abbietta». Come vedete, parole identiche o molto simili a quelle usate da Alexis de Tocqueville quando spiega il dispotismo che mira alla Morte Civile. Nel mio paese quel dispotismo si compiace anche di chiamarmi «Iena», nel distorcere il mio nome da Oriana in «Oriena» e nello sbeffeggiarmi attraverso sardoniche identificazioni con Giovanna d’Arco. «Le bestialità della neo Giovanna d’Arco». «Taci, Giovanna d’Arco». «Ora basta, Giovanna d’Arco».
Scontro di (in)civiltà. Oriana Fallaci: le galline della sinistra in ginocchio dagli islamici. Per gentile concessione dell’erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del «Annie Taylor Award», prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui desumo che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più acute che in quella laica alla quale appartengo. Talmente aperte ed acute che non tentano nemmeno, non si sognano nemmeno, di salvarmi l’anima cioè di convertirmi. Uno dei motivi per cui sostengo che, vendendosi al teocratico Islam, il laicismo ha perso il treno. È mancato all’appuntamento più importante offertogli dalla Storia e così facendo ha aperto un vuoto, una voragine che soltanto la spiritualità può riempire. Uno dei motivi, inoltre, per cui nella Chiesa d’oggi vedo un inatteso partner, un imprevisto alleato. In Ratzinger, e in chiunque accetti la mia per loro inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, un compagnon-de-route. Ammenoché anche la Chiesa manchi al suo appuntamento con la Storia. Cosa che tuttavia non prevedo. Perché, forse per reazione alle ideologie materialistiche che hanno caratterizzato lo scorso secolo, il secolo dinanzi a noi mi sembra marcato da una inevitabile nostalgia anzi da un inevitabile bisogno di religiosità. E, come la religione, la religiosità finisce sempre col rivelarsi il veicolo più semplice (se non il più facile) per arrivare alla spiritualità. Chiusa la nuova parentesi. E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana, e indovina ciò che un petulante idiota con requisiti accademici scrisse su un noto giornale romano di Sinistra. Scrisse che il Papa può vedere quanto vuole «i miserabili, gli empi, i peccatori, i mentalmente malati» come la Fallaci. Perché «il Papa non è una persona perbene». (A dispetto di ogni dizionario e della stessa Accademia della Crusca, il «perbene» scritto "per bene"). Del resto, e sempre pensando a Tocqueville, alla sua invisibile ma insuperabile barriera dentro-la-quale-si-può-soltanto-tacere-o-unirsi-al-coro, non dimentico mai quello che quattro anni fa accadde qui in America. Voglio dire quando l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio (non ancora libro) apparve in Italia. E il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come «a provocateur» una «provocatrice». Una villana colpevole di calunniare l’Islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio. Perché il New York Post mi descrisse, sì, come «La Coscienza d’Europa, l’eccezione in un’epoca dove l’onestà e la chiarezza non sono più considerate preziose virtù». Nelle loro lettere i lettori mi definirono, sì, «il solo intelletto eloquente che l’Europa avesse prodotto dal giorno in cui Winston Churchill pronunciò lo Step by Step cioè il discorso con cui metteva in guardia l’Europa dall’avanzata di Hitler». Ma i giornali e le TV e le radio della Sinistra al Caviale rimasero mute, oppure si unirono alla tesi del New York Times. Tantomeno dimentico ciò che è avvenuto nel mio paese durante questi giorni di novembre 2005. Perché, pubblicato da una casa editrice che nella maggioranza delle quote azionarie appartiene ai miei editori italiani, e da questi vistosamente annunciato sul giornale che consideravo il mio giornale, in un certo senso la mia famiglia, un altro libro anti- Fallaci ora affligge le librerie. Un libro scritto, stavolta, dall’ex vice-direttore del quotidiano che un tempo apparteneva al defunto Partito Comunista. Bé, non l’ho letto. Né lo leggerò. (Esistono almeno sei libri su di me. Quasi tutti, biografie non-autorizzate e piene di bugie offensive nonché di grottesche invenzioni. E non ne ho mai letto uno. Non ho mai neppure gettato lo sguardo sulle loro copertine). Ma so che stavolta il titolo, naturalmente accompagnato dal mio nome che garantisce le vendite, contiene le parole «cattiva maestra». So che la cattiva maestra è ritratta come una sordida reazionaria, una perniciosa guerrafondaia, una mortale portatrice di «Orianismo». E secondo l’ex vice-direttore dell’ex quotidiano ultracomunista, l’Orianismo è un virus. Una malattia, un contagio, nonché un’ossessione, che uccide tutte le vittime contaminate. (Graziaddio, molti milioni di vittime. Soltanto in Italia, la Trilogia ha venduto assai più di quattro milioni di copie in tre anni. E negli altri ventun paesi è un saldo bestseller). Ma questo non è tutto. Perché nei medesimi giorni il sindaco milanese di centro-destra mi incluse nella lista degli Ambrogini: le molto ambite medaglie d’oro che per la festa di Sant’Ambrogio la città di Milano consegna a persone note, o quasi, nel campo della cultura. E quando il mio nome venne inserito, i votanti della Sinistra sferrarono un pandemonio che durò fino alle cinque del mattino. Per tutta la notte, ho saputo, fu come guardare una rissa dentro un pollaio. Le penne volavano, le creste e i bargigli sanguinavano, i coccodè assordavano, e lode al cielo se nessuno finì al Pronto Soccorso. Poi, il giorno dopo, tornarono strillando che il mio Ambrogino avrebbe inquinato il pluriculturalismo e contaminato la festa di Sant’Ambrogio. Che avrebbe dato alla cerimonia del premio un significato anti-islamico, che avrebbe offeso i mussulmani e i premiati della Sinistra. Quest’ultimi minacciarono addirittura di respingere le ambite medaglie d’oro e promisero di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: «Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush». Detto questo, onde rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, devo chiarire qualcosa che certo dispiacerà ad alcuni o alla maggioranza di voi. Ecco qua. Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire «No». Significa lottare per quel «No». Attraverso quel «No», cambiare le cose. E di sicuro io dico molti «No». Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville...). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra. Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.
Maestra di libertà. Oriana Fallaci e l'Islam: "Diventeremo l'Eurabia. Il nemico è in casa nostra e non vuole dialogare". Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Questo può apparir demagogico, semplicistico, e perfino superficiale: lo so. Ma se analizzate i fatti vedrete che la mia è pura e semplice verità. La verità del bambino che nella fiaba dei Grimm, quando i cortigiani lodano le vesti del re, grida con innocenza: Il re è nudo. Pensateci ragionando sull'attuale tragedia che ci opprime. Perbacco, nessuno può negare che l'invasione islamica dell'Europa sia stata assecondata e sia assecondata dalla Sinistra. E nessuno può negare che tale invasione non avrebbe mai raggiunto il culmine che ha raggiunto se la Destra non avesse fornito alla Sinistra la sua complicità, se la Destra non le avesse dato il imprimatur. Diciamolo una volta per sempre: la Destra non ha mai mosso un dito per impedire o almeno trattenere la crescita dell’invasione islamica. Un solo esempio? Come in molti altri paesi europei, in Italia è il leader della Destra ufficiale che imita la Sinistra nella sua impazienza di concedere il voto agli immigrati senza cittadinanza. E questo in barba al fatto che la nostra Costituzione conceda il voto ai cittadini e basta. Non agli stranieri, agli usurpatori, ai turisti col biglietto di andata senza ritorno. Di conseguenza, non posso essere associata né con la Destra né con la Sinistra. Non posso essere arruolata né dalla Destra né dalla Sinistra. Non posso essere strumentalizzata né della Destra né della Sinistra. (E guai a chi ci prova). E sono profondamente irritata con entrambe. Qualunque sia la loro locazione e nazionalità. Attualmente, per esempio, sono irritata con la Destra americana che spinge i leader europei ad accettare la Turchia come membro dell’Unione Europea. Esattamente ciò che la Sinistra europea vuole da sempre. Ma le vittime dell’invasione islamica, i cittadini europei, non vogliono la Turchia a casa loro. La gente come me non vuole la Turchia a casa sua. E Condoleezza Rice farebbe bene a smetterla di esercitare la sua Realpolitik a nostre spese. Condoleezza è una donna intelligente: nessuno ne dubita. Certo, più intelligente della maggioranza dei suoi colleghi maschi e femmine, sia qui in America che al di là dell’Atlantico. Ma sul paese che per secoli fu l’Impero Ottomano, sulla non-europea Turchia, sulla islamica Turchia, sa o finge di sapere assai poco. E sulla mostruosa calamità che rappresenterebbe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea conosce o finge di conoscere ancora meno. Così dico: Ms. Rice, Mr. Bush, signori e signore della Destra americana, se credete tanto in un paese dove le donne hanno spontaneamente rimesso il velo e dove i Diritti Umani vengono quotidianamente ridicolizzati, prendetevelo voi. Chiedete al Congresso di annetterlo agli stati Uniti come Cinquantunesimo Stato e godetevelo voi. Poi concentratevi sull’Iran. Sulla sua lasciva nucleare, sul suo ottuso ex-sequestratore di ostaggi cioè sul suo presidente, e concentratevi sulla sua nazista promessa di cancellare Israele dalle carte geografiche. A rischio di sconfessare l’illimitato rispetto che gli americani vantano nei riguardi di tutte le religioni, devo anche chiarire ciò che segue. Come mai in un Paese dove l’85 per cento dei cittadini dicono di essere Cristiani, così pochi si ribellano all’assurda offensiva che sta avvenendo contro il Natale? Come mai così pochi si oppongono alla demagogia dei radicals che vorrebbero abolire le vacanze di Natale, gli alberi di Natale, le canzoni di Natale, e le stesse espressioni Merry Christmas e Happy Christmas, Buon Natale, eccetera?!? Come mai così pochi protestano quando quei radicals gioiscono come Talebani perché in nome dei laicismo un severo monumento a gloria dei Dieci Comandamenti viene rimosso da una piazza di Birmingham? E come mai anche qui pullulano le iniziative a favore della religione islamica? Come mai, per esempio, a Detroit (la Detroit ultra polacca e ultra cattolica le ordinanze municipali contro i rumori proibiscono il suono delle campane) la minoranza islamica ha ottenuto che i muezzin locali possano assordare il prossimo coi loro Allah-akbar dalle 6 del mattino alle 10 di sera? Come mai in un paese dove la Legge ordina di non esibire i simboli religioni nei luoghi pubblici, non consentirvi preghiere dell’una o dell’altra religione, aziende quali la Dell Computers e la Tyson Foods concedono ai propri dipendenti islamici i loro cortili nonché il tempo per recitare le cinque preghiere? E questo a dispetto del fatto che tali preghiere interrompono quindi inceppano le catene di montaggio? Come mai il nefando professor Ward Churchill non è stato licenziato dall’Università del Colorado per i suoi elogi a Bin Laden e all’11 Settembre, ma il conduttore della Washington radio Michael Graham è stato licenziato per aver detto che dietro il terrorismo islamico v’è la religione islamica? Ed ora lasciatemi concludere questa serata affrontando altri tre punti che considero cruciali. Punto numero uno. Sia a Destra che a Sinistra tutti si focalizzano sul terrorismo. Tutti. Perfino i radicali più radicali. (Cosa che non sorprende perché le condanne verbali del terrorismo sono il loro alibi. Il loro modo di pulire le loro coscienze non pulite). Ma nel terrorismo islamico non vedo l’arma principale della guerra che i figli di Allah ci hanno dichiarato. Nel terrorismo islamico vedo soltanto un aspetto, un volto di quella guerra. Il più visibile, sì. Il più sanguinoso e il più barbaro, ovvio. Eppure, paradossalmente, non il più pernicioso. Non il più catastrofico. Il più pernicioso e il più catastrofico è a parer mio quello religioso. Cioè quello dal quale tutti gli altri aspetti, tutti gli altri volti, derivano. Per incominciare, il volto dell’immigrazione. Cari amici: è l’immigrazione, non il terrorismo, il cavallo di Troia che ha penetrato l’Occidente e trasformato l’Europa in ciò che chiamo Eurabia. È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci annientarci distruggerci. L’arma per cui da anni grido: «Troia brucia, Troia brucia». Un’immigrazione che in Europa-Eurabia supera di gran lunga l’allucinante sconfinamento dei messicani che col beneplacito della vostra Sinistra e l’imprimatur della vostra Destra invadono gli Stati Uniti. Soltanto nei venticinque paesi che formano l’Unione Europea, almeno venticinque milioni di musulmani. Cifra che non include i clandestini mai espulsi. A tutt’oggi, altri quindici milioni o più. E data l’irrefrenabile e irresistibile fertilità mussulmana, si calcola che quella cifra si raddoppierà nel 2016. Si triplicherà o quadruplicherà se la Turchia diventerà membro dell’Unione Europea. Non a caso Bernard Lewis profetizza che entro il 2100 tutta l’Europa sarà anche numericamente dominata dai musulmani. E Bassan Tibi, il rappresentante ufficiale del cosiddetto Islam Moderato in Germania, aggiunge: «Il problema non è stabilire se entro il 2100 la stragrande maggioranza o la totalità degli europei sarà mussulmana. In un modo o nell’altro, lo sarà. Il problema è stabilire se l’Islam destinato a dominare l’Europa sarà un Euro-Islam o l’Islam della Svaria». Il che spiega perché non credo nel Dialogo con l’Islam. Perché sostengo che tale dialogo è un monologo. Un soliloquio inventato per calcolo dalla Realpolitik e poi tenuto in vita dalla nostra ingenuità o dalla nostra inconfessata disperazione. Infatti su questo tema dissento profondamente dalla Chiesa Cattolica e da Papa Ratzinger. Più cerco di capire e meno capisco lo sgomentevole errore su cui la sua speranza si basa. Santo Padre: naturalmente anch’io vorrei un mondo dove tutti amano tutti e dove nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico c’è. Lo abbiamo qui, in casa nostra. E non ha nessuna intenzione di dialogare. Né con Lei né con noi. Di Oriana Fallaci.
Montanelli Fallaci, libro a 4 mani. Finì a “ti disprezzo” e “ti credevo migliore”, scrive Riccardo Galli su Blitz Quotidiano. Il titolo lo si sarebbe potuto trovare facilmente e avrebbe potuto, magari, suonare più o meno così: “L’impossibile libro a 4 mani”. E’, anzi era il progetto editoriale targato Rizzoli che poco meno di mezzo secolo fa avrebbe voluto dare i natali ad un libro scritto da due monumenti del giornalismo italiano: Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Un progetto naufragato però ancor prima di reificarsi a causa delle personalità delle due “penne”. Personalità a dir poco ingombranti e, di certo, poco disponibili ad una posizione di non protagonista assoluto. Foss’anche nella stesura di un libro. Un progetto abortito e sconosciuto, almeno sino a che Paolo Di Paolo, raccogliendo materiale per un libro su Montanelli, non si è ritrovato tra le mani una lettera della Fallaci. Una lettera in cui la giornalista, da New York, scriveva alla moglie di Montanelli parlandole proprio del libro in questione: “Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra”. Da questo frammento è partita una ricerca che ha svelato la storia, o almeno parte di essa, del libro mai nato. Una storia che Di Paolo racconta sul Corriere della Sera. “Cinque anni prima – agosto 1971 – erano stati (Montanelli e la Fallaci ndr.) sul punto di scrivere un volume a quattro mani, ma il progetto naufragò. Questo libro mai nato rischiava di essere un capo lavoro: provate ad immaginare due penne simili – così sopra la media di chiunque scriva oggi, così brillanti, così feroci e libere – nello stesso spazio editoriale”. “’Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra’ precisa la Fallaci scrivendo alla moglie di Indro, Colette Rosselli, il 7 agosto del ’71,. Mentre lavoravo ad un libro su Montanelli – racconta Di Paolo sul Corriere – ho ritrovato questa curiosa lettera: l’Oriana racconta a Colette di aver tardato ad iniziare il lavoro per una serie di ragioni – una febbre tropicale presa durante un servizio in Asia, la malattia della madre e dello zio Bruno, ma anche una ‘comprensibile paura, una comprensibile timidezza che un po’ per volta mi aveva invaso’”. Da questa traccia si possono quasi immaginare i due, Montanelli e la Fallaci, uno al di qua e una al di là dell’Atlantico, da New York dove viveva, scambiarsi appassionate lettere. Internet, e con lui le e-mail, erano ancora lontani da venire e, per comunicare, i due dovevano per forza di cose ricorrere all’unico sistema allora efficiente: carta e penna. E allora lettere. Lettere in cui la Fallaci confida un pizzico di timore reverenziale alla moglie di quello che comunque, complici i 20 anni di differenza, considera in qualche modo un maestro. E lettere in cui il “maestro” manifesta comunque l’ammirazione per quella che ai suoi occhi è una “ragazzina”, seppur piena di talento. Lettere in cui dalla timidezza si passa alle idee e, rapidamente, allo scontro e alla fine ai veri e propri insulti. Una parabola in cui si possono riconoscere i caratteri dei due che, idee politiche a parte, hanno effettivamente contribuito a fare la storia del giornalismo italiano. La rabbia e l’orgoglio che, prima di divenire il titolo del libro probabilmente più celebre della Fallaci, erano parte integrante e caratterizzante della giornalista. E poi l’indisponibilità ad accettare lezioni da una “ragazzina” e le differenti visioni del mondo e, soprattutto, della Resistenza che Montanelli e che la Fallaci hanno e che saranno alla base della rottura tra i due. Dall’idea di un lavoro fatto insieme infatti a questo si arriva: ad una rottura praticamente definitiva tra i due. Anche se, entrambi, non smetteranno di riconoscere il valore dell’altro. “Ti disprezzo”, scriverà Montanelli. “Ti credevo migliore” le risponderà la Fallaci. Epitaffio di una collaborazione che avrebbe potuto essere magnifica ma che non poteva in realtà essere.
E poi c'è quello che nessuno ha mai detto. L'Oriana Fallaci che visse la storia di Gesù in diretta. "Stampo da mezzo secolo L'Evangelo di Maria Valtorta, 10 volumi. Contiene dettagli inediti che solo una testimone oculare può aver visto", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Immaginate un'Oriana Fallaci al fianco di Gesù, pronta a osservare e a riferire tutto ciò che vede, con una dovizia di particolari da lasciare attoniti; una cronista dalla penna insuperabile, molto più attenta di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti che narrarono la vita del Nazareno in modo succinto o riferendo episodi dei quali non furono testimoni diretti. Quella donna è esistita. Si chiamava Maria Valtorta. La cosa incredibile è che nacque a Caserta il 14 marzo 1897 e morì a Viareggio il 12 ottobre 1961. Ciononostante ha lasciato 122 quaderni di scuola - in tutto 13.193 pagine - compilati in uno stato di ascesi mistica fra il 1943 e il 1947, nei quali descrive per filo e per segno l'infanzia, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore, citando luoghi, personaggi e dialoghi che nei Vangeli non compaiono. Ho potuto vedere alcuni di questi quaderni: la grafia, sgorgata da sette penne stilografiche tuttora conservate, è nitida, regolare, senza ombra di correzioni o tremori. Eppure la Valtorta era paraplegica, rimase inchiodata nel letto per 27 anni, fino al decesso, e come scrittoio doveva usare le proprie ginocchia arcuate, che infatti al momento di chiuderla nella bara erano ancora piegate in quella posa innaturale. Emilio Pisani, 79 anni, laureato in giurisprudenza, è da sempre il curatore e l'editore unico dell'opera monumentale ricavata da questi quaderni, L'Evangelo come mi è stato rivelato. Sono 10 volumi, per un totale di 5.000 pagine. Oltre 10 milioni di caratteri. Ciò significa che il racconto valtortiano è 25 volte più lungo dei quattro Vangeli canonici. «Quante copie sono in circolazione? Non lo so, c'è chi dice milioni», si sottrae pudico lo stampatore. Una cosa è certa: dal 1956 a oggi è stato tradotto persino in arabo, cinese, coreano, giapponese, russo, lituano, ucraino, croato, indonesiano, vietnamita, malayalam, tamil, rwandese e swahili. Oltre una trentina di lingue. Pisani, fondatore del Cev, il Centro editoriale valtortiano, va considerato un editore unico anche per il fatto che nessun altro suo collega al mondo ha in catalogo un solo autore. Né mi era mai capitato d'incontrare un editore che arde nel caminetto di casa i manoscritti inediti di questo suo autore. In gioventù Maria Valtorta perse il padre molto presto e così si risolse a scrivere un romanzo autobiografico, Il cuore di una donna, dal quale sperava di ricavare qualche soldo per la famiglia. In realtà non volle mai pubblicarlo e ordinò a Marta Diciotti, la governante-infermiera che la assistette dal 1935 sino alla fine, di distruggerlo. La donna non ebbe però il coraggio di farlo. «Nel 2001, prima di morire, la Diciotti consegnò il testo a me e a mia moglie», rievoca Pisani. «Lo aprimmo soltanto 10 anni più tardi. Erano pagine fittissime. Senza leggere neppure una riga, ci parve giusto bruciarle. Le ceneri le spargemmo qui fuori, nell'aiuola delle rose, che da allora fioriscono ancora più rigogliose». La villetta dei Pisani è nel giardino in cui ha sede la casa editrice, a Isola del Liri. Dal 2012 è più vuota: Claudia Vecchiarelli, insegnante di lettere e traduttrice che aveva aiutato il marito a diffondere il verbo della Valtorta, è morta di tumore. Il suo Emilio, un uomo mite dagli occhi limpidi come l'acqua delle cascate che si ammirano nel paesino della provincia di Frosinone, le ha dedicato un libro, Lettera a Claudia, in cui ripercorre la straordinaria avventura capitata a entrambi. Insieme hanno dato vita alla Fondazione Maria Valtorta Cev onlus, che amministra l'eredità materiale e spirituale della veggente e che ha acquistato dai Servi di Maria la sua casa di Viareggio, ora trasformata in museo. Per testamento sono finiti a loro tutti i documenti autografi della «evangelista», inclusi i famosi quaderni, oggi custoditi a Isola del Liri. Proprio in questi giorni gli italiani Marco Ruopoli e Matteo Ferretti e il mauritano Mor Amar, della cooperativa Sophia di Roma, hanno ultimato di digitalizzarli in alta definizione, per cui presto saranno consultabili in Pdf. Dopodiché gli originali finiranno in un caveau climatizzato, isolati dalla luce e dalla polvere.
Com'è diventato l'editore di Maria Valtorta?
«Cominciai come correttore di bozze con mio padre Michele, che negli anni Venti aveva aperto insieme al cognato Arturo Macioce una tipografia specializzata nella stampa di vite dei santi e trattati di teologia per il Vaticano e gli istituti religiosi. Una copia dell'Evangelo, dattilografata con la carta carbone dal direttore spirituale della Valtorta, il servita padre Romualdo Migliorini, fu data in lettura a Camillo Corsanego, notaio dei conclavi e decano degli avvocati concistoriali per le cause dei santi, il quale, benché sposato e padre di 6 figli, poteva fregiarsi del titolo di monsignore. Un'altra copia andò all'arcivescovo Alfonso Carinci, che era stato insegnante del futuro Pio XII all'Almo Collegio Capranica. Un'altra ancora al famoso endocrinologo Nicola Pende, che rimase impressionato dalla “perizia con cui la Valtorta descrive, nella scena dell'agonia di Gesù sulla croce, una fenomenologia che solo pochi medici consumati saprebbero esporre”. Quando i Servi di Maria chiesero al Sant'Uffizio il permesso di pubblicare il testo, la risposta fu negativa. Al che mio padre, che era stato convocato a Roma per stamparlo, si assunse l'onere di farlo come editore in proprio e nel 1952 firmò il primo contratto di edizione con la Valtorta».
Lei l'ha conosciuta?
«Certo. Andai a trovarla a Viareggio, dove il Venerdì santo del 1943 ebbe la prima rivelazione e il primo dettato».
Fu una visione? O udì una voce?
«Penso a un fenomeno interiore. Diceva di vedere Gesù e Maria accanto a sé e di essere stata fisicamente presente agli episodi narrati nei Vangeli. Leggendo la sua Autobiografia, mi ero convinto che fosse una grande donna. Giaceva nel letto e ripeteva spesso: “Che sole c'è qui!”, anche se fuori pioveva. Era in uno stato di isolamento psichico, come se avesse offerto il suo intelletto a Dio. Non le interessava comunicare con il resto dell'umanità. Quando nel 1956 ebbe fra le mani il primo volume del suo Evangelo che avevamo appena stampato, lo guardò distrattamente e lo appoggiò sulla coperta, come se non le appartenesse».
Che cosa sa della mistica?
«Era la figlia unica di Giuseppe Valtorta, mantovano, ufficiale di cavalleria, e di Iside Fioravanti, cremonese, docente di francese. A 4 anni, nell'asilo delle orsoline a Milano, le sue coetanee erano spaventate da un Cristo deposto dalla croce, raffigurato con crudo verismo nella cappella dell'istituto. Lei, invece, avrebbe voluto aprire l'urna in cui era deposto per mettergli nella mano trafitta dal chiodo il confetto che la nonna le dava ogni mattina accompagnandola a scuola. Studiò nel collegio Bianconi di Monza e nel 1917 entrò nel corpo delle infermiere volontarie che a Firenze curavano i feriti della Grande guerra. Si fidanzò due volte e per due volte sua madre, una donna fredda, dispotica, terribile, le mandò a monte il matrimonio. Nel 1920 fu aggredita per strada da un giovane facinoroso, che le diede una mazzata sui reni gridando: “Abbasso i signori e i militari!”. A causa dell'aggressione, nel 1934 rimase paralizzata dalla cintola in giù».
Ma che ha di speciale L'Evangelo?
«Introduce personaggi e racconti che nei Vangeli sinottici non appaiono. Giovanni dice solo che Giuda era un ladro. Nell' Evangelo si spiega che rubò del denaro a Giovanna di Cusa, moglie di un intendente di Erode. Lo stesso Giuda si accorge che il Maestro piange dopo aver resuscitato il figlio della vedova di Nain, al quale la Valtorta dà per la prima volta un nome, Daniele. Interrogato dal discepolo traditore sul motivo di quelle lacrime, Gesù risponde: “Penso a mia madre”. L' Evangelo presenta figure sconosciute, come Giovanni di Endor, ex ergastolano, e Sintica, schiava greca assai colta, convertiti al cristianesimo. Per una delazione di Giuda al sinedrio, vengono esiliati ad Antiochia, da dove inviano lettere al Nazareno in cui descrivono la città della Siria con immagini e toponimi che hanno sbalordito lo studioso francese Jean-François Lavère e il mineralogista Vittorio Tredici. Quest'ultimo era di casa in Palestina e annotò come la Valtorta superasse “la normale cognizione geografica o panoramica” facendola diventare “addirittura topografica e più ancora geologica”».
L'autrice potrebbe aver attinto questi particolari in qualche biblioteca.
«E quale, considerato che non era in grado di muoversi? I libri che teneva in casa li ho io e nessuno di essi tratta della città di Seleucia Pieria, o dei monti Casio e Sulpio, o dei colonnati di Erode. Ma la cosa più strabiliante è che la Valtorta riporta in modo minuzioso la pianta e persino il colore rosso delle pareti di un palazzo che Lazzaro di Betania, resuscitato da Gesù a quattro giorni dalla morte, possedeva sulla collina di Sion. Soltanto nel 1983 un'équipe di archeologi diretta dal professor Nahman Avigad della Hebrew University di Gerusalemme ritrovò i resti della dimora, perfettamente corrispondenti alla descrizione fattane dalla mistica 40 anni prima».
Mi sfugge il senso di tanta meticolosaggine narrativa.
«Ma non sfugge a Gesù, che il 25 gennaio 1944 impartì alla Valtorta - è lei a riportarlo - questo comando: “Ricorda di essere scrupolosa al sommo nel ripetere quanto vedi. Anche una inezia ha un valore e non è tua, ma mia. Più sarai attenta ed esatta e più sarà numeroso il numero di coloro che vengono a Me”».
L'Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 bollò L'Evangelo come «una vita di Gesù malamente romanzata».
«Inevitabile. Pochi giorni prima, il 16 dicembre 1959, era stato condannato dal Sant'Uffizio. Fu l'ultima opera messa nell' Indice dei libri proibiti, prima che Paolo VI lo abolisse: per non liberare il carcerato, demolirono il carcere. Il tutto a causa di qualche passaggio giudicato scabroso, come il racconto di Aglae, un'ex prostituta che confida a Maria di Nazaret il modo in cui un soldato romano la adescò dopo averla vista nuda».
Però nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger ribadì la condanna.
«Con un distinguo: spiegò che la pubblicazione fu a suo tempo vietata “al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti”. Quindi ai fedeli più avveduti non può arrecare danno, non essendovi in essa nulla contro la fede. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, quand'era segretario della Cei, avrebbe preteso che inserissi nel colophon una postilla per avvertire i lettori che l'opera non è di origine soprannaturale. Ma chi sono io per arrogarmi questa autorità?».
È vero che Pio XII stimava la Valtorta?
«È vero che lesse l'Evangelo in dattiloscritto e che disse a padre Migliorini: “Pubblicatelo così com'è. Chi legge capirà”. Di sicuro lo capì San Pio da Pietrelcina. La bolognese Rosi Giordani nel 1989 mi scrisse che Elisa Lucchi di Forlì chiese al frate in confessione: “Padre, ho udito parlare dei libri di Maria Valtorta. Mi consigliate di leggerli?”. La risposta fu: “Non te lo consiglio, ma te lo ordino!”».
Ha notato che i veggenti, così numerosi nei secoli scorsi, sono spariti?
«Non sono mai stato né a Lourdes, né a Fatima, né a Medjugorje, pur rispettando chi ci va. Non aggiungerebbero nulla alla mia fede. La Valtorta non ambì mai a farsi conoscere. Il suo Evangelo doveva camminare nel mondo senza essere del mondo; pretese persino che la prima edizione uscisse in forma anonima. Una sola volta lo reclamizzai con un'inserzione a pagamento su Tuttolibri della Stampa: ebbene, nelle settimane seguenti ricevetti un unico ordine, evento mai capitato in precedenza. Come se l'opera rifiutasse la pubblicità».
Sorprendente.
«Le dico di più. Nel 1973 la salma della Valtorta fu esumata a Viareggio per essere traslata a Firenze, nella Basilica della Santissima Annunziata, dove vi è il celebre affresco della Madonna, a lei molto caro, che secondo Pietro Bargellini sarebbe stato completato da un angelo. Il servita Corrado Berti si aspettava un evento straordinario, per esempio il ritrovamento del corpo incorrotto. Invece affiorarono poche ossa, che fecero l'estremo viaggio con me alla guida dell'auto, mia moglie accanto e la governante Marta sul sedile posteriore».
Perché me lo racconta?
«Perché sul letto di morte la Valtorta aveva la mano sinistra già bluastra, mentre la destra, quella con cui aveva scritto L'Evangelo, era ancora rosea, come se fosse viva: nel 1961 fu considerato un segno del cielo. E la vuol sapere una cosa? Le uniche ossa che mancavano quando la disseppellimmo erano proprio quelle della mano destra. Dissolte. Come se la mistica volesse dirci per l'ultima volta: “Non pensate a me. Pensate a Lui”».
INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.
Papa Francesco condanna la strage di Charlie Hebdo, ma "non si può insultare la fede", scrive “Libero Quotidiano”. "È una aberrazione uccidere in nome di Dio" ma "non si può insultare la fede degli altri". Con queste parole, pronunciate a bordo dell’aereo diretto nelle Filippine e riferite da Radio Vaticana, Papa Francesco interviene sull’azione dei terroristi islamici a Parigi contro Charlie Hebdo. "Non si può prendere in giro la fede", avverte il Papa. "C’è un limite, quello della dignità di ogni religione". Per Bergoglio, sia la libertà di espressione che quello di una fede a non essere ridicolizzata "sono due diritti umani fondamentali". Alla domanda di un cronista francese che gli chiedeva "fino a che punto si può andare con la libertà di espressione", il Pontefice ha chiarito: sì alla libera espressione "ma se il mio amico dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Questo il limite che secondo il Papa regola la libertà religiosa: "Non si giocattolizza la religione degli altri", dice Bergoglio. Francesco ha ricordato che la "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure, dice il Papa, "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza". Poi ha spiegato, "senza mancare di rispetto a nessuno" che "dietro ogni attentato suicida c'è uno squilibrio, non so se mentale, ma certamente umano". In una nota diramata subito dopo la strage Bergoglio aveva condannato "ogni forma di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e di cultura". Il Papa aveva precisato che "qualunque possa esserne la motivazione, la violenza omicida è abominevole, non è mai giustificabile e la vita e la dignità di tutti vanno garantire e tutelate con decisione. Ogni istigazione all’odio va rifiutata, il rispetto dell’altro va coltivato". E ancora: tre giorni fa Bergoglio, ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, aveva detto che "la tragica strage avvenuta a Parigi" è una dimostrazione che "gli altri non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti: l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro e perfino di forme fuorviate di religione". Rispetto alle minacce dirette dai terroristi fondamentalisti di matrice islamica contro il Vaticano e il pontefice, Papa Francesco assicura di affrontare questo pericolo "con una buona dose di incoscienza". Il Papa - come riferisce ancora Radio Vaticana - afferma semmai di "temere soprattutto per l’incolumità della gente", con migliaia di fedeli che tradizionalmente affollano le sue udienze generali in piazza San Pietro e gli ’Angelus’ dal Palazzo Apostolico e sottolinea che "il miglior modo per rispondere alla violenza è la mitezza".
Ferrara su Papa Francesco: "Le sue parole su Charlie non sono una gaffe. Sono molto peggio", scrive “Libero Quotidiano”. "Se dici una parolaccia su mia mamma ti devi aspettare un pugno", ha detto ieri Papa Francesco a proposito della libertà di espressione e della blasfemia. "È aberrante uccidere in nome di Dio", ha detto il gesuita Bergoglio, ma è sbagliato anche "insultare le religioni". Parole molto forti pronunciate mentre era in aereo in volo verso le Filippine che hanno in qualche modo hanno stupito cattolici e non. E proprio a quelle parole Giuliano Ferrara dedica oggi il suo editoriale sul Foglio sottolineando che "il fantasma di Voltaire e della sua irrisione delle religioni, dai maomettani ai papisti agli ebrei, il fantasma di un Charlie del Settecento, è ancora troppo vivo, nonostante si faccia finta di averne cancellato anche il ricordo con il Concilio ecumenico vaticano II". "Perché il Papa ha parlato in modo da essere identificabile come il tutore dell'autodifesa della dignità delle religioni invece che come il custode della sacralità della vita umana e del diritto alla libertà d' espressione?", si chiede il direttore del Foglio. La risposta arriva un paragrafo più sotto: "Non credo sia una gaffe, modalità a parte, ché il magistero posta aerea è effettivamente un po' troppo colloquiale per valere erga omnes. Non ha perso la brocca, il Papa, il che sarebbe umano, possibile, riparabile. C' è dell'altro. C'è la convinzione, comune al Papa e a molta cultura irenista occidentale, che si debba convivere con l'orrore, che il distacco concettuale e spirituale dell'islam dalle pratiche violente del jihad è una conquista che spetta eventualmente all'islam di realizzare, che non esiste alternativa alla sottomissione o all'abbandono al dialogo interreligioso". Del resto, spiega Ferrara nell'articolo firmato con l'elefantino rosso, "per quanto si voglia essere Papa del secolo e nel secolo, per quanti omaggi si facciano, anche per i creduloni, alla libertà piena di coscienza come fondamento della fede, della possibilità della fede, alla fine quel che conta è non perdere il contatto con l'universo islamico, e la chiesa sa bene, ben più e meglio di altri, che il nemico violento non è il terrorismo ma l'idea coranica radicalizzata di cui il terrorismo è il frutto". "Parole e gesti del Papa, le risate risuonate nella carlinga del suo aereo, la metafora del pugno risanatore che colpisce e ripara l'offesa alla dignità, la declamazione tra pause teatrali del concetto "è normale, è normale", tutto questo non è gaffe", conclude Ferrara. "E' di più e peggio". "La piazza araba militante, gli imam che predicano nelle moschee e riluttano a un rigorosa condanna della decimazione con fucile a pompa di redazioni di giornale e negozi ebraici, da ieri si sentono meno isolati, meglio protetti dalla convergenza con il Papa di Roma".
Giuliano Ferrara: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly, vi spiego perché provo pena e ammirazione per gli stragisti di Parigi", scrive “Libero Quotidiano”. Controcorrente. Sempre. Sin dal principio della questione, che ne è anche il presupposto, ossia quell'idea di essere in "guerra santa" contro l'islam gridata negli studi di Servizio Pubblico, idea espressa pochi minuti dopo l'attacco al Charlie Hebdo in un videoeditoriale sul sito del Il Foglio. "Guerra santa", appunto, il presupposto di Giuliano Ferrara, un concetto rifiutato con sdegno da gran parte dell'auditorio, da chi opera dei distinguo forse necessari, ma non per l'Elefantino. E sul tema, Ferrara, ci torna nel suo editoriale su Il Foglio di lunedì, pur prendendolo da una prospettiva diametralmente opposta che emerge sin dal - controverso - titolo: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly: ecco perché". Il direttore parafrasa lo slogan #JeSuisCharlie e lo dedica ai tre protagonisti dell'orrore di Parigi, ai tre terroristi islamici. Ferrara spiega nell'attacco: "Una pena profonda e un'ammirazione per il loro fanatico coraggio mi legano ai nemici, ai fratelli Said e Sherif Kouachi e Amely Coulibaly. In un certo senso di origine cristiana, #JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly". L'Elefantino prosegue: "Hanno assassinato persone più o meno come me, libertini della mia razza culturale e civile, gente che disegnava e rideva e sbeffeggiava, con una tinta blasfema che non ho ma che comprendo perfettamente nella dismisura anarchica e fragile e folle del loro essere artisti in una società secolarizzata e nihilista". Il direttore traccia nitidamente i contorni del suo sentimento, della "pena" e dell'"ammirazione", e sottolinea: "Mi vengono non da quella abbondanza di misericordia e di accoglienza che è diventata una pappa senza intimo rigore logico, senza giustizia linguistica, senza verità che non sia sentimentale. Non dal cuore ma dalla testa. Perché non è vero che tutto questo, come ha infelicemente detto Francois Hollande e come ripete lo stolto collettivo sul teatro mondiale della correttezza politica, non ha nulla a che fare con l'islam". I dettagli multiculturali - Ferrara nel suo editoriale si addentra nel "diritto come sharia, come legge divina", parla di Egitto, di Torquato Tasso dell'eroe cristiano Tancredi. Un lungo presupposto per rimarcare come "i dettagli meno multiculturali della storia tragica di Parigi sono come scomparsi". E secondo lui, senza comprendere a fondo quei "dettagli", non si può comprendere a fondo l'intera vicenda, che come Ferrara ha ripetuto negli ultimi giorni non è "terrorismo", bensì "guerra santa". Tornando sui terroristi, l'Elefantino ricorda come "hanno scelto di eseguire un ordine divino che impone di castigare la blasfemia come è accaduto a Charlie Hebdo". E ancora: "Hanno scelto la morte degli altri, e la loro, in un rito culturale di conversione e arruolamento, di esecuzione della legge coranica, al quale hanno saputo corrispondere fino alla fine nella follia della testimonianza di gioventù, uscendo allo scoperto e sparando all'impazzata davanti alla falange dei gendarmi di cuoio, oppure pregando alle cinque, ora del blitz, e correndo poi verso l'esecuzione nel negozio kosher". I dettagli, appunto. Ferrara insiste ancora sui dettagli, e nella conclusione dell'articolo di fondo ribadisce: "Sono dettagli importanti, sono il punto di vista che conta, più della rapida capacità di allineamento menzognero al mainstream politico islamo conformista di un capo Hezbollah o di un presidente iraniano che si dissociano a sorpresa". Il punto, per il direttore, è che il pensiero buonista e dominante rischia di far perdere il fuoco dell'obiettivo. Così Ferrara sottolinea, riferendosi ai terroristi: "Se li degradate a lupi, degradate voi stessi. Disconoscete il nemico. Non sarete mai capaci di combatterlo né di amarlo. Al posto del vangelo, libro eccelso, primitivo e terribile e selvaggio, metterete il prontuario della cultura del piagnisteo, una specie di ideologia che fa dello scontro di religione e di civiltà in atto una storiaccia di cronaca nera e di impazzimento terrorista". Ma per Ferrara, bene ribadirlo ancora una volta, è tutt'altro: è "guerra santa".
Mario Giordano: Basta, ecco perché non posso più dire "Je suis Charlie Hebdo", scrive su “Libero Quotidiano”. Scusate, ma devo dire una cosa un po’ difficile, forse persino un po’ dolorosa. Anche per me stesso. Però devo dirvela: è da stamattina che non mi sento più tanto Charlie. Anzi, proprio per nulla. Je ne suis pas Charlie. Je ne suis plus Charlie. Ne ho avuto la netta sensazione sfogliando il nuovo numero del settimanale satirico francese appena arrivato in edicola. Guardavo le pagine, diventate loro malgrado il simbolo della nostra civiltà offesa, e pensavo: ma possono essere davvero il simbolo della nostra civiltà offesa? Abbiate pazienza, ma io in quelle vignette non mi riconosco. Nemmeno un po’. Anzi, al contrario: penso che qui dentro, dentro questi fogli della sinistra sessantottarda, dentro questa cultura anarchica e distruttiva, dentro questi schizzi blasfemi che fanno a pezzi i nostri valori, dentro gli sberleffi che mettono alla berlina i nostri credi, ci sia il motivo vero della debolezza occidentale. Il motivo per cui siamo in balia di un nemico così terribile come quello islamico. Sia chiaro: da questo nemico terribile Charlie Hebdo va difeso con ogni mezzo perché dobbiamo salvare la libertà di espressione. Ed è stato giusto, per una settimana, essere diventati tutti Charlie, con quello slogan che ha riempito le piazze, Je suis Charlie, Nous sommes Charlie... Ma un conto è difendere la libertà di esprimersi, un conto è difendere ciò che viene espresso: la differenza, ne converrete, non è nemmeno così sottile. Siamo pronti alla battaglia per garantire la libertà di Charlie Hebdo di disegnare e scrivere ciò che vuole. Ma allo stesso modo dobbiamo essere liberi di dire che quello che Charlie Hebdo disegna e scrive non ci piace. Nemmeno un po’. Perché Charlie Hebdo incarna in sé il peggio del nichilismo post-Sessantotto, il peggio del gauchisme radical-nullista, il peggio della rivoluzione permanente ed effettiva. Si sono messi contro gli islamici perché amano da sempre mettersi contro tutto: contro gli ebrei, contro i cattolici, contro la Patria, contro l’esercito, contro le istituzioni, contro la famiglia, contro l’ordine, contro la sicurezza, contro la polizia, contro il commercio, contro le imprese, contro l’idea stessa di nazione e contro ogni Dio. Amano, cioè, mettersi contro tutto quello che costituisce il fondamento stesso di questa società occidentale, che pure oggi li difende a spada tratta. Ma da cui loro - ne siamo sicuri - continuano a sentirsi estranei. Anzi: avversari. Perché, diciamocela tutta, questa società occidentale che li difende a spada tratta a loro fa un po’ schifo. E allora Je suis Charlie, sicuro, fin che devo difendere il diritto di questi colleghi a dire la loro opinione. Ma Je ne suis plus Charlie se devono identificarmi con loro, che bestemmiano Dio, insultano le tradizioni, e usano il sacrosanto diritto di opinione per minare la società che glielo garantisce. Dunque, da oggi, visto che il settimanale è di nuovo uscito, scusate ma Je ne suis plus Charlie. Je ne suis plus Charlie perché non voglio e non posso accettare che i simboli della nostra società attaccata dal terrore islamico diventino proprio coloro che la nostra società la odiano. Coloro che la vorrebbero abbattere. E che la mettono in pericolo ogni giorno attaccandola nei suoi valori fondamentali. Se, in questa battaglia, dobbiamo metterci in fila dietro una bandiera, mi piacerebbe che essa fosse la bandiera della libertà dell’Occidente. Non un foglio che l’Occidente, al contrario, lo disprezza. Invece si sta compiendo proprio questo. Un po’ per interesse (operazione Hollande), un po’ per soggezione culturale (la predominanza della sinistra), alla fine la difesa dell’Europa colpita al cuore si è trasformata nella difesa tout court dei contenuti (assai discutibili) di una rivista. Fateci caso: anche se nella carneficina di Parigi sono morti agenti, ebrei, custodi di palazzo, alla fine tutto si riduce al simbolo di Charlie Hebdo. Al suo messaggio irresponsabile e irriverente. Questo è l’errore fondamentale. Perché non dobbiamo dimenticare che nella guerra contro il fondamentalismo islamico la loro forza è la nostra debolezza. Se loro osano alzare le armi contro di noi è perché noi siamo in ginocchio, se credono di poterci sottomettere ai loro valori è perché noi abbiamo rinunciato ai nostri, se ritengono di poterci imporre le loro tradizioni è perché noi abbiamo rinunciato alle nostre. E di questa rinuncia il settimanale francese è la dimostrazione più lampante. Perciò, dopo essere stato per una settimana Cabu, Charb, Wolinski, Tignous, da oggi mi sento in dovere di dirvi: maintenenat non plus. Ora non più. Per difenderci davvero non possiamo essere Charlie.
Dopo Charlie Hebdo: perché bisogna fermare la censura dei buoni. Si comincia a ritenere che chi critica vignette blasfeme sia contro la libertà. E chi ha una posizione culturale ben definita ostacoli l'integrazione, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Temo che dalla grandiosa marcia parigina nasca un nuovo tipo di censura. La censura dei buoni. La censura di quelli che vogliono abbassare i toni; quelli che se dici che siamo di fronte ad una guerra e non a dei terroristi, fomenti l’odio; quelli che sanno ciò che è opportuno dire e cosa no e se non collabori, allora sei un guerrafondaio, un estremista, un fondamentalista anche tu. Oppure un cretino. La censura dei buoni è funzionale al disegno del potere: nessun leader europeo (Hollande è scusato) ha osato esprimere un’opinione diversa dal “sono terroristi, la religione non c’entra” e così i assassini diventano “sedicenti islamici” e a chi fa notare che mentre macellavano innocenti gridavano “Allah Akbar” viene tacciato di perseguire lo scontro di civiltà. Ecco perché i terroristi sono diventati "sedicenti islamici". Davanti a chi ha una posizione diversa i buoni sono pronti a sventolare il ditino inquisitore spiegando che così non si fa il bene dell’umanità che consiste nell’integrazione e nel dialogo. E siccome l’ostacolo maggiore al dialogo sarebbe avere una posizione culturale, religiosa, sociale ben definita, allora la colpa della mancata integrazione è tua. L’unica posizione culturale accettata diventa così quella laica che, indifferente a tutto, non fomenta l’odio. Perciò bisogna, adesso più di prima, stare attenti a non cadere nell’eccesso contrario facendo passare l’idea che Charlie Hebdo è un giornale di anarchici scapigliati e va difeso mentre chi ritiene le sue vignette volgari, blasfeme e ripugnanti sta armando le mani degli assassini. Bisogna stare attenti a non accusare chi esercita la propria libertà di critica di intelligenza con il nemico. Bisogna vigilare, perché questo tipo di censura dei buoni è in grado di devastare lo spazio pubblico togliendo libertà a chi non è allineato con il pensiero mainstream. Quello secondo il quale solo chi non crede in niente accetta tutto ed è pronto a dialogare con chiunque. Per dirsi cosa, poi, non si sa. La censura dei buoni è quella che pensa che la pace nel mondo, che si raggiunge con l’integrazione, è un fine talmente nobile che della libertà della singola persona si può anche fare a meno.
Solidarietà già finita: "Charlie se l'è cercata". E Greta e Vanessa no? Buonismo addio, per i vignettisti trucidati spuntano i distinguo. Per le nostre cooperanti amiche dei nostri nemici, invece..., scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Dire che non siamo sorpresi ci farebbe apparire presuntuosi, nonostante avessimo segnalato, già dal giorno della strage di Parigi, il diffondersi dell'opinione che i giornalisti di Charlie Hebdo se lo sono cercata. Certo, nel mondo dell'islam radicale hanno esultato perché chi ha offeso Maometto, secondo il loro delirante pensiero, va punito con la morte. Ma scoprire che, anche in Europa, ci sia più d'uno che definisca l'orrendo massacro solo una brutale conseguenza delle continue provocazioni del settimanale satirico, ci fa inorridire. Perché questo significa abbracciare le tesi dei fondamentalisti e diventare, di fatto, loro fiancheggiatori. Esageriamo? Tutt'altro. È come se si giustificassero le stragi delle foibe, perpetrate dai partigiani di Tito contro la popolazione italiana di Venezia Giulia e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale: il regime fascista è stato brutale durante l'occupazione dell'ex Jugoslavia, quindi è naturale e giusto che tutti gli italiani, indistintamente, siano sterminati. Una tesi riprovevole, anche se tanto cara, fino a pochi anni fa, ai comunisti nostrani. Ma Charlie Hebdo non è stato neppure un regime brutale. Ha esagerato nella sua satira anti religiosa? Secondo la legge, no. E, fino a prova contraria, nei Paesi del Vecchio Continente sono in vigore norme in sintonia con la democrazia moderna e non con la sharia. Se la maggioranza dei cittadini deciderà in futuro di modificare le leggi sulla libertà d'espressione, allora giornali e tv si adegueranno. Ma guai a farlo per compiacere qualcuno o nel nome del «politicamente corretto». Se uno crede che la satira superi i limiti della decenza, può sempre rivolgersi a un tribunale e chiedere giustizia. Nei Paesi civili funziona così, almeno fino a quando anche in Europa, grazie alla politica delle porte aperte, non nasceranno le prime teocrazie. È comprensibile che Papa Francesco ritenga inaccettabile che la fede sia ridicolizzata, lui è un leader religioso. Meno accettabile è che lo sostengano esponenti laici, garanti della libertà d'espressione o, addirittura, fondatori di giornali satirici, come Henri Roussel, uno dei padri di Charlie Hebdo, che ha criticato il direttore assassinato per le sue scelte editoriali. La blasfemia non è più un reato, grazie alla laicità dello Stato, e in Francia questo è accaduto già nel 1789. Non sappiamo se a spingere queste persone sia la paura o altro, ma il loro modo di interpretare le stragi del terrorismo jihadista è uno schiaffo ai nostri valori e un assist a chi dell'estremismo continua a fare la sua bandiera. Se si usasse la stessa malevolenza, oggi si dovrebbe dire che Vanessa Marzullo e Greta Ramelli andavano lasciate al loro destino perché se la sono cercata. Sono entrate illegalmente in Siria attraverso la Turchia, sapevano di andare in un Paese dove era in corso una guerra civile, hanno fatto una scelta di parte diventando amiche del «nemico». Cosa si aspettavano, che sventolare una bandiera anti Assad avrebbe fornito loro l'immunità?
Siria, Candiani (Ln): Magistratura indaghi onlus per circonvenzione d'incapaci, scrive “Libero Quotidiano”. “Nella vicenda di Greta e Vanessa consiglierei ai magistrati di aprire un filone di indagine anche per ‘circonvenzione d’incapaci’: devono essere perseguite anche quelle associazioni ed onlus poco serie che spingono le persone a rischiare la vita, senza le adeguate tutele e i minimi requisiti di sicurezza”. A dirlo il senatore leghista Stefano Candiani, in relazione alla liberazione delle due cooperanti. “La magistratura faccia approfondite indagini sui ‘reclutatori’ che, indottrinando al terzomondismo, mandano allo sbaraglio i giovani e li espongono così ai peggiori pericoli”. Candiani punta il dito contro “l’atteggiamento irresponsabile e colpevole di chi fa ideologia a basso costo, mettendo a rischio la vita di attivisti, militanti, cooperanti, e di chi è poi chiamato a occuparsi dei rapimenti”. “Oggi i cattivi maestri sono responsabili di aver messo a repentaglio vite umane e, nella malaugurata ipotesi (peraltro non smentita da Gentiloni) che sia stato pagato un riscatto, anche di tutti gli italiani nel mondo, che oggi rischiano di essere prede facili del crimine internazionale, che ha capito la scarsa serietà del paese italico”.
Ma così siamo il bancomat dei terroristi, scrive Francesco Maria De Vigo su “Il Giornale”. Sono libere. Sono vive. È una buona notizia e, ora più che mai, ne abbiamo bisogno. Ma ci sono tanti “ma”. E non si possono tacere. Il primo è che se loro stanno bene, in compenso, il nostro stato non gode di altrettanta buona salute. Il governo infatti avrebbe pagato dodici milioni di euro di riscatto per Greta e Vanessa. Un conto salatissimo in un Paese che, per legge, congela i beni dei parenti di chi è stato sequestrato. Ma qui i parenti, si fa per dire, sono lo Stato, siamo noi. Ed è noto che per lo Stato non valgono le leggi dello Stato. Bene, dunque dobbiamo farci una domanda: è giusto pagare i terroristi? Perché è chiaro che se noi – gli italiani, gli occidentali -, paghiamo il riscatto per ogni nostro concittadino, ogni nostro concittadino – italiano, occidentale -, diventa un salvadanaio deambulante per qualsiasi tagliagola. Una slot machine facile da sbancare. Ma così ci trasformiamo nel bancomat dei terroristi. Ed è abbastanza stupido. Dodici milioni sono tanti, abbastanza per armare un plotone di jihadisti (nel deep web con 1500 euro si compra un kalashnikov). Non possiamo dare la paghetta, e che paghetta!, a chi ci vuole sbudellare. Parliamoci chiaro: possiamo farci carico di tutti gli sprovveduti che pensano di farsi una “vacanza intelligente” in una zona di guerra, di fare il buon samaritano a spese nostre? No. Non lo dico solamente perché le due ragazze pensavano che Assad fosse il babau e i suoi nemici dei chierichetti vessilliferi della libertà più specchiata (questo lo pensava – erroneamente o con complicità – anche buona parte della stampa internazionale). Lo dico perché lo Stato italiano non può fare da badante a qualunque suo cittadino, che si tratti del più stupido o del più intelligente, si cacci nei guai nell’ultimo pertugio del mondo. Specialmente in un periodo in cui non riesce a garantire la minima sussistenza anche a chi se ne sta comodamente seduto sul divano di casa sua. Ma avanza un’altra domanda: perché lo Stato che non ha trattato (giustamente) con le Br tratta con gli jihadisti? Trattare significa arrendersi. E in questo momento è l’ultima cosa da fare.
L’Italia finanzia il terrorismo internazionale a forza di riscatti, scrive Giusi Brega su “L’Ultima Ribattuta”. Il nostro Governo ha l’abitudine di pagare i riscatti chiesti dai terroristi per restituirci i nostri connazionali rapiti. In questo modo contribuisce a finanziare le organizzazioni eversive internazionali come l’Isis e innesca un circolo vizioso. In queste ore stanno avendo luogo le trattative per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria e apparse, il 31 dicembre, in un video postato su YouTube nel quale le ragazze supplicano il nostro governo di riportarle a casa prima che vengano uccise. Le fonti non escludono che il video sia stato girato per dare alle autorità italiane la prova in vita delle due ragazze e che successivamente è stato reso pubblico dai rapitori per «alzare il prezzo del riscatto». Riscatto che l’Italia è sicuramente pronta a pagare visto che, ogniqualvolta il nostro Governo si ritrovi a trattare con il terrorismo internazionale per la liberazione degli ostaggi, finisce sempre con l’aprire il portafogli: i prigionieri tornano a casa e, anche se le Istituzioni si guardano bene dal confermarlo, è risaputo che dietro alla liberazione c’è stato il pagamento di un riscatto che va a confluire dritto dritto nelle tasche delle organizzazioni eversive: un giro di affari che a livello internazionale è stimato in 125 milioni di dollari (dal 2008 ad oggi) a cui l’Italia contribuisce in maniera considerevole. Fare i terroristi costa. Il business degli ostaggi rende parecchio. Ed è un guadagno facile. Soprattutto se si ha a che fare con un Paese come l’Italia sempre pronta a pagare quanto chiesto. Fonti di stampa sostengono, infatti, che dal 2004 ad oggi il nostro Paese abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per 14 ostaggi catturati dai terroristi operativi nelle zone a rischio del mondo. Qualche esempio: per liberare lo scorso maggio il cooperante italo-svizzero Federico Motka, il nostro governo ha versato nelle casse degli jihadisti qualcosa come 6 milioni di euro. Anche per il rilascio del giornalista Domenico Quirico (sequestrato in Siria il 9 aprile 2013 e rilasciato l’8 settembre) sembra sia stato pagato un riscatto di oltre 4 milioni di dollari. Ricordate Giuliana Sgrena? La giornalista del Manifesto fu rapita nel febbraio del 2004 in Iraq e liberata un mese dopo grazie al sacrificio del funzionario del Sismi Nicola Calipari e a fronte del pagamento di 6 milioni di dollari. E le due Simone? Simona Pari e Simona Torretta furono rilasciate nel settembre 2004 dopo aver fatto pagare un riscatto di 11 milioni di dollari. E poi Marco Vallisa (il tecnico italiano rapito in Libia nel luglio scorso) per il quale sembra sia stato pagato un riscatto di 4 milioni di dollari. I nostri governi dal 2004 ad oggi si sono guadagnati la fama di “pagatori di riscatti” elargendo milioni di euro di denaro pubblico finanziando così la follia omicida di organizzazioni come l’Isis pronte a usare il denaro per uccidere e torturare, mettendo a repentaglio la sicurezza e la democrazia mondiale. Come se ciò non bastasse, questo atteggiamento mette a repentaglio l’incolumità dei nostri connazionali all’estero trasformandoli in “merce preziosa”. Per fare in modo che i sequestri non siano più considerati una risorsa di finanziamento e rompere questo circolo vizioso basterebbe applicare le norme internazionali in vigore che proibiscono di pagare riscatti ai terroristi come stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite (approvata dopo l’11 settembre 2001) e da un accordo sottoscritto dai Paesi del G8. D’altra parte se il sequestro avviene in Italia, la magistratura blocca i beni del sequestrato. Non si capisce perché se il sequestro avviene all’estero si finisca sempre col pagare un riscatto milionario (con i soldi dell’erario, cioè i nostri).
Vanessa e Greta: I commenti di Magdi Allam e Adriano Sofri, scrive Niccolò Inches su “Melty”. Il video messaggio di Vanessa e Greta, detenute in Siria dal gruppo jihadista Al Nusra, ha scatenato il dibattito sull'opportunità dell'iniziativa umanitaria delle due attiviste. Il punto di vista di Adriano Sofri e Magdi Cristiano Allam. La pubblicazione del video messaggio di Vanessa e Greta, le due attiviste umanitarie scomparse nel luglio scorso mentre si trovavano in Siria, ha confermato l'ipotesi del rapimento. Le due ragazze sarebbero nelle mani del gruppo jihadista Al Nusra, cellula legata ad Al Qaeda, attiva nel paese arabo in cui è in corso una guerra civile tra i corpi militari fedeli al regime di Bachar Al Assad e i ribelli, tra i quali non figurano solo forze democratiche ma anche numerosi nuclei del fondamentalismo islamico. In Siria era detenuto anche il giornalista de “La Stampa” Domenico Quirico, liberato nel 2013 quando soffiava il vento di una “guerra lampo” pensata dagli Stati Uniti di Barack Obama (poi mai realizzata per via della resistenza della Russia di Putin e della Cina). Su Quirico, però, non si scatenò il vespaio di commenti offensivi e sessisti apparsi sul web per attaccare la presunta irresponsabilità delle due giovani cooperanti. Ogni conflitto porta con sé il rischio di sequestri e violenze nei confronti di cittadini stranieri: il caso di Vanessa e Greta si accoda a quanto successo in passato a Giuliana Sgrena, le due Simone, Daniele Mastrogiacomo e altri in Iraq. Come puntualmente si verifica ad ogni notizia di rapimento, inoltre, scoppia dunque la polemica tra i partigiani dell'intransigenza, quelli che il racconto della guerra o un aiuto umanitario non possono valere il prezzo di un riscatto (specialmente se dovesse servire a riempire le casse dei terroristi), e coloro che tessono le lodi di una – pur rischiosa – iniziativa, in nome di valori universali e cosmopoliti. Sul rapimento di Vanessa e Greta (ecco chi sono le due cooperanti) sono intervenuti due illustri rappresentanti di entrambi i fronti, all'interno di due editoriali: la critica di Magdi Cristiano Allam, autore di “Non perdiamo la testa” (pamphlet di denuncia della presunta cultura violenta veicolata dall'Islam) e firma del Giornale da una parte, dall'altra l'ossequio dell'ex esponente di Lotta Continua – condannato per l'omicidio Calabresi - Adriano Sofri, oggi penna di Repubblica. Ne riportiamo alcuni passaggi.
Magdi Allam: i riscatti finanziano i terroristi. “Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebberosequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico (…) Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta!”
Adriano Sofri difende le due cooperanti. “Furono istruttive certe reazioni al sequestro. Con tanti auguri di uscirne sane e salve, per carità, ma con un abietto versamento di insulti, a loro e famiglie. Stiano a casa a giocare con le bambole, sono andate a farsi il selfie coi terroristi, non ci si sogni di riscattarle con “i nostri soldi”, paghino gli irresponsabili genitori… Un genitore si sentì costretto a spiegare che sua figlia era maggiorenne, che lui l’aveva dissuasa, che non poteva legarla… Io mi sforzerei di dissuadere una ragazza che, per amore dei bambini senza cibo senza medicine e senza amore, volesse partire per la Siria. Non potrei legarla, e soprattutto non potrei fare a meno di ammirarla (...) Greta e Vanessa [sono] donne, e giovani: troppo giovani e troppo donne, verrebbe da dire, in questa euforica infantilizzazione anagrafica universale. Avevano alle spalle un’esperienza da invidiare di conoscenza e aiuto al proprio prossimo in Africa e in Asia, e della stessa Siria erano veterane. Questa volta andavano ad Aleppo col proposito preciso della riparazione di tre pozzi, per gente privata anche dell’acqua (…) I ritratti che ne fanno delle creaturine in balia di slogan e smancerie sono contraddetti da una loro mania contabile scrupolosa ed efficiente, e dall’idea che la rivoluzione sia l’autorganizzazione di ospedali, scuole, mense… (…) Gli insulti contro Vanessa e Greta avevano argomenti come il tifo per Bashar al Assad e il precetto di farsi gli affari propri: farsi gli affari di Bashar al Assad, insomma (…) perché riscattare vite a pagamento? Perché sì, perché la minaccia che incombe su una persona, la mano già alzata sul suo capo –era vero per Aldo Moro- viene prima della preoccupazione sul vantaggio che il carnefice trarrà dall’incasso di oggi”.
Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: vittime del cuore o “incoscienti da salvare”? Scrive “Blitz Quotidiano”. Il sequestro ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli ha provocato sul Giornale un titolo di prima pagina un po’ fuori falsariga nazionale: “Due italiane rapite in Siria. Altre incoscienti da salvare”. È il titolo a un articolo di Luciano Gulli, sulla stessa linea, che si stacca dal tono generale degli articoli sul rapimento ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli che ha suscitato un turbine di solidarietà e notizie, mentre certamente i servizi segreti italiani hanno iniziato a prelevare, dai conti segreti e fuori della giurisdizione del Fisco, i milioni di euro che serviranno per pagare il loro riscatto. Proprio pochi giorni fa il New York Times aveva messo in fila tutti i rapimenti opera di gruppi terroristici, indicando tutti i paesi che hanno alimentato le casse di Al Qaeda con i riscatti per liberare connazionali. La cosa sorprendente è che non solo L’Italia paga, ma anche Francia, Austria, Svizzera e la rigorosissima Germania. Vicende angosciose come i rapimenti si risolvono in bagni di lacrime collettive e pagamenti occulti, exploit come ai tempi di Maurizio Scelli, e poi tutti tornano ai loro problemi di tutti i giorni, in attesa del prossimo. Luciano Gulli invece va giù piatto e definisce Vanessa Marzullo e Greta Ramelli “due incoscienti da salvare sull’orlo del baratro” scrivendo così: “Solidarietà, certo, mancherebbe. Come si fa a non essere vicini, a non sperare il meglio per due ragazze che invece di andarsene al mare con gli amici decidono di passare l’estate in Siria, tra le macerie, sotto le bombe, ogni giorno col cuore in gola per dare una mano ai bambini di quel martoriato Paese? Meno bello – e questo è l’aspetto che varrà la pena sottolineare, quando tutto sarà finito – è gettare oltre l’ostacolo anche i soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari o imbastire complesse, rischiose, talvolta mortali operazioni di recupero di certe signorine che oltre alla loro vita non esitano a mettere a repentaglio anche quella degli altri. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, sparite nel nulla sei giorni fa ad Aleppo, sequestrate da una banda di tagliagole torneranno, ne siamo certi. Ma quando saranno di nuovo tra noi qualcuno dovrà spiegar loro che la guerra, le bombe, quei territori «comanche» dove morire è più facile che vivere sono una cosa troppo seria, troppo crudele per due ragazzine. Che sognare di andare in battaglia «per dare una mano», per «testimoniare», come troppe volte abbiamo visto fare a tante anime belle, dalla Bosnia all’Irak di Saddam, è una cosa che si può sognare benissimo tra i piccioni di piazza del Duomo, un selfie dopo l’altro, abbracciate strette strette, quando il rischio maggiore è di beccarsi un «regalo» dai pennuti. Ma senza i nervi, la preparazione, il carattere, l’esperienza che ti dice cosa fare e cosa non fare; senza quel rude pragmatismo che ti viene dopo aver battuto i marciapiedi di tante guerre è meglio stare a casa. Non ci si improvvisa reporter di guerra e non ci si improvvisa neppure cooperanti senza aver imparato come si fa, come ci si comporta, come è fatto il sorriso che ti salverà la vita quando ti troverai di fronte a un mascalzone che vuole i tuoi soldi e le tue scarpe, o al ragazzino che sbuca dall’angolo di una casa, e per rabbia, per vendetta, o anche solo per paura, lascia partire una raffica di mitra che può spedirti all’altro mondo in un amen. Sono le stesse cose che scrivemmo nel settembre di dieci anni fa, quando a Bagdad vennero liberate Simona Torretta e Simona Pari. Le «due Simone» uscirono incolumi da un’avventura durata tre settimane. Non così andò l’anno dopo, quando sempre a Bagdad rapirono la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Per liberarla, quella volta, morì l’agente del Sismi Nicola Calipari. Che dire di più, in queste ore? Niente. Fermiamoci qui. Intrecciamo le dita, sperando di rivedere presto queste altre «Simone»”.
Vanessa e Greta a Roma: l'incubo è finito, scrive Giulia Vola su “Magazine delle donne”. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie rapite in Siria a luglio sono tornate in Italia questa mattina. Ad accoglierle il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. A far discutere il maxi riscatto che l'Italia avrebbe pagato per la loro liberazione. Libere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie ventenni rapite in Siria lo scorso luglio sono tornate in Italia questa mattina all'alba accolte all'aeroporto di Ciampino dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: è festa grande a Gavirate (Varese), il paese di Greta, e a Brembate (Bergamo), quello di Vanessa. L’annuncio è arrivato nel tardo pomeriggio di giovedì con un tweet di Palazzo Chigi, seguito dalla conferma - alla Camera - del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Nel frattempo il premier Matteo Renzi aveva chiamato la famiglia di Greta per anticipare quella notizia che ha cambiato la vita di due famiglie che per mesi hanno temuto il peggio ma non hanno mai perso la fiducia. Nemmeno quando, lo scorso 31 dicembre, erano apparse in quel video diffuso dai rapitori in supplicavano "il nostro governo di riportarci a casa". Ieri la richiesta è stata esaudita e nei due piccoli centri lombardi le campane hanno suonato a festa spezzando quell'attesa straziante durata sei mesi, da quando le tracce delle due ragazze si erano perse ad Abizmu, poco lontano da Aleppo, nel Nord della Siria. Eppure, mentre in Lombardia si festeggia, a Roma c’è (già) chi fa polemica. Soprattutto dopo che la tv di Dubai al Aan - ripresa anche dal Guardian - ha parlato di 10 milioni di dollari, poco più di 12 milioni di euro versati nelle tasche dei rapitori. Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini tuona contro l’eventualità che si sia pagato un riscatto: "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il Governo avesse pagato 12 milioni sarebbe uno schifo" ha commentato senza mezzi termini seguito a ruota dal compagno di partito Roberto Calderoli e dalla forzista Maria Stella Gelmini, tutti accomunati dalla stessa domanda: è legittimo pagare sapendo che il denaro finanzierà gruppi terroristi? Nella polemica è entrato anche Roberto Saviano. Lo scrittore anticamorra, che vive una vita da sequestrato in casa, ha affidato a Facebook una lettera sfogo: “Care Greta e Vanessa, sono felice per la vostra liberazione, e come me lo sono in tanti. Ma vi aspetterà anche un’Italia odiosa, che vi considera ragazzine sprovvedute che invece di starsene a casa sono andate a giocare in Siria. Diranno che sono stati spesi molti soldi, molto più del valore della vostra vita". Secondo Saviano quelle dichiarazioni sono frutto del "senso di colpa per non avere coraggio, dell’insofferenza dell’incapace che fermo al palo cerca di mitigare la propria mediocrità latrando contro chiunque agisca". D'altra parte, anche di Saviano, costretto a uno strettissimo regime di protezione che annulla la sua libertà personale, molti hanno detto che se l’è andata a cercare sfidando la camorra con il suo lavoro. "Spero saprete sottrarvi a questo veleno - scrive alle due volontarie -. Un’altra parte di questa Italia è convinta che il vostro sia stato un atto di coraggio e di umanità, e che nessuno possa essere considerato causa del proprio rapimento”. I commenti al post di Saviano sono il ritratto di un paese in difficoltà con il concetto di eroe e di coraggio: madri e padri trepidanti che condividono la gioia delle famiglie si mescolano a insulti contro le due ragazze e recriminazioni sul presunto riscatto. Uno scenario che si ripete: dopo Je suis Charlie, ora è la volta di Je suis Greta e Vanessa, identità che sui Social, in questi momenti, va per la maggiore. Il governo italiano naturalmente nega di aver pagato (ma non potrebbe fare diversamente). Resta il fatto che la La Jabhat al-Nusra, "il fronte di sostegno per il popolo siriano" vicino ad al Qaeda che aveva in custodia Greta e Vanessa e gli altri gruppi terroristici più o meno affiliati incassano, secondo il New York Times, circa 2 milioni di euro a ostaggio liberato. Denaro versato "in gran parte dagli europei" sottolinea il quotidiano del Paese che ha scelto la linea dura rifiutandosi di pagare. Ma oggi è il giorno della felicità e delle prime dichiarazioni che le ragazze faranno in Procura a Roma. Per le recriminazioni e le polemiche c'è tutto il tempo: ''Quando la vedrò le darò un grande abbraccio - ha commentato emozionato Salvatore Marzullo, il papà di Vanessa -. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle''.
15 gennaio 2015. Vanessa e Greta liberate: si festeggia? No! Scrive Alberta Ferrari su “L’Espresso”. E’ ufficiale da poche ore: Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, giovanissime cooperanti sequestrate a luglio in Siria da terroristi jihadisti sono state liberate; stanotte giungeranno in volo dalla Turchia in Italia. Prima di sapere il loro destino e ignorando volutamente la querelle sollevata da chi metteva in discussione motivazioni e/o imprudenza delle delle ragazze, avevo stigmatizzato l’inaudita violenza sessista che “la pancia” degli italiani riversava nei loro confronti in rete, con modalità becere e inaccettabili indipendentemente dal merito delle questioni. Come da previsioni e in linea con la politica estera italiana (differente, per esempio, da quella degli USA) è ovvio che sia stato pagato un riscatto, del quale iniziano a circolare cifre non confermate: 12 milioni di euro. E immediatamente, con le giovani non ancora a casa, persino tra i commentatori più pacati oltre il 90% esprime aperto malumore. Qualcuno premette che è un sollievo che siano state liberate, ma la maggior parte si limita a commenti come questo: “un solo pensiero nella mente di tutti gli italiani: E IO PAGOOOOOOOOOO”. Su facebook, cloaca massima di eiezioni senza filtro cerebrale, il concetto comincia a prender forma con le tristemente note modalità: invettiva, insulto, augurio di torture stupro morte etc. che rendono impossibile ogni civile argomentazione. Facciamocene una ragione perché questo background culturale si applica a tutte le donne: un caso apparentemente lontanissimo come l’annuncio di Emma Bonino di avere un tumore al polmone è stato gratuitamente accolto con analoga marea di triste commentario insultante e sessista, in cui la malattia diventa l’arma con cui colpire e augurare ogni male. Questo è il popolo che si riversa senza filtro sui social ed è bene conoscere, non ignorare. Perché il fenomeno denuncia che il degrado della pancia degli italiani sta arrivando alla barbarie e che le donne sono tipicamente oggetto delle più violente invettive. Nessuno stupore se nel nostro Paese i femminicidi non accennano a diminuire. Chi poi politicamente a questa “pancia” fa facile riferimento titillandone i riflessi pavloviani, ricordi che le masse strumentalizzate sono pericolose e volubili: si innamorano dell’uomo forte, pronti a rinnegarlo e sputare addosso al suo cadavere quando cambia il vento. Accusata personalmente da un commentatore di “becero buonismo” per il fatto che additavo la barbarie degli insulti alle ragazze senza addentrarmi in giudizi sul loro comportamento, oggi che sono in salvo mi permetto di esprimere anche riflessioni nel merito. Purchè rimanga ben chiaro che invettive e insulti rimangono condannabili in sè. Bene, Vanesssa e Greta: bentornate. Potrei essere vostra madre e forse a 20 anni ero più fulminata di voi. Tuttavia vi prego: appena scese dall’aeroporto non dite (come si è sentito in passato) “siamo pronte a tornare”. Non andate a fare le eroine nei talk show. Magari invece, riflettete con persone autorevoli, che si intendono di volontariato e di Paesi in guerra e fate tesoro, magari autocritica, di questa esperienza a lieto fine. Perché vedete, il problema dei milioni di euro di riscatto contiene sì tanta ipocrisia (basterebbe rinunciare a una costosa arma bellica o recuperare denaro da chi delinque o evitare gli sprechi che sono la vera piaga del nostro Paese), ma non merita per questo indifferenza: è pur sempre denaro dei vostri concittadini, che di questi tempi non se la passano troppo bene. Inoltre come pensate che verrà usato? Le vostre vite salvate al prezzo di altre, quando questo denaro diventerà altre armi (che sono arrivate e arrivano nonostante voi, ridimensioniamo anche questa ricorrente e ipocrita colpevolizzazione). Io non sono esperta del settore, quindi mi sono documentata attraverso contatti a me molto vicini; persone esperte che ideologicamente avrebbero ogni motivo per sostenere la vostra posizione. Il problema è che la vostra posizione non è sostenibile. Perché, come sostiene la collega Chiara Bonetti (un anno in Mozambico, 6 mesi in Uganda, un anno in Tibet): nella scelta di andare all’estero in qualità di membro onlus o ong governativa, è fondamentale evitare personalismi e schieramenti. All’estero in veste ufficiale non sono ammesse improvvisazioni: si va nel mondo a titolo non personale, bensì a rappresentare il proprio Paese (che infatti si fa carico dei tuoi rischi), una civiltà e un modo di lavorare. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esporsi a pericoli inaccettabili: proprio perché il prezzo del rischio non si paga di persona ma coinvolge potenzialmente tutti coloro che svolgono un’attività anche lontanamente simile, nonché i contribuenti del vostro Paese. All’estero esistono regole molto diverse da quelle con cui si è cresciuti: è imperativo non improvvisare. Ci vuole umiltà, cultura (tanta), una rete d’appoggio, esperienza. Tutte cose che a 20 anni con una onlus fai-da-te (con un terzo individuo che si è smarcato ed è rimasto a casa) sono ampiamente mancate. Ragazze, io diversamente da altri non entro nel merito della vostra buona fede, della nobiltà dei vostri obiettivi: non posso sapere. Ma l’avventatezza è analoga a quella di sciatori fuoripista/scalatori imprudenti che si mettono nei guai dopo aver contravvenuto a regole da bollino rosso o per semplice, sventata inesperienza: possono provocare smottamenti che uccideranno altre persone, oppure mettere a repentaglio la vita di chi deve soccorrerli in condizioni estreme. Termino lasciandovi le riflessioni di due grandi uomini, Walter Bonatti e Reinhold Messner, fini acrobati tra coraggio e paura: “Non esiste il coraggio senza la paura – dice Bonatti – bisogna aver paura delle cose paurose, di ciò che è sconosciuto, ma per combattere il terrore bisogna cercare di conoscere ciò che fa paura. Bisogna costruire il coraggio e poi usarlo”. “La paura – dice Messner – ti spiega bene il limite che non devi superare: fin qui va bene, oltre… scendi. Come è successo a te, davanti alla parete del Pilier d’Angle”. “Ho provato una paura spaventosa – confessa Bonatti – ed ero già molto esperto. Quella notte sono arrivato con il mio compagno, Luigi Zampieri, sotto al Col de la Fourche, a un’ora dall’attacco sono rimasto impietrito di fronte a quella parete che con un gioco di riflessi lunari mi è apparsa una lavagna levigatissima. L’unica cosa evidente che spiccava erano i grandi seracchi pronti a caderti addosso. Ho avuto una paura folle e sono stato un bel po’ a pensare, a chiedermi come fare. Fino a quando, saggiamente, ho concluso che era meglio tornare a casa. E sono tornato a casa. Qualche mese dopo sono tornato, la montagna non era più in condizioni così favorevoli, ma era favorevole il mio spirito, ero pronto. L’abbiamo attaccata e l’abbiamo spuntata”. Buon rientro ragazze, sono felice di riavervi a casa.
Le “stronzette di Aleppo” se la sono cercata, scrive Alberta Ferrari. Vanessa Marzullo e Greta Ramelli sono due giovanissime cooperanti italiane di 20 e 21 anni rapite in Siria a luglio 2014. Sulla loro presenza in una zona tanto pericolosa e in assenza di una solida organizzazione alle spalle le polemiche sono state sempre accese, spesso con toni grossolani e cinici (vedi “le stronzette di Aleppo” di Maurizio Blondet). Il tema di fondo: “due incoscienti sprovvedute” ci mettono nei guai. Linguaggio offensivo, squalificante e, stupore!, sessista: “con la guerra non si scherza e da bambine è bene che non si giochi alle piccole umanitarie, ma con la barbie”. Tra i commenti più soavi. Le due ragazze avevano fondato con il 47enne Roberto Andervill il progetto Horryaty per raccogliere aiuti destinati alla popolazione civile in Siria. Certo sprovvedute queste giovanissime entusiaste, ma non improvvisate. Vanessa, di Brembate, studia mediazione linguistica e culturale all’Università di Milano. Greta, di Besozzo, studentessa, è una volontaria della Croce Rossa e ha già prestato attività di cooperazione in Zambia e in India. Partono per la Siria a febbraio 2014 e vi tornano a luglio attraversando il confine turco con il giornalista de “Il Foglio” Daniele Ranieri. Tre giorni dopo vengono rapite ad Abizmu dopo essere state attirate nella casa del “capo del Consiglio rivoluzionario” locale, mentre Ranieri riesce a fuggire e a dare l’allarme. Per inciso, tocca notare un silenzio assordante – diversamente dai commenti al vetriolo riservati alle ragazze – su questo accompagnatore più che adulto che riesce a darsela a gambe. Nessuno che si stracci le vesti: “incosciente, quella è guerra vera e hai pure coinvolto due ragazze, ma stare a casa a giocare ai soldatini no? minimo meritavi il sequestro pure tu”. Sull’identità dei rapitori si avvicendavo ipotesi: jihadisti dell’Isis, gruppi criminali intenzionati a chiedere un riscatto, compravendita delle ragazze. Capodanno ci sorprende con un importante aggiornamento. Un video su youtube chiarisce che le giovani sono sequestrate dal gruppo jihadista al-Nusra. Le ragazze sono state private del loro abbigliamento e vestono la tunica nera abaya. Parla Greta Ramelli senza mai alzare lo sguardo (“supplichiamo il nostro governo e i suoi mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise”) mentre Vanessa Marzullo espone un cartello che riporta la data del 17 dicembre 2014. Personalmente, cercando di non cadere in trappole di superficiale buonismo, ritengo che l’eccessivo rischio e le relative conseguenze che ora non possiamo non fronteggiare, siano ragionevolmente da attribuire più alla responsabilità di chi autorizza e deve controllare viaggi in Paesi sede di guerre da bollino rosso che non all’entusiasmo giovanile dell’impegno fai-da-te. Mi ha turbato, leggendola come segno di imbarbarimento, l’impressionante sequenza di commenti intrisi di cinismo e grettezza che ho letto su Facebook, a commento della notizia del video riportata da Ilfattoquotidiano.it. In base al giornale, commentatori più “collocati a sinistra”, in teoria.
Riporto un campione di questi commenti: del resto fortemente ripetitivi.
Gianni C. ALTRI EURI di chi fa fatica buttati a PUTTANE…………
Fabrizio T. Riportarli a casa in cambio di armi?? Mai!! Così per colpa di queste 2 idiote ne muoiono 1000.
Gianni P. io penso che “quelli che se la cercano” se la debbano poi sbrogliare.
Maria C. Se le tenessero. Nessuna pietà per chi si caccia nei guai, pur sapendolo.
Fiorni R. Quelle son andate per far carriera, vedi la nostra boldrinazza, vedi simona pari e dispari.
Giuseppe T. Che se le tenessero!
Giulio S. Tenetevele.
Donatella N. Ah si? Tenetevele.
Antonio M. Spero proprio di non avere figli così stupidi.
Angelo M. Per queste due nessuna pietà...all’inizio erano contente del sequestro ora che le scarpe gli vanno strette chiedono aiuto...tempo scaduto adesso subite il velo e la schiavitù di questo popolo musulmano.
Michele C. Ma fanculo stateve a casa.
Leone B. La guerra nn è un gioco per bambine in cerca di visibilità.
Lamberto C. SE NE STAVANO A CASA LORO NN GLI SAREBBE SUCCESSO NULLA. Se la son cercata.
Bartolomeo A… due incoscienti che non possono essere lasciate sole, due imbecilli che da presuntuose epocali, hanno pensato che i loro bei visini, accompagnati dai soliti buoni propositi terzomondialisti o giù di lì, potessero intenerire le carogne in generale che si contendono la siria e non solo…
Enrico D. sono andate li per supportare i tagliagole. Se dovessero essere liberate dovrebbero essere processate per aver appoggiato dei terroristi! luride scrofe!
Carlo F. adesso la bandiera arcobaleno non la sventolano più ahahhahahhaahahhaaha.
Antonella R. Visto che non le ha obbligate nessuno ad andare la !!! Sono solo cavoli loro !! A me non me ne importa niente!!
Mino T. Credo che i buonisti, che sono la vera metastasi di questo paese, dovrebbero dare il buon esempio e partire per la Siria a loro spese (…) Per quanto mi riguarda hanno avuto ciò che si meritano.
Graziella T. Prima i nostri maro’, visto che sono andati per lavoro? Loro nonostante che gli si è detto di NON ANDARE, loro sono andate …se la sono cercata.
… qualche timida voce fuori dal coro si trova ….
Roberto D. Per estendere il concetto, molti hanno perfino contrastato il ritorno in italia del medico italiano che curava l’ebola in africa. Il concetto è: “fai il medico in africa? WOW sei mitico… cosa? ti sei ammalato e vuoi tornare qui e così ci infetti tutti? Ma stai in africa, d’altronde…te la sei andata a cercare”. Ecco di questa gente stiamo parlando.
Daniela C. Son state delle sprovvedute ma vanno portate a casa.
Dominique B. Leggendo gran parte delle risposte invece, mi chiedo chi siano le bestie, quelli che hanno sequestrato le ragazze o quelli che commentano qui…
Emma R. Non ho mai letto tanta cattiveria pressapochismo crudeltà cinismo etc etc nei commenti ad un solo post !!!!! Complimenti a tutti.
Marianna L. Cercasi umanità
Concludo facendo mio il commento al video di Marina Terragni: “Che queste ragazze possano tornare a casa presto e levarsi quegli stracci dalla testa”.
“Menefreghismo assoluto per le attiviste rapite in Siria” e I CARE, continua la Ferrari Poiché i commenti violenti, odiosi e sessisti da me segnalati con stupore e raccapriccio due giorni fa verso le due cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria si sono rivelati vero allarme di una deriva crescente, qualcuno ieri alle 13.00 ha avuto l’idea geniale di creare una pagina Facebook che raccogliesse il turpe dileggio e le offese rivolte in questi giorni con sadico e ottuso accanimento . A seguire uno de tanti post della pagina. In 24 ore 1250 like alla pagina. Per darvi un’idea: io nella mia pagina professionale, che si occupa di salute della donna e i particolare di tumore al seno, il più frequente nel sesso femminile ad ogni età, non sono arrivata a 5000 like in oltre 2 anni. Il che dimostra chiaramente il potere d’attrazione che l’invettiva sessista esercita su gran parte di persone becere, quelli che girano sul social e si esprimono come al bar, offrendo un affresco sociologico veramente degno d’attenzione e preoccupazione. Sul mio post precedente, che segnalava la violenza brutale montante contro le due ragazze ricercandone retroterra culturali e contraddizioni (sugli adulti che le hanno aiutate / accompagnate, silenzio totale), si è aperto con mio sollievo un nutrito dibattito. I commenti hanno riguardato varie criticità della questione, compresa la scelta delle ragazze di addentrarsi in una zona di guerra senza protezione e la loro presunta simpatia per una fazione di combattenti (gli stessi peraltro che le avrebbero rapite), tuttavia il confronto di punti di vista differenti si è svolto in modo civile, contribuendo ad affrontare il problema con più strumenti conoscitivi. A chi invoca il menefreghismo, che evoca il triste “me ne frego” passato alla storia senza gloria né onore, contrappongo, fuori da un contesto religioso ma come espressione basilare di umanità, l’invito di Sabrina Ancarola (che giustamente non dimentica gli altri ostaggi in Siria) che ci ricorda il motto di don Milani: I Care.
Le stronzette di Aleppo, scrive Maurizio Blondet su “Il Punto di Prato”. Vanessa e Greta. Anni 20 e 21.Andate in Aleppo presso i ribelli anti-regime per un progetto umanitario. Progetto che,a quanto è dato dedurre, consisteva in questo:farsi dei selfie e postarli sui loro Facebook:su sfondi di manifestazioni anti-Assad, sempre teneramente abbracciate (Inseparabili, lacrimano i giornali), forse per fare intendere di essere un po’ lesbiche (è di moda), nella città da tre anni devastato teatro di una guerra senza pietà e corsa da milizie di tagliagole. La loro inutilità in un simile quadro è palese dalle loro foto, teneramente abbracciate, con le loro tenere faccine di umanitarie svampite, convinte di vivere dalla parte del bene in un mondo che si apre, angelicamente, grato e lieto al loro passo di volontarie. Una superfluità che i giornali traducono così: Le due ragazze avevano deciso di impegnarsi in prima persona per dare una risposta concreta alle richieste di aiuto siriane. Vanessa è studentessa di mediazione linguistica e culturale, Greta studentessa di scienze infermieristiche: niente-popò-di-meno! Che fiori di qualifiche! Due studentesse (m’hai detto un prospero!), che bussando a varie Onlus erano riuscite a far finanziare il Progetto Horryaty, da loro fondato. Secondo una responsabile della Onlus che ha sganciato i quattrini alle due angeliche, il loro progetto era finalizzato ad acquistare kit di pronto soccorso e pacchi alimentari, da distribuire al confine. Ostrèga, che progettone! Nella loro ultima telefonata, chiedevano altri fondi. Pericolo per le loro faccine angeliche, o le loro tenerissime vagine? No, erano sicure: avevano capito una volta per tutte che i cattivi erano quelli di Assad,e loro stavano coi buoni,i ribelli. E i buoni garantivano per loro. Si sentivano protette. Nell’ultima telefonata hanno detto che avevano l’intenzione di restare lì. Un Paese serio le abbandonerebbe ai buoni, visto che l’hanno voluto impicciandosi di una guerra non loro di cui non capiscono niente, in un mondo che a loro sembra ben diviso tra buoni e cattivi. Tutt’al più, candidarle al Premio Darwin (per inadatti alla lotta per la vita), eventualmente alla memoria… Invece la Farnesina s’è sùbito attivata, il che significa una cosa: a noi contribuenti toccherà pagare il riscatto che i loro amici, tagliagole e criminali, ossia buoni, chiederanno. E siccome le sciagure non vengono mai sole, queste due torneranno vegete, saranno ricevute al Quirinale, i media verseranno fiumi di tenerezza, e pontificheranno da ogni video su interventi umanitari, politiche di assistenza, Siria e buoni e cattivi di cui hanno capito tutto una volta per tutte. Insomma, avremmo due altre Boldrini.
La liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria sei mesi fa, ha innescato due reazioni contrapposte: sollievo e soddisfazione espresse dalle istituzioni (lungo applauso in Parlamento dopo l'annuncio del ministro Boschi in Aula), polemiche e livore da rappresentanti delle opposizioni a cui è seguita una corsa all'emulazione sui social network, scrive “Ibtimes”. Non poteva mancare il commento di Matteo Salvini: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia. Presenteremo oggi stesso un'interrogazione al ministro degli Esteri per appurare se sia stato pagato un solo euro per la liberazione delle due signorine". Ma la palma dell'uscita più strumentale è del capogruppo di Forza Italia in Emilia-Romagna, Galeazzo Bignami: "Le due ragazze amiche dei ribelli siriani e sequestrate dai ribelli siriani sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli. Per inciso si liberano queste qui mentre chi porta la divisa e rappresenta lo stato è ancora in arresto in india. Bello schifo". Altri esponenti di centrodestra hanno puntato l'indice sulla questione riscatti. "Finita la fase di legittima soddisfazione, serve che il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa" le parole di Massimo Corsaro (Fratelli d'Italia). "Doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove" sostiene anche l'ex ministro Maria Stella Gelmini. Le strumentalizzazioni hanno dato il là a commenti simili anche degli utenti sui social network. "Un riscatto milionario per due sceme", "sia chiaro a tutti che sono ben altri i cervelli da far rientrare". Altri ancora imitano Bignami nell'improprio parallelo con la vicenda dei marò. Oppure si leggono frasi sulla guerra "non adatta" alle donne. O ancora che non è giusto pagare 12 milioni di dollari (questa la presunta cifra pagata per liberare le due ragazze) per gente che "va in vacanza". Legittimo discutere sugli effetti collaterali delle possibile impreparazione delle cooperanti in zone di guerra, che si pongono in una situazione di oggettivo pericolo e mettono in difficoltà il paese. Ma non in quanto donne, né si può sostenere che le due fossero in Siria per prendere il sole. Strumentale, improprio e spesso in malafede, ogni altro genere di discorso o commento. Cosa c'entra la vicenda dei due marò, accusati di omicidio in India? Suggeriscono forse di corrompere gli indiani allo scopo di ottenere la liberazione di Latorre e Girone? Ipocrita anche la reazioni sul pagamento del riscatto, non perché sul tema non ci sia da discutere ma perché viene da pensare "da che pulpito parte la predica?". Il fatto che l'Italia (come Francia, Spagna o Svizzera) abbiano pagato in passato riscatti milionari ai sequestratori è il segreto di Pulcinella. Simona Pari e Simona Torretta (altre due cooperanti, stavolta in Iraq, 2004), Giuliana Sgrena (2005), Clementina Cantoni (2005), Rossella Urru (2011) e Mariasandra Mariani (2011) sono tutti sequestri che si sono probabilmente conclusi con il pagamento di un riscatto (ad Al-Qaeda o altre organizzazioni legate al fondamentalismo). Chi governava in quegli anni? Quel centrodestra che oggi attacca a testa bassa.
Ostaggi italiani, non sempre è finita bene, scrive “La Voce D’Italia”. Il primo rapimento recente di italiani nel mondo a lasciare il segno nella memoria collettiva è del 2004, in Iraq. Vengono sequestrati a Baghdad 5 contractor, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene ucciso, gli altri liberati. Indimenticabile il video in cui la vittima dice ai carnefici: “vi faccio vedere come muore un italiano”. Lo stesso anno sempre in Iraq vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, ucciso poco dopo, e le due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, liberate dopo 19 giorni. Nel 2005 tocca alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Subito dopo la sua liberazione, un militare americano uccide per sbaglio il funzionario del Sismi Nicola Calipari che era andato a prenderla. Nel 2007 in Afghanistan viene rapito dai talebani il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, poi liberato. In Mali nel 2009 Al Qaida rapisce due coniugi italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouré. Vengono liberati l’anno dopo. L’inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito due volte: la prima volta nel 2011 in Libia per due giorni (con i colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, entrambi del Corriere della Sera, e Claudio Monici di Avvenire); la seconda volta nel 2013 in Siria per cinque mesi. I pirati somali nel 2011 catturano due navi mercantili italiane, la Savina Caylyn, con 5 italiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, con 6 italiani. Gli ostaggi vengono liberati insieme alle unità lo stesso anno, dopo mesi di prigionia. Nel 2011 nel Darfur in Sudan viene catturato dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà, liberato dopo 124 giorni. Lo stesso anno gli shabaab somali catturano al largo della Tanzania l’italo-sudafricano Bruno Pellizzari, mentre si trova sulla sua barca a vela con la fidanzata sudafricana. Viene liberato dopo un anno e mezzo con un blitz dell’esercito somalo. In Algeria nel 2011 i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberate nel 2012. In quello stesso anno finisce invece tragicamente il rapimento in Nigeria dell’ingegnere Franco Lamolinara, sequestrato dai jihadisti nel 2011: l’italiano viene ucciso dai sequestratori durante un blitz delle forze speciali di Londra, che volevano liberare un ostaggio britannico tenuto con lui. Nessuna notizia dopo oltre tre anni del cooperante Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una ong tedesca, né del gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Quest’ultimo scompare in Siria nel 2013, mentre cerca di mediare a Raqqa per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Voci contrastanti lo danno prima per morto, poi prigioniero dell’Isis. Nel 2014 in Libia vengono rapiti due tecnici italiani, in due diversi episodi: l’emiliano Marco Vallisa e il veneto Gianluca Salviato, entrambi liberati dopo diversi mesi.
Greta e Vanessa a casa, polemiche sul riscatto: «Pagati 10 milioni di dollari», scrive “Il Messaggero”. È stata la tv di Dubai al Aan a ipotizzare che possa essere stato pagato un riscatto di 12 milioni di dollari (poco più di 10 milioni di euro) ai qaedisti anti-Assad del Fronte al Nusra per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani italiane rapite in Siria nel luglio scorso e liberate giovedì. La voce, denunciata in Italia dal leader della Lega Matteo Salvini, è ripresa anche dal Guardian online, secondo cui si tratta di «un'informazione non confermata». «Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!», scrive in un tweet Salvini. Il governo italiano, come d'uso, nega di avere pagato un riscatto e incassa intanto l'ennesimo successo sul fronte della liberazione di ostaggi (sono stati oltre una dozzina negli ultimi 10 anni gli italiani sequestrati all'estero). A dare consistenza alle voci sul pagamento tuttavia in questo caso c'è anche un tweet di un account ritenuto vicino ai ribelli siriani anti-Assad in cui si parla di un "riscatto di 12 milioni di dollari” per la liberazione delle due italiane. La Jabhat al-Nusra, «il fronte di sostegno per il popolo siriano», è cresciuto esponenzialmente grazie alle vittorie sul campo ma anche a una incredibile disponibilità di armi e fondi per combattere contro le forze del presidente siriano Bashar al Assad. La sua fonte principale di finanziamento, oltre alle generose donazioni che arrivano dall'estero, è proprio quello che arriva dai riscatti: il New York Times ha stimato che al Qaida e i gruppi affiliati abbiano incassato oltre 125 milioni di dollari negli ultimi 5 anni, la massima parte versati «dagli europei». Il Fronte è stato fondato alla fine del 2011, nel pieno della rivolta contro il governo siriano, quando l'allora emiro di al Qaida in Iraq, e ora leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, inviò i primi combattenti in Siria. Considerato "meno sanguinario" del ramo iracheno di al Qaida, il Fronte si è attribuito diversi attacchi anche contro i civili: nei primi tre mesi del 2012 si rende protagonista di diversi attentati, alcuni kamikaze, a Damasco e Aleppo contro le forze governative siriane, decine i morti. Nel 2013 Nusra finisce al centro di quello che evolverà in scontro violento tra Baghdadi e Ayman al Zawahri: il califfo dichiara che al Nusra è parte di al Qaida in Iraq nella nuova formazione Isis. Ma a giugno il leader di al Qaida lo smentisce. L'ostilità tra Nusra e Isis sfocia in aperti combattimenti che secondo alcune fonti lasciano sul campo 3.000 uccisi tra i jihadisti dei due fronti. Alla fine dell'anno Nusra rapisce 13 monache da un monastero cristiano che verranno rilasciate nel marzo del 2014. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, mentre l'Isis guadagna le prime pagine per la barbara esecuzione di James Foley, Nusra in controtendenza libera lo scrittore americano Peter Theo Curtis, rapito due anni prima. Il Qatar gioca un ruolo di primo piano nelle trattative per il rilascio. Alla famiglia era stato chiesto un riscatto di 3 milioni di dollari «cresciuti fino a 25». Il giorno dopo la liberazione dell'americano, il 28, il Fronte gruppo avanza in Golan e cattura 45 peacekeeper dell'Onu, che vengono liberati l'11 settembre. L'ultima stima dei think tank Usa è che il Fronte possa contare su oltre 6.000 combattenti ben addestrati, dislocati soprattutto nella regione di Idlib. Nelle zone controllate da Nusra vige la Sharia e sono state introdotte le corti islamiche.
Due video «cifrati» in 15 giorni. Così i rapitori hanno alzato il prezzo. I ribelli: «Pagati 12 milioni di dollari». La banda di terroristi non è legata all’Isis. Le stragi di Parigi usate per alzare la posta. La cifra diffusa sembra comunque esagerata, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Lo scambio sarebbe avvenuto tra domenica e lunedì, dopo l’arrivo di un video che forniva la nuova prova in vita delle due ragazze rimaste prigioniere in Siria quasi sei mesi. Un filmato per sbloccare definitivamente la trattativa, con la consegna della contropartita ai sequestratori. Sembra esagerata la cifra di dodici milioni di dollari indicata dai ribelli al regime di Assad, ma un riscatto è stato certamente pagato, forse la metà. E tanto basta a scatenare la polemica, alimentata da chi sottolinea come il versamento sarebbe avvenuto proprio nei giorni degli attentati a Parigi. È l’ultimo capitolo di una vicenda a fasi alterne, con momenti di grande preoccupazione, proprio come accaduto dopo la strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, quando i mediatori avrebbero tentato di alzare ulteriormente la posta. Saranno Greta Ramelli e Vanessa Marzullo a fornire ai magistrati i dettagli della lunga prigionia, compreso il numero delle case in cui sono state tenute. Ieri sera, dopo essere arrivate in un luogo sicuro - probabilmente in Turchia - e prima di essere imbarcate sull’aereo per l’Italia, sono state sottoposte al «debriefing» da parte degli uomini dell’ intelligence , come prevede la procedura che mira a ottenere notizie preziose sul gruppo che le ha catturate il 31 luglio scorso e su quelli che le hanno poi gestite nei mesi seguenti. Attivare i primi contatti per il negoziato non è stato semplice, anche se si è avuta presto la certezza che a rapirle era stata una banda di criminali, sia pur islamici, e non i jihadisti dell’Isis. A metà agosto, quando il Guardian ha rilanciato l’ipotesi che fossero tra gli ostaggi internazionali del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i mediatori italiani si sono affrettati a smentire proprio nel timore che la trattativa potesse fermarsi. Circa un mese dopo è arrivata la prima prova per dimostrare che le ragazze stavano bene. E da quel momento è partita la trattativa degli 007, coordinata da Farnesina e Palazzo Chigi. Secondo le notizie iniziali a organizzare il sequestro è il «Free Syrian Army», l’esercito di liberazione della Siria. Ma la gestione delle prigioniere avrebbe avuto fasi alterne, con svariati cambi di «covo» e nell’ultima fase ci sarebbe stata un’interferenza politica di «Jabat al-Nusra», gruppo della galassia di Al Qaeda che avrebbe preteso un riconoscimento del proprio ruolo da far valere soprattutto rispetto alle altre fazioni e contro l’Isis. Non a caso, poco dopo la conferma dell’avvenuto rilascio delle due giovani, un uomo che dice di chiamarsi Muahhed al Khilafa e si firma sulla piattaforma Twitter con l’hashtag dell’Isis posta un messaggio per attaccare «questi cani del fronte al-Nusra che rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i simpatizzanti dello Stato Islamico». Del resto è proprio la situazione complessa della Siria ad alimentare sin da subito la sensazione che il sequestro non possa avere tempi brevi. E infatti la «rete» attivata per dialogare con i sequestratori ha a che fare con diversi interlocutori, non tutti affidabili. Con il trascorrere del tempo le richieste diventano sempre più alte, viene accreditata la possibilità che i soldi non siano sufficienti per chiudere la partita, che possa essere necessario concedere anche altro. A novembre si sparge la voce che una delle due ragazze ha problemi di salute, si parla di un’infezione e della necessità che le vengano dati farmaci non facilmente reperibili in una zona così segnata dalla guerra. Qualche giorno dopo arrivano invece buone notizie, un emissario assicura che Greta e Vanessa sono in una casa gestita esclusivamente da donne. Informazioni controverse che evidentemente servono a far salire la tensione e dunque il valore della contropartita per la liberazione. A fine novembre c’è il momento più complicato. I rapitori cambiano infatti uno dei mediatori facendo sapere di non ritenerlo più «attendibile». Si cerca un canale alternativo e alla fine si riesce a riattivare il contatto, anche se in scena compare «Jabat al-Nusra» e la trattativa assume una connotazione più politica. La dimostrazione arriva quando si sollecita un’altra prova in vita di Greta e Vanessa e il 31 dicembre compare su YouTube il video che le mostra vestite di nero, mentre chiedono aiuto e dicono di essere in pericolo. È la mossa che mira ad alzare il prezzo rispetto ai due milioni di dollari di cui si era parlato all’inizio. Quel filmato serve a chiedere di più, ma pure a lanciare il segnale che la trattativa può ormai entrare nella fase finale. Anche perché contiene una serie di messaggi occulti che soltanto chi sta negoziando può comprendere, come il foglietto con la data «17-12-14 wednesday» che Vanessa tiene in mano mentre Greta legge il messaggio, che sembra fornire indicazioni precise. Si rincorre la voce che entro qualche giorno possa avvenire il rilascio. Ma poi c’è una nuova complicazione. Il 7 gennaio i terroristi entrano in azione a Parigi, quattro giorni dopo arriva un nuovo video. Questa volta viaggia però su canali riservati. L’intenzione dei sequestratori sembra quella di alzare ulteriormente la posta, la replica dell’Italia è negativa. Si deve chiudere e bisogna farlo in fretta. L’ intelligence di Ankara fornisce copertura per il trasferimento oltre i confini siriani delle due prigioniere. Ieri mattina gli 007 avvisano il governo: è fatta, tornano a casa.
Greta e Vanessa, malate e maltrattate nelle mani dei sequestratori, scrive “Libero Quotidiano”. Sono stati mesi molto duri quelli trascorsi da prigioniere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ora sono finalmente libere, ma ciò che hanno dovuto subire durante il sequestro le ha molto provate sia psicologicamente che fisicamente. A rivelarlo sono gli 007 che hanno trovato fin dall'inizio della vicenda un canale di mediazione e dunque un interlocutore che ha permesso ai nostri servizi di "monitorare" costantemente le cooperanti per tutta la durata della trattativa. Hanno vissuto momenti molto difficili, rivela al Messaggero chi ha seguito in questi mesi la sorte di Greta e Vanessa. Una delle due è stata poco bene in salute, ma le sono stati forniti i medicinali e gli antibiotici per curarsi. Hanno subito soprusi, sorvegliate di continuo da uomini armati. L'intelligence spiega che le due ragazze erano nelle mani di banditi comuni e che Jahbat Al Nusra, il movimento vicino ad al Quaeda in Siria al quale era stato attribuito erroneamente il sequestro, avrebbe solo fornito soprattutto copertura politica, proprio perché quella parte di territorio a Nord della Siria è totalmente nelle loro mani. A sequestrarle, in realtà, sarebbero stati membri del Jaish al-Mujahideen, sigla che racchiude una decina di gruppi islamisti (alleati del Free Syrian Army, l'esercito siriano libero), una forza armata che combatte contro il governo di Bashar al-Assad. Poi sarebbero state "vendute" più volte, senza mai finire, fortunatamente, nelle mani dell'Isis, né in territori controllati da loro. Tutto quello che hanno passato resterà indelebile nella loro mente e nel loro cuore, ma oggi è il momento della gioia. All'alba Greta e Vanessa sono arrivate a Ciampino accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che alle 13 riferirà sulla vicenda alla Camera. Poi sono state condotte all’ospedale militare del Celio per gli opportuni controlli medici. Più tardi saranno ascoltate in procura a Roma. Solo al termine della deposizione potranno tornare finalmente nelle loro città che ieri, dopo mesi di tensione e angoscia, alla notizia della loro liberazione sono esplose di gioia. "E' un momento di grande felicità - ha detto il fratello della ragazza, Matteo Ramelli -, speriamo che Greta possa tornare presto a casa. La Farnesina ha fatto un lavoro fantastico, e anche i nostri concittadini sono stati meravigliosi". Alcuni automobilisti, passando davanti alla casa di Greta a Gavirate, un paese affacciato sul lago di Varese, hanno suonato il clacson, in segno di giubilo per la liberazione. E ieri sera il parroco del paese, don Piero Visconti, ha voluto "ringraziare il Signore" durante in momento di preghiera nell'oratorio di Gavirate. "Se tutti i giovani sapessero rischiare come ha fatto Greta - spiega - il mondo sarebbe un posto migliore. Spero che il suo esempio possa sostenere anche le tante altre persone che vogliono vivere donando amore agli altri". Il sindaco del paese, Silvana Alberio, ha incontrato i genitori, per esprimere la vicinanza di tutta la comunità. "Siamo felicissimi - racconta la madre di Greta - non vediamo l'ora di riabbracciarla". Altrettanta gioia è stata espressa dai familiari di Vanessa. "E' una grande gioia - dice emozionato Salvatore Marzullo, il papà che lavora in un ristorante di Verdello, il paese dove da qualche tempo vive appunto con la figlia. Appresa la notizia è scoppiato in lacrime. Dopo "un'angoscia unica", è arrivata "una gioia immensa che aspettavamo da mesi e che non si può descrivere", ha aggiunto. Momenti di sfiducia? "No - ha risposto - c'era preoccupazione e tristezza, ma abbiamo avuto sempre fiducia nel risultato. La Farnesina ci rassicurava sempre, devo ringraziare loro che sono riusciti a farci restare sempre ottimisti". "Quando la vedrò - ha concluso - le darò un grande abbraccio. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle".
Greta e Vanessa liberate in Siria, il retroscena sulla trattativa: i banditi, Al Nusra, il riscatto milionario, scrive “Libero Quotidiano”. La trattativa per liberare e riportare in Italia Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le giovani cooperanti lombarde rapite in Siria lo scorso 31 luglio e atterrate nella notte tra giovedì e venerdì a Ciampino, accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nonostante la smentita dell'intelligence italiana, tutte le ricostruzioni non escludono l'ipotesi di un riscatto di 12 milioni di dollari pagato dalle nostre autorità ai rapitori, anzi. Innanzitutto, però, occorre fare chiarezza su chi siano i "rapitori". "Banditi verniciati da islamisti": così li avrebbero etichettati i servizi italiani che hanno lavorato al caso di Greta e Vanessa. Di sicuro, non erano né dello Stato islamico né della fazione jihadista rivale, Al Nusra. A dare supporto logistico a questa banda più o meno improvvisata sarebbero stati i ribelli anti-Assad del Syrian Free Party, l'esercito libero siriano. Attraverso mediatori vicini ai ribelli "buoni" siriani Farnesina e intelligence hanno cercato per mesi un canale per risolvere positivamente la vicenda. A dicembre, però, improvvisamente si complica tutto. Tra 23 e 31, riporta Repubblica, a inizio mese secondo il Corriere della Sera, vengono meno i contatti. Poi, la sera di Capodanno, spunta in rete il video delle due italiane vestite di nero dal covo dei rapitori. Sarebbe stato un segnale al governo italiano: per liberare Greta e Vanessa servono soldi, più di quanti ipotizzati. La posta, insomma, si è alzata e il perché si scopre presto: sarebbero cambiati i mediatori. I rapitori si sarebbero infatti avvicinati ad Al Nusra, i "rivali" dell'Is che qualcuno, in maniera molto ottimistica, definisce "meno feroci" dei tagliagole del Califfato. L'unica differenza in realtà è che se questi ultimi i prigionieri li sgozzano in diretta video, i primi preferiscono venderli per fare soldi, molti soldi. Che servono ad acquistare armi, addestrare milizie (anche kamikaze), corrompere governi ed eserciti. Insomma, alimentare l'industria del terrore. Al Nusra fa pubblicare quel video, la notte del 31 dicembre, contro la volontà dei servizi italiani. Seguono giorni frenetici, fino agli attentati di Parigi che emotivamente potrebbero portare il governo di Roma a pagare ancora di più per non avere sulla coscienza la morte atroce di due ragazze. I jihadisti lo sanno, e alzano la posta. L'Italia chiede un'altra prova che le rapite siano vive e gli uomini di Al Nusra girano un secondo video, questa volta riservato e non pubblicato sul web. E' il segnale: Greta e Vanessa stanno bene e si possono liberare. A che prezzo, forse non lo si scoprirà. Lo scrittore Erri De Luca, che già in passato ha espresso posizioni controverse sulla questione della linea Alta velocità Torino-Lione, ha commentato la liberazione dal suo account twitter. "Se è stato pagato un riscatto - ha scritto -, per una volta sono stati spesi bene i soldi pubblici". A tal proposito, il leader della Lega Matteo Salvini ha affermato: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia". Come dire: i terroristi islamici si finanziano anche con questi riscatti.
Vanessa e Greta, samaritane innamorate del kalashnikov. Sui loro profili Facebook frasi pesanti e immagini forti. E amicizie con combattenti che posano con i cadaveri, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Fotomontaggi con il kalashnikov avvolto dai fiori, l'appello per salvare un barcone di clandestini, insulti alle Nazioni Unite e amici combattenti in Siria sono le tracce lasciate su Facebook di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli prima di sparire. Non proprio profili di buone samaritane, ma piuttosto di attiviste che appoggiano la lotta armata contro il regime di Damasco. Peccato che proprio fra i loro amici combattenti si annidino i presunti rapitori pronti a lucrare sulle due ragazze prese in ostaggio. Adesso che è apparsa la «prova in vita», ovvero il primo video delle due sequestrate, raccontiamo chi sono Vanessa e Greta attraverso le loro stesse parole o immagini postate in tempi non sospetti. Marzullo pubblica sul suo profilo la foto di un gruppo di soldatini di plastica. In mezzo c'è una ballerina dipinta di rosa, che imbraccia un fucile mitragliatore. Il primo ottobre 2013, un certo Ahmad Lion of Islam scrive in inglese: «Carina. Così adesso vieni a combattere con noi eroina. In qualsiasi momento sei la benvenuta». Un altro post mostra il fotomontaggio di un kalashnikov avvolto dai fiori ed il 24 luglio 2013 Vanessa si rivolge al presidente siriano, Bashar al Assad, con una frase che lo invita a darsi fuoco, dopo aver bruciato tutto nel suo Paese. Il primo aprile non ha dubbi e scrive: «Assad non è siriano, non è musulmano, non è laico (…). Assad non è neppure umano». L'8 febbraio, posta un inequivocabile «Onu di merda. Posso descrivere solo così il mio stato d'animo in questo momento». La deriva a favore dei ribelli siriani è evidente anche dalle risposte ad uno strano questionario in inglese che chiede cosa bisognerebbe fare in Siria? La prima risposta è «armare l'Esercito libero siriano». I giornalisti come Monica Maggioni, direttore di Rai news 24 che osa intervistare Assad, vengono insultati e sbeffeggiati. Il pensiero a senso unico delle due ragazze in ostaggio in Siria risulta evidente dalle immagini postate su Facebook. Un cartello del novembre 2012 è rivolto all'Occidente con la seguente scritta in inglese: «Allah o Akbar è un grido di vittoria. Nessun panico». Oppure un diretto «Cari Onu…Usa…Nato Vi odio». Il 3 giugno Vanessa lancia un appello «urgente» salva clandestini di Nawal Syriahorra, che chiede a «siriani/arabofoni di contattare» un telefono satellitare «presente sull'imbarcazione di cui ha parlato in questi giorni, con almeno 450 persone a bordo abbandonate al mare. Chiamare sperando che qualcuno risponda e chiedere: sono tutti vivi? c'è gente in acqua? la donna ha partorito? sono stati raggiunti da italiani o maltesi? Al più presto!». Il vero cognome di Nawal potrebbe essere Sofi, una fervente attivista della fallita primavera araba di Damasco di origine marocchina, che favorirebbe l'arrivo dei profughi siriani in Italia. La pasionaria partecipava alle stesse manifestazioni dove è stato fotografato Hassam Saqan, che in Siria si è fatto immortalare in un video di brutale esecuzione di soldati governativi prigionieri dei ribelli. Vanessa su Facebook ha postato una frase in italiano non perfetto scritta su un muro e firmata da Nawal Sofi: «Qui in Siria unico terrorista Bashar el Assad 15/3/2013 Mc- Italy». Greta Ramelli non è da meno come amicizie in rete con combattenti in Siria. Le piace molto una foto con dei miliziani in mimetica nella zona di Idlib, dove probabilmente le due ragazze sono trattenute in ostaggio. La didascalia non è proprio un esempio di pacifismo: «La bellezza e la forza sconvolgente della natura: tanto è stato il sangue versato che ora al suo posto spuntano dei meravigliosi fiori rossi». Abu Wessam, un giovane ribelle mascherato, amico in rete di Greta, posta le foto delle due ragazze in piazza Duomo a Milano con la bandiera dell'Esercito siriano libero. Su Facebook l'amico più importante dell'attivista «umanitaria» è Mohammad Eissa, il comandante delle Brigate dei martiri di Idlib, che in rete si fa fotografare davanti a una dozzina di corpi di nemici uccisi. Il gruppo islamista ha avuto rapporti altalenanti con l'Esercito libero, formazione laica e filoccidentale della guerriglia, ma pure con Al Nusra, la costola di Al Qaida in Siria, che rivendica il rapimento. Probabilmente il barbuto comandante aveva garantito protezione anche nei viaggi precedenti in Siria alle due ragazze innamorate della rivolta siriana. Questa volta qualcosa è andato storto e gli «amici» ribelli di Vanessa e Greta si sono trasformati in carnefici, o almeno così sembra.
Greta e Vanessa, il giornalista del Foglio: "Non mi trovavo con loro". Daniele Raineri scrive che, quando avvenne il sequestro delle due italiane, era ad alcuni chilometri di distanza. "Cercavano anche me", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. C'era anche Daniele Raineri con Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, la sera che le due italiane sono state rapite in Siria? Questo si è detto dal giorno del loro sequestro, sostenendo che l'inviato del Foglio fosse riuscito a fuggire dall'abitazione dove si trovavano tutti e tre, mentre le due volontarie venivano catturate. Una storia su cui oggi ha detto la sua anche il diretto interessato, che in un articolo pubblicato sul quotidiano di Giuliano Ferrara sostiene invece che no, quella notte non si trovava con le due ragazze italiane. "Ero a circa venticinque chilometri dalla casa dov'erano loro", scrive Raineri. In una casa di campagna, usata come base dai ribelli, "a sud di Aleppo". La versione del giornalista sembra dunque smentire uno dei dettagli legati al sequestro, spiegando che nell'abitazione ("Il capo della casa era un ex soldato delle forze speciali di Assad") ci è rimasto fino al mattino alle cinque. Poi alcuni colpi alla porta e la notizia, portata da due siriani, del sequestro di Greta e Vanessa, per mano di un gruppo che in quel momento non si riesce a identificare. Forse - prova a ricostruire il Fatto Quotidiano, grazie ad alcuni documenti del Ros - sono "rimaste vittime proprio di quelli che volevano soccorrere", se è vero che il loro progetto era anche in funzione di supporto a quell'Esercito libero composto da gruppi che l'Occidente ha spesso identificato come moderati.
Greta e Vanessa, due ingenue o due fiancheggiatrici del terrorismo? Si chiede Milano Post. Greta e Vanessa, due ragazze ventenni, lombarde volontarie del Progetto Horryaty, una Onlus fondata da Roberto Andervill poche settimane prima del presunto rapimento delle due cooperanti. Progetto Horryaty opera in maniera del tutto svincolata dalle varie Ong presenti in territorio siriano e, stando alle dichiarazioni ufficiali dei responsabili della Onlus, in Italia si occupano di raccolta fondi e sensibilizzazione, in Turchia comprano gli aiuti, teoricamente materiale sanitario, che vengono poi distribuiti in zone diverse della Siria. Questo ufficialmente, scavando e cercando la verità troviamo un Roberto Andervill nel cui profilo Facebook, al momento chiuso, si leggevano frasi di odio verso i presidenti delle Comunità Ebraiche italiane, contro Magdi Allam e, giusto per non deludere la sua sinistra ideologia, messaggi di pace (eterna) verso gli Ebrei. Detto questo passiamo direttamente ad osservare Greta e Vanessa e vi siete mai chiesti cosa c’è scritto sul cartello che reggono in quella famosa foto in cui vengono ritratte avvolte dalla bandiera siriana in Piazza Duomo?
Sveliamo l’arcano, il quel cartello c’è scritto:” Agli eroi di Liwa Shuhada grazie per l’ospitalità e se D-o vuole vediamo la città di Idlib libera quando ritorneremo”. Chi sono gli eroi di Liwa Shuhada? Presto detto: Liwa Shuhada Al-Islam, in italiano Brigata dei martiri dell’Islam, è un’organizzazione, secondo i maggiori esperti di terrorismo internazionale, terroristica di stampo jihadista, molto vicina al Fronte Al-Nusra, il nome di Al-Qaeda in Siria per intenderci, e responsabile di numerosi attentati a Damasco. Inoltre, stando alle ultime indiscrezioni, pare, dalle varie intercettazioni in mano ai R.O.S., che le due ragazze avesse già intessuto da tempo rapporti con cellule del fronte anti-Assad, in Italia, cellule che oggi chiamiamo “foreign fighters” e che in Francia hanno seminato morte e terrore pochi giorni fa. Quindi ho forti dubbi che si trattasse di due ventenni ingenue e sprovvedute, considerato che erano già state in Siria, che avevano già dato aiuti ai “guerriglieri” e che si stavano recando ancora in Siria per distribuire kit di pronto soccorso ai membri della Brigata dei Martiri dell’Islam, probabilmente gli stessi che le hanno “rapite”, o sarebbe meglio dire nascoste da occhi indiscreti, messe all’ingrasso per poi richiedere il solito riscatto per la “liberazione” dei presunti ostaggi. Certo però che rispetto alle due Simone, in Iraq, e della Sgrena, Greta e Vanessa sono state decisamente più “professionali”. Mentre le prime hanno fruttato alla causa del terrorismo “solo” undici milioni di dollari (5 per le due cooperanti e 6 per la Sgrena), Greta e Vanessa hanno da sole fatto regalare ai terroristi ben 12 milioni di dollari, anche se negati dal ministro degli Esteri Gentiloni, si sa che Italia, Francia, Germania e Spagna preferiscono pagare. “Non c’è nulla per cui si debba chiedere scusa” queste le parole del padre di Vanessa. Eh no caro signore, c’è invece da chiedere scusa. Sua figlia e la sua amica devono chiedere scusa ai cittadini italiani, visto che i soldi pagati per “liberarle” da una prigionia a pane e kebab, provengono dalle tasse che egli italiani pagano. Devono porgere le loro scuse, implorando il perdono, a tutte quelle famiglie che perderanno un loro caro ed a tutte le innocenti vittime che quei 12 milioni di dollari, regalati al terrorismo islamico, causeranno in Medio Oriente o in Europa.
Vanessa e Greta, cosa non torna nella loro storia: le quattro accuse di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Il governo si è dato da fare per smentire di aver pagato un riscatto in cambio della liberazione di Vanessa e Greta. «Solo illazioni» ha dichiarato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il quale subito dopo ha però aggiunto che nel caso delle due cooperanti italiane l’esecutivo si è comportato come i precedenti (che infatti pagavano), precisando che per Palazzo Chigi e dintorni dà la priorità al salvataggio di vite umane (tradotto: pazienza se ci sono costate 12 milioni, tanto sono soldi dei contribuenti). Con il rientro delle due ragazze e le rassicurazioni del ministro si vorrebbe così chiudere la faccenda, mettendo una pietra sopra l’imbarazzante trattativa con i terroristi. Si dà il caso che però la vicenda sia tutt’altro che archiviabile ma necessiti di ulteriori approfondimenti, soprattutto dopo la rivelazione di una serie di antefatti. Ieri in un articolo del Fatto quotidiano si dava conto dell’esistenza di una informativa dei Ros sulla missione siriana di Vanessa e Greta. Non un rapporto compilato dopo la sparizione delle due ragazze, ma una nota predisposta prima della partenza. Quanto prima? Leggendo l’articolo non è dato sapere, ma si capisce che la relazione del reparto operativo dei carabinieri risale al periodo in cui le due giovani lombarde stavano organizzando il viaggio. Vi state chiedendo perché l’Arma si occupasse di due esponenti di un’organizzazione non governativa intenzionate a partire per la Siria? Perché le due entrano in contatto con un pizzaiolo emiliano che i Cc tengono d’occhio ritenendolo un militante islamico. Così, per caso, intercettano Vanessa e Greta che si mettono d’accordo con il tipo e a lui raccontano nel seguente ordine due cose: di voler partire per la Siria per consegnare kit di pronto soccorso alla popolazione civile ma anche ai combattenti islamici, così che gli oppositori al regime di Assad possano curarsi in caso di ferite. Secondo, Greta in una conversazione spiega di godere di una specie di lasciapassare, in quanto sostenitrice della rivoluzione e protetta dall’Esercito Libero. La ragazza non dice al telefono di essere in contatto con gente dello stato islamico, anzi, assicura che quelli dell’Esercito Libero non impongono neppure il velo alle donne. Come è finita si sa, con un sequestro che le ha consegnate nelle mani di una banda vicina ad Al Qaeda, cioè l’organizzazione che poi l’avrebbe rapita. Nell’articolo si fa cenno anche a un universitario in collegamento con i ribelli ed anche ad un medico. Risultato: leggendo il Fatto si apprendono le seguenti informazioni. La prima, forse scontata ma fino a ieri non molto documentata, è che sul territorio italiano operano dei militanti che inviano denaro e aiuti ai combattenti islamici. Due: Vanessa e Greta non sono partite per la Siria per andare ad aiutare i bambini, per lo meno non solo: in Siria sono andate per consegnare kit di pronto soccorso ai miliziani, che se non è un aiuto a chi combatte poco ci manca. Tre: le giovani appoggiavano la rivoluzione e consegnando i medicinali volevano contribuire materialmente a sostenerla. Quattro: se sono finite nelle mani di tagliagole che le hanno rapite e segregate per più di cinque mesi, liberandole solo in cambio di un riscatto multimilionario, è perché qualcuno dei loro amici le ha tradite. Ne consegue che i carabinieri sapevano tutto, del viaggio e anche dei contatti con i militanti islamici, ma nessuno ha fatto niente, lasciando partire le ragazze e dunque facendole finire nelle mani dei rapitori. Non solo: qualcuno in Italia si dà addirittura da fare per agevolare la partenza e poi forse per agevolare anche il sequestro, così che la fiorente industria dei rapimenti ad opera dei militanti islamici possa prosperare e soprattutto finanziare la guerriglia e il terrorismo. Infine, come spiegava ieri il nostro Francesco Borgonovo, risulta evidente da questo rapporto che molte delle organizzazioni non governative in apparenza dicono di voler aiutare chi soffre, ma nella sostanza hanno rapporti poco trasparenti con chi combatte. Altro che ragazzine finite in un gioco più grande di loro. Greta e Vanessa pensavano di fare la rivoluzione e invece sono finite in una prigione dalle parti di Aleppo, perché la rivoluzione non è un pranzo di gala e se poi è islamica si va a pranzo con il boia. Risultato: la faccenda è tutt’altro che chiusa e il governo non può pensare di cavarsela con l’intervento reticente del ministro Gentiloni. Essendoci di mezzo la sicurezza nazionale (la gente che aiuta i combattenti l’abbiamo in casa) e soprattutto i soldi dei contribuenti vorremmo andare fino in fondo. E state sicuri che per quanto ci riguarda faremo di tutto per farlo.
Crolla l'alibi pacifista. Ecco tutte le prove delle amicizie jihadiste. Altro che pacifiste: i kit di pronto soccorso portati in Siria somigliano più a quelli militari. Ed erano destinati a gruppi di combattimento, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Il ministro Paolo Gentiloni, protagonista in Parlamento di una difesa a spada tratta di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, avrebbe fatto meglio a consultarsi prima con i carabinieri del Ros. Carabinieri che, magari, avrebbero potuto mostrare pure a lui le intercettazioni delle telefonate, pubblicate da Il Fatto Quotidiano, tra le due suffragette lombarde e alcuni fiancheggiatori dei gruppi jihadisti siriani. Telefonate assai scomode e imbarazzanti. Telefonate da cui emerge con chiarezza come le due ragazzine non ambissero al ruolo di crocerossine neutrali, ma piuttosto a quello di militanti schierate e convinte. Militanti tradite dai propri stessi «amichetti» e riportate a casa solo grazie al trasferimento nella cassaforte della formazione al qaidista di Jabat Al Nusra, o di qualche altro gruppetto jihadista, di una decina di milioni di euro sottratti ai cittadini italiani. Milioni con cui i fanatici siriani, o quelli europei passati per le loro fila, potrebbero ora organizzare qualche atto di terrorismo in Italia o altrove nel Vecchio Continente.
Che Greta e Vanessa progettassero di mettere in piedi qualcosa di diverso da una normale organizzazione umanitaria, Il Giornale lo aveva intuito subito dopo il sequestro. Esaminando su Facebook le gallerie fotografiche di «Horryaty» - l'associazione creata assieme al 46enne fabbro di Varese Roberto Andervill - quel che più saltava agli occhi era l'aspetto chiaramente «militare» dei «kit di pronto soccorso» distribuiti da Greta e Vanessa in Siria. I kit, contenuti in tascapane mimetici indossabili a tracolla, assomigliavano più a quelli in dotazione a militanti armati o guerriglieri che non a quelli utilizzati da infermieri o personale paramedico civile. Anche perché la prima attenzione di medici e infermieri indipendenti impegnati sui fronti di guerra non è quella di mimetizzarsi ma piuttosto di venir facilmente identificati come personaggi neutrali, non coinvolti con le parti in conflitto. Un concetto assolutamente estraneo a Greta Vanessa. Nelle telefonate scambiate prima di partire con Mohammed Yaser Tayeb - un 47enne siriano trasferitosi ad Anzola in provincia di Bologna ed identificato nelle intercettazioni del Ros come un militante islamista - Greta Ramelli spiega esplicitamente di voler «offrire supporto al Free Syrian Army», la sigla (Esercito Libero Siriano) che riunisce le formazioni jihadiste non legate al gruppo alaaidista di Jabat Al Nusra o allo Stato Islamico. L'acquisto dei kit di pronto soccorso mimetici da parte di Greta e Vanessa è documentato dalle ricevute pubblicate sul sito di Horryaty il 12 maggio di quest'anno, subito dopo la prima trasferta siriana delle due «cooperanti». La ricevuta, intestata a Vanessa Marzullo, certifica l'acquisto in Turchia di 45 kit al costo di 720 lire turche corrispondenti al cambio dell'epoca a circa 246 euro. La parte più interessante è però la spiegazione sull'utilizzo di quei kit. Nel rapporto pubblicato su Horryaty, Greta e Vanessa riferiscono con precisione dove hanno spedito o portato latte, alimenti per bambini, medicine e ogni altro genere di conforto non «sospetto». Quando devono spiegare dove sono finiti quei tascapane mimetici annotano solo l'iniziale «B.» facendo intendere di parlare di un avamposto militare dei gruppi armati il cui nome completo non è divulgabile per ragioni di sicurezza. Nelle telefonate con l'«amichetto» Tayeb registrate dai Ros, Greta Ramelli si spinge invece più in là. In quelle chiacchierate Greta spiega che i kit verranno distribuiti «a gruppi di combattimento composti solitamente da 14 persone». Spiegazione plausibile e circostanziata visto che in ambito militare una squadra combattente, dotata di uno specialista para-medico, conta per l'appunto dalle 12 alle 15 unità. L'elemento più inquietante, annotato dai Carabinieri del Ros a margine delle intercettazioni, sono però i contatti tra l'«amichetto» Tayeb e Maher Alhamdoosh, un militante siriano iscritto all'Università di Bologna e residente a Casalecchio del Reno. Con Maher Alhamdoosh s'erano coordinati - guarda un po' il caso e la sfortuna - anche Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabous, i giornalisti italiani protagonisti nella primavera 2013 di un reportage in Siria conclusosi anche in quel caso con un bel sequestro. Un sequestro seguito da immancabile ed esoso riscatto pagato, anche allora, dai generosi contribuenti italiani. Quel silenzio su Giovanni Lo Porto rapito tre anni fa in Pakistan. Il cooperante palermitano sparito il 19 gennaio 2012 durante una missione per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Oggi 19 gennaio 2015 sono tre anni che Giovanni Lo Porto è sparito. Era arrivato da tre giorni in Pakistan per fare il suo lavoro - ridare alloggi alle popolazioni colpite dall’alluvione del 2010 - per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe. Il 19 gennaio 2012 l’hanno rapito insieme al collega Bernd Muehlenbeck, che lo scorso ottobre è stato liberato dalle forze speciali di Berlino: si sa che non era più insieme a Giovanni da un anno e nulla di più. Intorno al cooperante palermitano, un silenzio che ha oscillato tra la prudenza d’obbligo e la reticenza pelosa. Il governo chiede il basso profilo, parenti e amici non ci stanno e lanciano appelli che raccolgono migliaia di adesioni. Un segnale è arrivato finalmente dal ministro degli Esteri, che rispondendo venerdì in Parlamento su Greta e Vanessa ha ricordato sia padre Dall’Oglio sia Giovanni, «due vicende alle quali lavoriamo con discrezione giorno per giorno». Lo Porto ha un profilo inattaccabile perfino dagli sciacalli del web: 40 anni, studi solidi tra Londra e Giappone, esperienze sul campo in Croazia, Haiti e anni prima nello stesso Pakistan, dove nel 2012 era tornato con un progetto finanziato dall’Ue. Insomma, tutto fuorché un avventuriero. Gentiloni va preso alla lettera, fino a prova contraria: l’Italia non lascia indietro nessuno dei suoi cittadini e per nessuno lesina mezzi. Tre anni dopo, è il minimo che si deve a Giovanni Lo Porto.
Greta e Vanessa tradite da chi volevano aiutare, scrive “Libero Quotidiano”. Greta e Vanessa sarebbero state rapite proprio da chi volevano aiutare. Le due ragazze infatti, riporta il Fatto, erano partite per la Siria non per aiutare i civili, le vittime della guerra, ma per sostenere i combattenti islamici anti-Assad con kit di salvataggio. E' il retroscena sul sequestro delle due volontarie che si legge in alcune informative del Ros dove vengono riportate alcune intercettazioni di aprile tra Greta Ramelli - che stava organizzando il suo viaggio in Medioriente - e un siriano di Aleppo di 47 anni, Mohammed Yaser Tayeb, pizzaiolo di Anzolo in Emilia, che gli investigatori considerano un militante islamista legato ad altri siriani impegnati in "attività di supporto a gruppi di combattenti operativi in Siria a fianco di milizie contraddistinte da ideologie jihadiste". In sostanza il progetto delle due cooperanti era "rivolto a offrire supporto al Free Syrian Army ora supportato dall'occidente in funzione anti Isis ma anch'esso composto da frange di combattenti islamisti alcuni dei quali vicini ad Al Qaeda", a sostenere "un lavoro in favore della rivoluzione", e non a dare un aiuto neutrale. Si legge nell'informativa una telefonata tra Greta e Mohammed Yasser Tayeb così sintetizzata: "Greta precisa che un primo corso si terrà in Siria con un operatore che illustrerà ai frequentatori (circa 150 persone tra civili e militari) i componenti del kit di primo soccorso e il loro utilizzo. la donna dice che ha concordato con il leader della zona di Astargi di consegnare loro i kit e cje a loro volta li distribuiranno ai gruppi di combattenti composti da 14 persone in modo che almeno uno degli appartenenti a questi gruppi fosse dotato del kit e avesse partecipato al corso". Tayeb secondo gli investigatori si attivò concretamente per aiutarle e le mise in contatto con un altro siriano residente a Budrio, Nabil Almreden, nato a Damasco, medico chirurgo in pensione. Tayeb gli chiede di inviare in siria una lettera di raccomandazione per Vanessa, "verosimilmente - annota il ros - un accredito presso una non meglio istituzione all'interno del territorio siriano".
Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere. Incassato con sollievo l'annuncio di Palazzo Chigi, con le due giovani cooperanti italiane rapite in Siria lo scorso 31 luglio e già di ritorno in Italia, il mondo politico e non solo già si divide, perché in ballo ci sono 12 milioni di dollari, scrive “Libero Quotidiano”. Quelli che secondo i ribelli siriani sarebbero stati pagati per la liberazione delle italiane, notizia che i nostri servizi hanno smentito seccamente. "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!", ha incalzato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. E c'è chi come il capogruppo di Forza Italia alla Regione Emilia Romagna, Galeazzo Bignami, arriva a chiedere un "contrappasso" per le giovani volontarie temerarie: "Adesso le due tipe si mettano a lavorare gratis fino a quando non ripagheranno all'Italia quanto noi abbiamo dovuto versare, in nome della loro amicizia, ai ribelli siriani". "Sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani - scrive Bignami su Facebook -. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli". Sui social network e sui siti, il commento di molti utenti è critico. E anche tra i lettori di Liberoquotidiano.it l'umore non è di sola soddisfazione per la liberazione delle due giovani. E' tutto il centrodestra ha porre la questione al governo. Secondo Mariastella Gelmini di Forza Italia, è "doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove. Non vorrei che l'Occidente finisse vittima di un corto circuito provocato dai terroristi che dispensano la morte e la vita a secondo delle convenienze". Se la Gelmini chiede spiegazioni al ministro degli Esteri Paolo Gentoloni ("Lui e il governo faranno bene a chiarire rapidamente la vicenda in tutti i suoi aspetti rilevanti"), sulla stessa linea si pone Massimo Corsaro di Fratelli d'Italia: Greta e Vanessa "hanno esposto loro stesse e l'intero Stato italiano a una situazione di rischio e difficoltà coscientemente con la loro volontaria presenza in un Paese in gravi condizioni e una pesante presenza del terrorismo, il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa".
"Pagato riscatto da 12 milioni" Quante armi compreranno? Giallo sui soldi, un tweet dei rapitori fa scoppiare la polemica Dal 2004 a oggi abbiamo versato già 61 milioni ai terroristi, spiega Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Non possiamo che gioire per la liberazione di Vanessa Marzullo e di Greta Ramelli, le quali, dopo essere state quasi sei mesi nelle mani dei tagliagole jihadisti, potranno oggi finalmente riabbracciare le loro famiglie. Fatta questa doverosa premessa, non possiamo esimerci dall'esprimere un senso di vergogna e di disapprovazione per le modalità con cui il governo ha risolto la questione. È vero che siamo da anni abituati a pagare riscatti a talebani, pirati e terroristi per riportare a casa chi si avventura in zone altamente pericolose, ma averlo fatto consapevoli di foraggiare l'industria dei sequestri è perlomeno riprovevole. «Dodici milioni di dollari» proclamano i rapitori del Fronte Al Nusra, cioè circa dieci milioni di euro per riempire le casse del gruppo qaedista siriano, che fa dei sequestri una delle sue principali fonti di finanziamento per procurarsi armi e reclutare combattenti. C'è poco da scherzare o da sorridere. Secondo una stima fatta dal New York Times, Al Qaeda e i gruppi affiliati avrebbero incassato negli ultimi cinque anni almeno 125 milioni di dollari, versato in gran parte dai governi europei. I riscatti pagati dalla sola Italia dal 2004 a oggi a vari gruppi combattenti, ammontano a 61 milioni di euro. Un'industria fiorente, con un fatturato considerevole, alimentato proprio dai quei Paesi disposti e abituati a sborsare denaro per soddisfare le richieste dei terroristi. Quali clienti migliori per i piccoli eredi di Osama bin Laden. E l'Italia è un obiettivo «privilegiato». E pensare che Amedy Coulibaly, il terrorista islamico protagonista della strage nel supermercato ebraico di Parigi, aveva chiesto un mutuo di poco più di 30mila euro per finanziare la sua azione e quella dei fratelli Kouachi nella redazione di Charlie Hebdo. Fate una semplice calcolo di quanti Coulibaly si potrebbero mettere in pista con i dieci milioni di euro pagati dal nostro governo…. Inevitabili quindi, le proteste e le polemiche scaturite subito dopo l'annuncio del pagamento di un riscatto per liberare Vanessa e Greta. Lega, Fdi e Forza Italia hanno subito chiesto chiarimenti in Parlamento. «La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia - ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini -. Ma l'eventuale pagamento di un riscatto, che permetterebbe ai terroristi di uccidere ancora, sarebbe una vergogna per l'Italia». La Lega presenterà un'interrogazione al ministro degli Esteri proprio «per appurare se sia stato pagato un solo euro per le due signorine». «Un fatto assai grave - gli ha fatto eco il deputato leghista Molteni -. Il primo pensiero va alle famiglie. Va detto però che noi non abbiamo mai condiviso né giustificato le motivazioni della loro missione pseudomondialista». Chiede chiarezza anche Mariastella Gelmini, vicecapogruppo alla Camera di Forza Italia. «Quando si riconquista la libertà e la vita, ogni persona ragionevole non può che esultare - ha affermato - Adesso, con altrettanta ragionevolezza, il governo e il ministro degli Esteri devono riferire sulle modalità di questa liberazione».
Ora li paghiamo pure per farci mettere il velo. Il governo deve riportarle a casa. Ma ci costerà milioni e così finanzieremo i terroristi. Vietiamo alle Ong di andare in quei posti, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Tranne improbabili e comunque non auspicabili colpi di scena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo rientreranno presto in Italia. Le trattative volgono alla fine e concernono esclusivamente, così come è stato sin dall'inizio del loro singolare sequestro lo scorso 31 luglio, l'entità della cifra da pagare. Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebbero sequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Comunque sia, nel caso degli ostaggi italiani detenuti dai terroristi islamici i riscatti si misurano in milioni di euro, per la precisione dai 5 milioni in su per i sequestri in Siria e Irak, «solo» un milione o poco più per i sequestri finora verificatisi in Libia. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Per avere un riferimento dell'entità della cifra da corrispondere ai terroristi islamici che detengono le due ragazze italiane, teniamo presente che l'ultimo ostaggio italo-svizzero, Federico Motka, sequestrato anche lui in Siria il 12 marzo 2013, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro. Nel video postato su YouTube Greta e Vanessa sono sostanzialmente tranquille, recitano un copione impartito loro, i loro sguardi s'incrociano con quelli dei carcerieri dietro la telecamera per assicurarsi di essere state diligenti. È un video diretto a noi cittadini italiani per prepararci psicologicamente ad abbracciare le due ragazze in cambio del pagamento di un lauto riscatto. Sostanzialmente diverso era il video del 2005 che ci mostrò Giuliana Sgrena disperata e in lacrime supplicando le autorità di intervenire per il suo rilascio. Ebbene quel drammatico messaggio era diretto al governo, forse inizialmente restio a sborsare la cifra richiesta tra i 6 e gli 8 milioni di euro. Saremo tutti contenti di riavere vive Greta e Vanessa. Però è ora di porre fine a queste tragiche farse il cui conto salatissimo paghiamo noi italiani. Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta!
Finché "mandiamo" ostaggi siamo più vulnerabili. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo? Continua Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo islamico, a cominciare da Irak, Siria, Libia, Nigeria e Somalia? Nel caso specifico dell'Italia dobbiamo farlo sia perché avendo dato prova di essere un «buon pagatore», finiamo per alimentare le risorse finanziarie con cui i terroristi islamici accrescono i loro efferati crimini, sia perché le recenti decapitazioni di quattro ostaggi occidentali (due americani e due britannici) evidenziano che i terroristi islamici sono del tutto indifferenti al fatto che fossero degli «amici», solidali con i musulmani. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Con noi i terroristi islamici vanno sul sicuro: hanno la certezza che il governo italiano pagherà. Esattamente l'opposto della politica adottata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. La prova: mentre l'italo-svizzero Federico Motka, sequestrato il 12 marzo 2013 insieme al britannico David Haines, entrambi operatori umanitari, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro, Haines è stato decapitato dai terroristi dell'Isis (Stato Islamico dell'Irak e del Levante) il 14 settembre scorso. Diciamo che probabilmente i terroristi islamici considerano più vantaggioso sfruttare gli ostaggi italiani per finanziare la loro guerra criminale, rispetto al tornaconto politico che potrebbero avere dalla reazione alla loro decapitazione prendendo realisticamente atto che l'Italia conta poco sulla scena internazionale. Eppure avrebbero dovuto ringraziare Haines per l'aiuto dato ai musulmani. Era stato ribattezzato lo «scozzese matto» per la sua estrema disponibilità e dedizione a favore dei bisognosi. Aiutava tutti, soprattutto i musulmani. Anche l'altro britannico, Alan Henning, decapitato lo scorso 3 ottobre, semplice autista di taxi di Eccles, vicino Manchester, era amico dei musulmani. Sua moglie Barbara aveva invano implorato i terroristi dell'Isis: «Alan è un uomo pacifico, altruista, che ha lasciato la sua famiglia e il suo lavoro per portare un convoglio di aiuti in Siria, per aiutare chi ha bisogno, insieme con i suoi colleghi musulmani e i suoi amici». Anche il giornalista americano James Foley, decapitato dai terroristi dell'Isis lo scorso 19 agosto, era un simpatizzante dei gruppi islamici che combattono il regime di Assad in Siria. La madre Diane, appresa la barbara esecuzione del figlio, ha detto: «Ringraziamo Jim per tutta la gioia che ci ha dato. È stato straordinario, come figlio, fratello, giornalista e persona, ha dato la propria vita cercando di mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano». Ugualmente il secondo giornalista americano, Steven Sotloff, decapitato lo scorso 3 settembre, era un ebreo affascinato dal mondo islamico. La madre Shirley si era rivolta direttamente al Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi: «Steven è un giornalista che è venuto in Medio Oriente per raccontare la sofferenza dei musulmani nelle mani dei tiranni. È un uomo degno di lode e ha sempre aiutato i più deboli. Chiedo alla tua autorità di risparmiare la sua vita e seguire l'esempio del Profeta Maometto che ha protetto i musulmani». La prossima vittima preannunciata dei terroristi islamici, l'americano Peter Edward Kassig, di soli 26 anni, è anche lui un cooperante che ha fondato l'organizzazione umanitaria Special emergency response and assistance (Sera), addirittura convertito all'islam. Ebbene, nell'attesa che si ottenga la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, cooperanti simpatizzanti dei terroristi islamici rapite lo scorso 31 luglio, e padre Paolo Dall'Oglio, anche lui filo-islamico, rapito il 29 luglio 2013, il governo vieti tassativamente i viaggi degli italiani in questi Paesi sia per porre fine alla vergogna dei riscatti pagati ai terroristi islamici sia per prevenire l'assassinio dei nostri connazionali.
Greta e Vanessa libere: il dilemma davanti alla loro generosità. Pagare i riscatti per i prigionieri dei jihadisti è sbagliato e ingiusto. Eppure davanti alle due ragazze ci dobbiamo interrogare sull'indicibile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Questo articolo è stato scritto il 3 gennaio quando Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due amiche rapite in Siria, erano apparse in tv vestite di nero con il capo coperto. Lo riproponiamo oggi che le due giovani sono state liberate. Una riflessione su giudizi, generosità e difficoltà di decidere se e quando un riscatto va pagato. "Noi siamo Greta Ramelli e Vanessa Marzullo". Greta e Vanessa. Due amiche, unite dal desiderio di portare aiuto ai bambini in Siria. Ingenue, avventate, forse. Non giudichiamole. Ma noi non abbiamo il diritto di giudicarle. Mi urtano i (troppi) commenti che le dipingono in un linguaggio sprezzante come invasate manipolate e sprovvedute la cui prigionia crea un problema e pone un dilemma a chi deve gestirla (pagare o non pagare il riscatto? finanziare o no i rapitori? favorire o no con la trattativa altri sequestri?). Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Greta e Vanessa sono due giovani donne maggiorenni (il 31 dicembre Vanessa ha compiuto 22 anni, Greta ne ha uno di meno) che non fanno parte della schiera di chi non si cura degli altri, di chi bada solo a se stesso, di chi concepisce la propria esistenza fra routine e saltuari bagordi di fine settimana o fine anno. Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Ma è quella la strada che Vanessa, e con lei Greta, ha scelto. Voglio pensare che Vanessa e Greta fossero consapevoli di quel che facevano. Ma se anche non lo fossero state, credo nella verità dei loro intenti. Generosi. E coraggiosi. L'incoscienza che fa parte della vita. E se pure condivido il sospetto di molti, che non fossero del tutto lucide quando hanno valutato i rischi, credo che difficilmente si possano prevedere tutte le conseguenze di una decisione, nel momento della scelta. E, anzi, che una certa incoscienza faccia parte della vita, se la si vuole vivere. C’è chi ha parlato di plagio, insinuando una qualche adesione delle due giovani donne a un messaggio ideologico di chissà quale banda di predoni o gruppo islamico estremista che le tiene in ostaggio. Da quel video cosa si vede? Chi le guarda così, da lontano, da inesperto, le vede diversamente da come esemplarmente le ha viste (e ne ha scritto su “La Stampa”). Domenico Quirico, costretto pure lui da ostaggio, da “schiavo”, a registrare un messaggio. Dice Quirico che quel giorno lui era felice, perché il video era un modo per avvicinarsi alla famiglia e alla liberazione. Ma il commento si conclude con la distanza tra quelle immagini di Greta e Vanessa e la verità dell’avvicinamento, solo in quanto di nuovo visibili, alla loro vita di prima, alla famiglia. A se stesse. Ma da quel video si può solo dedurne il loro essere vive in quel momento. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Sì, colpisce vedere la fotografia di Greta e Vanessa sorridenti, una accanto all’altra come lo sono nelle foto da amiche del cuore nei giorni di festa (e magari di protesta) e il fotogramma di quei 23 lunghissimi secondi in cui si ritrovano ancora vicine ma senza sorriso, vestite di nero col capo coperto, Greta che recita il messaggio rigorosamente a occhi bassi, Vanessa che mostra un foglietto ambiguo con una data non verificabile (il 17 dicembre) e per ben due volte alza gli occhi, prima subito riabbassandoli consapevole d’aver infranto una regola o commesso un’imprudenza, poi guardando di lato, quasi astraendosi dal messaggio, dal luogo e dall’ora, e assumendo un’espressione seria (ma da bambina, così simile a certe espressioni vaghe dei nostri figli, delle nostre figlie). Un dilemma terribile. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Perché il riscatto finanzia il terrore. Perché pagando si incentiva il business dei rapimenti. Perché chi si vede pagata la liberazione ha la vita salva e gli altri, di altre nazionalità, no e questo non è giusto. E perché chi è adulto e affronta il pericolo deve anche esser pronto a subirne le conseguenze (il problema è di chi viene sequestrato, non del governo, soprattutto se non si ha indosso l’uniforme e non si svolge un ruolo istituzionale, da militare, ambasciatore, 007). E tuttavia, ci interroga la generosità di quelle giovani donne andate in Siria, credendoci. E mai come in questo caso si pone un dilemma terribile per chi è chiamato a fare di tutto per liberarle. C’è, qui, un fossato incolmabile tra il detto e l’indicibile.
5 motivi per cui non bisogna pagare riscatti. È bellissimo che Greta e Vanessa siano libere. Ma versare denaro ai sequestratori è sbagliato: condanna a morte altri ostaggi e indebolisce il paese, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.
1 - Dare un tesoretto ai sequestratori. Che siano stati pagati 12 milioni, di meno, o di più, il punto è che le bande di sequestratori, che sono anche manipoli di guerriglieri nei teatri dell’avanzata islamista in Iraq e Siria, hanno oggi un tesoretto da investire in armi o in nuovi rapimenti. Esattamente come in Italia (in Sardegna, in Calabria) qualche decennio fa. Ricordate l’anonima sequestri?
2 - La condanna a morte degli altri ostaggi. Il pagamento del riscatto per gli ostaggi italiani condanna a morte gli ostaggi degli altri Paesi. Chi rifiuta categoricamente di trattare con i sequestratori (soprattutto se terroristi) vede sistematicamente i propri ostaggi uccisi, sgozzati, decapitati, mentre magari i loro compagni di “cella” vengono rilasciati a suon di quattrini. È giusto?
3 - Il presente costruisce il futuro. Il presente costruisce il futuro. Chi paga oggi, pagherà domani. E allora perché non continuare a rapire tutti gli sprovveduti/e italiani/e che mossi da sentimenti di generosità verso i sofferenti delle zone più sventurate del pianeta si tuffano a sprezzo del pericolo in tutte le avventure umanitarie? (Ovvio che qui si pone un serio problema di equilibrio tra volontariato e sicurezza: se lo pongono l’ONU e i grandi organismi internazionali, a maggior ragione dovrebbero porselo i singoli e le piccole associazioni fai-da-te).
4 - Chiudere la fabbrica degli ostaggi. L’ostaggio è sempre lo strumento di un ricatto. Un’arma. Lo Stato deve quindi porsi a sua volta la questione di come “chiudere” la fabbrica degli ostaggi. Può farlo sposando la tesi (che personalmente condivido) di Stati Uniti e Gran Bretagna, di dire in anticipo (e poi agire di conseguenza e coerentemente) che nessun riscatto sarà mai pagato. O lo si può fare cercando il più possibile di impedire che italiani si trovino nelle zone a rischio dove la probabilità di essere rapiti, date certe condizioni, è troppo alta.
5 - Sottomettersi o vincere. Perché uno Stato paga riscatti? Per mancanza di senso dello Stato dei suoi governanti. L’uccisione di un ostaggio, per un’opinione pubblica come quella italiana, è una sconfitta della quale ha colpa il governo, mentre la sua liberazione è una vittoria. Sbagliato. Qui gli errori sono due. Di chi ci governa, perché dimostra non saper essere leader. E di noi che non abbiamo la maturità nazionale dei Paesi anglosassoni che affrontano le guerre con lo spirito di chi vuol vincerle e non di chi si sottomette.
In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.
Vanno allo sbaraglio e noi paghiamo. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La vedova di Enzo Baldoni, ucciso dieci anni orsono in Irak da assassini islamici (la cui umanità è nota), in un'intervista rilasciata alcuni giorni fa alla Repubblica, afferma di non essersi dimenticata di me e di Renato Farina che, all'epoca dei fatti, fummo molto critici con il povero pubblicitario-pubblicista perché aveva deciso di trascorrere le ferie nel Paese di Saddam Hussein (con l'ambizione di redigere un reportage) anziché - poniamo - a Rimini, dove non avrebbe rischiato nulla. Comprendo lo stato d'animo della signora e il suo rancore nei nostri confronti, visto come si è tragicamente conclusa l'avventura in Medioriente di suo marito. Ovvio, davanti alla morte, anche se avvenuta in circostanze sulle quali si può discutere, è giusto che prevalgano le ragioni del cuore su quelle del cervello. Ora il problema incarnato da Baldoni si ripropone negli stessi termini: mi riferisco al rapimento avvenuto in Siria di due ragazze italiane (alcune settimane fa) che si sono recate in quelle terre infuocate nei panni di cooperatrici. La storia di queste fanciulle è analoga a quella delle famose due Simone, loro coetanee, che, in occasione della seconda guerra del Golfo, erano andate a Bagdad per aiutare non si sa bene chi, e furono sequestrate dalle solite teste calde imbevute di Corano. La loro vicenda terminò felicemente. Nel senso che i nostri servizi segreti si mossero abilmente, trattarono sul riscatto, lo pagarono con i soldi dello Stato italiano, e liberarono entrambe le scriteriate turiste. Meglio così. Poi fu la volta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, anch'essa finita ostaggio degli islamici e scarcerata grazie al pagamento di una somma rilevante versata dall'Italia ai banditi. Ma sorvoliamo per non farla tanto lunga. Ciò che ci preme osservare è l'inutilità dell'esperienza. C'è gente che, nonostante i precedenti, continua incoscientemente a sfidare il destino - notoriamente cinico e baro - e a mettere a repentaglio la pelle correndo in soccorso di chi non desidera essere soccorso, in Paesi in cui vige la legge del taglione, che non è neppure una legge, bensì una minaccia verso chiunque non adori Allah. Infatti, Greta Ramelli (di Varese) e Vanessa Marzullo (Brembate, lo stesso Comune di Yara, la tredicenne morta ammazzata 4 anni addietro), senza riflettere un secondo, quando hanno avuto l'opportunità di trasferirsi qualche giorno in Siria, sono partite piene di entusiasmo, appoggiate da un'organizzazione umanitaria, convinte di fare del bene. A chi? Ai siriani martoriati dalla guerra, dalle violenze che subiscono quotidianamente vittime di ingiustizie atroci. Ottime intenzioni, non abbiamo dubbi. Ma possibile che non ci sia nessuno in grado di far presente a chi si appresta a raggiungere il Vicino Oriente che non è il caso di affrontare certi viaggi densi di insidie? Possibile non informare i volontari che, persuasi di contribuire a salvare il mondo, in realtà vanno incontro a situazioni da cui è improbabile uscire vivi? Questo è il punto. Non condanniamo assolutamente coloro che, ignari delle trappole disseminate nei territori dove si combatte, vi si recano per il nobile scopo di aiutare persone in drammatiche difficoltà. Ma consentiteci di deplorare almeno quei pazzi che incitano tanti giovani a emigrare, sia pure temporaneamente, in luoghi nei quali uccidere una mosca o un cristiano è lo stesso. È sbagliato pensare che un atto d'amore sia sufficiente a rabbonire chi ti odia da secoli perché rappresenti, fisicamente, il nemico da eliminare. Occorre rieducare i diseducatori che in modo subdolo trascinano i giovani, e perfino vari adulti, a compiere imprudenze che non raramente portano all'irreparabile: sequestri ed esecuzioni capitali con metodi tribali. È un'operazione complicata e forse velleitaria. Ma non c'è altro da fare. Descrivere come eroi i Baldoni, le Simone, le Sgrene e anche le due ragazze tuttora in mano ai folli islamisti, cioè Greta e Vanessa, significa distorcere la realtà e la logica. Volare laggiù nel deserto, a qualsiasi titolo, equivale a percorrere l'autostrada contromano. Non si può pretendere di farla franca. L'evento più probabile è crepare ammazzati. Baldoni, pace all'anima sua, abbacinato da non si sa chi e che cosa, andò incontro alla propria fine senza valutare che in taluni casi la generosità sconfina nella stoltezza; le due Simone si salvarono perché al tempo avevamo ancora dei servizi segreti efficienti; idem la Sgrena; mentre Greta e Vanessa sono state abbandonate a se stesse. Auguriamo loro di tornare, ma non contino sui nostri 007, ormai disarmati e privi di forza contrattuale. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere. Le vacanze più intelligenti hanno quale meta Viserbella o Milano Marittima, almeno finché non saranno state invase dai cammellieri.
Scandalizzarsi è un'ipocrisia Quante vite salvate da un patto. Dai sequestri De Martino e Cirillo ai rapimenti di Mastrogiacomo e Sgrena: i negoziati con camorra, Br e terroristi islamici hanno consentito di evitare spargimenti di sangue, scrive “Il Giornale”. Esiste uno Stato immaginario che non si piega e non scende a patti, e anche nei momenti più difficili preferisce affrontare le conseguenze più tragiche anziché trattare col nemico. Ed esiste poi uno Stato reale che ufficialmente fa la faccia feroce ma sotto traccia incontra, dialoga, si aggiusta. Che promette, e a volte mantiene. Che riceve promesse, e quasi sempre qualcosa incassa. Se davvero - perché di questo in fondo si tratta - qualcuno ha trattato con Cosa Nostra la consegna di Totò Riina, beh, non sarà stata né la prima né l'ultima volta che il do ut des ha fatto la sua silenziosa comparsa nella guerra tra Stato e antistato. Il catalogo è lungo e ricco, e appartiene in buona parte alle cronache del terrorismo: quello domestico, all'epoca della furia omicida delle Brigate rosse e dei loro epigoni, quanto quello islamico in giro per il mondo. Ma non è che le vicende del crimine organizzato non portino anch'esse traccia di accordi sottobanco: nella sentenza d'appello ai calabresi che nel 1997 rapirono a Milano Alessandra Sgarella, una piccola nota a piè di pagina dà atto che a un boss in carcere vennero promessi benefici penitenziari in cambio delle sue pressioni per la liberazione dell'ostaggio. Si poteva fare, non si poteva fare? Si fece e basta, e la Sgarella tornò a casa dopo quasi un anno di terribile prigionia. Non fu, giurano gli addetti ai lavori, l'unica volta che un sequestro dell'Anonima si risolse così. D'altronde esiste un precedente storico anche se poco esplorato, il memorabile sequestro di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi, rapito nel 1977 dalla malavita napoletana e rilasciato dopo una colletta tra banche, partiti, servizi. Nei rapporti con il terrorismo di ogni risma ed etnia, la trattativa sotterranea è invece - almeno in Italia - una prassi e quasi un'arte, spesso esercitata quasi alla luce del sole. A partire dal caso più noto e peggio concluso, quando intorno al sequestro del presidente democristiano Aldo Moro sorse addirittura un «partito della trattativa» che agiva per pubblici proclami senza che nessuno si indignasse o aprisse inchieste; e persino gli emissari della trattativa nel fronte brigatista avevano nomi e cognomi di pubblico dominio, e pubblicamene discusse se erano le possibili contropartite alla liberazione di Moro. Poi finì come finì, ma nessuno finì sotto inchiesta per avere cercato di salvare Moro. Nessuno venne incriminato per avere trattato sottobanco con frange di brigatisti la consegna di James Lee Dozier, il generale americano sequestrato subito dopo Moro. Si indagò, invece, ma senza quagliare granché, sulla più spudorata delle trattative, quella che portò alla liberazione dell'assessore napoletano Ciro Cirillo, sequestrato anche lui dalle Brigate Rosse, e tornato a casa dopo che per salvarlo si era mosso una specie di circo fatto di agenti segreti, politici, imprenditori, tutti a baciare la pantofola di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata che nel supercarcere dove era richiuso riceveva visite una dopo l'altra. Il pasticcio era tale che qualche anno fa Cirillo, ormai ottuagenario, disse di non voler raccontare nulla fino alla morte. «È tutto scritto in un memoriale da un notaio». Ma dove la decisione di scendere a patti è stata una costante, tanto notoria quanto inconfessata, è quando l'Italia si è trovata a fare i conti con il terrorismo islamico: una prassi così costante da suscitare l'indignazione degli alleati e della loro intelligence, ma resa inevitabile dalla commozione con cui vengono seguiti i casi dei nostri connazionali rapiti qua e là per il mondo. Per i poveri Quattrocchi e Baldoni, rapiti e ammazzati in Irak, per allacciare una trattativa mancò il tempo, non la volontà. Da allora in poi, è quasi incalcolabile il fiume di fondi riservati dei servizi segreti finiti nelle tasche della jihad pur di riportare in patria i malcapitati. Si racconta che la telefonata a casa che i rapitori concessero a Domenico Quirico, l'inviato della Stampa sequestrato in Siria, sia costata all'erario una robusta bolletta. E cifre ben maggiori sono servite per ottenere il rilascio delle due Simone, la Pari e la Torretta, sequestrate nel 2004 a Baghdad, o dell'inviato speciale di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Qualche dettaglio emerse a margine della vicenda finita tragicamente della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena: il 4 marzo 2005 un funzionario del Sismi consegnò a un emissario dei rapitori il riscatto, in Kuwait o negli Emirati Arabi. L'emissario diede il via libera, a Baghdad la giornalista venne liberata e consegnata a un'altra squadra del Sismi. Ma sulla strada per l'aeroporto l'auto dei nostri 007 fu attaccata per errore da un posto di blocco degli americani, nell'uragano di colpi il capodivisione Andrea Calipari perse la vita, il suo collega Andrea Carpani venne centrato al petto, anche l'autista venne sfiorato, e solo la Sgrena uscì miracolosamente incolume. Nonostante lo choc e le polemiche, neanche i retroscena di quella trattativa sono mai stati ufficialmente resi noti. La sostanza è che si tratta, da sempre. E forse anche nel 1992, quando magistrati e poliziotti venivano fatti saltare in aria col tritolo insieme a interi tratti di autostrada, ci fu chi decise di tastare gli umori dell'altra parte, e non arretrò inorridito quando la testa di Riina venne offerta in cambio di questa o quella concessione.
L'ideologia contro Quattrocchi: "I killer non erano terroristi". La Corte d'Assise riconsidera le motivazioni dell'esecuzione del contractor in Irak. Come se le uniche vite preziose fossero quelle della Sgrena o delle due Simone, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Incredibile e raccapricciante. Non vi sono altri aggettivi per definire le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Roma che manda assolti due degli assassini di Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata rapita in Irak assieme a Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino che il 14 aprile 2004 davanti agli aguzzini pronti a freddarlo con un colpo alla nuca urlò «Vi faccio vedere come muore un italiano». Quell'atto di coraggio e di dignità gli valsero una medaglia d'oro al valor civile che il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi così motivò: «Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese». Ma gli atti di un Presidente della Repubblica non valgono nulla. Motivando la sentenza che lascia impuniti Ahmed Hillal Qubeidi e Hamid Hillal Qubeidi, due responsabili del rapimento catturati durante la liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino, i giudici spiegano che l'identità dei due non è comprovata, il loro collegamento con gruppi eversivi non è evidente e - dulcis in fundo - l'esecuzione non è un atto di terrorismo. Insomma i due imputati, catturati mentre facevano la guardia a Stefio, Agliana e Cupertino, passavano di lì per caso e non sono stati identificati con precisione neppure durante gli anni trascorsi nella galera irachena di Abu Ghraib. I nostri giudici evidentemente la sanno più lunga degli inquirenti americani e iracheni che interrogarono i due imputati vagliandone generalità e responsabilità. Verrebbe da chiedersi come, ma porsi domande troppo complesse non serve. Dietro questa sentenza e le sue motivazioni non c'è il codice penale, ma l'ideologia. La stessa ideologia formulata dal giudice Clementina Forleo che nel gennaio 2005 assolse dall'accusa di terrorismo il marocchino Mohammed Daki e i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia pronti a trasformarsi in kamikaze islamici in Irak. Nella motivazione del caso Quattrocchi quell'ideologia raggiunge la perfezione. Pur di mandare liberi due assassini i giudici arrivano a mettere in dubbio che l'uccisione di un eroe italiano decorato con la medaglia d'oro sia un atto terroristico. E per convincerci scrivono che «non è chiaro se quell'azione potesse avere un'efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello stato democratico». Una motivazione sufficiente a far assolvere anche gli assassini di Moro visto che neppure quell'atto bastò a disarticolare lo stato italiano. Ma i magistrati superano se stessi quando tentano di convincerci che il collegamento dei due sospettati con i gruppi eversivi non è provato. L'assassinio di Quattrocchi viene deciso, come tutti sanno, per far capire al nostro governo che solo accettando il ritiro dall'Irak verrà garantita la salvezza degli altri rapiti. Ma evidentemente ricattare l'Italia uccidendo un suo cittadino e tenendone prigionieri altri tre per 58 giorni non è un atto sufficientemente eversivo. E a far giudicare eversori e terroristi gli assassini di Quattrocchi non basta neanche l'ammissione di uno degli aguzzini che racconta all'ostaggio Cupertino di aver partecipato all'attentato di Nassirya costato la vita a 19 italiani. Quelle per i magistrati sono semplici vanterie. Ma non stupiamoci troppo. Il problema anche qui non è la giustizia, bensì l'ideologia. In Italia, persino nelle aule giudiziarie, qualcuno continua a ritenere che le uniche vite preziose siano quelle di chi la pensa come lui. Soprattutto se quelli come lui sono «umanitari» di sinistra come le due Simone o giornaliste «democratiche» come Giuliana Sgrena. Le vite di chi non la pensa allo stesso modo invece valgono poco o nulla. Per questo uccidere l'eroe Fabrizio Quattrocchi non è reato.
Ostaggi «buoni» e «cattivi». Scontro tra destra e sinistra, scrive Paolo Conti su “Il Corriere della Sera” Possono esistere «buoni» e «cattivi», giudicati a seconda della necessità polemica da destra e da sinistra, persino tra gli italiani rapiti dai terroristi iracheni? Ora nelle loro mani, e sul video di Al Jazira, c'è Enzo Baldoni. Ma proviamo a fare un passo indietro, a tornare ad aprile, quando gli ostaggi si chiamavano Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, quando Fabrizio Quattrocchi venne trucidato dalle Falangi di Maometto. Sui giornali della sinistra campeggiarono per intere settimane le stesse parole chiave: «mercenari», «vigilantes». Il manifesto parlò di «privatizzazioni da combattimento», l'Unità di «Mestiere della guerra». Scoppiò una durissima polemica quando Vauro, il giorno dopo l'assassinio di Fabrizio Quattrocchi, nella sua vignetta del giorno sul manifesto mostrò un dollaro penzolante da un pennone e sotto il titolo «morire per denaro» commentò con la battuta: «Banconote a mezz'asta». Liberazione insistette sulla tesi della collaborazione dei quattro italiani con i servizi segreti e irrise Piero Fassino che parlò di uccisione di un «civile inerme» («Viene da dire: ma di che cosa stanno parlando?»). Quando il centrodestra definì «eroico» il famoso ultimo momento di vita di Quattrocchi («ti faccio vedere come muore un italiano») ancora il manifesto titolò immediatamente «Eroi di scorta». Ora il rito in parte si ripete, specularmente opposto. La provocazione ieri è venuta da Libero: grande foto del pacifista Baldoni sotto il titolo «Vacanze intelligenti» e giù, nel sommario: «Aveva detto: "cerco ferie col brivido". E' stato accontentato». In perfetta linea con la titolazione il commento di Renato Farina. Si chiede come mai sia così rilassato nel video di Al Jazira: «Perché dovrebbero fargli del male? E' un giocherellone della rivoluzione... Dopo le ferie intelligenti, cominciamo a fare quelle sconvolgenti». Poi, più in là: «Signori di Al Qaeda, proprio dal vostro punto di vista, non vale la pena di ammazzarlo. Restituitecelo, farà in futuro altri danni all'Occidente come testimonial della crudeltà capitalistica». Quanto a Il giornale, è stato l'unico quotidiano a relegare la notizia in centro pagina, ben al di sotto di due inchieste. Commenta Franco Debenedetti, senatore ds: «Credo sia giusto cercare una logica nelle azioni di qualcuno, comprendere il senso delle scelte per esempio nel caso di un rapimento perché tutto questo può contribuire alla liberazione di un ostaggio. Ma i commenti così diversi propongono davvero una gran bella gara...» Qual è il suo giudizio su questo contrasto? «Ricordo che ai tempi dei tre rapiti, questo insistere sul loro ruolo di "mercenari" suggeriva quasi l'idea che si fossero andati a cercare una simile sorte. Un modo per esorcizzare il problema, di allontanarlo, come se il lavoro di vigilante non fosse onorevole come tanti altri, e anzi spesso indispensabile nella complessa ricostruzione dell'Iraq. E magari fosse meno nobile di un'occupazione intellettuale come quella del reporter». E quanto invece alla reazione di Libero? «Sinceramente mi sembra solo e soltanto agghiacciante. Comunque sia, insisto, mi pare davvero una bella gara...». Concorda Marcello Veneziani, intellettuale apprezzato dalla destra: «La figura di Quattrocchi combaciava con una mentalità che aveva caro il senso dell'onore e l'amor patrio. Invece Baldoni coltiva, lo abbiamo letto, valori dichiaratamente pacifisti. Motivazioni diverse, lontane, che hanno spinto le "tifoserie" a schierarsi da una parte e dall'altra, visto che in questa faccenda sembra contare ancora una labile appartenenza ideologica». E allora, Veneziani? «Allora sono state eccessive entrambe le reazioni. Voglio dire che sulla motivazione che spinge qualcuno a una scelta ci possono essere divisioni, diversità di vedute. Ma sulla vicenda in sé no: sono di rigore in ogni caso attenzione, rispetto, solidarietà...».
De Luca, quando la rivolta è un "marchio" da vendere. Dopo decenni di marxismo, sopravvive l'idea che uno scrittore debba essere militante. Ma di tanto impegno restano solo narcisismo e nostalgia attira-lettori, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. L'hashtag è #iostoconerri, e ci mancherebbe non stessi con lui, processato per essersi pronunciato contro la TAV e aver detto che secondo lui sabotarla è giusto. Uno potrà dire quello che vuole? Si può dire che gli Stati Uniti si sono abbattuti le Torri Gemelle da soli, si può essere perfino pro-Isis, Giulietto Chiesa è ancora stalinista, e portiamo in tribunale Erri De Luca? E poi sfiliamo con i cartelli Je suis Charlie? Ecco, Je suis Errì. Oddio, che effetto. E però che bello. È uno di quegli scrittori che invidio, e in Italia ce ne sono tantissimi. Non hanno bisogno di scrivere grandi opere, neppure opere medie. Errì poi scrive dei librini così tascabili che in tasca ce ne vanno venti, una pacchia. L'ultimo di Errì si intitola La parola contraria. Quattro euro e ve lo portate via, generosa la Feltrinelli. Piccolo ma denso: dentro c'è tutta la coscienza contraria di Errì. Per esempio Errì spiega che «può darsi che nella mia educazione emotiva napoletana ci fosse la predisposizione a una resistenza contro le autorità». Una cosa tipo: «Io i tass' nun le pag, ma vattenne và, accà niusciun'è fess». Oppure: «Chiust'o tren' che sa vò muov' veloce sa da fermà, compà». Je suis Errì, e un'altra cosa assurda è l'accusa di istigazione: ma vi pare che Errì possa aver istigato qualcuno a fare qualcosa? Casomai è stato istigato lui a diventare Errì. Come sono istigati tutti gli scrittori italiani, convinti da centocinquant'anni di marxismo intellettuale che si debba essere impegnati civilmente per essere intelligenti. Anzi peggio ancora: intellettuali. Non per altro perfino Aldo Busi, che non è di Napoli ma di Montichiari, su Alias denuncia il progresso tecnologico e rimpiange i casellanti. E Antonio Moresco, che non è di Napoli ma di Mantova, ha organizzato una nuova marcia della nota serie Cammina Cammina, la Repubblica Nomade, per essere tutti migranti. Che cagate. No, pardon, Je suis Errì. Che figate. Je suis Errì, e quanto erano belli i tempi di Lotta Continua. Dove c'erano tutti i migliori intellettuali, scrive Errì. Anche Pasolinì. E lo stesso Errì. Io non sono mai stato di Lotta Continua, neppure a favore di Lotta Continua, ma poi per caso ho scoperto che il mio amore Sasha Grey si è dichiarata simpatizzante di Lotta Continua. E quindi perfetto, je suis Errì, non voglio più essere Parente, che schifo. «Voglio essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino». Uno di quegli scrittori «che fa alzare d'improvviso e lasciare il libro perché è montato il sangue in faccia, pizzicano gli occhi e non si può continuare a leggere». E io che pensavo fosse l'allergia e stavo cercando un antistaminico. Invece è perché je suis Errì, il libro sta cominciando a fare effetto, mi sto trasformando in un giovane cittadino con dei sentimenti di giustizia e un'educazione emotiva napoletana con il sangue montato in faccia. A questo serve la letteratura. Per cui, siccome je suis Errì, ho buttato il libro e mi sono messo a protestare contro uno che ha parcheggiato sulle strisce pedonali, per sentimento di giustizia. Però poi mi sono accorto che il proprietario della macchina era negro, pardon di colore, e siccome je suis Errì mi sono scusato, sarà arrivato sicuramente da Lampedusa, e Errì dice che «dare cibo, acqua, vestiti, alloggio, premura per gli ammalati, i prigionieri, i morti: le sette opere di misericordia sono state compiute da loro, che vivono sul mare e usano leggi opposte. E non sono LampeduSanti, ma semplicemente LampeduSani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lampedusa, riscatta oggi il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi». Ma come gli vengono, a Errì, questi giochi di parole? Val di Susa/Lampedusa, un genio. E poi ho pensato: chissà cosa succederebbe a scaricare qualche migliaio di profughi al mese direttamente da Lampedusa in Val di Susa, chissà dove lo manderebbero Errì, i valsusini. Ma poi ho pensato che era una malignità, i valsusini accoglierebbero tutti con rose e fiori e canti popolari e cantantando je suis Errì. Perché, questo il senso profondo delle parole del libro di Errì, «a ogni lettore spetta la sorpresa di fronte alla mescola improvvisa tra i suoi giorni e le pagine di un libro».
E quando avrete finito di leggere il libro avrete una bellissima mescola, vi assicuro. E anche voi potrete dire: Je suis Errì.
LE CROCIATE: ORGOGLIO CRISTIANO!
La legittimità delle Crociate, un atto di difesa, scrive Massimo Viglione il 23 novembre 2015. Dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:
Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;
La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);
La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica.
Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jihad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.
La legittimità storica, religiosa e morale delle crociate. Ultimamente - per ovvie ragioni - girano vari articoli e interventi sulle crociate, scrive Massimo Viglione il 25 agosto 2014 su “Il Giudizio Cattolico”. Ci permettiamo allora di riproporre un articolo specificamente incentrato sulle ragioni della legittimità storica, religiosa e morale delle crociate, che speriamo possa essere utile per rispondere alle usuali accuse. E lo facciamo nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria di san Luigi IX Re di Francia, il Re crociato per antonomasia, che di crociate ne fece di sua iniziativa addirittura due, trovando la morte nella seconda (1270). Per la formulazione di un giudizio idealmente e storicamente corretto sul fenomeno delle crociate nel suo insieme e sull’idea di Crociata in sé, occorre a monte richiamarsi ad alcuni princìpi imprescindibili e attenersi a dati storici precisi: I territori di quella che per gli ebrei prima di Cristo era la “Terra Promessa” appartenevano appunto agli ebrei dai tempi di Mosè. I vari conquistatori (e per ultimi i Romani), nel corso dei secoli, non avevano intaccato questo principio: sebbene sotto conquista straniera, la Palestina/Israele era di fatto e di diritto la terra degli ebrei, il Regno di David, l’unico ricevuto e consacrato da e a Dio. Da un punto di vista religioso e cristiano, gli ebrei, non riconoscendo – e condannando a morte – il Messia, perdettero per sempre il ruolo di “popolo eletto”, e, di conseguenza, il diritto a possedere la Terra Promessa, non essendo e costituendo più di fatto la “sinagoga/Chiesa” di Dio. Con la distruzione del Tempio di Gerusalemme (unico centro religioso e civile degli ebrei) ad opera dei Romani (Tito, 70 d.C.) e con la loro cacciata definitiva dalla Palestina (Adriano, 132 d.C.), cambia per sempre la situazione: gli ebrei dovettero in massa abbandonare la loro terra (diaspora), di cui di fatto (cioè storicamente e politicamente) persero il controllo e il possesso. Nel frattempo, la Palestina (non più Israele) da un lato continuò per secoli ad essere una provincia romana, dall’altro divenne per i cristiani la “Terra Santa” per eccellenza, dove il Figlio di Dio era nato, vissuto, aveva patito ed era morto e risorto per il riscatto di ogni uomo dal male e dal peccato, divenendo il Salvatore dell’umanità. Ciò significava, idealmente e in concreto, che la Palestina era ora appunto la “Terra Santa” in quanto terra di salvezza di ogni battezzato al mondo. Ciò fu ancora più evidente a tutti quando nel 380 d.C. l’Imperatore Teodosio a Tessalonica proclamò il Cristianesimo “Religione dell’Impero”. Roma si era fatta cristiana e lo stesso Vicario di Cristo risiedeva a Roma: era chiaro insomma che la Terra Santa apparteneva a Roma non più solo politicamente e militarmente, ma anche spiritualmente. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), la Terra Santa rimase ancora per due secoli provincia dell’Impero Romano d’Oriente, quindi “romana” e “cristiana” allo stesso tempo. Nella prima metà del VII secolo nasce una nuova religione, l’Islam, e nella seconda metà i musulmani conquistano la Terra Santa. Ora, è evidente a tutti che quella che era stata prima la Terra Promessa per gli ebrei, poi il Regno di Israele, poi provincia romana, infine la Terra Santa dei cristiani, nulla aveva a che vedere con gli arabi-islamici, se non per diritto di violenza. L’avevano conquistata manu mulitari, e perseguitavano i cristiani ivi residenti e i pellegrini. Questa premessa era necessaria per chiarire due principi a monte: 1) l’inesistenza assoluta da parte islamica di un diritto al possesso della Terra Santa, se non la mera forza della violenza; 2) la perduta legittimità da parte ebraica al possesso della Terra Santa, con il passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento. Questa premessa era necessaria per chiarire due principi a monte: 1) l’inesistenza assoluta da parte islamica di un diritto al possesso della Terra Santa, se non la mera forza della violenza; 2) la perduta legittimità da parte ebraica al possesso della Terra Santa con il passaggio dall’antico al nuovo Testamento. 2) la perduta legittimità da parte ebraica al possesso della Terra Santa, con il passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento. A tali questioni di principio, occorre poi unire il dato storico degli eventi dei secoli susseguenti, vale a dire il fatto che dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:
Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;
La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);
La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica. Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jahad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.
COME GLI STORICI ARABI RACCONTARONO LE CROCIATE. Ho letto libri e notizie sulle Crociate ma gli avvenimenti storici sono sempre visti dal lato cattolico. Esistono libri sullo stesso argomento in cui la vicenda è vista da storici islamici? Scrive Giuseppe Santarelli su “Il Corriere della Sera” il 5 agosto 2012. Caro Santarelli, N el 1829 apparve a Parigi un libro intitolato Chroniques arabes. Era opera di un grande arabista francese, Joseph Toussaint Reinaud, e presentava al lettore un’antologia di brani tratti da opere di cronisti arabi dell’epoca delle crociate. Reinaud fu maestro di Michele Amari (ministro della Pubblica istruzione dal 1862 al 1864, autore di una Storia dei musulmani in Sicilia) e aveva lungamente lavorato per la sua opera su manoscritti arabi conservati nella Biblioteca del Re. Più tardi, fra il 1872 e il 1906, molti testi integrali apparvero in un grande Recueil des historiens des Croisades a cura di Charles Barbier de Meynard. Fu allora possibile leggere le cronache di molti storici noti nel mondo arabo fra cui Ibn al-Athir, Bahà ad-din, Abu Shama, Abu l-Fidà. Ho tratto queste notizie dalla introduzione di Francesco Gabrieli (uno dei maggiori arabisti italiani del secolo scorso) a un libro, Storici arabi delle Crociate, apparso presso Einaudi nel 1963. Gli autori scelti e tradotti da Gabrieli sono quindici fra cui Imàd ad-din al-Isfahani che fu segretario del Saladino e autore di una storia della conquista di Gerusalemme continuata sino alla morte del grande combattente curdo. I toni e gli accenti delle storie arabe non sono diversi da quelli delle storie cristiane: lo stesso ardore religioso, lo stesso amore per i propri luoghi santi (il Santo Sepolcro per gli uni, la Santa Roccia da cui Maometto salì in cielo per gli altri), la stessa caratterizzazione spregiativa dei nemici: cani saracini nelle cronache cristiane, porci cristiani nelle cronache arabe. Fra i testi tradotti da Gabrieli vi è quello di una delle molte tregue che furono firmate dai contendenti durante le loro interminabili guerre. Si compone di due documenti paralleli nei quali ciascuno dei due firmatari invoca tre volte il proprio Dio, i propri sacri testi, il proprio messia e promette di punire se stesso, se romperà la tregua, con una stessa penitenza: trenta pellegrinaggi alla Mecca per il negoziatore arabo, trenta pellegrinaggi a Gerusalemme per il negoziatore cristiano. Ciascuno dei due negava la verità della fede professata dall’altro, ma entrambi accettavano un patto in cui ogni firmatario aveva giurato in nome del proprio Dio. Non si combattevano, in altre parole, perché erano radicalmente diversi. Si combattevano perché erano straordinariamente simili.
"Le crociate non furono aggressione colonialista ma legittima difesa", scrive Dino Messina su "Il Corriere della Sera” il 16 settembre 2008. La rivista <storia in rete> pubblica un estratto dal libro di Robert Spencer edito da Lindau (pagina 336, euro 19) intitolato <Guida (politicamente scorretta) all’Islam e alle Crociate>. L’autore elenca una serie di aggressioni compiute dai musulmani ai danni dei cristiani già a partire dal VII secolo: la conquista islamica di Gerusalemme nel 638, le violenze contro i pellegrini cristiani come quelli giustiziati dal governatore musulmano di Cesarea; il saccheggio del monastero di San Teodosio a Betlemme avvenuto nel 789 con la decapitazone di diversi religiosi; la jihad invocata dal califfo di Baghdad per rispondere all’avanzata dei bizantini guidati da Niceforo Foca, eccetera. Nel 1009, scerive Spencer, il califfo al-Hakim <pronunciò contro i cristiani la sua più clamorosa disposizione: ordinò la distruzione della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme insieme a quella di molte altre chiese>. Dopo grandi affermazioni e conquiste al-Hakim allentò la presa ma gli scontri proseguirono dopo la sua morte. Nel 1071 i musulmani sbaragliarono i bizantini a Manzicerta e fecero prigioniero l’imperatore Romano IV Diogene. <Le porte dell’intera Asia Minore – scrive Spencer – si spalancarono e l’avanzata dei musulmani divenne inarrestatibile. Nel 1076 conquistarono la Siria, nel 1077 Gerusalemme>. Fu in questa situazione che maturò l’apello lanciato da Alessio I Comneno (1081-1118) , al quale papa Urbano II (nell’immagine) rispose nel 1095 al Concilio di Clermont bandendo la Prima crociata. Nell’appello del papa non si faceva riferimento a conversioni forzate o a espansioni territoriali ma soltanto a riconquistare terre in precedenza cristiane. Non tutti i crociati, osserva Spencer, erano mossi dalle migliori intenzioni. Però è falso <il dogna politicamente corretto secondo cui le crociate sarebbero ingiustificate azioni imperialiste contro una pacifica popolazione indigena di religione musulmana (…) e più che un’autentica ricerca storica riflette una certa ripugnanza per la civiltà occidentale>.
Così Obama offende la storia. Sostenere che i terroristi islamici e i crociati cristiani siano la stessa cosa, significa essere ignorante della realtà dell'islam, scrive Magdi Cristiano Allam Sabato 07/02/2015 su “Il Giornale”. Obama ci odia. Sostenere che i terroristi islamici e i crociati cristiani siano la stessa cosa, significa sia essere ignorante della realtà dell'islam arrivando a glorificarlo, sia coltivare un pregiudizio nei confronti del cristianesimo arrivando a criminalizzarlo. Nel suo intervento alla Casa Bianca in occasione della «Preghiera nazionale», Obama ha detto che «durante le Crociate e l'Inquisizione la gente ha commesso atti terribili in nome di Cristo», e che «nel nostro Paese la schiavitù e Jim Crow (leggi sulla segregazione razziale) troppo spesso sono state giustificate nel nome di Cristo». Per contro Obama ha assolto l'islam, affermando che «coloro che perpetrano la violenza e il terrore sostenendo di farlo nel nome dell'islam, in realtà tradiscono l'islam». È del tutto evidente che Obama non sa che Allah nel Corano legittima il terrorismo, la decapitazione e le mutilazioni corporee al punto da rivendicarne la paternità: «Getterò il terrore nei cuori dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo, colpiteli su tutte le falangi! (...) Non siete certo voi che li avete uccisi, è Allah che li ha uccisi» (8, 12-17). Così come non sa che Maometto in un suo detto, confessa: «Ho vinto grazie al terrore» (Bukhari 4:52.220). Soprattutto non sa che Maometto praticò il terrorismo partecipando di persona alla decapitazione di circa 800 ebrei della tribù dei Banu Qurayza nel 627 alle porte di Medina. Giustamente il senatore repubblicano Jim Gilmore ha detto che Obama «ha offeso ogni credente cristiano negli Stati Uniti. Siamo arrivati al punto che Obama non crede nell'America né condivide i valori che noi tutti condividiamo». Ricordiamo che Obama è di famiglia islamica, il suo secondo nome è Hussein, ha un fratellastro, Malik Obama, che è un sostenitore dei Fratelli musulmani che si sono infiltrati nella sua amministrazione. Il 13 maggio 2004 Benedetto XVI, quando era ancora il cardinale Joseph Ratzinger, fece una lucida e profetica descrizione del suicidio dell'Occidente che calza a pennello all'Obama relativista e islamofilo: «C'è qui un odio di sé dell'Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l'Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro». Proprio ieri il vescovo armeno-cattolico di Aleppo, monsignor Boutros Marayati, ha lanciato una pesante accusa: «Noi, come cristiani, abbiamo questo sentimento: che siamo dimenticati, siamo tralasciati, siamo traditi dall'Occidente». A parte il fatto che le Crociate, combattute tra l'XI e il XIII secolo, furono sferrate tre secoli dopo l'invasione violenta della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo e la sottomissione forzata all'islam dei cristiani che rappresentavano il 99% della popolazione, e dopo la conquista islamica della Spagna e della Sicilia, così come furono concepite come una guerra di liberazione del Santo Sepolcro, ebbene nessun crimine commesso dai cristiani può essere legittimato sulla base delle opere di Gesù o dei testi dei Vangeli. All'opposto i crimini perpetrati dagli islamici sono legittimati da Allah, dal Corano e da Maometto. Consigliamo ad Obama, prima di reiterare l'esaltazione dell'islam, di leggersi il Corano. Ed è la cura che consigliamo a tutti coloro che amano a tal punto i musulmani da finire per odiare se stessi.
Se l'espressione "crociato" diventa simbolo di vergogna. Il ministro degli Esteri Gentiloni obbedisce ciecamente alla vulgata dei nemici della cristianità. Ma quei cavalieri rischiavano vita, soldi e prestigio grazie a una fede oggi inconcepibile, scrive Camillo Langone Giovedì 19/02/2015 su “Il Giornale”. «Non siamo crociati» dice il ministro Paolo Gentiloni. Purtroppo, dico io. Storicamente per farsi crociati bisognava avere molta fede, molta speranza e molto denaro: basta questo per escludere la possibilità che gli italiani di oggi, increduli, depressi e squattrinati, possano imbarcarsi in simili vaste operazioni. «Intraprendete questo cammino in remissione dei vostri peccati», disse Papa Urbano II nel famoso appello di Clermont, rivolgendosi a una cristianità che in quel tempo al peccato ci credeva davvero, e capisco che la cosa sia difficile da comprendere per un tardo sessantottino come Gentiloni, cresciuto politicamente nel Movimento studentesco di Mario Capanna e poi nel Pdup, il Partito di unità proletaria, non so se mi spiego. Le crociate non furono quindi solo spedizioni militari ma anche espiazioni e pellegrinaggi. Pellegrinaggi armati, certo, perché allora, come del resto oggi, nelle terre sottomesse al Corano i cristiani rischiavano la pelle. Qualche esempio: all'inizio dell'ottavo secolo sessanta pellegrini vennero crocefissi; pochi anni dopo uno dei soliti sciagurati califfi fece marchiare sulla mano tutti gli ebrei e tutti i cristiani di Gerusalemme, anticipando così la famigerata stella gialla di hitleriana memoria; la domenica delle Palme del 937 i musulmani distrussero le chiese del Calvario e della Resurrezione; eccetera. Libertà di religione, questa sconosciuta. Fra un bagno di sangue e l'altro, e quindi nei momenti in cui al potere c'erano i musulmani cosiddetti moderati, i cristiani venivano semplicemente taglieggiati, tartassati, forzati alla conversione, impossibilitati a trasmettere la fede ai propri figli. Robe così. Ho detto che i crociati erano animati da una fiducia in Cristo talmente forte da essere oggi inconcepibile non solo da un Gentiloni ma anche da un cattolico praticante medio, e poi dalla speranza di una ricompensa ultraterrena, e infine da una notevole capacità di spesa. Non c'erano voli low cost, il viaggio era lunghissimo e ognuno doveva armarsi a proprie spese: avete idea di quanto costasse un'armatura? Le corazze erano gli F-35 dell'epoca, altissima ed esosa tecnologia. Goffredo di Buglione, che non era uno scalzacani bensì un potente signore feudale i cui possedimenti andavano dal Lussemburgo a Bruxelles, il cuore dell'odierna Europa atea e inerte, dovette vendere o più probabilmente svendere buona parte delle sue terre. Altro che occasione di arricchimento, per tanti partecipanti le crociate significarono la rovina economica. E pure politica: i pochi cavalieri che fecero ritorno in Europa, i pochi sopravvissuti ai disagi, alle malattie e alle scimitarre, si trovarono soppiantati nelle posizioni di potere dall'emergente borghesia urbana. Insomma i crociati erano dei nobili idealisti che difendevano, con i metodi spicci propri dell'epoca, i pellegrini e la libertà religiosa, eppure Gentiloni con loro non vuole mescolarsi. Io dico che, se fosse vivo, Riccardo Cuor di Leone non vorrebbe mescolarsi con lui. Il nostro ministro degli Esteri, cuor di renziano e quindi propenso ai machiavellismi più che agli eroismi, riguardo alla crisi libica ha detto alla Camera che «l'unica soluzione possibile è quella politica». Come dire che non c'è soluzione alcuna e che dobbiamo rassegnarci a venire invasi da Sud. Secondo lui dovremmo mediare, dialogare, negoziare: ma con chi? Per interloquire bisogna avere di fronte un interlocutore e in Libia gli interlocutori sono centomila e nessuno. Non c'è nemmeno un Saladino con cui tentare di venire a patti: solo bande di tagliagole barbuti e governicchi che non governano nemmeno le periferie delle città in cui hanno sede. E meno male che, secondo un collega piddino, il titolare della Farnesina è «uno sgobbone, uno che approfondisce i dossier fino all'ultima pagina». Pare fosse studiosissimo anche ai tempi della scuola, del prestigioso liceo Tasso e della Sapienza, ma i libri non bisogna soltanto leggerli e magari ripeterli a pappagallo il giorno dell'esame, bisogna anche capirli. Un ministro europeo non dovrebbe aderire così ciecamente, così masochisticamente alla vulgata antieuropea del nostro nemico. Qualcuno dovrebbe avvisarlo che nel XII secolo lo scrittore musulmano Ibn Jubayr osservò che i musulmani preferivano vivere nelle terre amministrate dai crociati piuttosto che nei vari califfati: proprio come oggi molti musulmani preferiscono vivere nella civile Europa anziché in Siria o in Irak. La smettesse di vituperare qualcosa che non conosce, Gentiloni, e comunque si rassicuri: no, noi non siamo crociati, non siamo degni delle Crociate noi.
Le crociate? I buoni eravamo noi, scrive Rino Cammilleri Lunedì 29/03/2010 su “Il Giornale”. Chi ha visto il film di Ridley Scott Le crociate è stato confermato nell'idea che dall'Illuminismo in poi l'Occidente ha sul tema: a) i crociati erano rozzi e crudeli, mentre gli islamici erano raffinati e tolleranti; b) l'imperialismo europeo attaccò senza provocazione i pacifici musulmani; c) Saldino era un galantuomo e i crociati dei farabutti; d) da allora i musulmani ci odiano con ragione. Questo mucchio di corbellerie è ribaltato nel più bel libro che mai sia stato scritto sull'argomento: Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate (Lindau, pagg. 365, euro 24,5) di Rodney Stark. Sì, perché è vero l'esatto contrario di tutti i punti summenzionati. Innanzitutto, i musulmani cominciarono a interessarsi alle crociate solo quando l'Occidente le mise loro in testa, cioè alla fine del XIX secolo. Non solo gli arabi contemporanei quasi non se ne accorsero, perché si trattava solo di invasioni periodiche durate poco e per nulla rivolte contro l'islam in quanto tale. Anzi, i musulmani sudditi dei regni latini di Palestina e Siria erano pure contenti perché i cristiani non li consideravano dhimmi (diversamente da quanto facevano i governanti islamici con cristiani ed ebrei) e le tasse che pagavano erano più leggere che nei circostanti regni musulmani. «Per molti arabi, inoltre, le crociate non furono che attacchi sferrati contro gli odiati turchi». Infatti, fu quando arrivarono, a mano armata, i turchi - che massacravano i pellegrini - che ebbero inizio le crociate. Le quali ebbero il merito, per la civiltà europea, di fermare l'espansionismo turco per due secoli, dopo i quali l'Europa si ritrovò a doversi difendere fin dentro casa per i successivi quattro. Per quanto riguarda il Saladino, il romanticume sulla sua figura ammaliò anche il Kaiser, Guglielmo II, il quale depose sulla sua tomba una corona bronzea d'alloro (che poi Lawrence d'Arabia, come tutti gli arabi nemico dell'Impero ottomano, fece sparire). Nel film succitato il giudizio è identico. Eppure, dopo la disfatta inflitta ai cristiani ad Hattin, così il suo segretario, Imad ad-Din, descrisse quel che fu fatto ai templari e agli ospitalieri catturati: «Ordinò che fossero decapitati, preferendo l'ucciderli al farli schiavi. C'era presso di lui tutta una schiera di dottori e sufi, e un certo numero di devoti e asceti: ognuno chiese di poterne ammazzare uno», cosa che Saladino concesse volentieri. Non è vero che mandò liberi tutti gli abitanti di Gerusalemme: metà di questi non poté pagare l'esoso riscatto e fu venduta schiava. Stark dice la sua anche sulla famosa Quarta crociata, quella che conquistò Costantinopoli anziché la Terrasanta. E anche qui rimette le cose a posto. Fin dalla prima spedizione, i bizantini avevano sempre mantenuto un atteggiamento sleale nei confronti dei crociati, tradendoli a più riprese. Addirittura, l'imperatore Isacco II si era alleato col Saladino contro i latini per favorire i greco-ortodossi; presa la Terrasanta, Saladino, secondo i patti, aveva consegnato a questi ultimi ogni chiesa latina. Ora, ancora un volta, la richiesta d'aiuto era partita da Costantinopoli e ancora una volta gli europei avevano risposto. E ancora una volta, giunti sul posto, erano stati traditi. Così, stimarono che l'unico sistema per non essere pugnalati alle spalle era insediare uno di loro a Costantinopoli. Un'altra leggenda nera da sfatare è il massacro seguito alla presa di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione alla prima crociata: la città conteneva sui diecimila abitanti, dei quali caddero solo duemila. Nulla a che vedere con i massacri indiscriminati compiuti dai musulmani, specialmente quelli di Baibars e dei mamelucchi, che causarono la fine dei regni latini in Oriente. Massacri, per giunta, tutti compiuti in dispregio della parola data: ambasciatori decapitati, i monaci del Monte Carmelo interamente trucidati, eccetera. Il «peggiore massacro dell'intera epoca delle crociate» fu quello di Antiochia, perpetrato dal musulmano Baibars. Eppure, eccone il ricordo da parte degli storici occidentali: «Steven Runciman gli dedica ben otto righe; Hans Eberhard Mayer una; Cristopher Tyerman, che si era dilungato per molte pagine sugli efferati dettagli del massacro di Gerusalemme nella prima crociata, liquida la carneficina di Antiochia in quattro parole; Karen Armstrong riserva dodici parole al resoconto della strage, di cui attribuisce poi la colpa agli stessi crociati, poiché era stata la loro minaccia a creare un "nuovo islam"». Perché fallirono le crociate? Dopo aver fatto presente che i regni latini d'Oltremare pur ebbero la stessa durata degli odierni Stati Uniti, Stark punta il dito sulle tasse: mantenerli dissanguava l'Europa. Circondati dalla marea ostile, lontani migliaia di chilometri da casa, richiedevano continui rifornimenti di uomini e mezzi, nonché spedizioni ricorrenti per difenderli o riconquistarli. La fede (sì, la fede) aveva reso sopportabile ogni sacrificio e ogni defaillance era stata imputata ai peccati dei cristiani. Ma quando un santo come Luigi IX vi fallì (e morì) nel corso di ben due delle spedizioni in assoluto meglio organizzate, i cristiani si chiesero se davvero «Dieu le volt» o non era il caso di lasciare per sempre i Luoghi Santi al loro destino.
“No alla damnatio memoriae sulle crociate”. Parla lo storico Tyerman, scrive Giulio Meotti il 15 Ottobre 2012 su “Il Foglio”. Per i crociati sembra non valere neppure il detto “de mortuis nihil nisi bonum”. Non è un caso che la magnifica trilogia di Sir Steven Runciman, la bibbia della storiografia crociata adottata dalle università di mezzo mondo, sia stata pubblicata negli anni della decolonizzazione del medio oriente. Fu allora che il senso di colpa divenne un ottimo combustibile anche nella scrittura sulle crociate. Da allora una letteratura ostile a tutta quell’epopea storica si radicò nell’immaginazione occidentale. Riccardo Cuor di Leone, Tasso, i romanzi di Walter Scott e i drammi di Paul Claudel sono stati ridotti al rango di pizzi elisabettiani. Ma adesso arriva uno storico di Oxford, il medievista Christopher Tyerman, che in Italia esce per le edizioni Einaudi con “Le guerre di Dio”. Il libro è frutto del meglio della storiografia anglosassone: potenza stilistica e sintesi paziente delle fonti storiche. “Ogni tipo di storiografia è ‘postmoderna’ per definizione, costruita dagli osservatori anziché sulla realtà”, dice Tyerman al Foglio. “Tuttavia, sulle crociate ci sono stati quasi soltanto stereotipi come il binomio arabi civilizzati contro cristiani barbari. C’è stata una damnatio memoriae. I protestanti del XVI secolo condannarono le crociate come un esempio della corruzione della fede cattolica, gli illuministi le videro come esempio di ignoranza e di superstizione, mentre i materialisti del XIX secolo hanno visto le crociate come una forma di imperialismo occidentale ante litteram. Con questo studio ho voluto combattere i molti miti e pregiudizi”. Il mito prevalente, dice Tyerman, è che “le crociate fossero un assalto barbarico su un islam pacifico, superiore e sofisticato, una forza benigna rovinata da questi maligni di occidentali. E’ un non senso. Le guerre della croce sono divenute un cattivo odore persistente in una dimora di lusso appena restaurata”. In questo le crociate sono state svilite “come un fenomeno puramente distruttivo”, frutto di un modo di pensare post illuministico secondo Tyerman, che deriva “dall’incomprensione che ha fatto seguito all’illuminismo sul ruolo pubblico della religione”. Dietro alle crociate c’era “una visione idealizzata della chiesa, l’idea che la corruzione avesse consentito la conquista dei luoghi cristiani da parte dell’islam, la riconquista delle terre perse in Spagna, Sicilia e mediterraneo orientale e il rinnovamento attraverso la grazia”. Le crociate non furono “un’eccentrica barbarie”, dice lo storico, ma “un momento rivelativo per la fiducia della civiltà occidentale”. Tyerman non vuole certo esaltarle, ma riportarle al loro contesto originario. “E’ necessario tornare a valorizzare la dimensione religiosa e spirituale delle crociate senza appiattirle sul fenomeno puramente materiale”. Che significa? “Non c’era ragione strategica per i cavalieri occidentali di andare nelle colline della Giudea, erano là per ragioni ideologiche e religiose. Degli aristocratici un terzo morì in battaglia, altri dicono fino al settanta per cento. Il loro profitto, almeno così lo vedevano, erano l’indulgenza spirituale e la prospettiva del paradiso, non la terra. Se pensiamo alle crociate di Gerusalemme e a quelle sul Baltico, i principi non avevano alcun interesse economico per lanciarsi alla conquista di quelle terre, reclutare truppe, fondi e armi. Se volevano delle terre, i principi non avevano che da scegliere fra quelle vicine alla propria città. Molti dei finanziatori delle crociate persero intere fortune in guerra”. Non solo, ma secondo lo storico “le crociate, lungi dall’essere un anacronismo, furono uno stimolo all’epoca europea della scoperta”. Tyerman biasima dunque questo “multiculturalismo storiografico” che ha alimentato un senso di colpa. “E l’enfasi sulla colpa ha spinto i cristiani a un atteggiamento remissivo sul proprio passato, quando ci troviamo di fronte a un ideale che fu capace di ispirare sacrifici di portata e intensità a volte quasi inimmaginabili”.
Nel nono centenario della conquista di Gerusalemme, la "Civiltà Cattolica" si dissocia dai "mea culpa" della Chiesa: "Quante interpretazioni superficiali". I gesuiti: "Le Crociate, una storia da rivalutare". Messori: "Finalmente" Cardini: "Dal ' 700 troppi equivoci". In coincidenza con il nono centenario della conquista cristiana di Gerusalemme, avvenuta nel 1099, con la vittoriosa conclusione della prima spedizione in Terrasanta condotta da Goffredo di Buglione (il "difensore del Santo Sepolcro"), La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, rivaluta le Crociate. Questa non sarebbe una notizia, se la Chiesa Cattolica negli ultimi tempi non avesse mostrato segni di "pentimento" nei confronti degli attacchi medievali contro i musulmani, nel corso di quella che e' stata definita la "cristianizzazione armata". Il mea culpa sulle crociate non e' una posizione isolata della Chiesa, ma fa parte di una linea che nel suo percorso tocca eretici come Savonarola e Giordano Bruno, le vittime dell'Inquisizione e gli ebrei. Ecco perchè l'attuale pensiero della Compagnia di Gesù sulle spedizioni in Terrasanta suona come una inversione di tendenza. "Ben lungi dall'essere state inutili o nefaste, le Crociate contribuirono a creare situazioni storiche positive, che sfociarono in processi internazionali tuttora aperti e di vitale importanza", si legge su Civiltà Cattolica, la quale critica le valutazioni "troppo superficiali sull'evento storico" e invita gli studiosi ad accostarvisi liberi dai condizionamenti ideologici. E' il gesuita Carmelo Capizzi, docente di storia medievale alla Pontificia Università Gregoriana a "riscattare" le Crociate da quella che egli considera una storiografia d'impronta laicistica e perciò fortemente condizionata. Ci furono degli errori, ammette Capizzi, ma essi non giustificano la condanna delle Crociate, che, a suo parere, sono da considerare un fattore di progresso sociale e culturale. "Sbagliano", conclude Capizzi, "coloro i quali attribuiscono alla Crociata finalita' che essa non si propose mai, come ad esempio quella di propagandare la fede a mano armata". "Era ora", commenta sarcastico lo scrittore cattolico Vittorio Messori. E spiega: "Siamo al paradosso. Ormai tutta la Chiesa è in ginocchio a chiedere perdono perchè esiste ancora, promettendo di essere più buona. Dal Papa al vice parroco sono lì a battere il vestra culpa sul petto di coloro che non possono più difendersi". Messori è esplicito: "Siamo indignati e scandalizzati per le Crociate, mentre si dimentica che a Gerusalemme quando vi arrivarono i musulmani vi abbatterono tutte le chiese della cristianità, così come fecero nel Nord Africa, in Turchia, nella parte di Spagna che occuparono per ottocento anni. Ora perfino i gesuiti si sono accorti che a chiedere scusa non devono essere i cristiani, ma altri, quelli che dove sono arrivati hanno distrutto la cristianità". Per lo storico Franco Cardini gli equivoci su questo problema nascono da una visione riduttiva della storia: "Si enuclea il fatto militare (la Crociata) da un contesto profondamente denso e positivo". Per meglio valutare la questione, aggiunge Cardini, "bisognerebbe reinserirla nel suo contesto storico e allora molte polemiche non avrebbero più ragione d'essere". "D'altra parte", spiega lo storico medievalista, "la parola Crociata è un'espressione moderna che, sistematicamente, si usa soltanto dal XVIII secolo. Fino ad allora c' erano termini che definivano il "crociato", ma non esisteva la parola astratta. Questo significa che parlando di Crociate dal 1700 a oggi si e' fatta tutta una serie di generalizzazioni ingannatorie". Matteo Collura
E in Israele l'intellettuale Meron Benvenisti ridimensiona l'importanza delle truppe di Goffredo di Buglione "I soldati del Papa? Furono solo turisti" Meron Benvenisti la chiama "la strumentalizzazione paradossale delle Crociate". E la riassume così: "Gli arabi portano ad esempio la caducità dell'invasione cristiana per dire che l’impresa sionista farà la stessa fine. Gli israeliani, al contrario, esaltano gli 88 anni della presenza crociata a Gerusalemme e quasi 200 nella regione per dimostrare che questa è stata una terra di continue invasioni e relativizzare così i 1.400 anni di dominio musulmano". E' l'ennesima provocazione di questo intellettuale che fu vicesindaco di Gerusalemme nei primi anni Settanta, ma è conosciuto soprattutto per i suoi libri di denuncia delle ingiustizie ai danni della popolazione araba e contro l'occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza. Ma è anche un esperto del periodo crociato e ne ha scritto sul quotidiano Ha' arez denunciando lo "stravolgimento dei fatti avvenuti 900 anni fa". Vuol dire che i crociati furono molto meno importanti per la storia del Medio Oriente di quanto venga presentato oggi? "Mi limito a sottolineare l'uso e l'abuso, magari non intenzionale, che una parte dei nostri storici fa delle Crociate. La loro è spesso una lettura funzionale al progetto sionista. Mirano cioè a dimostrare che questa terra dalla distruzione del Secondo Tempio nel 70 dopo Cristo al Mandato britannico è stata costantemente invasa da popolazioni straniere. In questo modo gli ebrei appaiono come i legittimi proprietari della regione che, scacciati dai vari invasori per 2.000 anni, adesso tornano a casa". Aggiunge Benvenisti: "Si tende anche a dimenticare che decine di palazzi e castelli indicati da noi come "crociati" esistevano già, oppure vennero in seguito ampliati dai musulmani. Anche nel periodo d'oro dei regni crociati i loro abitanti cristiani non furono mai più di 120.000 e oltre 400.000 i musulmani. Così larga parte della città di Cesarea e del celebre castello di Belvoir sono indicati dalle nostre guide turistiche come tipicamente crociati: in realtà esistevano sul posto monumentali strutture del primo periodo musulmano, ma gli archeologi le distrussero perchè non disturbassero la loro lettura storica". Anche da parte araba c'è una strumentalizzazione per sottolineare la caducità della presenza ebraica in Palestina. "Sì, è una lettura popolare del passato, ma nessun vero storico le dà credito. Non ha senso paragonare Israele al regno crociato: i crociati qui rimasero sempre dei turisti, una presenza temporanea incapace davvero di assimilarsi nella regione. Nulla a che vedere con Israele". Lorenzo Cremonesi
Ma la liberazione del sepolcro di Gesù provocò troppi lutti e distrusse una cultura Fra Roma e Bisanzio s'ingaggia una battaglia costante, che colorerà di sangue l'Europa nei secoli, a partire dai primi dissapori: i Pontefici strappano a uno a uno i caratteri politici specifici dell'Impero romano, anche i più maledetti dai cristiani. Bisanzio resterà nello scontro secolare sempre sconfitta e ingannata. Smarrirà via via le sue province e quando le sarà sottratto il dominio politico, ben presto la Chiesa romana imporrà la sua liturgia, strappando il cuore alla Messa bizantina: il suo aspetto segreto ed esoterico, dove si celebra un richiamo alla formazione del cosmo dietro l'iconostasi. La storia della Calabria fu uno strappo crudele delle liturgie bizantine, fino alla loro pressochè totale scomparsa, perfino fra gli Albanesi venuti profughi dopo la conquista turca. Il culmine si celebrerà quando i Franchi conquisteranno Bisanzio stessa nel secolo decimo quarto, occupando Santa Sofia e oltraggiandola. Furti spaventosi spoglieranno la grande capitale. Venezia si ornerà di statue bizantine. Gerusalemme aveva subito la conquista turca nel 1073 e la popolazione restò esterrefatta dinanzi alla loro mitezza esemplare: riedificarono la chiesa sul luogo natale di Maria. Venne allora a Gerusalemme il sommo teologo al - Ghazzalì, convertito al sufismo, e vi scrisse la "Vivificazione delle scienze religiose". Accanto a lui visitò Gerusalemme al - Arabi e vi si trattenne per tre anni, partecipando con entusiasmo ai dialoghi che vi si accendevano fra islamici, cristiani ed ebrei. Quando scoppiarono scontri violenti nel 1077, egli annotò che "nella moschea di Al Aqsa nessuna discussione si interruppe". Ma nel giugno 1099 l'esercito di Goffredo di Buglione circondava con cieco furore ed esultanza le mura di Gerusalemme. Anche in questa novità era lo scontro fra Roma e Bisanzio che si esprimeva. L' imperatore di Bisanzio Alessio I Comneno calcolava che con una campagna adeguata avrebbe potuto strappare Gerusalemme ai Turchi. Commise l'errore di ricorrere al Pontefice romano Urbano II all'inizio del 1095 per ottenere dei mercenari normanni. Ma Urbano II, invece, al concilio di Clermont esortò clero, poverelli e cavalieri a marciare su Gerusalemme e a liberare il sepolcro di Gesù. La folla gridò "Dio lo vuole!", innamorandosi di colpo dell'idea. Nacquero le Crociate. Racconta con arte questa svolta fondamentale Karen Armstrong in "Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam". Una torma di predicatori accese gli animi percorrendo l'Europa intera suscitando la mobilitazione improvvisa di cinque eserciti, quasi sessantamila uomini. Giunsero in parte a Bisanzio, dove la principessa Anna Comnena annotava sgomenta come tutta l'Europa, dall' Adriatico alle Colonne d' Ercole, irrompesse così in Asia. L'imperatore restò sgomento ancor più di lei: aveva chiesto alcuni mercenari normanni e la Chiesa gli rovesciava addosso uno stuolo incalcolabile di uomini. In autunno un esercito ancor più numeroso s'era radunato, accompagnato da una quantità di sacerdoti. Il sepolcro di Gesù aveva acceso l'entusiasmo delle centinaia di migliaia di crociati. Molti di loro, percorrendo la Germania, avevano sterminato le comunità ebraiche a Spira, Worms e Magonza. Era la prima volta che tale eccidio diventava una "necessita" sentimentale: il sangue ebreo accendeva di entusiasmo le folle di cristiani erranti. Ma, quando l'esercito maggiore giunse a Bisanzio, si offrì di combattere per l'Impero d'Oriente. Attraversò l'Anatolia, sconfisse i piccoli eserciti islamici che incontrò a Nicea e a Dorileo. Strinse d'assedio Antiochia nell'inverno 1097 - 8 e vi subì la perdita d'un settimo dei membri; metà, inoltre, disertò. Alla fine però Antiochia fu conquistata e data in feudo al normanno Boemondo d'Altavilla. I Turchi a Gerusalemme provvidero alla difesa, e ben poco avrebbero potuto fare i crociati se le navi genovesi attraccate a Giaffa non avessero travolto le difese islamiche e permesso a Goffredo di Buglione l'occupazione della città il 15 luglio 1099. La furia dei cristiani fu raccapricciante: ammazzarono tutti gli islamici, uomini e donne, e tutti gli ebrei. Scrisse un crociato: "Nel tempio e nel portico di Salomone si cavalcava nel sangue fino alle ginocchia e alle briglie. Senza dubbio fu una punizione giusta e splendida che questo luogo fosse cosi' ricolmo del sangue dei non credenti, dopo aver sofferto così a lungo dei loro atti blasfemi". I Franchi erano il nuovo popolo di Dio. Roberto il Monaco dichiarò che questo era stato l'evento maggiore dopo la crocifissione: presto sarebbe arrivato l'Anticristo e avrebbe suscitato la battaglia finale. Chi si spingeva in quei primi tempi a Gerusalemme rimaneva soffocato dal fetore dei cadaveri. I cavalieri elessero Goffredo di Buglione a difensore del sacerdote latino, massima autorità. Doveva arrivare ben presto un emissario del Pontefice romano, che avrebbe scacciato dalla chiesa del sepolcro i cristiani ortodossi armeni, greci, georgiani, nestoriani, giacobiti. Incominciava un'epoca nuova, la dominazione romana di Gerusalemme. Elemire Zolla a * Il libro: "Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam", di Karen Armstrong, Mondadori, 456 pagine, 60.000 lire.
Collura Matteo, Cremonesi Lorenzo, Zolla Elemire Pagina 35 (16 luglio 1999) - Corriere della Sera.
Domenica 15 novembre 2015, Massimo Giletti, conduttore de L'Arena su Rai 1 in riferimento al massacro di Parigi: «Non è più il tempo delle marce, del Je Suis Charlie, ma non abbiamo più il coraggio di essere cristiani, di prendere la nostra identità e affermare con forza contro questa barbarie». «Basta marce e hashatag, qui bisogna fare una riflessione molto più profonda». «Un'Europa che fa fatica ad avere una via unica e che non può più eludere la domanda su da che parte stiamo? Quello che è successo a Parigi era imprevedibile?».
QUELLI CHE VOGLIONO ROMA.
Gli dèi del caos vogliono Roma. È questa la storia della Chiesa, scrive il 16 Novembre 2015 Daniele Guarneri su “Tempi”. Un libro per ricordarci che sopra la tomba di Pietro si combatte una battaglia secolare. E che dalla libertà del Santo Padre dipende la nostra. Parla Angela Pellicciari. Nel poema La ballata del cavallo bianco Chesterton scrive: «Gli dèi del caos urlano per la caduta di Roma». E gli dèi del caos urlano da un paio di millenni e oltre, aggiungiamo noi. Da che Cristo ha messo piede su questo mondo. Lo evidenzia bene Una storia della Chiesa (Cantagalli) di Angela Pellicciari. Certo, l’autrice non intende risolvere duemila anni di storia in 350 pagine. Ma traccia una sintesi che aiuta a comprendere le principali sfide e difficoltà che la Chiesa si è trovata ad affrontare nel corso del tempo. Ed è sorprendente accorgersi delle analogie, non esplicitate nel testo ma che ognuno può scoprire, con ciò che sta accadendo oggi alla Chiesa e al suo popolo, dal Medio Oriente fino a Roma. Perché parliamo di Roma? Perché, lo vedremo, tutto il mondo è terra di Roma, e se qualcuno vuole sottomettere i popoli, prima deve conquistare la città, casa della cristianità. «Come i pagani presero spunto dal sacco di Roma per incolpare i cristiani e il loro Dio, così avviene oggi: ai fedeli di Cristo vengono imputate tutte le colpe, come se loro fossero la causa dei mali di tutto il mondo. Ma questo è falso, lo dice la mia esperienza, io sono stata salvata dalla Chiesa. La discrepanza tra quello che viene detto e la mia vita mi ha portato a scrivere questo ultimo libro», dice a Tempi Angela Pellicciari. Ieri come oggi, Satana combatte la Chiesa su due fronti, spiega l’autrice: «La terrorizza con lo spettro della persecuzione e attacca il magistero petrino cercando di corromperne la dottrina». L’attacco, come vedremo, può arrivare dall’esterno ma anche dall’interno. Può essere fisico ma pure materiale. La prima persecuzione imperiale ai cristiani è quella di Nerone, nel 46, ma il primo martire è santo Stefano, lapidato nel 36. Anche i giudei per motivi religiosi e i pagani per ragioni economiche si accanirono contro i seguaci del nazareno. Poi fu il turno degli islamici, che «reiteratamente applicano alla lettera quello che c’è scritto nel Corano. Quello che accade oggi in Siria e Iraq per mano dell’Isis, è già accaduto in maniera non meno violenta in passato: la data non è sicura, ma, molto probabilmente nel 1091, l’imperatore Alessio Comneno scrive a Roberto I, conte di Fiandra, per raccontare qualcosa di quello che succede ai cristiani che vivono sotto il dominio turco o che vanno in Terra Santa come pellegrini: “Essi circoncidono i ragazzi e (…) in disprezzo di Cristo versano il sangue della circoncisione nei battisteri, e poi li costringono a urinare negli stessi; li trascinano nelle chiese e li costringono a bestemmiare il nome e la fede della Santa Trinità. Coloro che si rifiutano li affliggono con innumerevoli pene e alla fine li uccidono. (…) Corrompono turpemente le vergini, ponendole in faccia alle loro madri, e le costringono a cantare canzoni viziose e oscene, finché non hanno terminato i loro vizi; uomini di ogni età e ordine, ragazzi, adolescenti, giovani, vecchi, nobili, servi, e, ciò che è peggio e più vergognoso, chierici e monaci, e – che dolore! – ciò che dall’inizio dei tempi non è stato mai detto o sentito, vescovi, sono oltraggiati con il peccato di Sodoma, e un vescovo sotto questo osceno peccato perì. Contaminano e distruggono i luoghi sacri in innumerevoli modi, e ne minacciano altri di peggiore trattamento. E chi non piange di fronte a ciò? Chi non ne prova orrore? Chi non prega? (…) Agite pertanto finché avete tempo, per non perdere il regno dei cristiani e, ciò che è più grande, il Sepolcro del Signore, e quindi abbiate non il giudizio eterno, ma la giusta ricompensa nei cieli. Amen”». Ciò che l’autrice ha voluto evidenziare è che l’opera di Satana è cominciata fin da subito: la Chiesa, anche quando non contava nulla, non aveva uno Stato, i suoi fedeli erano nemmeno un centinaio, cioè nulla considerata l’estensione dell’impero romano, anche allora era perseguitata. Perché? «Perché la Chiesa è il corpo di Cristo e Satana lo odia, quindi fin dall’inizio la perseguita, non c’entra se è grande o piccola, se i fedeli sono tanti o pochi. Satana fin dall’inizio combatte il corpo di Cristo». Oltre al terrore portato da imperatori, barbari e islamici, l’attacco a Cristo arriva anche dall’interno della stessa Chiesa con le eresie che cercano di corromperne la dottrina. «Fin dall’inizio gli apostoli mettono in guardia i fedeli dal male che può arrivare dall’interno. San Matteo scrive: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in vesti di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”; san Paolo: “Persino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare perverse dottrine”; san Pietro: “Ci saranno in mezzo a voi falchi”». Vale la pena riportare quello che l’autrice scrive nel libro, a proposito di queste eresie, per parlare di Lutero: «Da cinquecento anni, a partire dal libero esame di Lutero che esalta la relazione individuale con Dio a scapito di quella comunitaria, la modernità punta sulla centralità dell’individuo con i suoi desideri, le sue necessità e i suoi bisogni, col risultato che l’uomo è solo. Ma “Non è bene che l’uomo sia solo”, scrive la Genesi. La comunità cristiana è il gioiello pensato da Dio per dare speranza e consolazione al mondo. E la Chiesa riparte. Anno dopo anno la virata del pontefice la scuote, la certezza della verità la muove e lo Spirito Santo le ridona coraggio». «Oggi a forza di esaltare libertà e diritti individuali non siamo forse arrivati alla disintegrazione della persona?», aggiunge Pellicciari. «Mentre la Chiesa ripropone l’unico modello che rende felice l’uomo: la famiglia, la comunità. È la comunità cristiana che dà la forza ai fratelli di resistere alle persecuzioni, perché la bellezza della proposta di Dio passa dalla comunità, non può finire con l’individuo». In una delle sue prime lettere Giovanni scrive: «Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi: sono usciti di mezzo a noi ma non erano dei nostri». Oggi i lupi rapaci vogliono tutto dalla Chiesa. Gli slogan che quotidiani e televisioni ripetono da un paio di settimane non fanno altro che ricordare agli uomini di Chiesa che Cristo è nato e morto povero, mentre ci sono vescovi e cardinali che vivono nel lusso. È evidente che un po’ di sobrietà in alcuni casi non guasterebbe, ma è altrettanto chiaro che questi attacchi alla Santa Sede (uno degli stati più antichi al mondo, che ha regnato su Roma per oltre mille anni) servono a screditarla agli occhi dei fedeli e del mondo intero. Per magari farle perdere i suoi beni preziosi. È già accaduto anche questo in passato. «Nel Risorgimento in nome della purezza della fede e della vera morale, in nome di Gesù nato e morto povero, moltissimi ordini religiosi sono stati soppressi e la Chiesa è stata espropriata di palazzi, conventi, chiese, oggetti d’arte, biblioteche, terreni. Pio IX, ha ripetutamente ricordato ai fedeli le ragioni che rendono importante, per la Chiesa, il possesso di uno Stato. Nell’allocuzione Quibus quantisque, redatta nel 1849 da Gaeta mentre a Roma infuria la repubblica, il Papa scrive: “I fedeli, i popoli, le nazioni e i regni non presterebbero mai piena fiducia e rispetto al Romano Pontefice se lo vedessero soggetto al dominio di qualche Principe o Governo, e non già pienamente libero. Ed invero i fedeli, i popoli ed i regni non cesserebbero mai dal sospettare e temere assai che il Pontefice medesimo non conformasse i suoi atti al volere di quel Principe o Governo nel cui Stato si trovasse, e perciò, con questo pretesto, sovente non avrebbero scrupolo di opporsi agli stessi atti”». Nel 1872, a Papa ridotto a prigioniero in Vaticano, Pio IX indirizza al segretario di stato Antonelli la lettera “Costretti nelle attuali tristissime circostanze” in cui scrive: «La libertà religiosa dei cattolici ha per condizione indeclinabile la libertà del Papa, ne segue che se il Papa, giudice supremo ed organo vivo della fede e della legge dei cattolici, non è libero, essi non potranno giammai rassicurarsi sulla libertà ed indipendenza dei suoi atti». Ecco perché è così importante che ancora oggi il Papa possieda uno Stato: il minuscolo ma importante stato del Vaticano. C’è un ultimo particolare di Una storia della Chiesa. Il libro della Pellicciari, a parte al principio dove si parla di Gerusalemme come luogo della manifestazione di Dio, poi si concentra su Roma, perché tutto il mondo è terra di Roma, scrive Chesterton all’inizio del XX secolo. «L’intuizione del poeta inglese che collega a Roma il cuore della battaglia fra luce e tenebre, ordine e caos, vita e morte, esplicita il filo conduttore che accompagna la cultura cristiana durante i secoli», spiega Pellicciari. «La Chiesa è romana. L’attacco a Pietro è a Roma. E Roma, all’epoca è il mondo. La Chiesa di Roma è sempre stata attaccata nel corso dei secoli e ancora lo è. Ma qual è la caratteristica che differenzia i cattolici dall’islam, dal protestantesimo, dalla massoneria? Che Cristo vince in croce. Mentre gli altri vogliono dominare il mondo, la Chiesa no. La Chiesa sa che Cristo ha vinto in croce, quindi ai suoi fedeli tocca la testimonianza fino al sangue. San Giovanni Paolo II lo ha fatto fino alla sua ultima ora. Non si può sottomettere il mondo se non si domina Roma, perché lì c’è Pietro. Ci hanno provato i protestanti, i massoni, i comunisti che sono arrivati ad attentare alla vita di Giovanni Paolo II. L’islam è da 1.500 anni che afferma di voler conquistare Roma, lo ha dichiarato anche l’Isis. Anche gli jihadisti lo sanno bene: senza sconfiggere Roma e quindi la Chiesa, il mondo non sarà mai sottomesso. Cristo ci ha insegnato che il potere non è la risposta alla vita. E questo insegnamento è più efficace delle spade».
Ecco chi occuperà il vostro vuoto. «I musulmani sono convinti che vi conquisteranno con fede e fecondità», scrive il 16 Novembre 2015 Rodolfo Casadei su “Tempi”. Parla il patriarca maronita Bechara Rai: «Per i musulmani il matrimonio è un’istituzione divina, e Dio è per la procreazione». «Al Sinodo l’ho detto: “I problemi del matrimonio e della famiglia di cui sento parlare in tanti interventi, da noi non esistono. I nostri problemi sono totalmente diversi”. L’uomo orientale e l’uomo occidentale restano molto differenti. Da noi il matrimonio continua a essere un’istituzione divina: è quello che pensano sia i musulmani sia i cristiani. Per noi si tratta di un sacramento, per i musulmani di un’istituzione divina, perciò le legislazioni salvaguardano il matrimonio come realtà religiosa: da noi non esiste nemmeno il matrimonio civile, figuriamoci le convivenze e i matrimoni fra persone dello stesso sesso!». Bechara Boutros Raï, da quattro anni Patriarca di Antiochia dei Maroniti e da tre cardinale, è uomo che conosce il mondo. Quando va in Francia – e succede spesso – il presidente François Hollande lo riceve quasi come un capo di Stato. Come tutti i libanesi, soprattutto quelli cristiani, vive a cavallo fra Oriente e Occidente e pertanto è ambasciatore naturale fra i due mondi. «L’uomo in astratto non esiste, esiste l’uomo concreto condizionato dalla cultura religiosa e civile del luogo in cui vive. La cultura delle persone che vivono nel Vicino Oriente è determinata da una componente musulmana e da una componente cristiana. Per gli orientali la persona umana è totalmente definita dalla sua religione, e questo si riflette sul matrimonio: questioni come la custodia dei figli, i diritti ereditari, eccetera, sono definiti dal diritto familiare confessionale. Le convivenze fuori dal matrimonio e l’omosessualità sono semplicemente problemi morali, sono eccezioni che nulla hanno a che fare con l’istituzione familiare». Il patriarca ovviamente non si esprime solo come antropologo culturale, ma come pastore: «All’assemblea sinodale dell’anno scorso ho detto: “Gli stati legiferano senza alcun riguardo per la legge divina: né per quella rivelata, né per quella naturale; e poi la Chiesa deve raccogliere i cocci dei danni che queste leggi producono! Facciamo un appello agli stati perché rispettino la legge naturale”. Ammetto che fra i cristiani molti sono influenzati dal secolarismo, nel loro intimo vorrebbero quel tipo di libertà che vedono in Occidente riguardo ai rapporti affettivi e sessuali, ma le leggi in vigore li trattengono, e noi come Chiese lavoriamo per ricondurli ai valori cristiani». L’uomo orientale, ancor oggi antropologicamente diverso dall’uomo occidentale, in maggioranza aderisce all’islam. «I musulmani sono convinti che conquisteranno l’Occidente, anche quelli fra loro che non sono jihadisti o estremisti. Gliel’ho sentito dire molte volte: “Conquisteremo l’Europa con la fede e con la fecondità”. Professare la fede per loro è il principio essenziale della vita, nessuno che appartenga a una religione può astenersene. Che da parte loro la professione sia genuina o puramente sociologica è questione controversa, ma un fatto è certo: è generalizzata, nessuno può astenersene. Allora quando vengono in Europa e vedono le chiese vuote, e constatano l’incredulità degli europei, immediatamente pensano che loro riempiranno quel vuoto. Poi c’è la questione della natalità: per i musulmani il fatto che il matrimonio sia un’istituzione divina significa che la volontà di Dio è la procreazione. Perciò le famiglie devono essere numerose. In Europa vedono che i matrimoni e le nascite sono sempre meno, e questo li convince che loro prenderanno il vostro posto. I musulmani non concepiscono il celibato, nemmeno quello consacrato: considerano ogni forma di celibato scandalosa, perché contraria alla volontà di Dio, che vuole la procreazione». Ma i cristiani con cui i musulmani entrano più spesso a contatto non sono quelli europei, bensì quelli dei loro stessi paesi. «È un rapporto più complesso di quello che molti di voi immaginano», spiega il patriarca maronita. «Nel loro intimo, i musulmani pensano che i cristiani debbano fare il passo che li porterebbe a diventare musulmani: nel disegno divino il cristianesimo doveva soppiantare l’ebraismo, e l’islam è l’ultima rivelazione, quella che soppianta il cristianesimo. Perciò i cristiani non sono mai veramente accettati come tali. Eppure nella vita quotidiana i musulmani hanno più fiducia in noi che negli altri musulmani. Ci apprezzano per il nostro livello culturale, per le nostre capacità professionali e per le nostre qualità morali. Siamo ricercati per queste caratteristiche. Nei paesi del Golfo i lavoratori immigrati che ricoprono i posti di maggiore responsabilità sono cristiani, orientali od occidentali: gli emiri e gli altri dirigenti sanno che siamo professionalmente qualificati, onesti e non ci immischiamo nelle questioni politiche. Per loro è cosa pacifica: i cristiani sono “migliori” di loro sotto tutti gli aspetti. Quando la realtà non corrisponde alle aspettative, reagiscono molto male. Un’altra situazione nella quale noi cristiani orientali ci troviamo in difficoltà, è quando ci sono tensioni fra i paesi musulmani e gli Stati Uniti o i paesi europei: allora le politiche dell’Occidente vengono etichettate come “cristiane”, e noi veniamo tacciati di essere i resti dei crociati e del colonialismo, anche se in realtà eravamo già lì alcuni secoli prima che apparisse l’islam!». Ma pare che ci sia una questione, molto recente, per la quale i musulmani vanno dai cristiani col cappello in mano. «La maggioranza dei musulmani è moderata, posso dirlo perché ne conosco tanti sia fra le autorità religiose sia fra la gente comune. Lo avete visto anche voi in Egitto: quando i Fratelli Musulmani hanno cominciato a governare, la gente s’è stancata subito. Però difficilmente prendono posizione contro gli estremisti. Qualche tempo fa c’è stato un intervento autorevole di condanna delle azioni dell’Isis, ma non tanto forte. Per due ragioni. La prima è che per loro l’appartenenza religiosa viene prima di quella al paese, e quindi se c’è una motivazione religiosa musulmana negli atti di qualcuno, non se la sentono di condannare. La seconda è che, almeno in Libano, i musulmani sunniti hanno i loro referenti nell’Arabia Saudita e nei paesi del Golfo, gli sciiti nell’Iran, perciò non prendono posizioni se non arrivano direttive. Alla fine succede che molti leader religiosi musulmani vengono da noi e ci chiedono di dichiarare pubblicamente le cose che loro vorrebbero ma non possono dire». Naturalmente la cosa che preoccupa di più il patriarca è la guerra nella confinante Siria e in Iraq, e le sue conseguenze. «Tutta la comunità internazionale deve attivarsi per mettere la parola fine a queste guerre. Si discute di come ripartire il flusso dei profughi fra i paesi europei, ma non si discute di come chiudere il rubinetto che produce quel flusso! Se continua l’esodo, se ne andranno le forze migliori dal Vicino Oriente, se ne andranno i cristiani e resteranno solo gli estremisti. Senza cristiani l’Oriente perde lo strato più profondo della sua identità, questo lo sanno anche i musulmani». «Dovete aiutarci a restare, non a emigrare! Questa omissione di interventi efficaci ci fa sospettare che esista un piano di distruzione del mondo arabo. Com’è possibile che dopo dieci anni di guerra in Iraq e quattro in Siria ancora non si cerchi una soluzione politica, ma si insista con quella militare? L’ho detto apertamente agli ambasciatori di alcuni paesi arabi a proposito del conflitto siriano: dove volete arrivare? Perché siete disposti a pagare qualsiasi prezzo per eliminare Bashar el Assad? State spendendo 100 mila dollari per qualcosa che ne vale mille! Il Libano è il paese più minacciato dalla crisi, perché ormai un abitante su quattro da noi è un profugo siriano. La pressione sull’economia, sui servizi, sulle infrastrutture sta diventando insopportabile». Gli si fa presente che il Libano ha anche un problema istituzionale: dal maggio 2014 il paese non ha un presidente. Tempo di riformare la costituzione nazionale? «No», risponde. «La costituzione è già stata riformata nel 1989, in concomitanza con gli accordi per la fine della guerra civile. Adesso al massimo servirebbe qualche ritocco. Ma tutto è bloccato a causa della rivalità regionale fra Arabia Saudita e Iran, che sono le due potenze dietro alle due principali coalizioni politiche libanesi: la “14 marzo” e la “8 marzo”. Non solo il futuro della Siria, anche quello del Libano dipende dall’esito di quella rivalità».
Una frattura generazionale nelle moschee. Molti giovani disertano quella nel cuore della capitale dove gli imam predicano la moderazione e si ritrovano nei capannoni trasformati in sale di preghiera. E qui domina lo spirito salafita, scrive Domenico Quirico su “La Stampa” il 16 novembre 2015. Sono venuto in questa strada dieci anni fa: allora adolescenti incendiavano le notti delle periferie, bruciando le vecchie auto dei padri, assaltando le mediocri ricchezze di supermercati discount. Ho ritrovato ancora sui muri di La Courneuve manifesti che ricordano l’anniversario: «Dalla rivolta delle banlieues alla rivoluzione mondiale», inneggiava, ottimista, «il blocco rosso-maoista»! La Francia conserva davvero tutto, mette sotto naftalina i muri la cultura i ricordi gli uomini. Dieci anni dopo altri ragazzi giovanissimi imbracciano fucili, uccidono a qualche isolato da qui sognando un remoto califfato universale. Sì, quella di dieci anni fa fu davvero l’occasione perduta. Una generazione musulmana chiese, disperatamente, che ci si accorgesse di lei, urlò la propria emarginazione, il dispetto e la voglia di sfidare quello Stato onnipotente che la ignorava. Come i loro coetanei musulmani dall’altra parte del mare, le primavere arabe, altre rabbie, le stesse illusioni. Anche loro sono diventati islamisti, per rabbia, soldati in Siria e in Iraq lo stesso destino. Demolita l’integrazione nei quartieri di periferia si è diffuso il radicalismo basato sulla religione. Nel 2006 erano poche decine i francesi partiti per l’Iraq e la guerriglia contro gli americani. Ora sono centinaia. E tornano. Il cuore del problema francese è a qualche fermata di metrò dal centro, non in Siria o nel Sahel. Sono andato in rue Daubenton, alla grande moschea della capitale. Il centro teologico, la scuola: tutto è chiuso, i corsi annullati. Ma nel piccolo giardino gli uccellini ti assordano dolcemente e il tè servito dai camerieri è ben zuccherato: come sempre. Questo è il cuore dell’islam alla francese, che dovrebbe invitare cinque, sei milioni di musulmani alla tavola della République: l’islam del Consiglio del culto fatto di notabili, di dotti, annunciato come miracoloso concordato tra religione e laicità, una scorciatoia per annegare la differenza nella burocrazia della preghiera, tenere le moleste periferie sotto il travettismo di notabili coccolati e controllabili, spegnere i sussulti del fondamentalismo nei cunicoli di una piramide amministrativa. Nei capannoni trasformati in sale di preghiera non si udivano prediche moderatissime e obbedienti ripaganti la fiducia governativa. Risuonavano le sillabe perniciose del «tabligh», movimento pietista e settario che descrive il mondo con strutture paranoico-persecutrici; e i salafiti che predicano il loro ritorno alle origini, anticamera spirituale del califfato totalitario. Nel piccolo giardino della moschea l’unico musulmano è un vecchio signore che estrae da una borsa una piccola biblioteca di libri e giornali, la mette in ordine e inizia a leggere un libro che conosco, l’autobiografia di Hamid Abu Zaid, studioso egiziano del Corano accusato di apostasia negli anni novanta, vittima degli oscurantisti. Parliamo: l’emigrazione della sua famiglia dall’Algeria non ha conosciuto barconi e clandestinità, aveva documento di lavoro e poi cittadinanza: «Eppure questi ragazzi che uccidono sono nostri figli… noi siamo colpevoli, portiamo la responsabilità per quello che sono diventati... non la Francia i bianchi, noi che li abbiamo allevati… ognuno cerca di aggrapparsi a qualcosa, tutti corrono per non essere quello che rimane senza posto…». La superba Francia delle librerie dei salotti dei bistrot delle languide bellezze bionde che occhieggiano dai tavolini dei caffè: immobile, capace di avvolgere i suoi vizi e le sue tarlature, gigantesco museo di se stessa: il Califfo, per fortuna si illude, non riuscirà a metterle il turbante, a creare l’emirato della Senna. L’atmosfera eternamente plasmatrice di questo Paese può assopire qualsiasi Jihad. Eppure a La Corneuve scopri che il popolo musulmano vive in un altrove. L’anima, il di dentro, la fodera è quello che sfugge tenacemente alla integrazione, che l’ha fatta fallire. Gli uomini appartengono alle abitudini, dove sono le loro memorie. È quella la loro casa. Ogni cinque negozi c’è una macelleria «euroafricana», halal: giganteschi murales mostrano trionfalmente animali lobotomizzati, impressionanti nature morte. Al «mercato delle quattro strade» mele angurie banane gigantesche dipinte con colori iperrealisti: come nei mercati di Bamako e di Niamey. I confini più complicati sono quelli che non si vedono, che non hanno garitte gendarmi filo spinato controllo di passaporti. Esci in rue Jaurés, quattro passi appena… e ti sei lasciato dietro la Francia. L’ha scrupolosamente inghiottita un lento quotidiano terremoto, bruciata dallo zolfo del tribalismo, fatta e pezzi e trasferita in qualche altro continente, il nord Africa, l’islam. Non vedo tricolori a mezz’asta qui. Poi in un negozio di alimentari… ecco: pende una piccola bandiera a cui hanno aggiunto un nastro nero. Entro: sono indiani. Tutto è islamico: la gente i negozi i caffè i barbieri le abitudini i vizi e le virtù. Attenzione: ho incontrato solo un barbuto apostolo maomettano con i regolari pantaloni sopra la caviglia, molti moltissimi veli ma nessun burqa. Nessuno mi ha minacciato, questo non è un jihadistan. Semplicemente un altro mondo. Il francese è rimasto pateticamente aggrappato ai nomi delle strade: rue Rimbaud, rue Danton, rue Maurice Bureau. Sui marciapiedi ogni tanto incroci qualche povero bianco, sopravvissuti del naufragio: da questi quartieri nessuno ha cacciato nessuno, la semplice, implacabile omogeneizzazione delle abitudini, del modo di vivere, giorno dopo giorno i musulmani sono diventati maggioranza. Sui muri intristiscono manifesti elettorali per le regionali, un deputato Dupont -Aignan promette di prendersi cura degli automobilisti «maltrattati». C’era già dieci anni fa: come Sarkozy, Hollande… La strategia del ghetto usata dai radicali ha funzionato: allargare la fenditura tra i musulmani e la Francia fino a farli scoprire estranei e nemici. Entro in un bistrot dal nome evocativo: Medina. Il proprietario alla cassa ha un’aria lesta ma non quella di un fanatico. Solo uomini ai tavoli, anzi ragazzi: nessuno sembra aver qualcosa da fare, tutti sembrano presi nel circolo vizioso di una inedia quasi totale. Come ad Algeri o Marrakesh: i caffè arabi, dove nessuno spende, la gente sembra lì solo per chiacchierare. I ragazzi accanto parlano un arabo dialettale, dove spuntano, affiorano parole francesi come relitti di un naufragio linguistico. Capisco che parlano di me: «céfran, céfran», che vuol dire francese e giù, rovesciano ghignando insulti su antenati e eredi, ma non è odio, sembra più un gioco greve di adolescenti. Alla televisione scorrono immagini: dieci iman che cantano la marsigliese davanti al luogo dell’attentato e parlano di «Islam patriottico», e scende un gran silenzio. E poi immagini dell’arresto dei parenti di uno dei kamikaze in un’altra cité: «schifosi flic» dice un ragazzo, le voci si alzano. Il padrone del bar cambia perentorio canale. Adesso ci sono le immagini della serie «cucine da incubo». «Noi siamo algerini, algerini e musulmani - dice quello dall’aria più ribalda - hai capito? E viviamo da algerini e musulmani. I francesi sono stati un secolo da noi, hai mai sentito dire che vivessero da algerini? Qui nessuno fa la guerra». La chiesa di Saint Yved è una brutta costruzione novecentesca come avverte l’inevitabile targa. È domenica ma è vuota. Il prete allarga le braccia: questa è terra di missione…».
Ecco la lista dei crimini per i quali il califfato ci vuole uccidere. Cosa stavano facendo di così offensivo nei confronti dell'Islam le persone falcidiate dai fondamentalisti negli ultimi anni? Il periodico americano The Atlantic ha provato ha stilare una lista, parziale, di ciò che per l'Is merita la morte, scrive F.S su “L’Espresso” il 15 novembre 2015. Quali sono i "crimini" per i quali gli islamisti fanatici del Califfato hanno deciso fosse legittimo uccidere? Al di là delle cause profonde, che lasciamo agli storici e agli esperti, cosa stavano facendo di così offensivo nei confronti dell'Islam le persone falcidiate dai fondamentalisti negli ultimi anni? Il magazine Atlantic ha provato a stilare una lista provvisoria di questi "gravissimi" comportamenti. Come ogni lista, è parziale. Ma questa, in particolare, qualcosa ci dice: che i cristiani, gli ebrei, gli induisti, gli atei, le donne, i gay, e i milioni di musulmani che rifiutano il dettato conservatore del Corano interpretati da al Qaeda e Isis, possono essere puniti se guardati con gli occhi di chi vorrebbe riportare il Medioevo al mondo. Ecco dunque la lista dei "crimini" che sono valsi la pena di morte:
Andare in vacanza in Egitto
Fare shopping a Nairobi
Andare in ufficio a New York
Volare in aeroplano negli Stati Uniti
Muoversi in treno a Madrid
Muoversi in bus a Londra
Partecipare a un matrimonio ad Amman
Custodire un memoriale in Canada
Pregare in una moschea non approvata
Essere ebrei
Visitare una discoteca a Bali
Andare a scuola in Russia
Andare a scuola a Peshawar
Disegnare vignette
Essere un giornalista del Wall Street Journal in Pakistan
Parlare liberamente in Bangladesh
Essere un ingegnere francese in Pakistan
Lavorare in banca a Istanbul
Muoversi in traghetto nelle Filippine
Bere un caffè a Mumbay
Realizzare un film critico sull'atteggiamento dell'Islam nei confronti delle donne
Pubblicare bibbie in Turchia
Dormire in hotel a Islamabad
Stare fuori una stazione di reclutamento a Little Rock
Pregare in Chiesa in Egitto
Fare shopping per i regali di Natale in Svezia
Comprare pesce in Nigeria
Fare un pellegrinaggio in Iraq
Guardare la maratona di Boston
Essere una ragazza cristiana in Nigeria
Prendere il sole in Tunisia
Fare il giornalista
E i crimini delle persone che sono state uccise a Parigi venerdì: ascoltare la musica, bere, mangiare.
La Musica, l'Islam, la strage di Parigi e il Rock, scrive Ernesto Assante su “La Repubblica” il 15 novembre 2015. La strage al Bataclan merita particolare attenzione. Perchè se gli attacchi allo stadio e ai ristoranti hanno fatto vittime "casuali", al contrario le vittime del concerto dei californiani Eagles od death metal non erano affatto casuali. Perché per l'Islam ascoltare musica rock è peccato. Anzi, ascoltare gran parte della musica è peccato. Suonare musica è peccato. Vale la pena leggere quanto scrive Mufti Muhammad Ibn Adam al-Kawthari, lo trovate facilmente su Internet, il testo completo è ancora più interessante di questo piccolo estratto: "Musica e Canto? Il caso è lo stesso con la musica ed il canto illecito. Essi sono stati definitivamente proibiti nella Shari`ah, come dimostreranno le prove citate più avanti. Eppure vi sono persone non pronte a credere che sia Haram. Nell’epoca moderna, la musica si è diffusa al punto tale che nessuno ne è libero. La gente si trova ad affrontare situazioni in cui è costretta ad ascoltare musica. E’ accesa in quasi tutti i centri commerciali e supermercati. Se ti siedi in un taxi, fai una telefonata o anche solo cammini per la strada, non sarai al sicuro da questo male. Certi giovani musulmani guidano le loro auto con la musica a tutto volume. La crescente popolarità della musica, comune nella nostra società, rappresenta una grande minaccia per i musulmani. La musica è un chiara stratagemma dei non Musulmani. Una delle principali cause del declino dei Musulmani è il loro coinvolgimento in intrattenimenti inutili. Vediamo oggi che i musulmani sono coinvolti, e forse in prima linea, in molte immoralità e mali. La forza spirituale che era un tempo la peculiarità del Musulmano non si vede da nessuna parte. Uno dei motivi principali di ciò è la musica e l’intrattenimento inutile". I terroristi che sono andati a uccidere i ragazzi al concerto al Bataclan non hanno scelto a caso il luogo dove andare a uccidere, non solo gli "infedeli", i "crociati", ma i peccatori in blocco, i ragazzi che ascoltano rock, l'intrattenimento inutile. La pensano così anche in Iran, tanto per dire di uno stato che, a quanto pare, sta schierando i soldati contro l'IS ma che al tempo stesso vieta gran parte della musica entro i suoi confini, "musica che non è compatibile con i valori dell'Islam", dice l'ayatollah Khamenei. Bene hanno fatto gli U2, il cui concerto parigino è stato cancellato, ad andare a deporre fiori davanti al Bataclan, magnifico è stato il musicista che ha portato il pianoforte in strada per suonare Imagine. Così come all'indomani della strage nella redazione di Charlie Hebdo era (ed è) importante dire che ogni matita può essere un'arma che combatte in favore della libertà, oggi è importante dire che ogni chitarra, ogni strumento musicale, è un'arma che combatte in favore della libertà. E contro chi pensa che la musica corrompa l'anima e il corpo e che per questo debba essere vietata.
Perchè la sinistra parteggia per l'islam contro la cristianità? Perchè....
L'Isis è l'ultima forza anticapitalistica del mondo. La teocrazia islamica è antimoderna. E qualcuno, anche in Occidente, ne sente il fascino, scrive Vittorio Macioce - Lunedì 16/11/2015 su “Il Giornale”. L'Isis lo sa come si frantuma l'Occidente, conosce i suoi punti deboli. La prima strategia è seminare paura, nei luoghi della vita quotidiana, il ristorante, il teatro, lo stadio, le strade, i supermercati, fin sotto casa. Non sarete mai più tranquilli. Come se tutti le terre aliene allo Stato islamico fossero Israele, vivere come a Gerusalemme, quando la mattina ti svegli e non sai se tornerai a casa. Questo significa seminare paura. Ma per l'Occidente c'è qualcosa in più, una crepa, un fantasma sul quale fare sponda. L'Isis ti vuole convincere di una cosa: la colpa è vostra, di quello che siete. Il guaio è che ci sta riuscendo, senza neppure tanti affanni. Lo senti nelle parole di alcuni opinionisti in tv, prima con imbarazzo e sottotono, poi via via sempre con più convinzione e netti e chiari nei social network. È vero questi sparano, ammazzano, con una decimazione che lascia alla sorte la sopravvivenza o la morte, ma in fondo ce la siamo cercata. È colpa dell'America, è colpa dell'Europa, è colpa soprattutto di una civiltà malata di denaro, di individualismo, di valori corrotti, della caccia al petrolio, dei padroni del mondo, avidi e incappucciati. Come se noi, povera gente, e i fondamentalisti islamici fossimo vittima di uno stesso complotto. Quelli che ammazzano sono carnefici ma in qualche modo vittime come noi. E qui si arriva a indicare il vero male. Di chi è la colpa di tutto questo? Facile, del capitalismo, sempre lui. Quello che per i nemici non è mai stato solo un sistema di produzione, ma il Satana dei valori degenerati. È quel capitalismo che bene o male ha fatto deragliare l'Occidente dalle società tradizionali. È quella divergenza nella storia, che parte dai mercanti delle città medievali italiane, lì dove si fuggiva dal feudo in cerca di libertà e passa per la prima e seconda rivoluzione industriale, per arrivare qui e adesso. È quel capitalismo sopravvissuto alle profezie di Marx e all'utopia del comunismo. È lo stesso capitalismo che odiavano gli studenti del '68 nel nome del libretto rosso di Mao. È una vecchia storia, insomma. I nemici del capitalismo in fondo hanno sempre avuto nostalgia di una società non corrotta dalla modernità. È lo stesso sogno di Platone e di Rousseau, siccome la storia è decadenza bisogna tornare a una società arcaica, dove la morale non è corrotta dal denaro. L'ideologia di una teocrazia islamica in fondo, a modo suo, promette proprio questo. È per questo che l'odio contro il capitalismo può diventare l'alleato più profondo dell'Isis.Eppure se gente con il Kalasnikov entra in un ristorante e spara non è colpa dell'Occidente. Se in nome di un dio seminano e onorano la morte e si fanno profeti del nulla, bé neppure questo è colpa dell'Occidente. Se invece riusciamo a non rinnegare Voltaire il merito è, questa volta sì, dell'Occidente. Allora bisogna scegliere: cosa propone come alternativa chi condanna l'Occidente? Il califfato come disperata nuova utopia.
Islam assassino: non ci arrendiamo. È una guerra contro il nostro stile di vita e la libertà. E per difenderci ora dobbiamo attaccare, scrive Alessandro Sallusti - Domenica 15/11/2015 su “Il Giornale”. La parola «guerra» rimbalza da Parigi nelle capitali europee. Si mobilitano servizi segreti, polizie e, per la prima volta in Italia, si mette in allerta l'esercito. I morti di Parigi scuotono un'Europa che da tempo assiste compiaciuta al suo decadimento, che ha commesso l'errore fatale di dare il via libera a una invasione ostile (uno dei terroristi di venerdì era sbarcato da un barcone come profugo poche settimane fa) e che poi si è più preoccupata di mettere a tacere le presunte «destre xenofobe» piuttosto che combattere l'Islam assassino. La vera «emergenza umanitaria» del nostro tempo non sono le ondate di clandestini che ci arrivano addosso ma la difesa delle nostre vite di occidentali e cristiani, di quelle dei nostri figli da ieri mai più al sicuro nelle loro città, nei loro stadi, teatri, ristoranti, sugli aerei. La vera «umanitá» in pericolo siamo noi. Invece le sinistre e la burocrazia europea hanno azzerato le nostre difese con leggi permissive, hanno emesso sentenze giudiziarie che introducono le «attenuanti culturali» per giustificare crimini commessi da una civiltà inferiore, quella islamica, in nome di un dio, Allah, feroce e spietato, hanno fatto chiudere le nostre mostre d'arte con opere a sfondo cristiano e cancellato il Natale per non offendere il conquistatore. E adesso piangiamo, da veri coccodrilli, la morte dei nostri figli e amici, in una escalation di orrore che, come giurato ieri dall'Isis, è solo all'inizio. In dieci mesi si è passati dai dodici morti di Charlie Hebdo, ai duecento dell'aereo russo partito da Sharm, ai 129 (bilancio provvisorio) della notte di Parigi. Quanti saranno quelli della prossima strage, e dove? Impossibile dirlo, il fronte di questa guerra non è un confine, siamo noi, ovunque ci troviamo. Ragazzi kamikaze contro ragazzi che bevono una birra a casa loro. Non c'è storia, vinceranno loro questa guerra impari fatta di agguati e di attese tra una strage e l'altra. Colpire con missioni suicide e poi sparire è una tecnica militare sperimentata dai vietcong in Vietnam e dai talebani in Afghanistan, contro la quale non hanno potuto nulla i più potenti eserciti del mondo, quello americano e quello sovietico, usciti sconfitti dall'estenuante confronto. Figuriamoci cosa possono fare forze dell'ordine eroiche ma sottodimensionate, male attrezzate e poco pagate, spesso imbrigliate da regole di ingaggio e leggi che sembrano fatte per favorire il nemico.L'unico spiraglio di salvezza ora sta in quella parola «guerra» pronunciata ieri sia dal presidente Hollande che da Papa Francesco, entrambi in ritardo rispetto ai profetici scritti di Oriana Fallaci, fatta passare anche per questo per una pazza visionaria. Se è vero che c'è una guerra in corso bisogna essere conseguenti, sia sul piano delle relazioni internazionali (per esempio la Russia di Putin sarebbe un alleato decisivo e non un nemico da punire con sanzioni) che sul fronte interno, europeo e nazionale. Dalla libera circolazione tra stati alle politiche sull'accoglienza, tutto va rivisto in chiave emergenziale, sospendendo se è il caso anche alcune libertà o principi democratici come accadde in America all'indomani degli attacchi alle Torri Gemelle. In guerra, il nemico - dichiarato o potenziale - lo si tiene fuori dai confini, non lo si fa circolare liberamente per casa, non lo si aiuta a mettere radici. Se qualcuno trova tutto questo esagerato lo invito ad ascoltare e riascoltare gli audio - disponibili su internet - del fragore delle bombe che esplodono allo stadio di Parigi, le urla dei ragazzi trucidati nel teatro. Domani - che Dio non voglia - potrebbero essere le voci dei nostri figli e nipoti. Per questo noi non ci arrendiamo all'Islam assassino né ai suoi sciagurati complici occidentali, che negando l'evidenza ci mettono tutti a rischio. Siamo in guerra e combattiamo con l'arma che abbiamo in dotazione: la libertà di dire ciò che pensiamo.
Quegli "islamici moderati" che giustificano i terroristi. Nelle comunità delle nostre città dominano distinguo, condanne tiepide e c'è chi dà persino la colpa agli "infedeli". Una zona grigia di omertà e di complicità, scrive Fabrizio De Feo Lunedì 16/11/2015 su “Il Giornale”. Uscire dalla zona grigia, esprimere la propria dissociazione in maniera decisa, senza «se» e senza «ma», dimostrare di non condividere nulla della jihad, mostrare un volto diverso dell'Islam.
È questa la richiesta-appello che - ogni qualvolta il terrorismo di matrice islamica torna a colpire il mondo occidentale - viene indirizzata verso le comunità musulmane presenti in Europa. Le risposte non sempre sono convincenti, soprattutto quando si va a indagare negli umori popolari. L'ultimo servizio che ha provato a sondare le opinioni della comunità islamica presente in Italia è stato quello messo in onda da Porta a Porta due sere fa. Francesca Ronchin è andata per le strade di Tor Pignattara, quartiere romano con la maggiore concentrazione di stranieri e di persone di religione islamica, per chiedere cosa pensassero del feroce attacco subito da Parigi. Il risultato? Deludente, anche a detta di Bruno Vespa che al ritorno in studio ha rinviato la palla al presidente di Ucoii, Izzedin Elzir, schierato su una posizione di ferma condanna della strage avvenuta nella capitale transalpina. I commenti raccolti dalla giornalista si attestano su un crinale scivoloso e incerto. Di certo, come sottolinea Elzir - che è anche l'Imam di Firenze - in parte contribuisce il fattore della lingua, la scarsa conoscenza dell'italiano che non favorisce l'articolazione compiuta di alcune opinioni. Per questo Elzir invita tutti gli islamici presenti in Italia a imparare bene la nostra lingua e chiede di non dare giudizi sommari sull'insieme della comunità. In altri casi, però, dominano i distinguo, le condanne tiepide o l'omertà, con molti «se» e molti «ma». «Non so se avete sentito di questo attentato a Parigi che ha provocato più di 120 vittime?» chiede la giornalista di Porta a Porta. «No, dove?», la prima risposta. «A Parigi». «Dov'è Parigi?». Il secondo intervistato si attesta sulla stessa linea. «Non ho sentito nulla». Più articolato il pensiero del successivo che mette sullo stesso piano l'America e l'Isis. «Se vogliono risolvere il problema devono sapere chi finanzia e chi dà armi. La colpa è dell'America che compra il petrolio dall'Isis. L'Isis e l'America hanno la stessa radice». Un altro intervistato ammette, dissociandosi da loro, che «tante persone sono contente di quello che è successo in Francia». Un altro assume una posizione più netta: «Io sono un vero musulmano e un vero musulmano non uccide i bambini». Un altro ammette che «è difficile da islamico vivere in un Paese democratico», tra «gli infedeli». E c'è anche chi condanna, ma risponde «sì» alla domanda se si possa a volte uccidere in nome della religione.Un servizio dai contenuti simili, firmato da Alessio Fusco, va in onda anche durante Quinta Colonna di Paolo Del Debbio. Interviste citate anche da Massimo Giletti che nella puntata di ieri de L'Arena si è schierato in maniera forte contro ogni ambiguità. «Ho ascoltato quanto detto da cittadini di religione islamica sia da Vespa che da Del Debbio» spiega a il Giornale. «Di fronte a una strage di quella portata, al dolore di centinaia di persone innocenti non ho visto l'atteggiamento che mi sarei aspettato, non ho letto sulle labbra di chi ha parlato la solidarietà che sarebbe stata opportuna. Avrei voluto sentir dire di fronte a questa tragedia immane che è una vergogna che i terroristi usino l'Islam come copertura di una follia. Io sono stanco delle marce, delle candele, degli slogan. Sono stato in Irak due mesi fa e ho raccolto le testimonianze tragiche di chi vive sotto l'Isis, è un'esperienza che mi ha cambiato. I raid aerei occidentali finora sono stati limitatissimi. Oggi le parole non contano più. Siamo in una situazione di guerra ed è necessario procedere a una vera opera di prevenzione a tutti i livelli, mettendo da parte anche la nostra privacy. Oggi è giusto anche sospendere alcune libertà o principi democratici come accadde negli Stati Uniti dopo l'11 Settembre. Dobbiamo farlo, prima che sia troppo tardi».
Massimo D'Alema: "Dobbiamo schiacciare l'Isis", scrive “Libero Quotidiano” il 15 novembre 2015. Massimo D'Alema non ha dubbi: "Bisogna schiacciare l'Isis". Lo dice ai microfoni del Tg3 ricordando anche l'aereo russo abbattuto qualche giorno fa. er D’Alema la risposta deve quindi essere dura, perché "a minaccia non può essere contenuta. È in corso una guerra e quando c’è una guerra bisogna organizzarsi per vincerla". D'Alema indica anche la strada: "Credo che prima di tutto bisogna avere un'idea chiara di chi è il nostro nemico che va individuato con precisione e non in modo confuso". Spiega le differenze tra Al Qaeda e l'Isis e prosegue spiegando che "bisogna cercare la collaborazione con tutti quelli disposti a combattere questi nemici". L'Isis si differenzia da al Qaeda per "l’ambizione territoriale, l’esistenza di alcuni nuclei di califfato che hanno peraltro una forza di attrazione e mobilitazione anche sui giovani europei. Una parte dell’Iraq, una parte della Siria, una piccola parte della Libia. Lì c’è l’Isis, lì bisogna schiacciarli, non con bombardamenti, ma eliminandoli da questi territori". Quando gli fanno notare che è la stessa posizione di Matteo Salvini lui ribadisce di pensarla nella sostanza come lui, che i problemi con l'Isis vanno risolti con la forza, ma spiega anche che "la discriminante è nell'uso della politica e dell'intelligenza". E ancora: "Quando si fanno le guerre, ci si mette attorno a un tavolo, si elabora una strategia lo scenario non è quello dell’occidente che combatte l’Isis, ed è quindi fondamentale che ci siano i musulmani, per non cadere nella trappola della guerra di religione".
Se l'intellettuale di sinistra ha belle idee di destra. Dopo anni di accuse e invettive, le tesi della Fallaci e le battaglie sull'Islam della Le Pen o di Salvini vengono riprese da chi le condannava. Ovviamente cambiando le parole e facendo finta di niente, scrive Luigi Mascheroni - Lunedì 16/11/2015 su “Il Giornale”. È già da tempo che, lentamente, a volte con imbarazzo altre con improvvisi salti della barricata, pezzi più o meno piccoli della sinistra benpensante cominciano a rivedere le proprie convinzioni in tema di Islam, scontro di civiltà, integrazione. E, pur senza prendere tessere politiche o ideologiche nel campo avversario, finiscono per scivolare su posizioni che qualcuno per comodità tende a definire reazionarie e altri per semplificare «di destra». È il progressismo che vira verso la conservazione. L'utopia rivoluzionaria che si piega al pragmatismo del buon senso. E così l'intellighenzia si scopre a confessare a denti stretti che forse, però, in fondo (certo condannando sempre con fermezza la xenofobia e il razzismo!) tutto sommato quelle teste calde che in tempi non sospetti mettevano in guardia dai rischi del fondamentalismo religioso e preannunciavano che il confronto fra Occidente liberale e il fanatismo islamico si sarebbe trasformato in guerra, ecco a ben guardare non avevano poi tutti i torti. Succede da tempo e tanto più succede ora, dopo i sanguinosi fatti si Parigi. Accade in Francia, che ha già pagato sulla sua pelle l'illusione di un convivenza pacifica e di una reciprocità dei diritti tra l'Europa laico-capitalista e l'Islam radicale. E accade in Italia, che non è ancora stata colpita in casa ma sente la minaccia sul collo. Da noi capita sempre più spesso di ascoltare politici e intellettuali di solidissima fede democratica dire (attenzione, ecco il trucco, con parole diverse) le medesime cose che da anni in maniera magari meno elegante e più di pancia ripete la Lega o una certa destra. Era un po' curioso e un po' comico, sabato sera, a 24 ore dalla strage di Parigi, ascoltare a Otto e mezzo Massimo Cacciari e Gianni Letta sostenere - salvo irriderlo per le sue semplificazioni e grossolanità - ciò che Matteo Salvini ripete da anni, a partire dalla necessità di un intervento militare internazionale contro l'Isis fino all'ammissione che sui barconi di profughi diretti in Europa dall'Africa e dal Vicino Oriente ci siano anche potenziali terroristi. Così come capita di trovare persino su un sito come l'Huffington Post Italia articoli (vedi quello di sabato di Giuseppe Fantasia e relativi commenti di decine e decine di lettori) che celebrano «la Cassandra dell'Informazione» Oriana Fallaci, riscoperta come «profetessa» da una parte di quella sinistra che per un quindicennio l'ha derisa e ghettizzata. Ieri, sul Corriere della sera, Pierluigi Battista, dopo aver letto forse l'Huffigton forse altri siti, ha scritto un pezzo intitolato «Scusaci Oriana, avevi ragione», Il risarcimento postumo è online. E se la vecchia pazza - si chiedono molti democratici cittadini in Rete - non fosse così pazza? Battista, peraltro, è uno che non deve scusarsi di nulla, avendo più volte, anche a costo di pesanti attacchi, difeso e citato i libri della scrittrice toscana. Più sorprendente, forse, poche pagine dopo sullo stesso quotidiano, l'articolo La lezione da apprendere del teatro Bataclan firmato da Paolo Mieli, il quale, in maniera molto lucida ma un po' in ritardo rispetto a centinaia di pezzi scritti da esempio sul Giornale da anni, scoperchia l'ipocrisia di tanti #JeSuisCharlie dalla memoria corta e denuncia i danni micidiali che causa il «politicamente corretto» applicato all'islam radicale. Benvenuto nel club di chi crede che il buonismo è solo una forma perversa della cattiveria.Tutto ciò capita, finalmente, anche in Italia. E capita da tempo, ben prima del massacro di due giorni fa, in Francia. Dove a suo tempo editori come Gallimard e Grasset si rifiutarono di pubblicare La Rage et l'Orgueil della Fallaci, considerata fascista, razzista e xenofoba. E dove oggi, mentre il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq si rivela profetico tanto quanto i pamphlet della Fallaci - sono sempre di più i Maître à penser della gauche sedotti dalla destra radicale. Come il filosofo Michel Onfray, alfiere della sinistra laica, o come l'economista di estrema sinistra Jacques Sapir, o l'ex sessantottino Alain Finkielkraut che invoca l'identità nazionale davanti all'invadenza del velo islamico... Certo, non danno i loro voti al Front National, ma spesso danno ragione a Marine Le Pen. Quando parla di Europa, di Islam e di immigrazione.
IL SUICIDIO DELL’EUROPA.
Asilo e sussidi ai terroristi. Il lungo suicidio dell'Europa. L'Italia è stata il primo Paese a considerare "rifugiato" un capo di Al Qaida. E da vent'anni il buonismo permette ai jihadisti di scorrazzare indisturbati, scrive Fausto Biloslavo Lunedì 16/11/2015 su "Il Giornale”. Da una parte ci tagliano la gola o predicano la guerra santa. Dall'altra sfruttano il buonismo europeo incassando sussidi di stato e ottenendo l'asilo politico. Decine di terroristi o cattivi maestri, in Italia e negli altri paesi europei, hanno fatto finta di essere agnellini perseguitati. Almeno uno dei kamikaze di Parigi aveva il passaporto di un rifugiato sbarcato in Grecia pochi mesi fa e passato per la Serbia dove ha chiesto asilo politico. Abdul Rahman Nauroz è un islamista già in carcere per altri reati spuntato nell'inchiesta che questa settimana ha scoperchiato la rete jihadista europea guidata daL mullah Krekar. Nauroz viveva a Merano dove aveva ottenuto l'asilo politico e gli erano stati garantiti un appartamento ed il sussidio versato dalla provincia di Bolzano. L'appartamento di Merano era pagato dai servizi sociali. Lo stesso capo rete, mullah Krekar, era arrivato in Norvegia nel 1991 dal nord dell'Iraq ottenendo lo status di rifugiato e la cittadinanza per moglie e figli. Solo 11 anni dopo gli è stato revocato l'asilo per il suo coinvolgimento nella guerra santa.L'Italia si fece fregare da un pezzo grosso della costellazione jihadista, Es Sayed Abdelkader, referente di Al Qaida nel nostro paese a fine anni Novanta. A Roma era arrivato il 24 maggio '98 dove ottenne lo status di rifugiato «rendendo alle autorità italiane dichiarazioni mendaci o incomplete sulla sua situazione di perseguitato politico», secondo un rapporto della Digos di Milano. Non sapendo di essere intercettato Abdelkader raccontava ridendo ad un compagno di lotta di aver trasformato «un semplice incidente stradale», nel quale sarebbe morta sua figlia, in un attentato dei servizi segreti egiziani. In seguito partito per l'Afghanistan sarebbe morto sotto i bombardamenti Usa dopo l'11 settembre.Un'altra figuraccia buonista l'abbiamo fatto con i terroristi tunisini Sami Ben Khemais Essid e Mehdi Kammoun. I due erano finiti in una famosa inchiesta sul terrorismo dell'allora pm Stefano Dambruoso. Fra il 2008 e 2009 sono stati entrambi espulsi verso la Tunisia. Il ricorso presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia perché li abbiamo spediti a casa loro dove vige la pena di morte. Diverse organizzazioni come Amnesty International hanno duramente protestato con il governo italiano denunciando il rischio che gli espulsi jihadisti venissero torturati. In realtà lo scoppio della primavera araba a Tunisi li ha rimessi in libertà. E dal 2012 hanno continuato a cavalcare la guerra santa. I due terroristi sono stati immortalati in una famosa foto con alle spalle la bandiera nera dello Stato islamico assieme ad Abu Iyad, fondatore di Ansar al Sharia, l'organizzazione integralista messa fuori legge in Tunisia. L'Inghilterra aiuta tutti a cominciare dalle sue serpi in seno. Abu Anas Al Liby, il terrorista catturato dagli americani a Tripoli lo scorso anno, poi morto in carcere, aveva ottenuto asilo politico a Londra nel 1995. Peccato che dopo fece i sopralluoghi fotografici per far saltare in aria le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania tre anni più tardi. Abu Hamza, il predicatore radicale con l'uncino, perché aveva perso un braccio ed un occhio combattendo in Afghanistan, otteneva il sussidio per le menomazioni di guerra dal governo inglese. Abu Qatada, ispiratore di terroristi kamikaze, ha vissuto con i sussidi di povertà fino al 2001 quando gli hanno scoperto un conto di oltre 262mila euro utilizzato per finanziare se stesso e la guerra santa internazionale. Nel 2005, dopo il secondo attacco alla metropolitana di Londra, Hamdi Adus Issac, uno dei terroristi falliti, è stato arrestato a Roma. Dalle casse britanniche fra assegni di disoccupazione, appartamenti gratis, benefit per la moglie ed i figli riceveva oltre 32mila euro l'anno. Gli altri 4 componenti della cellula africana ottenevano in sussidi un totale superiore ad 84mila euro l'anno.
Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano del 16 novembre 2015, dopo la strage di Parigi la loro ferocia, la nostro viltà. Confesso che la strage di Parigi non mi ha affatto sorpreso. Sono uno dei tanti che guardano con realismo al conflitto tra l'Occidente e quello che chiamiamo lo Stato islamico. Una entità statuale con molti protagonisti, a cominciare dall' Isis, il Califfato nero. Non abbiamo di fronte soltanto un terrorismo di tipo nuovo, connotato da una ferocia che in altre epoche non si è rivelata in tutta la sua geometrica potenza. Siamo alle prese con una guerra che non abbiamo mai dichiarato, ma che i combattenti abituati ad andare all' assalto urlando «Allah è grande!», stanno da tempo conducendo contro di noi. Esiste una verità che è da suicidi fingere di non vedere. Gli islamici sono in vantaggio perché possiedono un'arma che noi non abbiamo: la ferocia, anche contro se stessi, come confermano i tanti kamikaze. Noi siamo sconfitti, almeno per ora. Poiché il nostro connotato è la viltà, con tutto quello che segue: le divisioni, le incertezze, le beghe fra stati, l'egoismo, la pavidità. L'arma numero uno del nuovo terrorismo è il fattore umano. E la sua determinazione di distruggerci, anche a prezzo di rimetterci la vita. L' ho compreso sino in fondo leggendo sulla Stampa del 12 novembre un lungo colloquio fra un jihadista quasi professionale e un giornalista che stimo molto. È Domenico Quirico, 64 anni, astigiano, un reporter, ma forse è meglio definirlo un inviato speciale di grande coraggio e forte esperienza. Tanti giovani colleghi forse lo riterranno un vecchio signore, senza rendersi conto che è un loro maestro. Abituato a inoltrarsi in territori che i media odierni osservano soltanto da lontano. Quirico l'ha fatto di continuo. È già stato sequestrato due volte: nel 2011 mentre tentava di arrivare a Tripoli e nel 2013 in Siria. In entrambi i casi, l'ha scampata, la seconda volta dopo una brutta detenzione durata cinque mesi. Perché quel suo articolo mi ha colpito? Perché ci mette di fronte a un problema dal quale possono dipendere le nostre vite. Lui scrive: «Ci sono professionisti della guerra santa che con la violenza stanno scardinando il mondo e che noi non conosciamo. Riempiono i giornali, le televisioni e la Rete, e non li conosciamo. Ci prepariamo a combatterli, forse, e non li conosciamo». Il jihadista che Quirico ha interrogato è un tunisino quarantenne, Abu Rahman che si è arruolato con Al Quaeda, prima in Iraq e adesso in Siria. Ha famiglia, un mestiere, il commerciante, ma il suo scopo esistenziale è combattere gli infedeli: «Uccido in nome di Dio, per dovere e non per scelta. Così aiuto i fratelli musulmani». Abu chiede a Quirico: «Vuoi sapere che cosa provo a uccidere? E se ricordo chi è il primo che ho ammazzato? È stato in Iraq, al tempo degli americani. Ho detto: grazie, Dio. Ti ringrazio perché hai guidato la mia mano». «Dopo quattro mesi trascorsi in Siria, sono passato con Al Nusra, gli uomini di Al Quaeda. Quelli sono i veri combattenti. I loro emiri sono grandi uomini. Guerrieri puri, i migliori, i più dotti nell' islam. La Siria è piena di gruppi di banditi, gente che dice di essere musulmana, ma in realtà cerca denaro e traffici. Non ci sono pensieri impuri in quelli di Al Nusra. Hanno molta forza, altrimenti non saprebbero reggere alle difficoltà della guerra santa». «La jihad è dura! Non c' era nulla da mangiare, spesso per giorni. Eravamo assediati, abbiamo mangiato l'erba come le bestie e i frutti verdi degli alberi. Uno di noi era un contadino e ha impiantato un piccolo orto. Per bere raccoglievamo l'acqua piovana. Faceva freddo su quelle montagne, le montagne dei curdi dannati, c' era un freddo da morire e noi non avevamo vesti pesanti. In tutto il villaggio esisteva un solo televisore. E quando non cadevano le bombe, noi si andava a vedere Al Jazeera». «Tu mi chiedi della jihad. Per me è un dovere. Non c' è scelta. La terra musulmana è in mano ai senza Dio, agli sciiti infami. Dobbiamo riprendercela. Per questo la guerra santa viene prima dei figli, del mangiare, della casa, del paese. Devi combattere gli sciiti con la parola, i soldi, le armi, le leggi. Morire, vivere… Parole! Ci sono mujaheddin che combattono da trent' anni e sono ancora vivi, altri che sono morti dopo un'ora. A decidere è Dio. Quello che voi occidentali non potete capire. Avete perso la voglia di combattere per la fede. La religione per voi funziona come per me il commercio». «Voi occidentali siete più forti per il denaro, i mezzi, le armi che possedete. Ma proprio per questo avete paura di morire. E volete vivere a tutti i costi. Noi no. Vedi la saggezza di Dio? Attraverso la debolezza, lui ci rende più forti di voi». «Sai perché sono venuto via dalla Siria e non sono rimasto lì a morire, come è successo al mio amico Adel Ben Mabrouk, una delle guardie del corpo di Bin Laden, sopravissuto a otto anni di carcere duro a Guatanamo? Perché è arrivato Isis, il Califfato nero. I loro capi non sono veri musulmani come siamo noi. Sono ex funzionari dei servizi segreti di Saddam Hussein o ex ufficiali dell'esercito iracheno. Non vogliono concorrenti. Ma se decidi di lasciarli, ti uccidono. I loro emiri non sanno nulla del Corano, sono ignoranti. Anche i combattenti dell'Isis sono giovani ignoranti, affascinati dalla loro propaganda». «Ecco perché sono venuto via dalla Siria. Non posso stare in un posto, e morire, dove i sunniti, la gente di Dio, combattono non contro gli sciiti e gli americani, ma tra di loro. Non so se tornerò, forse andrò da un'altra parte. Voglio combattere per far nascere un governo islamico in Siria. E dopo andremo a liberare la Palestina dai giudei. I russi ci bombardano? Che importa. Noi combattiamo per una fede, loro no. Per questo perderanno». Così parlava a Quirico Abu Rahman, guerrigliero o terrorista islamico. E noi occidentali, noi italiani siamo disposti a batterci? E per che cosa? Se penso all' Italia del 2015 mi sento tremare. Vedo nel mio paese un governo che non sa domare neppure i califfi di casa nostra. Guidato da un ceto politico che vuole soltanto accrescere il potere del proprio cerchio magico. Vedo il dilagare del menefreghismo, della corruzione, dell'evasione fiscale, dell'assenteismo. Vedo maestroni incapaci di trasmettere ai giovani un po' di moralità, di abnegazione, di rinunce. Vedo un territorio sfasciato, scuole che vanno in pezzi, città senza acqua potabile. Vedo finti statisti e aspiranti dittatori. Vedo montagne di promesse a vuoto. Vedo molta boria, e ras arroganti che spingono sulla scena battaglioni di cortigiani. Vedo penalizzare la competenza e mettere da parte l'esperienza onesta. Gli altri, quelli di Allah è grande, sono feroci. Hanno scatenato la guerra a Parigi. E prima o poi tenteranno di portare il terrore anche in Italia. Del resto, il Califfato nero l'ha già annunciato. Il loro obiettivo è di arrivare a Roma. Il Vaticano è un piatto prelibato che vogliono mangiarsi. Il vicino Giubileo della misericordia è una grande torta che attirerà nugoli di uccelli feroci. Il Vaticano di papa Bergoglio si affanna a inseguire chi ha ispirato due libri che ritiene degni di essere messi all' indice. Ma ben altro è il pericolo che minaccia San Pietro. Il vero rischio è di cadere nell'orrore scatenato a Parigi la sera di un tranquillo venerdì di novembre. Giampaolo Pansa
Magdi Allam su “Il Giornale” del 15 novembre 2015: L’invasione è già iniziata: la civiltà europea va difesa. Per fronteggiare il terrorismo islamico è necessario chiudere le moschee illegali, bloccare ai confini i clandestini e abrogare lo ius soli. Poi potenziare e addestrare le forze dell’ordine. Siamo in guerra. Parigi è stata trasformata in un campo di battaglia. Dopo toccherà a Roma. È una guerra scatenata dal terrorismo islamico, ormai autoctono ed endogeno. Una guerra intestina, europei musulmani contro europei miscredenti, che si consuma in Europa. Una guerra che registra il fallimento dello Stato, dei suoi servizi segreti e della magistratura, che non hanno saputo elaborare una strategia politica, prevenire e reprimere il terrorismo islamico. Una guerra dove in realtà il principale nemico da combattere siamo noi stessi, la nostra ingenuità, la nostra ignoranza, la nostra paura, il condizionamento degli interessi materiali, la collusione ideologica di una maggioranza che concepisce l’islam come una religione di pace e immagina i terroristi islamici come una scheggia impazzita che tradirebbe il «vero islam». Inevitabilmente il trauma prodotto da terroristi islamici che si fanno esplodere, che massacrano e che giustiziano uno ad uno i nemici dell’islam, ci costringe a prendere atto che siamo in guerra. Ma non abbiamo la lucidità intellettuale e il coraggio umano di affermare che i terroristi che perpetrano degli efferati crimini invocando «Allah è il più grande», sono i musulmani che più di altri dicono e fanno alla lettera e nella sua integralità quanto Allah ha prescritto nel Corano, quanto ha detto e ha fatto Maometto. Un attimo dopo aver toccato con mano le atrocità dei terroristi islamici archiviamo il fatto nei meandri impenetrabili della ragione.
Perché abbiamo paura di guardare in faccia la realtà. Quanti continueranno a occuparsi delle stragi di Parigi tra una settimana o dieci giorni? La verità è che temiamo di prendere atto che la radice del male è l’islam, ritenendo che dovremmo scontrarci con tutti i musulmani, moderati, integralisti e terroristi che, con modalità diverse, difendono la bontà dell’islam. Ebbene non si tratta di fare la guerra a un miliardo e mezzo di musulmani, ma di salvaguardare il nostro legittimo dovere, prima ancora che diritto, di difendere la nostra civiltà per essere pienamente noi stessi dentro casa nostra. Cosa dovremmo fare concretamente? Se fossi il ministro dell’Interno, nell’ambito della proclamazione dello stato d’emergenza indispensabile per fronteggiare la guerra del terrorismo islamico, attuerei immediatamente i seguenti provvedimenti:
1) chiudere le moschee illegali, a partire da quelle che sono registrate come centri culturali, le moschee e i siti jihadisti collusi con il terrorismo, che legittimano nel nome di Allah l’odio, la violenza e la morte nei confronti di ebrei, cristiani, atei, apostati, adulteri e omosessuali.
2) Bloccare le frontiere all’ingresso dei clandestini, che sono in stragrande maggioranza giovani musulmani che arrivano dalle coste libiche, filtrati dal terrorismo islamico, ponendo fine all’attività della criminalità organizzata straniera e italiana che lucra con il traffico e l’accoglienza dei clandestini. L’Italia non può continuare a essere l’unico Stato al mondo che legittima la clandestinità e che investe le proprie risorse per l’auto invasione di clandestini.
3) L’adeguamento delle Forze dell’ordine assumendo 40mila giovani che riequilibrino l’organico e consentano di abbassare l’età media che è di 45 anni; avviare un corso di formazione anti terrorismo per almeno 12mila agenti; l’ammodernamento delle armi e dei mezzi; l’aumento sostanziale delle retribuzioni che sono mediamente di 1.350 euro; la tutela giuridica che favorisca le forze dell’ordine nell’esercizio del loro dovere di garantire la sicurezza dei cittadini e la difesa delle istituzioni.
4) Abrogare lo ius soli e limitare la concessione della cittadinanza agli stranieri che abbiano dimostrato con i fatti di rispettare le leggi, di condividere i valori della sacralità della vita di tutti, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta compresa la libertà del musulmano di abiurare l’islam senza essere automaticamente condannato a morte per apostasia e, soprattutto, di operare concretamente per costruire un’Italia migliore.
Chiedo al ministro dell’Interno Alfano di smetterla di dirci che non ci sono riscontri dell’imminenza di attentati. Con questo terrorismo islamico microcellulare, dove 8 terroristi sono stati in grado di mettere a soqquadro la capitale di un importante Stato europeo, non ci saranno mai riscontri che consentano di prevenire gli attentati. Alfano deve ugualmente smetterla di fare proclami altisonanti per l’espulsione di singoli imam violenti. Sono la punta dell’iceberg, è una mera operazione mediatica. Solo scardinando l’iceberg, la filiera che attraverso il lavaggio di cervello trasforma le persone in robot della morte, potremo vincere la guerra del terrorismo islamico. È questa la specificità e la vera arma del terrorismo islamico. Oggi tutte le nostre istituzioni sono inadeguate a fronteggiare la guerra del terrorismo islamico. Dobbiamo cambiare. Fortificarci dentro. Subito. Quando conteremo i nostri morti sarà troppo tardi. Siamo in guerra. O combattiamo per vincere o saremo sconfitti e sottomessi all’islam.
FRANCIA: ALMENO SMETTIAMOLA CON LE CHIACCHIERE. Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l'Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell'aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali, scrive Fulvio Scaglione il 15 novembre 2015 su “Famiglia Cristiana”. E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze che indossava. Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente. Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’Europa. Quando l’Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’hanno richiamato all’ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità. Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’alleanza militare che rappresenta l’Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni. Nel frattempo l’Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’umanità”) è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia. Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’abbiamo riempito, con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia. Solo l’altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza. Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’Isis? E’ la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più.
Rondolino, rissa con Emergency: "Boicottiamola" e sul web si scatena la tempesta di insulti, scrive “Libero Quotidiano” il 15 novembre 2015. È scoppiata una rissa di tweet tra Fabrizio Rondolino, oggi collaboratore de l'Unità, e i sostenitori di Emergency. A onor del vero a cominciare è stato il giornalista del giornale Dem che su Twitter ha scritto: "Emergency è un'organizzazione politica antioccidentale mascherata da ospedale ambulante. Va isolata e boicottata". I sostenitori dell'associazione di Gino Strada ha voluto dimostrare a Rondolino tutta la propria stima per le opinioni diverse dalle proprie, così lo hanno devastato di insulti e minacce. Fino all'ultima, quella di farlo cacciare con una petizione dell'Unità. Tanto che lo stesso Rondolino ha scritto, con un tag a Cecilia Strada: "Per aver twittato l'ovvio (Emergency fa politica contro l'Occidente) da ieri i piccoli talebani di Cecilia Strada urlano di cacciarmi dall'Unità". La Strada è stata più volte tirata in ballo anche dai suoi stessi followers, ma è stata lei a snobbare la vicenda: "Ho cose più serie da fare".
Emergency fa cassa con i morti: chiede le eredità dei sostenitori. E nel bilancio Gino Strada può sorridere, scrive “Libero Quotidiano” il 3 marzo 2015. A Emergency fanno cassa anche sui morti. La nuova iniziativa dell'organizzazione sanitaria non governativa fondata nel 1994 da Gino Strada e operante in zone di guerra tra Africa e Medio Oriente, è una vera e propria campagna testamenti che punta su uno slogan ad effetto: "Guarda al futuro anche dopo di te". Come sottolinea il Giornale, la strategia (condivisa anche da altre aziende) è chiaro: invitare i sostenitori e i simpatizzanti a devolvere i loro lasciti ed eredità ad Emergency affinché "i tuoi valori possono continuare a vivere nel lavoro dei nostri medici e dei nostri infermieri". Iniziativa peraltro non nuova, visto che già nel 2013 Strada aveva lanciato il medesimo appello riscuotendo un grande successo. Tutti i numeri dell'azienda Strada - Nel 2013, anno dell'ultimo bilancio disponibile, Emergency ha incassato 31,2 milioni di euro, (2,4 in più rispetto al 2012), con risultato di esercizio di 3,4 milioni. Si è trattato della "raccolta fondi più alta di sempre", hanno fatto sapere da Emergency. Un incremento legato "principalmente alle maggiori entrate ricevute nell'anno dai contributi del 5 x 1000 (11 milioni, in aumento rispetto ai 10,7 del 2012, ndr), dai fondi istituzionali (governativi e non) e dai lasciti testamentari". Ecco, appunto, oltre alle donazioni e iniziative private (che hanno fruttato 10,2 milioni rispetto ai 9,9 del 2012) ci sono i lasciti, che hanno fatto guadagnare a Strada e compagni 1,9 milioni di euro (il 30,5% in più rispetto agli 1,4 del 2012). Parallelamente, i testamenti sono cresciuti come incidenza sugli incassi, rappresentandone nel 2013 il 6,03% contro il 5% del 2012.
Cecilia Strada: "Pago le tasse, perchè dovrei ospitare a casa un immigrato?" Scrive “Libero Quotidiano” il 14 giugno 2015. In questi giorni di emergenza immigrati, in molti sui social network devono averle chiesto, magari in modo provocatorio, come mai lei non ospitava un profugo a casa sua. Per via del padre Gino, che di aiuto ai profughi ha fatto una missione nella vita e una professione. Figura "ingombrante", un padre così. E forse per questo oggi Cecilia Strada, la figlia del fondatore di Emergency, ha voluto replicare: "Risposta collettiva per tutti quelli che 'perché non ospiti i profughi a casa tua, eh?' ha esordito la figlia di Gino Strada sul suo profilo Facebook. "E perché dovrei? Vivo in una società e pago le tasse. Pago le tasse così non devo allestire una sala operatoria in cucina quando mia madre sta male. Pago le tasse e non devo costruire una scuola in ripostiglio per dare un'istruzione ai miei figli". E continua: "Pago le tasse e non mi compro un'autobotte per spegnere gli incendi. E pago le tasse per aiutare chi ha bisogno. Ospitare un profugo in casa è gentilezza, carità. Creare - con le mie tasse - un sistema di accoglienza dignitoso è giustizia. Mi piace la gentilezza, ma preferisco la giustizia".
La Francia e la guerra: Nostradamus aveva predetto tutto. Ecco le sue parole. "La grande guerra inizierà in Francia e poi tutta l’Europa sarà colpita, lunga e terribile essa sarà per tutti… poi finalmente verrà la pace ma in pochi ne potranno godere". Così parlò Nostradamus nel suo libro, e l'eco sinistra di quelle parole si sovrappone alle immagini tremende degli eccidi di Parigi di venerdì scorso. Secondo un altro passo del volume Le Profezie, il libro più famoso astrologo francese, attivo nel 1500, ecco cosa succede: "Ci saranno tanti cavalli dei cosacchi (popolazioni nomade tartare che abitavano nelle steppe russe) che berranno nelle fontane di Roma". Non solo: "…Roma sparirà e il fuoco cadrà dal cielo e distruggerà tre città. Tutto si crederà perduto e non si vedranno che omicidi; non si sentirà che rumori di armi e bestemmie. I giusti soffriranno molto. (…) Roma perderà la fede e diventerà il seggio dell’Anticristo. I demoni dell’aria, con l’Anticristo, faranno dei grandi prodigi sulla terra e nell’aria e gli uomini si pervertiranno sempre di più…"
Dialogo con un mussulmano in Italia.
«Perché tu sei così radicale?
Perché non abiti in Arabia Saudita???
Perché hai abbandonato già il tuo Paese musulmano?
Voi lasciate Paesi da voi definiti benedette da Dio con la grazia dell’Islam e immigrate verso Paesi da voi definiti puniti da Dio con l’infedeltà.
Emigrate per la libertà …
per la giustizia …
per il benessere …
per l’assistenza sanitaria ...
per la tutela sociale …
per l’uguaglianza davanti alla legge …
per le giuste opportunità di lavoro …
per il futuro dei vostri figli …
per la libertà di espressione ...
quindi non parlate con noi con odio e razzismo ...
Noi vi abbiamo dato quello che non avete …
Ci rispettate e rispettate la nostra volontà, altrimenti andate via».
Qualcuno afferma che queste frasi le abbia pronunciate Julia Gillard (primo ministro australiano) ed abbia rilasciato queste affermazioni nel 2005 rivolgendosi ad un Islamista radicale estremista in Australia.
Qualcun altro decreta che sia una bufala e che Julia Gillard non abbia mai proferito quelle frasi.
Se nessuno fino ad oggi ha dato paternità a queste frasi, allora dico: sono mie!
Vittorio Sgarbi: "Come il Nazismo e noi siamo gli ebrei". Puntata molto accesa, quella del 15 novembre 2015, a Domenica Live. Barbara d'Urso dedica l'intera puntata al terrorismo dell'Isis e agli attacchi a Parigi. Sono ospiti, tra gli altri, Matteo Salvini, Magdi Allam e Vittorio Sgarbi. Quest'ultimo, dopo che la d'Urso dice "pace, pace, pace", attacca: "La religione islamica è intollerante, vuole che tutto il mondo sia convertito. L'Islam non ha in sè il male ma vuole solo Allah. Hanno lo stesso atteggiamento di Hitler con gli ebrei, e noi siamo gli ebrei". E ancora: "Da 40 anni Israele si difende con la forza. Oggi tutta l'Europa è come Israele che deve difendersi. Gesù non ha mai ucciso. Maometto ha ucciso, ha sterminato, io non sono un uomo di Maometto". La d'Urso non gradisce le frasi di Sgarbi e commenta: "Non sono musulmani quelli che hanno attaccato, lo capisci questo?". E dice: "Basta bombe, basta bombe, basta bombe".
NEL CORANO LE RADICI DEL MALE.
Niente paura, leggete il Corano Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam Lunedì 02/03/2015 su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.
Magdi Allam alla libreria Postumia di Piacenza ha presentato nel tardo pomeriggio del 13 novembre 2015 il suo ultimo libro "Siamo in guerra. L'Islam non è una religione moderata". Solo poche ore dopo, alle 21.30, Parigi era sotto attacco dell'Isis. In tutto 128 i morti e centinaia i feriti, scrive Renato Passerini il 14 Novembre 2015 su “Il Piacenza”. Magdi Allam alla libreria Postumia di Piacenza ha presentato nel tardo pomeriggio del 13 novembre il suo ultimo libro "Siamo in guerra. L'Islam non è una religione moderata". Solo poche ore dopo, alle 21.30 Parigi era sotto attacco dell'Isis. In tutto 128 i morti e centinaia i feriti. L'ultima fatica dello giornalista scrittore inviso ai musulmani per ciò che da anni sostiene, edito da Il Giornale e distribuito da Mdf, è stato presentato in città dopo una breve introduzione di Maurizio Dossena. Allam in questo saggio sociopolitico non concede nulla al buonismo di maniera e alla voglia di rassicurazione. La sua analisi sull’attacco dell’Islamismo alla nostra civiltà si sviluppa su 290 pagine con titoli rivelatori quali “La terza guerra mondiale, ’Islam è fisiologicamente violento, Il suicidio dell’Occidente che odia se stesso, L’Islamizzazione demografica, La resa della chiesa all’Islam”. Nel suo percorso di critica radicale indica l’Islam quale responsabile di avere scatenato la Terza guerra mondiale e instaurato un clima di terrore e sottomissione. È fondamentale riconoscere che c’è un solo Islam e che legittima l’odio, la violenza e la morte contro i “miscredenti”, ovvero tutti i non musulmani. Anche i sedicenti musulmani “moderati” perseguono l’obiettivo di sottometterci costruendo delle roccaforti Islamiche dentro casa nostra - ha insistito richiamando anche i recenti fatti di Merano crocevia di aspiranti jihadisti - attraverso il riconoscimento dell’Islam come religione di pari valore del Cristianesimo, la diffusione delle moschee, il condizionamento della finanza Islamica, l’Islamizzazione demografica, l’invasione di clandestini musulmani, la codificazione del reato di Islamofobia. L’Italia non ha una presenza Islamica di entità pari a quella che c’è in Francia o in Gran Bretagna, ma è egualmente a rischio. Rimane, nel nostro, come in altri Paesi europei, un problema fondamentale di compatibilità tra culture finché i musulmani non cominceranno a fare riferimento, non solo al Corano, ma anche al valore della laicità dello Stato che è a fondamento della nostra società. L’Occidente ha follemente scatenato le guerre in Iraq, Libia e Siria, per rimuovere dei regimi laici e sostituirli con delle dittature Islamiche, ora vede l’Europa invasa da centinaia di migliaia di clandestini, in gran parte musulmani. Gli abitanti dei 29 Paesi membri dell'Unione Europea sono circa 500 milioni e solo il 16 per cento, pari a 80 milioni di abitanti, hanno meno di 30 anni. Viceversa su circa 500 milioni di abitanti della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo (sommando le popolazioni dei 22 Stati arabofoni più quelle della Turchia e dell'Iran) ben il 70 per cento ha meno di 30 anni, pari a 350 milioni di abitanti. Quando si mettono su un piatto della bilancia 80 milioni di giovani europei, cristiani in crisi d'identità con una consistente minoranza musulmana, e sull'altro 350 milioni di giovani mediorientali, al 99 per cento musulmani, convinti che l'Islam è l'unica «vera religione» che deve affermarsi ovunque nel mondo, il risultato indubbio è che gli europei sono destinati ad essere sopraffatti demograficamente e colonizzati ideologicamente dagli Islamici. A un certo punto i musulmani non avranno più bisogno di farci la guerra o ricorrere al terrorismo. Potranno sottometterci all'Islam limitandosi ad osservare le regole formali della nostra democrazia, che premia il soggetto politico più organizzato e influente, in grado di condizionare e di accaparrare il consenso della maggioranza, astenendosi dall'entrare nel merito dei contenuti delle ideologie e delle religioni, soprattutto dell'Islam. L’Italia è l’unico stato al mondo che ha legittimato la clandestinità e con le missioni nel Mediterraneo ed è l’unico stato che promuove l’autoinvasione, dando privilegi agli immigrati e li neghiamo agli italiani. Se perdiamo in controllo del territorio, cessiamo di essere padroni in casa nostra. La conclusione di Allam: dobbiamo scegliere se vogliamo combattere per difendere le nostre libertà, essere padroni in casa nostra, essere consapevoli che, o si combatte per vincere, o finiremo sottomessi all’Islam. Magdi Cristiano Allam è nato al Cairo nel 1952 ed è cittadino italiano dal 1986. Da musulmano, per 56 anni, ha creduto in un “Islam moderato”, fino a quando non è stato condannato a morte sia dai terroristi Islamici sia dai “musulmani moderati”. Nel 2008 si è convertito al cattolicesimo e nel 2013 si è dissociato dalla Chiesa per la sua legittimazione dell’Islam. È editorialista del Giornale e autore di libri di successo sul terrorismo Islamico. È stato il primo giornalista a subire un procedimento disciplinare per “Islamofobia” da parte dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e a vincerlo, facendo trionfare il principio che è lecito criticare l’Islam.
Dobbiamo chiamarlo Stato Islamico, Isis o Daesh? L’Occidente non ha deciso come combatterlo, ma neanche come nominarlo. Dall’appellativo che gli diamo, dipende anche il ruolo che gli riconosciamo, scrive Francesco Zaffarano su “La Stampa” il 16/11/2015. L’Occidente non ha ancora deciso come combatterlo, ma se è per questo non sa neanche come chiamarlo. Sulle pagine di questo giornale abbiamo sempre usato il termine Isis, ma questa fetta di radicalismo islamico non ha un solo nome. Scegliere come chiamarlo non è un aspetto superfluo: saper dare un nome alle cose è il primo passo per capirle. La disputa, in questo caso, è tra chi lo chiama Stato Islamico e chi preferisce il termine Daesh. Nel primo gruppo c’era il Dipartimento di Stato americano, che dal 2014 ha deciso di usare Islamic State of Iraq and the Levant (Isil) come nome del gruppo; nel secondo, tra gli altri, c’è il presidente Francois Hollande, che ha usato il termine Daesh parlando dei responsabili degli attentati di Parigi. Barack Obama ha sempre utilizzato il primo nome: da qualche giorno, invece, il segretario di stato John Kerry ha iniziato ad usare il termine Daesh.
STATO ISLAMICO. Quando parliamo di Stato Islamico (vale anche per le varianti Is, Isis, Isil) ci riferiamo a uno Stato a tutti gli effetti, come almeno pretende di essere quello guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il cosiddetto Isis, un tempo, era una sezione irachena di al-Qaida, diventata poi Stato Islamico in Iraq, Stato Islamico dell’Iraq e della Siria e, infine, autoproclamatasi Stato Islamico. L’appiattimento del nome fino ad arrivare al semplice Stato Islamico è semplicemente un tentativo di rimuovere le particolarità geografiche, fornendo una sola entità Stato. Basti pensare che un altro modo per indicare lo Stato Islamico è al-Dawla, letteralmente «Lo Stato». Peccato che questo Stato non abbia dei veri e propri confini omogenei, né un territorio unito. Non a caso, i nomi precedenti all’autoproclamazione voluta da Abu Bakr al-Baghdadi nel 2014 comprendono specifiche aree geografiche, come Stato Islamico in Iraq e al-Sham (termine arabo che si può tradurre con Grande Siria) o come quel Isil in cui la “L” sta per Levante, cioè potenzialmente anche i territori di Israele, Palestina, Giordania e Libano.
DAESH. Come Isis, anche Daesh è un acronimo: significa al-Dawla al-Islāmiyya fī ʿIrāq wa l-Shām, cioè “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, o “della Grande Siria”. Apparentemente il significato è lo stesso ma l’accezione attribuita a Daesh (oDāʿish, per essere precisi) è spesso dispregiativa, perché somiglia a un altro termine arabo che significa «portatore di discordia». Secondo il The Guardian , addirittura, la Francia avrebbe preferito il termine Daesh perché simile al francese dèche, cioè «rompere». Che il termine sia disprezzato dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi è confermato anche dalle testimonianze di chi racconta di punizioni corporali per chi utilizza pubblicamente il nome Daesh.
MA QUINDI? Decidere tra Stato Islamico e Daesh significa dare forma a quella realtà. Praticamente tutte le testate giornalistiche optano per Isis, per una questione di semplicità e di uniformità. Ma a suggerire una risposta, dopo gli attentati del 13 novembre, è stato Enrico Letta, ex premier italiano e attuale direttore dell’Istituto di studi politici di Parigi. Letta: «Smettiamola di chiamarlo Stato Islamico, sono terroristi e come tali vanno trattati #Daesh».
Un nemico, tanti nomi. Era Isis, adesso è Daesh. Ecco perché Hollande e Obama preferiscono usare un'altra definizione per lo Stato islamico, scrive Andrea Cuomo Venerdì 20/11/2015 su “Il Giornale”. Non esistono più i nemici di una volta. Per dire: i nazisti o i comunisti. Un bel nome definito, da scolpire nel marmo dell'odio e del disprezzo, da pronunciare trattenendo il fiato. Ora invece chi ci uccide e ci minaccia, come si chiama? Is, Isis o Daesh? Sono la stessa cosa o sono cose diverse? Abbiamo o non il diritto di saperlo? La questione non è di lana caprina. Dare il nome alle cose è il primo passo per identificarle e conoscerle. E conoscerle serve quindi, magari, combatterle. Il fatto che i terroristi islamici cambino ragione sociale in continuazione come fossero una pizzeria di quartiere o una ditta ci spiazza e ci smarrisce, non ci dà punti di riferimento, rende tutto più oscuro, più minaccioso. Facciamo chiarezza. La nuova definizione con cui stiamo appena prendendo confidenza è Daesh. L'hanno usata il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian all'indomani dgli assalti di Parigi, lo stesso presidente francese François Hollande, il segretario di stato Usa John Kerry, perfino il presidente americano Barack Obama. Tutti si riferivano a quella entità che fino a ieri eravamo abituati a chiamare Isis. Anche Daesh è una sigla: riassume in una parola spendibile nei titoli (e con qualche aggiustamento nella traduzione e nella traslitterazione) la formula araba al Dawla al Islamiya fi al Iraq wa al Sham. Che vuol dire «Stato islamico dell'Irak e del Levante», locuzione quest'ultima che si ricollega al toponimo che veniva usato un tempo per indicare quella regione chiamata anche grande Siria e che comprende il Sud Est della Turchia, la Siria, la Giordania, la palestina, Israele e il Libano. Un retaggio coloniale che contiene peraltro un ulteriore sfregio per l'islam in arme. Non molto diverso da Isis, sigla questa volta inglese della locuzione «Stato islamico dell'Irak e della Siria». e allora perché Daesh? Per due ragioni: perché adottare una sigla di una frase in arabo rende meno «agibile» il concetto di Stato islamico, un po' come prendere le distanze da una definizione che, in quanto tale, può sembrare una legittimazione. E poi perché Daesh ha un suono che, per gli arabi, richiama il concetto di distruzione, calpestìo, sbattere contro qualcosa. Un po' come chiamare qualcosa «Crash». E si sa, dare un brutto nome a qualcosa è già quasi come condannarla alla «damnatio memoriae». Non è un caso che, come ha riferito l'Associated Press, a Mosul, città siriana controllata dall'Isis (o comunque vogliamo chiamare i simpatici seguaci del Califfo) alcuni miliziani avrebbero minacciato di tagliare la lingua a quanti usino la parola Daesh in riferimento allo Stato islamico. Adotteremo anche noi in Italia questo disprezzo onomastico? Ci proveremo, forse. Ma con un po' di rammarico. Si sa, noi siamo abitudinari. C'eravamo appena abituati all'Isis, e alcuni di noi già si sgomentano quando sui giornali leggiamo la sigla accorciata Is, quella in cui scompare ogni riferimento geografico. Sigla peraltro prediletta dai tagliagole, che vedono così esaltato l'aspetto istituzionale della loro esistenza.A complicare tutto esistono poi altre sigle. Ad esempio Isil, usata da molti giornati americani, che altro non è che la traduzione inglese di «Stato islamico dell'Irak e del Levante». Poi c'è Sid: Stato islamico del Califfato, scelto in alcune occasione dai jihadisti per definirsi. E poi ecco comparire Nins, una sigla acronimo di «Not Islamic not State» (traduzione: non-Stato-non-islamico»), scelta negazionista fatta da Ban Ki-moon, segretario generale dell'Onu, che per la verità non ha conosciuto alcuna fortuna. Anzi, ha finito per generare ulteriore confusione.
Lettera sull'Islam a Oriana Fallaci di Magdi Allam prima della sua conversione al cristianesimo. «La tesi secondo cui esisterebbe solo un islamismo integralista fa in realtà il gioco dei terroristi. I fermenti democratici in Medio Oriente dimostrano che quelli come me non sono minoranza».
Per la prima volta Magdi Allam racconta se stesso, musulmano laico nato e cresciuto nell'Egitto di Nasser ed emigrato in Italia nel 1972: "Partendo dal mio vissuto posso testimoniare che soltanto quarant'anni fa la situazione in Medio Oriente era radicalmente diversa. La società e le istituzioni erano laiche. La cultura dell'odio e della morte, che l'Occidente oggi associa ai musulmani, non è nel Dna dell'islam". Allam, in questo libro, ha deciso di togliersi tutti i "sassolini", denunciando apertamente sia gli integralisti che l'hanno condannato come "nemico dell'islam", sia i loro complici occidentali che alimentano uno scenario di scontro e di odio. Una testimonianza forte, sofferta, estrema. Di Magdi Allam. Il 31 maggio 2006 arriva in libreria “Vincere la paura” di Magdi Allam (Mondadori). Panorama ne anticipa un capitolo. "Cara Oriana, finora mi sono sempre astenuto, sotto l'impulso di un rispetto reverenziale che nutro nei confronti delle persone a cui ho voluto bene e che ho stimato, dal formulare dei giudizi netti sulle tue idee sull'Islam e sui musulmani che, piacciano o no, meritano la massima attenzione perché hanno plasmato il sentimento e forgiato il pensiero di milioni di italiani. Ma non avrei potuto esimermi dal farlo qui e ora, mentre mi accingo a scrivere sulla paura dell'Islam, dei musulmani e della loro eterogenea quinta colonna insediata anche in Occidente, una paura di cui il mio animo tracima, che domina la mia mente, che condiziona pesantemente la mia vita, che pervade e viola come un cancro inguaribile e inarrestabile l'esistenza di gran parte dell'umanità contemporanea. (...) Sono convinto che hai svolto un ruolo straordinario nel contribuire a formare un sentimento di riscossa civile e di orgoglio nazionale nell'era della guerra globale del terrorismo islamico, dell'ideologismo nichilista all'insegna dell'antiamericanismo e dell'antiebraismo, del pacifismo militante, pregiudiziale, egoistico e perfino violento, dell'Italia in preda ai teatranti della politica. In qualche modo hai suonato forte il campanello d'allarme facendoti interprete di una necessità collettiva che si sprigiona da un profondo malessere di cui i più sono incapaci di decifrare le cause e individuare la via d'uscita. Ti sei assunta il ruolo dell'avanguardia rivoluzionaria che sprona le masse a ribellarsi alle forze del male, a prendere nelle proprie mani il proprio destino, ammonendo contro le tragiche conseguenze di un eventuale cedimento. Ti sei offerta fino in fondo agli italiani e molti di loro l'hanno capito, hanno contraccambiato con sincero affetto e ti hanno manifestato una immensa gratitudine. (...) Sono felice di averti conosciuta. Mi sono sentito colmo d'orgoglio quando mi hai cercato telefonicamente nell'estate del 2003, mentre eri immersa nella scrittura di La forza della ragione, per chiedermi ragguagli e dibattere sulla tematica dell'integralismo e del terrorismo islamico, partendo dai miei articoli pubblicati prima sulla Repubblica e poi sul Corriere della sera. Eri discreta, tenera, piena di premure nei miei confronti. (Continua)Mi sono commosso leggendo i tuoi affettuosissimi messaggi che talvolta suonavano come un «testamento» di stima e amicizia eterna: «Davvero, quando avrò (bene o male) concluso questo lavoretto, la primissima copia sarà per te. Più ti leggo, più ci penso, più concludo che sei l'unico su cui dall'alto dei cieli o meglio dai gironi dell'inferno potrò contare. (Bada che t'infliggo una grossa responsabilità)». L'ho considerato un attestato di simbiosi spirituale e intellettuale che conserverò nel mio cuore. Ti ho voluto veramente bene, ti ho abbracciata intensamente, ti ho accolta pienamente nel mio animo. Ma, cara Oriana, io sono costretto a fermarmi qui. Non potrei, come immaginano di fare taluni, andare oltre. Passando dal risentimento all'odio, dallo sdegno alla mobilitazione, dalla denuncia alla ribellione, dalle parole ai fatti. Perché significherebbe suicidarmi. Come potrei scagliarmi contro l'Islam che mi ha generato, che volente o nolente rappresenta il mio riferimento identitario, immaginandolo come il Male incontrovertibile e irrecuperabile? Come potrei infierire contro me stesso, io che sono musulmano, percependomi come figlio naturale e degenere del Male? Sai bene che non condivido la tesi dell'Islam come blocco monolitico, con un'anima integralista e che permane immutato nel tempo. All'opposto sono convinto che l'Islam, e ancor più i musulmani come persone, sono realtà che si coniugano al plurale sul piano della fede, dell'ideologia, della politica, della cultura, delle tradizioni nazionali e del vissuto individuale che, pur nella similitudine, assicura l'unicità del singolo. Amorevolmente, nella breve stagione in cui ci siamo incontrati, conosciuti, voluti bene e reciprocamente stimati, tu mi hai offerto una via d'uscita, hai individuato per me la porta della salvezza: «Tu sei un laico, tu non sei un vero musulmano». Una possibilità di redenzione dal Male di cui potrebbe fruire una minoranza di eletti, personalità straordinarie che si riscattano grazie alla fortunosa concomitanza di virtù personali e circostanze ambientali. Cara Oriana, non capisci che in realtà mi hai offerto una mela avvelenata? Che dalla porta che mi spalanchi si intravedono non la Luce e la Vita, bensì il Buio e la Morte? Al di là delle buone e amorevoli intenzioni che ti inducono a concedermi la grazia, il tuo ragionamento finisce per risultare simmetrico a quello degli integralisti islamici che mi hanno condannato a morte e dei terroristi islamici che mi danno la caccia. Anche loro dicono: «Magdi Allam non è un vero musulmano». E mentre tu aggiungi con tono positivo e con una finalità costruttiva: «Tu sei un laico e hai diritto di cittadinanza nella comune civiltà dell'uomo» loro sentenziano con tono negativo e con una finalità distruttiva: «È un apostata che merita la morte per ordine di Allah», «È un nemico dell'Islam che va eliminato e spedito all'inferno». La simmetria del ragionamento risiede nel fatto che, sia tu sia i nostri nemici, intendo i miei ma anche i tuoi nemici perché siamo comunque sulla stessa barca, partite da una ideologia ammantata di religione anziché dal vissuto della persona. Immaginate che il musulmano sarebbe una sorta di clone prodotto in serie in modo automatico e acritico da una interpretazione ideologica dell'Islam assurta a Verità assoluta, universale ed eterna. Di fatto la vostra percezione dell'Islam e dei musulmani cancella la realtà storica di secoli di civiltà islamica, umana, prospera e costruttiva, nega la più recente realtà di stati nazionali musulmani moderni, così come sconfessa la realtà del vissuto di masse di musulmani che per millenni sono stati sostanzialmente laici. Ma ti rendi conto cara Oriana che la tesi secondo cui esisterebbe un solo Islam o comunque un solo modo di interpretare il Corano e secondo cui, quindi, i veri fedeli sarebbero solo gli integralisti e gli estremisti islamici, mentre i non praticanti, i moderati, i laici, gli agnostici sarebbero dei falsi musulmani, si traduce nella mia condanna a morte? Certamente nel mio ostracismo identitario e civile che comunque farebbe di me un dead man walking, un morto vivente? Nella versione più edulcorata io sarei un orfano, un figlio di nessuno rimasto senza radici; nella versione più infamante sarei un rinnegato, un traditore che ha sconfessato la propria fede. Il punto è che non si tratta affatto di un caso personale e singolo. Bensì della realtà della maggioranza dei musulmani che probabilmente in modo non sempre cosciente, esplicito e libero testimonia un vissuto sostanzialmente laico. Pensa agli straordinari fermenti di democrazia liberale e laica che si registrano in Medio Oriente, dall'Iraq al Marocco, che smentiscono il luogo comune sull'Islam e il pregiudizio sui musulmani che li vuole incompatibili con il sistema di valori fondanti della civiltà occidentale. Che vogliamo fare di questa maggioranza di musulmani che non corrisponde in tutto e per tutto al cliché dell'integralista e dell'estremista islamico? Vogliamo costringere 1 miliardo 300 milioni di musulmani a rinnegare la loro fede in Allah e nel profeta Mohammad, magari per diventare cristiani o, perché no, atei? Vogliamo dichiarare guerra a un quinto dell'umanità perché sarebbe geneticamente ostile e irrimediabilmente perso? Vogliamo massacrarli in massa come hanno fatto i terroristi islamici in Algeria e come vorrebbero fare in Iraq? (Continua)Comprendi che questa visione manichea, che non ammette un «Islam buono» ed esclude «un vero musulmano buono», finisce per fare il gioco di Osama Bin Laden che nella sua perfidia e follia si è arrogato il ruolo di novello califfo dell'Islam e ha diviso l'umanità in musulmani veri e miscredenti? Mettiti nei panni della maggioranza di musulmani: da un lato sono fisicamente aggrediti dai kamikaze e dai tagliatori di teste islamici, così come sono costretti a subire il lavaggio di cervello dell'ideologismo comunque nichilista dei regimi teocratici e autocratici al potere; dall'altro si sentono additati in modo indistinto e acritico come il nemico e il pericolo mortale per l'umanità dal resto del mondo. Ebbene cosa dovrebbe fare questa maggioranza di musulmani: stare inerte in mezzo a due fuochi fino alla sua totale eliminazione? (...) Tu stessa, nella tua recente opera L'Apocalisse, ammetti l'esistenza di una «minoranza esigua» di musulmani moderati, tra cui citi Abdel Rahman al-Rashed, direttore della televisione di sole news Al Arabiya, perché in un coraggioso editoriale pubblicato sul quotidiano saudita Asharq Al-Awsat ha denunciato il fatto che «anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte (e non “tutti”) dei terroristi sono musulmani». Ebbene ti invito a riflettere sul fatto che al-Rashed, che leggo avidamente tutti i giorni e come me fanno tantissimi arabofoni, scrive in lingua araba, pubblica su un quotidiano arabo, è letto da un pubblico arabo, è stato scelto come miglior giornalista arabo dalle masse arabe. Al-Rashed non è insomma un pesce fuor d'acqua, perché diversamente non potrebbe godere del prestigio e dell'ampio seguito che si è conquistato. Casomai è la punta di un iceberg di una immensa voglia di libertà e di civiltà umana che lentamente trapela, si intravede e si afferma tra le maglie dell'oppressione politica e dell'oscurantismo ideologico a cui per troppo tempo sono stati costretti i popoli musulmani. Se oggi Al Arabiya, schierandosi apertamente a favore dei popoli iracheno e libanese in lotta contro il terrorismo e per la libertà, ha superato il record di ascolti di Al Jazeera, che è diventata il megafono dell'estremismo islamico e dell'oltranzismo ideologico, la lezione da trarre è che il direttore al-Rashed ha avuto l'intelligenza e il coraggio di far emergere ciò che cova nell'animo e nella mente delle masse, rappresentando mediaticamente la realtà ideale e politica della maggioranza dei musulmani. Al-Rashed non è come tu immagini l'esponente di una «minoranza esigua» di musulmani moderati, addirittura «non un vero musulmano (il corsivo è mio), un tipo come me, un fuorilegge, un eretico»; all'opposto egli è l'interprete e il precursore della maggioranza di musulmani moderati. La verità è che ti sei innamorata del personaggio di al-Rashed, così come era successo anche con me. Ma non ho dubbi che il tuo idillio con l'uomo al-Rashed non andrebbe oltre l'effimero battito d'ali di una farfalla, così come è successo con me. Perché tu semplicemente non ti confronti, non sei interessata a confrontarti su un piede di parità con le persone in carne e ossa, nella loro dimensione globale e nel loro processo di continua evoluzione. Il mondo è fatto di persone, nella vita ci si confronta con persone. Il risultato è che tu non conosci correttamente l'ampia e complessa realtà odierna del vissuto dei musulmani. (Continua)Comunque dovresti sapere che non è sufficiente fare copia e incolla dalle pagine dei giornali, condendo il tutto con sarcasmi e malignità, per rappresentare onestamente la realtà di tanti esseri umani in carne e ossa. E in ogni caso dovresti quantomeno porti il problema delle conseguenze concrete che le tue parole potrebbero avere sulla vita dei tuoi tanti affezionati lettori e dei non pochi bersagli designati. Ci vorrà sicuramente del tempo. Il parto della democrazia liberale in terra islamica non sarà né rapido né indolore. Ci sono tante forze ostili, annidate anche in seno all'Occidente, che vorrebbero arrestare e far fallire il processo dei musulmani verso la libertà e la civiltà umana. In questo difficile contesto storico, i giornalisti e gli intellettuali musulmani laici e liberali sono nell'occhio del mirino degli integralisti, dei terroristi islamici e dei loro complici. Ecco perché cara Oriana io mi attenderei da te e da tutti i sinceri amici la massima solidarietà. Non le malcelate critiche e gli irriguardosi sarcasmi che mi hai riservato nella tua Apocalisse, senza avere il coraggio di chiamarmi con nome e cognome. Io che ho già collezionato una serie di minacce e di condanne a morte, da parte dei terroristi islamici e della loro quinta colonna, e che ciononostante continuo a stare in mezzo alla gente e non mi sottraggo al dialogo e al confronto, non ho alcuna remora a dirti in faccia per filo e per segno che cosa penso di te nel bene e nel male. Quando il tuo discorso scivola nel qualunquismo, spoglio di un contesto etico, quando arrivi a immaginare che solo tu capisci e sei legittimata a emettere sentenze, mentre tutti gli altri, indistintamente, sarebbero degli sciocchi, degli ingenui, dei buffoni, dei traditori, dei demoni, allora tutto si riduce a un cumulo di parole vane, più o meno sarcastiche, più o meno lecite, più o meno dannose. Permettimi di aggiungere che c'è una bella differenza tra l'elaborazione di un pensiero astratto che vaga dalle pagine di un giornale o di un libro all'altro (parole ammirevoli e altisonanti che si confrontano e si ritengono appagate dal riferimento a parametri logici, culturali e religiosi che appartengono alla nostra civiltà, intendo la comune civiltà dell'uomo incentrata sul rispetto del valore della sacralità della vita di tutti) e il vissuto di una persona musulmana perbene, che è costretta volente o nolente a confrontarsi con altre persone musulmane tutt'altro che perbene, cresciute in contesti assai diversi, portatrici di altri parametri spesso illogici, fautrici di un ideologismo che esalta la cultura della morte. So bene che fino a quando la salute te l'ha permesso, e ti auguro di cuore di averne ancora tanta, sei stata in prima fila nei fronti caldi delle crisi internazionali. Anch'io ho apprezzato e imparato dalle tue molteplici testimonianze, pur esercitando il legittimo diritto alla critica. Tuttavia un conto è prestarsi pro tempore per adempiere la nobile missione di osservatore e commentatore dei grandi eventi che segnano il nostro tempo, anche rischiando in prima persona ma riservandosi sempre la facoltà di tirarsi fuori quando lo si ritiene opportuno, e un conto è essere dentro uno specifico contesto di conflitto religioso, politico, ideologico e terroristico senza avere la possibilità di sottrarvisi. Perché vedi cara Oriana io non sono un visitatore esterno, casuale, provvisorio della realtà dell'integralismo e del terrorismo islamico, bensì un protagonista impegnato, come giornalista e come uomo, a testimoniare gli orrori della cultura dell'odio e della morte, a favorire l'affermazione della comune civiltà dell'uomo anche, ma non solo, tra i popoli e le comunità musulmane. Il mio pegno non è la penna ma tutto me stesso, in gioco non c'è la carriera professionale ma la mia vita.
Magdi Cristiano Allam: "Rovinato da giudici e islamici, mi vogliono muto", scrive "Libero Quotidiano" il 29 luglio 2015. Lui la chiama "Jihad by Court", guerra santa in tribunale. Lui è Magdi Cristiano Allam, che è stato rovinato dai tribunali. Negli ultimi giorni l'ultima condanna per diffamazione, per le toghe avvenuta nel corso della trasmissione Porta a Porta e nei confronti del presidente dell'Unione comunità islamiche d'Italia (Ucoi), Ezzedinz Elizr. Una condanna in primo grado, che però lo costringe a pagare, subito, 18mila euro. Così, negli ultimi tre anni, il totale sale a 70mila euro per cause civili. "Sono vittima della persecuzione giudiziaria da parte degli estremisti islamici taglia-lingue - spiega Allam -, coloro che ti condannano se dici, scrivi o fai qualcosa che urta la loro suscettibilità, che si scontra con la loro strategia di islamizzazione subdola, strisciante e inarrestabile dell'Italia e dell'Europa". La storia - Allam ha abbandonato la fede islamica a 56 anni, quando nel 2008 si è convertito al cattolicesimo. Quindici anni fa è entrato nel mirino dell'islam, attirandosi anche una condanna a morte firmata da Hamas. Nel suo passato è stato inviato de La Repubblica, vicedirettore del Corriere della Sera e parlamentare europeo dell'Udc, e oggi è editorialista de Il Giornale. Nel corso della sua battaglia contro l'estremismo islamico si è attirato minacce di morte e denunce. Spiega sempre Allam: "Prima erano denunce penali, ora solo civili. Per loro sono un nemico da eliminare in quanto apostata e traditore. L'arma prediletta è il denaro: ti denunciano per farti pagare più possibile fino a costringerti alla resa, mettendoti con le spalle al muro. Investono un fiume di denaro per zittirmi. Mobilitano avvocati nostrani che spulciano ogni minima sfumatura dei miei interventi pubblici, andando a ritroso nel tempo fino a quando non subentra la prescrizione". L'ultima causa persa, simile a tante altre, è stata intentata perché Allam sostiene che l'Ucoii rappresenta in Italia i Fratelli Musulmani, proprio come fa Hamas nei territorio palestinesi. Per aver affermato questa sua teoria in tv è stato (nuovamente) bastonato), anche se, sottolinea, "lo ho fatto in modo argomentato, riferendomi a posizioni assunte dall'Unione". Un tempo, Magdi, anche grazie allo stipendio di parlamentare riusciva a far fronte ai risarcimenti da decine di migliaia di euro che gli venivano imposti in tribunale. Ora però i tempi sono cambiati, e le difficoltà sono cresciute. Così ha fondato l'Associazione "Amici di Magdi Cristinao Allam", chiedendo aiuto finanziario per lui e per chi è nelle sue stesse condizioni, per chi subisce quello che definisce "il ricatto del denaro". Allam conclude: "Sono stato il primo giornalista in Italia a subire una denuncia dell'avvocato degli islamici e un provvedimento disciplinare per islamofobia dall'Ordine nazionale dei giornalisti. Vorrebbero impormi il bavaglio, ma non ho intenzione di tacere".
Giudici e islamici hanno rovinato Magdi "Mi vogliono muto". La sua battaglia gli è valsa un mare di denunce dai musulmani. E sentenze sempre punitive. Condannato a pagare oltre 70mila euro di danni, scrive Anna Maria Greco Mercoledì 29/07/2015 su “Il Giornale”. La guerra santa islamica si fa anche tramite i tribunali, parola di Magdi Cristiano Allam. Lui la chiama «Jihad by Court», come dicono negli Stati Uniti. In questi giorni ha subito l'ennesima condanna per diffamazione nella trasmissione tv «Porta a porta» del presidente dell'Ucoi (Unione comunità islamiche d'Italia) Ezzedin Elzir e, pur essendo in primo grado, dovrà subito pagare ben 18 mila euro. Negli ultimi anni ne ha sborsati circa 70 mila per cause civili tutte di questo tipo, molti di più complessivamente da quando, 15 anni fa, è entrato nel mirino dei musulmani che attaccava duramente, attirandosi anche una condanna a morte di Hamas. «Sono vittima della persecuzione giudiziaria - dice - da parte degli estremisti islamici taglia-lingue, coloro che ti condannano se dici, scrivi o fai qualcosa che urta la loro suscettibilità, che si scontra con la loro strategia di islamizzazione subdola, strisciante e inarrestabile dell'Italia e dell'Europa». Allam, giornalista e scrittore egiziano naturalizzato italiano, già inviato de La Reubblica, vicedirettore del Corriere della Sera, parlamentare europeo con l'Udc e ora editorialista de Il Giornale, ha abbandonato la fede musulmana dopo 56 anni per convertirsi nel 2008 al cattolicesimo, pur criticando poi aspramente la Chiesa per la sua «legittimazione dell'Islam come vera religione». Da quando ha iniziato la sua «crociata» si è attirato pesanti minacce e un mare di denunce. «Prima - spiega - erano penali, ora solo civili. Per loro sono un nemico da eliminare in quanto apostata e traditore. L'arma prediletta è il denaro: ti denunciano per farti pagare più possibile fino a costringerti alla resa, mettendoti con le spalle al muro. Investono un fiume di denaro per zittirmi. Mobilitano avvocati nostrani che spulciano ogni minima sfumatura dei miei interventi pubblici, andando a ritroso nel tempo fino a quando non subentra la prescrizione». L'ultima causa persa ne ricalca tante altre, perchè Allam sostiene che l'Ucoii rappresenta in Italia i Fratelli Musulmani, come fa Hamas nei territori palestinesi. É per aver detto questo in tv, che è stato condannato ancora una volta. «L'ho fatto in modo argomentato - afferma -, riferendomi a posizioni assunte dall'Unione, comunicati stampa a favore di Hamas e contro Israele. Nessuna diffamazione, ma è stata interpretata come calunnia personale del presidente, lesione della sua onorabilità. Purtroppo in Italia certi magistrati anche di fronte a documenti che attestano la correlazione con i Fratelli musulmani condannano, mentre altri considerano le affermazioni libera espressione del pensiero». Il fatto è che una volta, anche per lo stipendio di parlamentare, Allam riusciva a far fronte ai risarcimenti di decine di migliaia di euro per cause perse a volte in contumacia, ma ora i tempi sono cambiati e ha molte difficoltà in più. Così, ha fondato l'Associazione «Amici di Magdi Cristiano Allam», chiedendo aiuto finanziario non solo per lui ma per altri nelle stesse condizioni, che subiscono ciò che chiama il «ricatto del denaro». «Sono stato il primo giornalista in Italia - ricorda- a subire una denuncia dell'avvocato degli islamici e un procedimento disciplinare per islamofobia dall'Ordine nazionale dei giornalisti. Vorrebbero impormi il bavaglio, ma non ho intenzione di tacere».
Dante aveva già capito tutto: ecco dove e come aveva messo Maometto, scrive “Libero Quotidiano” il 10 gennaio 2015. C'è una satira anti-Maometto più feroce di quella di Charlie Hebdo. Circola liberamente in Europa e non solo da secoli. A scriverla fu uno dei più grandi scrittori della storia dell'Occidente. E la si studia anche in tutte le scuole. Mette il profeta musulmano e Alì, suo cugino, genero e successore come Califfo, nientemeno che all'inferno, nel canto XXVIII dedicato ai seminatori di discordia. Lui, l'anti-Maometto, è nientemeno che Dante e l'opera è la Divina Commedia. In cui Maometto viene messo nella boglia più "sozza" che si possa immaginare, piena di corpi mutilati e orrendamente sfigurati. C'è che secondo le convinzioni dell'epoca, condivise evidentemente da Dante, l'islam era il risultato di uno scisma nell'ambito della cristianità: come riporta il Corriere della Sera, il cardinale o monaco Maometto, amareggiato per non aver conseguito il papato, avrebbe fondato una nuova dottrina. Per questo Dante lo immagina nella nona bolgia, squarciato dal mento all'ano, "infin dove si trulla" (ovvero dove si scorreggia). Alì con la faccia spaccata dal mento alla fronte. Questo perchè, secondo Dante, i seminatori di discordia nell'aldilà erano condannati a subire il contrappasso adeguato, soffrendo nel loro corpo le stesse mutilazioni di cui sono stati artefici in vita.
Divina Commedia: Inferno Canto XXVIII. Cenni sul Canto XXVIII. Il ventottesimo canto dell’Inferno è dedicato alla descrizione della nona bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i seminatori di discordia e scismi: come in vita divisero persone e famiglie, separarono fazioni politiche e crearono scismi religiosi, ora sono mutilati da un diavolo armato di spada, che provvede a riaprire le ferite non appena si sono rimarginate. Dante comincia sottolineando l’impossibilità di descrivere la condizione dei dannati e si serve di una lunga similitudine: non si riuscirebbe a eguagliare la situazione della bolgia nemmeno radunando tutti i morti e i feriti delle guerre che hanno straziato il sud Italia nei tempi antichi e moderni. Dopodiché, Dante inizia la descrizione dei singoli dannati. Il primo che prende in esame è Maometto, che, secondo ciò che si pensava nel Medioevo, aveva compiuto uno scisma all’interno del Cristianesimo. Maometto ha un lungo taglio dal mento all'ano, che apre con le mani per impietosire il poeta, facendo fuoriuscire tutti gli organi interni, descritti in modo alquanto volgare. Una volta saputo che Dante è ancora vivo, il dannato gli affida un messaggio per Fra Dolcino: se non vuole essere sconfitto dai Novaresi, da cui era braccato, durante il ritiro sul monte Rubello dovrà rifornirsi di molti viveri, per passare indenne il rigido inverno. Detto questo, Maometto si avvia lungo la bolgia, accompagnato da Alì, il califfo che proseguì la sua opera, che infatti ha un taglio sul viso, dal mento alla fronte, proseguimento di quello di Maometto. L’attenzione di Dante ora è attirata da un dannato, a cui sono stati tagliati il naso e un orecchio, che ha un grosso buco in gola dal quale può parlare senza muovere le labbra, schizzando però molto sangue in giro. È Pier da Medicina, che affida al poeta un altro messaggio per il mondo dei vivi: dovrà avvisare Guido del Cassero e Angioliello da Carignano che il tiranno di Rimini, Malatestino Malatesta, ha intenzione di assassinarli con l’inganno, usando la scusa di invitarli a un incontro diplomatico. Su richiesta di Dante, Pier da Medicina svela l’identità di un altro dannato lì presente, menzionato poco prima in relazione alla terra di Rimini: in una scenetta tragicomica, Pier afferra la testa del dannato e gli apre forzatamente la bocca, mostrando al poeta la sua lingua mozzata. Il peccatore in questione è Gaio Scribonio Curione, che convinse Giulio Cesare a marciare contro Roma. A questo punto entra in scena un altro dannato, Mosca de’ Lamberti, che agita verso Dante i polsi monchi e grondanti sangue, imbrattandosi tutta la faccia. Mosca ricorda il suo peccato, cioè l’aver messo l’una contro l’altra le famiglie dei Buondelmonti e degli Amidei, ed è immediatamente zittito da Dante con una risposta per le rime, che lo fa allontanare. L’ultimo dannato presentato in questa bolgia è anche quello più importante, una figura così terrificante che Dante ha paura di non essere creduto nel raccontarla: è un corpo decapitato che tiene per i capelli la sua testa mozzata, come normalmente si tiene una lanterna. Per parlare con Dante la solleva in alto, verso di lui, e rivela la sua identità. Si tratta di Bertran de Born, e il suo contrappasso è tanto grave quanto la sua colpa: in vita aveva spinto Enrico III, principe d’Inghilterra, a ribellarsi contro suo padre, il re Enrico II.
Testo del Canto XXVIII. Canto XXVIII, nel quale tratta le qualita di de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.
...Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com' io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
guardommi e con le man s'aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così....
"No allo studio di Dante nelle scuole. È islamofobo". Un'associazione vuole abolire la Divina Commedia nelle scuole: "Nel XXVIII canto dell'Inferno si diffama Maometto", scrive Nino Materi Lunedì 19/01/2015 su “Il Giornale”. A due settimane da quel maledetto mercoledì 7 gennaio, nelle scuole italiane l'attentato contro Charlie Hebdo rimane una ferita aperta. Di cui discutere. Magari scontrandosi. Com'è accaduto in un'aula di un istituto tecnico di Faenza, dove una volantino di solidarietà per le vittime di Parigi è stato stracciato da uno studente di fede islamica. Quella che si «combatte» tra i banchi non è una guerra di religione - Bibbia contro Corano -, ma i sintomi di un disagio crescente si notano eccome. I giovani musulmani che frequentano le medie e le superiori nel nostro paese sono aumentati negli ultimi 5 anni di circa il 20%. Anche la nostra sta diventando (e non da oggi) una scuola sempre più multietnica e questo sarebbe positivo in uno Stato che vedesse nella Pubblica Istruzione un'OPA su sui investire in termini di crescita culturale ed educazione civica; ma questo, purtroppo, non è il caso dell'Italia, dove la scuola è da sempre considerata l'ultima ruota del carro. Sarà per questo che la nostra scuola nel bene (poco) e nel male (tanto) rimane lo specchio fedele di un Paese sempre più afflitto dalla «sindrome del gambero», tra continui passi indietro perfino sul fronte di quelle che dovrebbero essere le nostre più radicate tradizioni in termini di civiltà cattolica. E invece in Parlamento è tutto un fiorire di proposte di segno opposto: come ad esempio il progetto di sostituire l'ora di religione con una nuova materia, Storia delle religione, nel tentativo demagogico di garantire la «par condicio» con le altre fedi. È di pochi giorni fa la notizia di una lettera scritta da vari storici delle religioni per chiedere un tavolo di confronto alla ministra dell'Istruzione, Stefania Giannini «al fine di valutare la possibilità di introdurre la materia da loro insegnata all'interno dell'ordinamento scolastico italiano». Un'apertura che, fatte salve le buone intenzioni di quanti la auspicano, rischia di generare mostri. Come dimostra l'associazione Gherush92 che chiede di censurare lo studio dei Dante in quanto «discriminatorio e offensivo». Il capolavoro di Dante conterrebbe - a giudizio di Gherush92, cui aderiscono molti docenti - «accenti islamofobici»: «Nel canto 28° dell'Inferno - si legge in articolo del Corriere.it ripreso dal sito studentesco Scuolazoo -, Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa». Intanto è notizia di ieri che nella Scuola Svizzera di Bergamo l'ora di religione cattolica è stata cancellata: al suo posto si studierà «etica». Una novità che ha sorpreso genitori e Diocesi: «Questa decisione è un clamoroso errore». La Scuola Svizzera è l'unica scuola plurilingue di tutta la Bergamasca (comprende classi medie, elementari, e dell'infanzia) dove una metà degli iscritti è italiani e l'altra metà è straniera. In nome di Dio. Allah permettendo.
La tomba di Dante nel mirino dell'Isis: il poeta nemico del Califfato. Il monumento dedicato al padre della Divina Commedia nella lista di luoghi sensibili stilata dal Viminale, scrive Carola Parisi - Martedì 14/07/2015 su “Il Giornale". C'è anche la tomba di Dante tra i possibili obiettivi dell'Isis. Sembrerebbe quasi uno scherzo. Eppure, nella nota riservata del capo della polizia Alessandro Pansa, datata 7 luglio ed inviata alle questure più importanti d’Italia, c'è una lista dei monumenti e luoghi d’arte che i combattenti islamici potrebbero prendere di mira dopo l’escalation di violenza contro gli occidentali in Medioriente e in nord Africa. E, dopo l'attentato al consolato italiano del Cairo, i controlli aumentano. Tra i luoghi maggiormente sotto il controllo delle autorità, compare anche la tomba di Dante Alighieri. Il mausoleo si trova nel cuore di Ravenna, nella "zona del silenzio" che va da piazza San Francesco ai chiostri francescani. Dante sarebbe considerato un nemico dal Califfato per il trattamento offensivo riservato a Maometto nella Divina Commedia. Il Profeta compare nel canto XXVIII dell’Inferno fra i seminatori di discordia e di scisma insieme col genero e cugino Ali, ed il castigo al quale è sottoposto è la mutilazione. In effetti, un diavolo scatenato, con un colpo di spada, lo spacca dal mento fino all’addome, perché in vita ha spaccato e diviso la religione cristiana.
Tutti i luoghi nel mirino dei tagliagole del Califfo. I terroristi punterebbero sulla tomba di Dante a Ravenna, San Petronio a Bologna e Palazzo Pitti a Firenze. Il motivo? Offendono Maometto, scrive Simone Di Meo Domenica 12/07/2015 su “Il Giornale”. Povero Dante. I tagliagole del Califfo Al Baghdadi non gli perdonano il sacrilegio di aver ridicolizzato il Profeta nel XXVIII canto dell'Inferno, raffigurandolo squartato a metà da un diavolo armato di spada perché «seminator di scandalo e di scisma». E a distanza di sette secoli e mezzo, i demoni della Sharia vogliono vendicarsi della Divina Commedia. Nell'unico modo che conoscono. La tomba del Sommo Poeta, a Ravenna, è in pericolo. Il capo della polizia Alessandro Pansa, in una nota riservata del 7 luglio scorso, inviata agli uffici info-investigativi delle Questure più importanti d'Italia, ha stilato un elenco dei luoghi d'arte che la follia islamista potrebbe prendere di mira dopo l'escalation di violenza contro gli occidentali in Medioriente e in nord Africa. Dante deve pagare per quelle terzine sul Profeta che, tra le fiamme della IX Bolgia, gli va incontro insieme al genero Ali aprendosi il petto e mostrandogli le interiora che gli pendono tra le gambe. Il suo monumento funebre è un'offesa al popolo di Allah che dev'essere lavata col sangue. Ma sono tutte le «decorazioni e le raffigurazioni» di Maometto e le scene dei «trionfi degli eserciti cristiani» sui musulmani che preoccupano gli analisti del Dipartimento di pubblica sicurezza. Affreschi, quadri e dipinti sacri che, per l'iconoclastia dell'Isis, rappresentano un oltraggio insopportabile così come le miniature e le illustrazioni su «turchi e islamici» dannati nel giorno del Giudizio universale, conservati in biblioteche e musei. Bisogna aumentare il livello di controllo su questi obiettivi sensibili, ordina Pansa. Elencandoli uno a uno, da Nord a Sud: la Basilica di San Marco a Venezia, il Palazzo del Principe a Genova, la tomba di Dante a Ravenna, appunto; la Basilica di San Petronio a Bologna, Palazzo Pitti a Firenze, il Santuario del Sacro Speco a Subiaco (Roma), il Vaticano e l'Oratorio del Rosario di S. Cita a Palermo. Le immagini dei terroristi dell'Isis che radono al suolo le antiche abbazie cristiane in Siria, polverizzando un patrimonio storico-archeologico unico al mondo perché appartenente ai « kafir », i miscredenti, hanno allarmato le agenzie di sicurezza occidentali che temono azioni dimostrative da parte di «lupi solitari» interessati a conquistare il sogno dell'immortalità con un gesto eclatante. Tant'è che, negli ambienti dell'intelligence, cresce la preoccupazione anche per la città di Pompei, nel Napoletano. Il sito archeologico più visitato del pianeta e dimora del Santuario dedicato alla Madonna che ogni anno accoglie decine di migliaia di fedeli per il mese mariano. Il luogo dove sacro e profano convivono pacificamente. Il posto perfetto per colpire. L'Italia è uno dei temi ricorrenti della propaganda jihaidista. Ne parla la combattente italiana convertita Maria Giulia Sergio su Skype coi genitori prima del loro arresto, promettendo che le armate di Allah arriveranno nella Città Eterna. Sui social network dei terroristi viaggiano i fotomontaggi del Colosseo in fiamme. E la copertina di «Dabiq», la rivista ufficiale dello Stato Islamico, qualche tempo fa ha immaginato la bandiera nera del Califfato issata sull'obelisco di piazza San Pietro. L'inferno islamista è alle porte ma non è quello di Dante. E non basterà una Beatrice per salvarsi.
La censura talebana all’inferno di Maometto, scrive Vittorio Sgarbi Lunedì 30/07/2007 su "Il Giornale". È vero che l'abitudine alla violenza e all'orrore, se non scalfisce l'indignazione, ci rende però meno sensibili e meno disponibili allo stupore; ma, quando mi sono state fatte conoscere le dichiarazioni di un importante esponente della Quercia (benché indebolita) bolognese, e di un autorevole docente della Facoltà di Scienza delle Comunicazioni, sono rimasto molto colpito e, oltre che indignato, incredulo. Già più di dieci anni fa qualche esponente della comunità musulmana aveva, non senza destare preoccupazione in tempi meno difficili di questi, manifestato l'intenzione di cancellare, nella Basilica di San Petronio, l'affresco di Giovanni da Modena in Cappella Bolognini, ove si vedeva Maometto mortificato e umiliato da un diavolo intento a deturpargli il volto, come descritto nel canto XVIII dell'Inferno. La protesta e la minaccia avevano determinato unanimi reazioni di sdegno e di tutela non solo dei valori cristiani, ma soprattutto di quelli artistici. E io ricordo di aver manifestato con altri, oltre al cardinal Biffi, la più ferma condanna per un atteggiamento di cui non avevo memoria prima di allora. Assai difficile pensare che per ragioni religiose si potesse pensare di distruggere un'opera d'arte con la sensibilità moderna così attenta alla conservazione del patrimonio artistico. Ma ancora più sorprendente che, dopo la crescita esponenziale della violenza, motivata da fanatismo religioso, le stesse dichiarazioni, lo stesso atteggiamento distruttivo e iconoclastico dei musulmani sia sostenuto da due intellettuali italiani con i medesimi argomenti. Merighi ha dichiarato che milioni di musulmani sono insultati da quest'opera e Roberto Grandi ha confermato la legittimità delle osservazioni di Merighi. Fatico a credere che persone con responsabilità politiche e istituzionali come Merighi e Grandi abbiano potuto senza vergogna pensare e dire che l'affresco con l'immagine di Maometto in San Petronio a Bologna è offensivo per milioni di musulmani e merita di essere censurato o distrutto. Questa pratica della censura per una ragione o per l'altra e sempre con una motivazione religiosa, in Occidente e in Italia, mi sembra inquietante. Cancellare, negare la storia, ferire o alterare una parte della mirabile Basilica di San Petronio è comunque un gesto barbaro, a metà strada tra il comportamento dei nazisti e quello dei talebani. Tutto ciò che sta in San Petronio è consegnato alla storia, che non si può processare, ma semplicemente osservare con il diverso spirito dei tempi. La condanna di una espressione artistica, ispirata all'inferno di Dante, non è comprensibile né accettabile nella colta e civile città di Cesare Gnudi, Francesco Arcangeli, Ezio Raimondi, Carlo Volpe, Angelo Guglielmin che hanno educato all'arte e alla storia. La prospettiva dei musulmani rispetto all'argomento, di per sé fallace, e adottata da due intellettuali occidentali (e cittadini bolognesi) appare mostruosa, come di chi non patisca ma faccia un attentato. Distruggere l'affresco di San Petronio, con le motivazioni di Merighi e di Grandi, equivale a un atto di terrorismo. Non si può censurare il passato. Non si può processare la storia. Tutto ciò che è nella Basilica di San Petronio, come in tutte le chiese italiane, non ha soltanto un significato religioso e un rilievo storico artistico, ma è consegnato alla storia e deve essere rispettato e considerato come testimonianza di un'epoca. Misurarlo con la sensibilità di oggi, non considerarne il collegamento con le posizioni di Dante (a cui l'affresco bolognese è ispirato) significa assumere la posizione dei barbari e ancor peggio di chi crede di potere agire contro l'uomo e contro il pensiero dell'uomo in nome di Dio. I tempi ci avrebbero preparati anche a questo inaccettabile fanatismo. Ne rimane terribile testimonianza nell'immagine esibita provocatoriamente dei Buddha di Bamyan fatti saltare con l'esplosivo dai talebani, per dimostrazione e disprezzo e di insensata potenza. Un gesto dimostrativo, gratuito, non essendovi più un solo buddista in tutto l'Afghanistan. Soltanto un relativismo idiota, da parte di due occidentali (ma ci provò anche Rondolino) per insensatezza può trovare giustificazioni e anzi motivazioni ad atteggiamenti e comportamenti come questi. Essi, con diverse motivazioni, hanno lo stesso fondamento della violenza nazista. Come pensare che due ragionevoli occidentali, educati nelle scuole italiane, con alte responsabilità possano essere arrivati alle stesse posizioni dei nazisti e dei talebani? Abbiamo motivate ragioni di essere turbati e preoccupati.
Gli antagonisti attaccano Quinta Colonna: minacce a giornalisti e residenti, scrive Franco Bianchini martedì 17 novembre 2015 su "Il Secolo d’Italia". Un’altra prova della “democrazia” a uso e consumo dei centri sociali. Quinta Colonna è un programma che dà fastidio? Bisogna bloccarlo con la violenza, così come si fa con le manifestazioni del centrodestra o con qualunque cosa non sia in linea con i diktat degli antagonisti. Ecco allora che la giornalista Nausicaa Della Valle, inviata della trasmissione condotta da Paolo Del Debbio, è rimasta bloccata all’interno di un bar nel quartiere di Centocelle, a Roma, proprio per l’irruzione di un gruppo di giovani appartenenti ai centri sociali. Nel mirino anche i cittadini che dovevano prendere la parola nei collegamenti di Quinta Colonna. «Durante la diretta con il programma di Retequattro – dice una nota – una cinquantina di persone ha inveito contro la giornalista e i suoi ospiti, abitanti della zona, insultandoli e obbligandoli a interrompere il collegamento». «Solidarieta a Nausicaa Della Valle, collega di Quinta Colonna, che non ha potuto svolgere un collegamento in esterna in diretta da Roma perché minacciata da alcuni antagonisti» è stata espressa da Pierfrancesco Gallizzi, consigliere della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, a nome del Movimento Liberi Giornalisti. «Inammissibile e inaccettabile – aggiunge Gallizzi – che non si possa svolgere il proprio lavoro perché un gruppo di violenti decide di “interrompere le trasmissioni”. La libertà d’espressione e il diritto di cronaca non possono essere un optional». Tra gli ospiti in studio della puntata c’era Magdi Cristiano Allam, giornalista e scrittore, che su facebook aveva ribadito: «Per sconfiggere i terroristi islamici bisogna combatterli militarmente nei loro covi in Libia, Siria e Iraq, così come dobbiamo scardinale i loro luoghi fisici e virtuali, che significa moschee e siti jihadisti, dove si pratica il lavaggio di cervello che trasforma le persone in robot della morte».
Le vignette arabe sulla strage di Parigi: così sfottono Francia ed Europa, scrive “Libero Quotidiano" il 16 novembre 2015. Se si osservano le vignette satiriche sui quotidiani arabi, sarà praticamente impossibile trovare traccia di solidarietà alla Francia o magari, così anche di sfuggita, un cenno di condanna per gli attacchi terroristici a Parigi che hanno ammazzato almeno 129 persone. Per i disegnatori arabi è l'occasione per pungolare la Francia e l'Occidente sulla "doppia morale", come scrive Maurizio Molinari su La Stampa, cioè su quanto siano stati ben più gravi i fatti di sangue avvenuti negli anni nei Paesi arabi, rispetto alla tragedia parigina. C'è per esempio il vignettista Ala al-Luqta che vede la Francia come un signore grasso con una freccia infilzata nella schiena, seguito da un palestinese colpito da una decina di frecce e che alza un po' scocciato un cartello con la scritta: "Rifiutiamo il terrorismo a Parigi". Oppure ci sono vignette che raffigurano la Francia ferita a un dito, ricoverata in ospedale nella stessa stanza della Siria ferita a morte. Rincara la dose Arab21News che pubblica una vignetta con la Morte che bussa alla porta dell'Unione Europea portando un carico di teschi, restituendoli al mittente.
I vignettisti arabi sfottono la Francia piagnucolosa, scrive Maurizio Molinari su "La Stampa", lunedì 16 novembre 2015. Solidarietà per la Francia aggredita da Isis, ma anche ironia, sarcasmo e una raffica di accuse di doppio standard morale nel giudicare vittime musulmane e occidentali: sono le vignette pubblicate da numerosi giornali del Medio Oriente per descrivere le reazioni al massacro di Parigi, spesso segnate da critiche assai aspre. Per il vignettista giordano Osama Hajjaj la Francia è una bella donna afflitta dal pianto per l’aggressione subita, con sullo sfondo la Torre Eiffel che su «Al Araby» è raffigurata come la vittima dell’abbraccio violento di una kamikaze. Ma si tratta di eccezioni. Per il vignettista Ala al-Luqta la Francia è piuttosto un panciuto signore europeo con un’unica freccia nella schiena seguito da un palestinese bersagliato da dozzine di frecce che innalza controvoglia il cartello «rifiutiamo il terrorismo a Parigi» in un’evidente immagine di umiliazione per tutti gli arabi. È un messaggio simile a quello delle vignette che paragonano la Francia ad un ferito ad un singolo dito, ricoverata nella stessa corsia di un ospedale dove si trova la Siria ridotta in fin di vita. Per suggerire la sproporzione dell’Occidente nel valutare le differenti tragedie. «Arab21News» si spinge fino a descrivere i killer di Parigi come una Morte che bussa alla porta dell’Unione europea con il suo carico di teschi sulle spalle, recapitandoli al mittente. E Carlos Latuff, noto disegnatore arabo-brasiliano, chiama in causa il presidente Hollande, raffigurandolo mentre dà fuoco alla Siria innescando l’incendio che produce il genio malefico dell’Isis che accoltella la Francia. Per l’iraniano Al-Alam la lettura invece è tutta anti-saudita perché il titolo della vignetta sull’attacco alla Francia è «Il terrore wahhabita colpisce Parigi». Ovvero: Isis è un prodotto dei rivali sunniti del Golfo.
Siamo (quasi) tutti Valeria. La studentessa uccisa dalle bestie. Tutti solidarizzano, ma chi non vuole denunciare la barbarie islamica non la commemora e non può nemmeno restare tra noi, scrive Alessandro Sallusti Lunedì 16/11/2015 su “Il Giornale”. Adesso è ufficiale. Valeria Solesin, 28 anni, è tra le vittime - unica italiana - delle stragi parigine. Lo diciamo con sincerità e senza retorica: oggi siamo tutti Valeria, morta innocente come nelle guerre convenzionali accadeva ai civili sotto i bombardamenti. Il fatto che la ragazza fosse stata un'attivista dell'organizzazione pacifista Emergency di Gino Strada rende la sua morte ancora più assurda e paradossale, ed è la prova della ferocia di un nemico al quale non interessa neppure distinguere per appartenenza ideologica o politica. Siamo tutti bersagli in quanto occidentali, in quanto infedeli. Per questo il nostro «siamo tutti Valeria» ha bisogno di qualche delimitazione per evitare ipocrisie e complicità. Al di là di come la pensasse la ragazza, oggi non può dirsi Valeria chi crede che gli attentati di Parigi siano l'inevitabile risposta a presunte nefandezze dell'Occidente. In particolare non sono Valeria quei numerosi islamici moderati che, interpellati in queste ore dai giornalisti per strada e all'uscita delle moschee, riempiono di «se» e di «ma» la loro già tiepida presa di distanza dai terroristi che hanno ucciso in nome di Allah. Ieri abbiamo scritto: se è vero che siamo in guerra è necessario adottare misure straordinarie a costo di sospendere alcune garanzie oggi scontate. Per esempio, penso che si debba ritirare il permesso di soggiorno a chi solidarizza direttamente o indirettamente con chi uccide i nostri figli. Se mettiamo in galera cittadini italiani per l'ambiguo e discusso reato di concorso esterno in associazione mafiosa (è sufficiente avere avuto contatti con persone mafiose) non vedo perché non si debba introdurre lo stesso trattamento nei confronti di chi strizza l'occhio a degli assassini che ci hanno dichiarato guerra. In queste ore c'è il sacro terrore a parlare di guerra di religione. Ma siccome, purtroppo, è così, non si può più accettare la commistione tra islamici moderati e islamici radicali che, come dimostrano numerose inchieste giudiziarie, avviene quotidianamente in molte moschee e comunità di immigrati. Quando si è in guerra bisogna scegliere senza «se» e senza «ma»: o di qua, o di là. E chi è di là, ovviamente, non può essere con Valeria né con noi. Di più: non può stare tra noi.
Mandiamo Di Battista e Boldrini a trattare con l’ISIS. Caro Beppe e cari Italians, ricordate “Je suis Charlie”? E le fiaccolate nelle vie delle città per onorare quella dozzina di morti? E le interminabili e inconcludenti tavole rotonde? E le condanne “decise e sdegnate” di governi e istituzioni? E le prediche del Papa che scomunicava a largo spettro ed implorava l’intervento di Dio? E oggi? Siamo puntualmente daccapo. Anzi, ancora peggio. Oggi ripartiamo dalle centinaia di morti e dalla litania del “Je suis Paris”. Probabilmente aspettando le incoming entries “I’m London” e “Noi siamo Roma”. Ma davvero qualcuno pensa che con quelle bestie che decapitano e macellano uomini e donne in quanto “infedeli”, e ci avvertono che questo è solo l’inizio, esista uno spiraglio di trattativa? Era nel giusto Di Battista quando ci bacchettava perché non ci sforziamo di capire le loro ragioni? O la Boldrini che inorridisce all’idea di reagire con la forza perché, come dimostra la sua apodittica analisi storica, “i bombardamenti non hanno mai risolto nessun problema”? Io proverei galileianamente a sperimentare l’efficienza della logica buonista dei nostri “onorevoli”. Potremmo incaricarli, a nome del popolo italiano, di contattare direttamente l’ISIS. Se riuscissero a convincerli che forse il totale genocidio degli infedeli non è propriamente una cosa politically correct, al loro rientro in patria li accoglieremmo con il dovuto trionfo e con la perenne gratitudine nostra e dei nostri figli. E se non tornassero? Beh, sperando che l’ISIS, riconoscente, abbia risparmiato loro la vita, cercherei di farmi una ragione di quell’insopportabile distacco da noi. Lorenzo Basano su “Italians" de “Il Corriere della Sera”.
La verità scomoda di Putin: “All’Isis soldi da Paesi del G20”. Il leader russo mette in imbarazzo sauditi, Qatar, Emirati e Turchia. Finanziamenti “privati” e complicità nel traffico illegale di petrolio, scrive Maurizio Molinari su “La Stampa” il 17/11/2015. «Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20»: Vladimir Putin sceglie la chiusura del summit di Antalya per far sapere ai leader attorno al tavolo che la forza dello Stato Islamico è anche in una zona grigia di complicità finanziarie che include cittadini di molti Stati. Con un colpo di teatro, sono gli sherpa russi a consegnare alle altre delegazioni i «dati a nostra disposizione sul finanziamento dei terroristi». Si tratta di informazioni che il Dipartimento del Tesoro di Washington raccoglie dal 2013 ed hanno portato, nella primavera 2014, a pubblicare un rapporto che chiama in causa «donazioni private» da parte di cittadini del Qatar e dell’Arabia Saudita trasferite a Isis «attraverso il sistema bancario del Kuwait». Un rapporto della «Brookings Institution» di Washington indica nei carenti controlli delle istituzioni finanziarie del Kuwait il vulnus che consente a tali fondi «privati» di arrivare a destinazione «nonostante i provvedimenti dei governi kuwaitiano, saudita e qatarino per bloccarli». Fuad Hussein, capo di gabinetto di Massoud Barzani leader del Kurdistan iracheno, ritiene che «molti Stati arabi del Golfo in passato hanno finanziato gruppi sunniti in Siria ed Iraq che sono confluiti in Isis o in Al Nusra consentendogli di acquistare armi e pagare stipendi». «Una delle ragioni per cui i Paesi del Golfo consentono tali donazioni private - aggiunge Mahmud Othman, ex deputato curdo a Baghdad - è per tenere questi terroristi lontani il più possibile da loro». David Phillips, ex alto funzionario del Dipartimento di Stato Usa ora alla Columbia University di New York, assicura: «Sono molti i ricchi arabi che giocano sporco, i loro governi affermano di combattere Isis mentre loro lo finanziano». L’ammiraglio James Stavridis, ex comandante supremo della Nato, li chiama «angeli investitori» i cui fondi «sono semi da cui germogliano i gruppi jihadisti» ed arrivano da «Arabia Saudita, Qatar ed Emirati». L’Arabia Saudita appartiene al G20 ed è dunque probabile che la mossa di Putin abbia voluto mettere in imbarazzo il re Salman protagonista di una dichiarazione pubblica dai toni accesi contro i «terroristi diabolici da sconfiggere». Ma non è tutto perché fra i «singoli finanziatori di Isis» nelle liste del Cremlino c’è anche un cospicuo numero di turchi: sono nomi che in parte coincidono con quelli che le forze speciali Usa hanno trovato nella casa-bunker di Abu Sayyaf, il capo delle finanze di Isis ucciso in un raid avvenuto lo scorso maggio. Abu Sayyaf gestiva la vendita illegale di greggio e gas estratti nei territori dello Stato Islamico - con entrate stimate in 10 milioni al mese - e i trafficanti che la rendono possibile operano quasi sempre dal lato turco del confine siriano. Ankara assicura di aver rafforzato i controlli lungo la frontiera ma un alto ufficiale d’intelligence occidentale spiega che «la Turchia del Sud resta la maggior fonte di rifornimenti per Isis». «Ci sono oramai troppe persone coinvolte nel business nel sostegno agli estremisti in Turchia - conclude Jonathan Shanzer, ex analista di anti-terrorismo del Dipartimento del Tesoro Usa - e tornare completamente indietro è diventato assai difficile, esporrebbe Ankara a gravi rischi interni». Lo sgambetto di Putin è stato dunque anche a Recep Tayyp Erdogan, anfitrione del summit.
Tutti per Parigi, nessuno per i morti del jet russo. Quei morti, colpevoli di avere un passaporto russo, hanno suscitato una minore empatia, scrive Annalisa Chirico - Martedì 17/11/2015 su “Il Giornale”. Il mio profilo Twitter è fermo al 13 novembre, me ne accorgo soltanto ora. All'indomani della carneficina francese non ho sillabato cinguettii virtuali, non ho postato una foto della Marianne lacrimante, non ho ritwittato il simbolo della pace con la torre Eiffel al centro, non ho rilanciato l'hashtag #PrayforParis. Mi sono astenuta. Non è stata una scelta deliberata ma un moto spontaneo e inconsapevole. Il tempo delle preghiere è terminato. Le parole sono esaurite. Rimane il dolore per le persone ingiustamente strappate alla loro esistenza dalla furia jihadista. Rimane il silenzio, rabbioso, per la nostra libertà definitivamente perduta, per le nostre vite irrimediabilmente cambiate. Fino a quando sopporteremo? Quanti fratelli e sorelle dovremo piangere prima che l'Europa si desti dal vile torpore? La scia di sangue è lunga. Lo scorso 31 ottobre un aereo civile russo esplode nei cieli del Sinai. A bordo ci sono 224 persone uomini e donne, famiglie, bambini, professionisti e studenti che da Sharm-el-Sheikh si dirigono verso San Pietroburgo. C'è chi legge un libro, chi conversa con il vicino, chi ascolta la musica. All'improvviso un boato, non hai il tempo di prendere coscienza che sei risucchiato nel vuoto. È ormai certo che l'autore della strage sia il leader egiziano di una formazione islamica integralista attiva nel Sinai e legata all'Isis. Ammettiamolo: la strage aerea russa non ha suscitato un tripudio di solidarietà neppure paragonabile. Le manifestazioni di vicinanza a vittime e familiari sono state centellinate, su Twitter non è circolato l'hashtag #PrayforMoscow. Conta certamente l'ostilità verso lo zar Putin che governa la Russia con il pugno di ferro e contro l'Isis non si limita a dichiarazioni ma manda armi e truppe per fare la guerra. Quei morti, colpevoli di avere un passaporto russo, hanno suscitato una minore empatia. Era forse la prima volta che contavamo i corpi carbonizzati dal jihad islamico? Nel 2004 piangiamo i 192 morti di Madrid, insieme a duemila feriti, dispersi su binari e treni regionali a seguito dello scoppio delle bombe jihadiste. L'anno dopo le bombe scoppiano a Londra: 52 pendolari restano uccisi in quattro attentati suicidi presso tre stazioni della metropolitana e su un autobus. Stati Uniti e Gran Bretagna, si dice allora, guidano la coalizione dei volenterosi in Irak e Afghanistan, in fondo se la sono cercata. Lo scorso anno un ex militare francese legato all'Isis uccide a colpi di kalashnikov quattro persone al museo ebraico di Bruxelles. Pochi mesi dopo, il parlamento del Canada è assediato, un soldato di guardia viene ucciso: ha solo 24 anni, è più giovane di Valeria Solesin, l'italiana che voleva abbracciare la vita crudelmente interrotta al Bataclan da una mitragliata alle spalle. All'inizio dell'anno assistiamo alla mattanza nella redazione di una rivista satirica colpevole di blasfemia. Il coro globale del «Je suis Charlie» è interrotto dalle pallottole di un commando armato che irrompe ad un convegno sulla libertà d'espressione a Copenaghen. La violenza nel nome di Allah colpisce poi un volo aereo colmo di turisti e, da ultimo, un teatro della movida parigina. Che cos'è se non un bollettino di guerra? Perdonateci se non abbiamo più lacrime, le parole scarseggiano, le marce simboliche ci risultano indigeste, la voglia di pregare si è dileguata e i tweet... al diavolo i tweet.
Una data lega i terroristi da Charlie Hebdo al Bataclan, scrive Pierangelo Maurizio su “Libero Quotidiano” il 16 novembre 2015. Va bene Je suis Paris e Je suis qualunque cosa, ma forse non basta. E le scritte pacifiste a piazza Farnese a cornice dell'immensa corona di fiori forse dimostrano che non abbiamo le idee chiare. Una cosa soprattutto è ormai insopportabile. Apprendere tutte le volte che i massacratori risultino essere conosciuti dai servizi di sicurezza di Parigi che però sono sempre colti alla sprovvista. Non è credibile. Basta fare una piccola ricostruzione di 3 anni di stragi jihadiste in Francia e i risultati sono sconcertanti. Morale, i servizi francesi non ce la raccontano giusta. Certo, c' è sempre da capire quale - tra le mille segnalazioni - è quella attendibile. La Francia ha il problema della comunità musulmana più grande d' Europa. Ma non basta a spiegare i flop d' Oltralpe. Uno dei macellai di venerdì è un francese di 30 anni, «conosciuto dai servizi». È stato identificato dalle impronte digitali. Schedato dalla Dgsi, la Direction generale de la securité interieure, dal 2010: occhio all' anno. Sarebbe bastato intercettare lui. Senza contare il "profugo" siriano - un pericolo ovvio denunciato allo sfinimento da Libero, una delle poche voci - tra i carnefici, tre attentatori che vengono dallo stesso quartiere degli stragisti di gennaio nonché la pista belga già emersa allora. Non proprio fantasmi. Anche l'autore degli attentati di Tolosa e Mountaban (tre militari uccisi) e della strage alla scuola ebraica (4 morti) nel marzo 2012 era «conosciuto dai servizi». A Mohamed Merah si è risaliti grazie alla targa di uno scooter e all' ip del computer di una donna, madre di «due sospetti già sotto osservazione dei servizi antiterrorismo». E pure i killer di Charlie Hebdo, Said e Chérif Kouachi, e il complice Adamy Coulibaly dell'assalto al supermercato kosher (7-9 gennaio 2015) «erano conosciuti dai servizi». Uno dei fratelli Kouachi, Chérif, era stato arrestato nel 2008 come membro di un gruppo che reclutava combattenti da mandare in Iraq. I due fratelli Kouachi riescono ad addestrarsi in Yemen nel 2011 quando sono «persi di vista dai servizi». Coulibaly dall' età di 17 anni finisce in gattabuia cinque volte per rapina e spaccio. Una perizia psichiatrica ne evidenzia «la personalità immatura e psicopatica», «scarse capacità di introspezione». Nel 2010 - ancora - viene arrestato perché implicato nel tentativo di far evadere il terrorista Smain Ait Alit Belkacem (un simpaticone che nel '95 voleva far saltare il metrò di Parigi). Indagini che hanno coinvolto anche i Kouachi. Tutti con una sfilza di precedenti per reati comuni "politicizzatisi" in carcere (dunque facilmente agganciabili e controllabili). Tutti scarcerati poco dopo le condanne per terrorismo. Coulibaly e i fratelli Kouachi, grandi amici, sono conosciuti con altri come "quelli di Buttes-Chaumont", dal Parco dove si ritrovano e si allenano in esercizi para-militari. En plein air. Non proprio dei grandi cospiratori. A Coulibaly mancava solo di scriverlo sul biglietto da visita, che voleva andare a combattere in Siria. E gli attentati del dicembre 2014 - un automobilista si butta col furgone sui passanti, un altro assalta con un coltello un commissariato - (14 feriti), antipasto di quello che verrà a gennaio, a sua volta antipasto di quello che è arrivato venerdì sera? L' autore dell'assalto al posto di polizia, ucciso dopo aver ferito tre agenti, Betrand Nzohabonayo, passa per uno squilibrato. Però fratello di un «radicale islamista», che aveva cercato di andare in Siria, e due giorni prima sulla sua pagina facebook ha pubblicato la bandiera nera dell'Isis. Anche loro due «erano conosciuti». No, i servizi francesi non ce la raccontano giusta. Non è verosimile che gli 007 di Parigi, tra i migliori del mondo e con una delle storie più blasonate, ogni volta «si facciano sorprendere» e facciano acqua da tutte le parti. Non è pensabile. Questo è un dato di fatto. Trovare una risposta è più difficile. La più probabile è che queste cellule facciano parte del network infiltrato e di cui i francesi si sono serviti per fare il lavoro sporco in Siria, in Libia come in Iraq. Poi sono sfuggite di mano. Qualcosa tipo Bin Laden e gli Usa, giusto per capirci. A rafforzare l'ipotesi, gli assassini, da Coulibaly all' attentatore di venerdì, sono schedati dal 2010, come fosse una stessa "nidiata". Andare fino in fondo con le indagini o anche solo con una versione credibile significherebbe con buona probabilità far emergere la rete della barbe finte - cosa che nessuna intelligence può permettersi - ma anche responsabilità non solo politiche. Al governo di Parigi non si può certo chiedere - e ora poi - di mettere a repentaglio la propria sicurezza nazionale. Ma i fratelli francesi facciano almeno ammenda sugli errori - tragici - compiuti in Libia per detronizzare Gheddafi, ai quali ha tentato di opporsi solo un Berlusconi ormai troppo indebolito, e per destabilizzare la Siria di Assad. Poi, con la massima solidarietà, si faccia la guerra vera al terrore islamico. Giocarci, con questa guerra, per interessi e fini di parte è molto pericoloso. In gioco ormai sono la sicurezza di tutti i giorni, le vite dei nostri figli, il futuro dell'Europa.
L'antica liaison tra Francia e mondo arabo, scrive il 16 novembre 2015 Toni De Santoli su “La Voce di New York”. Poteva gli attentati di Parigi essere evitati? Poteva essere evitato l’avvento dell’integralismo islamico? Il problema è che stiamo parlando di mandanti ed esecutori cresciuti nel più assoluto oscurantismo, allevati nell’odio cieco e schiavi inconsapevoli di se stessi, che nulla sanno dell’antica liaison tra Francia e universo arabo...Che i francesi detestino gli arabi, o i musulmani in generale, è uno dei luoghi comuni più triti e ritriti in assoluto, come quello della “freddezza” inglese, della “pigrizia” italiana, della “ingenuità” americana. La Storia degli ultimi centocinquanta o centosessanta anni dimostra il contrario: verso il mondo musulmano, verso il mondo arabo, la Francia ha sempre nutrito un profondo interesse culturale, attratta com’era dalla “psiche” algerina, tunisina, marocchina e, in secondo luogo, siriana. Ne è dimostrazione una pubblicistica sterminata, nella quale campeggiano scritti di Camus, Malraux, Gide, di altri autori francesi ancora. La Francia sedotta, eccome, dalla comunicativa araba, dalla luminosità araba, dall’imperscrutabilità araba. La resistenza stessa dei conservatori francesi (ma anche di parecchi socialisti) alla lotta indipendentistica algerina intendeva sostenere l’istanza di una fratellanza comune in un solo Stato, in una sola Nazione, “da Calais a Tamanrasset”, come recitava uno slogan nazionalista assai in voga fra il 1959 e il 1962; vale a dire “un solo” popolo dal porto francese sulla Manica all’angolo meridionale dell’Algeria. Alla quale Algeria nel 1962 Charles De Gaulle, Presidente della Repubblica, volle concedere l’indipendenza poiché quell’indipendenza doveva essere concessa. Nemmeno la massiccia immigrazione nordafricana in Francia, con la conseguente nascita delle “banlieue”, ha saputo spezzare il legame creatosi fra francesi e musulmani nordafricani: nei “bistrò” parigini, nelle “brasserie” del Quartiere Latino, di Saint-Cloud, Montmartre, Madeleine, Havre-Caumartin, “rive gauche” o “rive droite” già quaranta o cinquant’anni fa incontravamo francesi che flirtavano con arabe, arabi che flirtavano con ragazze francesi. La musica che piaceva ai francesi di pelle bianca era la stessa che elettrizzava giovani nordafricani: la musica della Piaf, di Gilbert Bècaud, Charles Aznavour, Mireille Mathieu. Il marocchino Bob Zagouri, che sposò Brigitte Bardot, divenne seduta stante una celebrità in tutta la Francia e non solo in Francia: nessuno ebbe da ridire sulla decisione di “Babette”. Liberi professionisti, bianchi e cristiani, avevano la loro “brava” amante araba, così come la signora parigina di Place des Vosges o di Avenue Hoche poteva contare su bei virgulti arrivati dall’Atlante marocchino o da Algeri, Bona, Tunisi…. Figlie di piccoli proprietari terrieri dell’Alvernia o del Poitou-Charantes sposavano arabi di belle promesse, rampolli di famiglie parigine o marsigliesi sposavano bellezze berbere o tunisine. Il Cinema francese s’interessava al mondo arabo, giovani arabi s’iscrivevano in università francesi e non inglesi, non americane, non italiane, neppure olandesi o tedesche o austriache; salvo casi rari. In anni ancor più recenti, nessun ateneo francese ha mai respinto uno studente perché arabo, perché musulmano, perché “diverso”. Ma venerdì 13 novembre 2015, come il 7 gennaio 2015 (strage nella redazione del periodico satirico Charlie Hebdo), la furia arabo-musulmana s’è abbattuta sulla Francia: s’è ancora una volta abbattuta su Parigi. Non a caso gli attentatori hanno scelto come obiettivi due luoghi di notevole significato, ma l’uno diverso dall’altro: “La Bastille” (undicesimo “arrondissement”), in quanto emblema della Francia moderna, quella nata appunto dalla Rivoluzione del 1789; della Francia egalitaria, sì, giacobina, ma ancor più espansionistica di quella di Re Sole; e Place des Vosges, quartiere residenziale, perciò assai chic, il quartiere dei ricchi, il quartiere delle signore francesi che commettono adulterio con la stessa facilità con cui a colazione consumano caffellatte e croissants. Mandanti ed esecutori comunque nulla sapevano dell’antica “liaison” fra la Francia e l’universo arabo: quello che intendevano appunto colpire con ancor più veemenza di prima era la nazione considerata quale carceriera, sfruttatrice, padrona delle masse islamiche d’un tempo e tuttora una delle punte di diamante dell’Occidente “anti-musulmano”. Mandanti ed esecutori cresciuti nel più assoluto oscurantismo. Allevati nell’odio cieco. Schiavi inconsapevoli di se stessi. Squallide entità tuttavia capaci di commettere atroci delitti. Ma poteva tutto questo essere evitato? Poteva essere evitato l’avvento dell’integralismo islamico con la presa del potere in Iran da parte dell’ayatollah Khomeini nel 1979, presa del potere ispirata e favorita dagli Stati Uniti sotto l’influenza delle solite “teste d’uovo”? Non c’è nulla di inevitabile nella Storia, assolutamente nulla: ci si sarebbe dovuti chiedere a che cosa si sarebbe andati incontro col rovesciamento dello Scià di Persia, Rheza Palhevi…. Da allora non assistiamo che all’incalzare continuo, martellante, sanguinario dell’estremismo islamico. Ma, attenzione: oggi come oggi ogni musulmano sotto i quarant’anni d’età è un potenziale agente e strumento del terrorismo. Oggi Parigi, ancora una volta Parigi; e domani? Domani potrebbe toccare a Roma. Stalin chiederebbe, con tagliente ironia: “Di quante Divisioni dispone il Papa?
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
Parigi, 13 novembre 2015: il racconto della strage. La storia della Francia e dell'Europa è cambiata in 40 minuti. E' passata una settimana, 130 innocenti uccisi in sei attacchi, anche i jihadisti sono morti. Resta però il mistero su uno di loro. Ecco la cronaca di una notte che nessuno potrà dimenticare, scrivono Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Anais Ginori, Daniele Mastrogiacomo, Fabio Tonacci, su “La Repubblica” il 20 novembre 2015.
La chiamano l'Estate di san Martino. E la sera di Parigi è mite. La temperatura è di 15 gradi. Assenza di vento. Allo Stade de France, banlieue nord di Saint-Denis, è in programma alle 21.00 l'amichevole Francia-Germania. I caffè hanno i tavolini all'aperto. Nella città che non ha terrazzi, le chiamano terrasse. Il cartellone del teatro Bataclan, al 50 di Boulevard Voltaire, ha in programma il concerto degli "Eagles of Death Metal", gruppo garage rock californiano. Prima tappa di una tournée che deve toccare altre città della Francia. Da settimane non si trova più un solo biglietto.
Alle 19.30 il ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve è a Montrouge, periferia sud di Parigi, per consegnare le onorificenze agli agenti della polizia municipale che, l'8 gennaio, ventiquattro ore dopo la strage di Charlie Hebdo, hanno per primi intercettato Amedy Coulibaly, l'assassino della vigilessa Clarissa Jean-Philippe, impedendogli di consumare una carneficina che, purtroppo, avverrà il giorno successivo.
Alle 20.30, il ministro è di ritorno a Place Beauveau, sede del Ministero dell'Interno. I giorni di Charlie sono lontani. O almeno così sembra. Cazeneuve discute brevemente con i suoi collaboratori dei due falsi allarmi terrorismo della giornata. Alla Gare de Lyon, in parte evacuata, e al "Molitor", vecchio hotel art decò sulla riva sinistra della Senna che ospita la nazionale tedesca. Non c'è motivo di ansia. "#Diemannschaft ist zuruck im Hotel. Voller Fokus auf #Frager", "Siamo tornati in albergo. La testa è solo alla Francia", twitta la nazionale tedesca. A duecento metri da Place Beauvau, il presidente François Hollande sta lasciando l'Eliseo diretto allo stadio. I titoli del telegiornale danno notizia dello sciopero dei medici contro la riforma del Governo e dell'annunciata uccisione di Jihadi John in Siria. Consigliano di anticipare i regali di Natale, annunciano la riapertura del museo Rodin e l'attesa per la partita della sera. "Il primo match contro la Germania dopo l'eliminazione ai quarti nel mondiale del Brasile". Almeno nove uomini si salutano per l'ultima volta e salgono su tre macchine di colore nero. Una Volkswagen Polo, una Seat Leon, una Renault Clio. Hanno tutte e tre targa e immatricolazione belga. Sono state affittate pochi giorni prima in un'agenzia di noleggio auto di Bruxelles a nome Salah Abdeslam e Ibrahim Abdeslam. Due fratelli residenti nel quartiere Kareveld di Molenbeek. Sono arrivate a Parigi giovedì sera a distanza di dieci minuti l'una dall'altra, in convoglio. Hanno depositato i loro passeggeri in un appartamento di Bobigny affittato per una settimana attraverso il sito homeholidays e in due stanze al terzo piano del residence Apart'City Paris di Alfortville. In avenue Jules Rimet, il vialone che costeggia il settore est dello Stade de France, un giovane siriano è chiuso in un bomber nero. Ha un passaporto in cui dice di chiamarsi Ahmad Almohammad, nato il 10 settembre 1990 a Edlib, Siria. Ha raggiunto l'Europa cinque settimane prima. Il 3 ottobre, un barcone di profughi lo ha sbarcato sull'isola di Leros. Le autorità greche lo hanno fotografato, gli hanno preso le impronte digitali e riconosciuto un lasciapassare temporaneo nello spazio di Schengen. Un timbro che gli ha consentito di raggiungere la Serbia e, da lì, la Croazia. L'ultimo tratto di strada verso i fratelli che lo aspettano a Molenbeek, Bruxelles, Belgio. La città di Abdelhamid, di Salah, di Ibrahim. La porta verso il Paradiso. Ahmad non ha il biglietto. La partita Francia-Germania è cominciata da 10 minuti. Il risultato è sullo 0-0. Hollande, in tribuna, contempla lo spettacolo degli 80 mila dello Stade. Ahmad ha caldo. È fradicio di sudore. Entra nei bagni della birreria di fronte al cancello D. Il bomber che nasconde la cintura imbottita di perossido di acetone (Tatp) e bulloni lo soffoca. Si dirige verso i lavabi. Si appoggia con le braccia tese di fronte allo specchio. Incrocia lo sguardo di Blay Mokono, un uomo di colore. Il cronometro del tabellone segna il minuto 10 della partita. Blay recupera il figlio tredicenne Ryan e l'amico Rashid al bancone della birreria. Sono in ritardo. Devono entrare. Ahmad lo urta con la spalla. Non chiede scusa. Prosegue verso i tornelli e la biglietteria del cancello D. Lo affronta con garbo uno degli steward. "Non può entrare, monsieur ". Ahmad rincula. Ma non si dà per vinto. Avanza di nuovo di qualche passo. "Monsieur, le ho già detto che non può entrare senza biglietto". Ora il tabellone indica il minuto 16 e 24 secondi. Sull'ala sinistra, lavora il pallone Martial con un profondo retropassaggio. Il boato è avvertito in tutto il catino ed è confuso con un petardo. Un innocente è morto in un lampo di fuoco e bulloni. Si chiama Manuel Dias. Ha 63 anni. E' il primo di 130 vittime. La folla ondeggia in una ola. Sulle tribune si alzano felici i 1.000 impiegati della compagnia aerea GermanWings in trasferta premio, per cancellare il lutto dello schianto sulle Alpi francesi. Il pallone ora è dei tedeschi. Un rimpallo lo riconsegna a Evra. Diciannovesimo minuto e 35 secondi. Di fronte al cancello H, lungo le vetrine di Decathlon, in corrispondenza dell'insegna Gaumont, un altro "fratello" muove i suoi ultimi passi. Un secondo boato. Un uomo della sicurezza presidenziale si avvicina in tribuna ad Hollande. Si china leggermente e sussurra all'orecchio del Presidente. "Monsieur le Président le Quick a sauté". Il presidente sa cosa significa. Per sessanta secondi fissa il vuoto. Quindi si alza senza una parola. Frank Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco seduto alla sua sinistra, lo insegue con lo sguardo mentre prende la via dei sotterranei. Un corteo di macchine nere esfiltra Hollande verso Place Beauvau. Dieci chilometri lo separano dal bunker del ministero dell'Interno.
21.53. A Bilal Hadfi resta l'ultimo giro di orologio dei suoi vent'anni. In piedi, sotto un palo arrugginito fissa le indicazioni stradali. Autostrada A86, La Courneuve centre, Aubervilliers, S33. Lo stadio è un rumore di fondo lontano un chilometro. Quasi quanto il ricordo dei mesi da foreign fighter in Siria. Bilal pigia l'interruttore che lo spegne per sempre. Un brandello di carne e sangue imbratta le indicazioni per la S33. Negli spogliatoi dello Stade, Sebastian Lowe, ct della Germania e Didier Dechamps, collega francese, annuiscono uno di fronte all'altro con accanto i funzionari Uefa e agenti della polizia. Ora sanno. Ma non devono dire. Ne va della vita degli 80mila. Per nessuna ragione al mondo devono sapere. La partita deve continuare. All'angolo tra rue Bichat e rue Alibert, Ouidad Bakkali, 29 anni, assessore alla cultura di Ravenna, marocchina di seconda generazione nata in Italia, ordina una birra. Intorno a lei, ai tavolini del "Carillon" una folla di universitari ride tra uno "waikiki" e l'altro di rhum e pera. Shot da due euro a bicchierino. Tra Bastille e canale Saint Martin, questo spicchio dell'undicesimo arrondissement non parla più della sapienza dei faubourg artigiani. Ha la gioia e l'energia della movida e la più alta densità di locali della città. Nella Seat Leon nera con targa belga GUT 18053, tre uomini hanno di fronte 4 chilometri, 15 minuti e 39 vite umane da prendersi. Una vita ogni 100 metri. Al tavolo di Ouidad e del suo fidanzato sono arrivate le birre. Accanto ai due ragazzi, una coppia sta litigando. Una macchina fa manovra in corrispondenza dell'ingresso del locale. È una mamma con la bambina sul sedile posteriore. Deve togliersi di mezzo. Non fa in tempo. Il calibro 7.62 del kalashnikov imbracciato dall'uomo sceso dalla Seat le stacca la testa. Ouidad pensa a un petardo. Poi sedie e tavolini cominciano a volare. I ragazzi urlano. Il sangue imbratta l'asfalto. Le rose delle raffiche sono ad alzo zero. Da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Sull'altro lato della strada, il proprietario del "Petit Cambodge" tira furiosamente giù la saracinesca e invita tutti a stendersi a terra dentro il locale. L'uomo col fucile si avvicina. Le raffiche sbriciolano il cartongesso del muro. Ouidad vede cadere due ragazze come fantocci. Prega e piange. La Seat riparte sulla rue Alibert lasciando dietro di sé 100 bossoli e 15 cadaveri.
21.32. In rue della Fontaine au Roi, ai piccoli tavoli della pizzeria "Casa Nostra", la pioggia di schegge di vetro anticipa di qualche secondo la morte che porta la Seat. Una donna, seduta all'esterno, si rannicchia a terra. "C'est pour la Syrie", sente gridare. L'uomo che le si avvicina alza il kalashnikov e lo rivolge verso il basso. Appoggia la canna al cranio della donna. Tira il grilletto. Una, due volte. L'arma è inceppata. Risale in auto. Non c'è tempo. E cinque cadaveri possono bastare.
21.36. Nella sua casa dell'undicesimo arrondissement, il primo ministro Manuel Valls ha appena chiuso la telefonata che lo avvisa che qualcuno ha dichiarato guerra alla Francia. Che il Presidente sta raggiungendo il bunker del ministero dell'Interno e che si sta sparando nel quartiere in cui il premier abita. Ancora. Ancora una volta a dieci mesi di distanza da quella mattina di Charlie Hebdo. Stesso quartiere. Stesso odio. In rue de Charonne, alla "Belle Equipe" si festeggia Houda Saadi. Compie 36 anni e si è presa una sera fuori. I suoi bambini sono a casa. Al tavolo con lei, insieme alla sorella, c'è, con altri amici, Ludovic Bombasse. Ha 40 anni, è nato in Congo, ama i libri e gli restano pochi secondi di vita. La Seat è alla sua ultima stazione di morte. Houda non ha il tempo di capire. Né lo ha sua sorella. Ludovic decide di fare scudo a Chloé, una ragazza che conosce appena e che le siede affianco. Nascosto dietro il bancone, Gregory Reibenberg, il proprietario del locale, stringe a sé sua moglie Djamila. La sente andarsene via, trafitta da una raffica. Lei è musulmana. Lui ebreo. La contabilità dell'orrore ha spuntato la sua trentanovesima vita. All'esterno della "Belle Equipe", una ragazza è seduta al tavolino. Nella mano stringe un calice di vino. La testa è reclinata sul tavolo. Come dormisse. La Seat nera è ripartita. Un poliziotto di quartiere corre con la pistola in pugno verso quel tavolo. E' del commissariato dell'undicesimo. Lo stesso che è intervenuto la mattina di Charlie. Il poliziotto si china sulla ragazza, che ha ancora gli occhi sbarrati. Crolla in ginocchio. Piange. Sul maxi-schermo televisivo del "Comptoir Voltaire", il rumore delle raffiche nel quartiere non ha fatto in tempo ad arrivare, né a farsi strada tra le risate e il vociare che accompagnano le immagini della partita. Ibrahim Abdeslam è sceso per l'ultima volta dalla Seat che prosegue verso Montreuil. E per l'ultima volta ha guardato negli occhi suo fratello Salah. Si siede a un tavolo.Catherine, la cameriera, gli chiede cosa gradisca. Ibrahim non muove un muscolo. Non le risponde. Si alza lentamente e dopo due passi salta in aria. C'è sangue dappertutto. La tv continua ad andare. Ha segnato Giroud. Da qualche minuto, in Rete, gira il tweet con la foto delle luci del caffè "Comptoir Voltaire". E' un'immagine singolare e sgranata. Scattata dal tetto di un edificio che guarda boulevard Voltaire e postata, alle 21.16, dal profilo twitter "OP_IS90". L'acronimo è corredato da una foto di al-Zarqawi, il macellaio di Falluja. In una Polo nera con targa belga, parcheggiata di fronte al teatro "Bataclan", degli uomini sono chiusi da due ore dentro l'abitacolo. I due sui sedili anteriori smanettano sul cellulare. E' arrivato il tweet di "OP_IS90". Si chiamano Ismael Mostefai, 29 anni e Samy Amimour, 28. Hanno lo stesso passaporto francese. Sono nati nella stessa città, Parigi, ma in due banlieue diverse. Hanno avuto due vite diverse. Samy, nel 2013, è fuggito dalla Francia verso i campi di Daesh. Non fuma più. Ha sposato la donna che le ha assegnato il Califfato. L'ultima volta che ha visto il padre, un venditore ambulante di vestiti, era ancora in Siria e gli ha riconsegnato la lettera con cui la madre lo implorava di tornare e i 100 euro che quella lettera nascondeva. "Non ne ho più bisogno", ha detto. Anche Ismael ha toccato l'orrore siriano. Ma, al contrario di Samy, che è inseguito da un mandato di cattura internazionale per terrorismo, lui è un invisibile. Dai tavoli del ristorante "Cellar", Cristophe continua a osservare quella Polo, dentro vede quattro ragazzi. Due ore prima ha chiesto loro di spostarla. Ma non ha avuto neppure risposta. Li ha fissati per un attimo negli occhi e ha avuto la sensazione di aver incrociato lo sguardo vuoto di zombie. Non ha insistito più. Anche se non può fare a meno di chiedersi per quale diavolo di motivo, da due ore, quella macchina in sosta abbia le luci spente ma il motore sempre acceso. Cristophe guarda per l'ultima volta l'orologio. Sono le 21.30. Decide di andarsene. È la migliore decisione della sua vita. Nella sala del Bataclan il concerto è cominciato. Da mezz'ora Jesse Hughes pesta sulla sua chitarra. La folla è felice. In mille e cinquecento tra platea e galleria ondeggiano e ballano facendo tremare le strutture in legno di questo bizzarro edificio dell'Ottocento. Una guazzabuglio architettonico che incrocia suggestioni cinesi. I flash dei cellulari che scattano selfie lampeggiano insieme alle luci stroboscopiche del palco. La band è su di giri come chi ascolta. Jesse ha piantato un coltello in uno degli amplificatori. Il rock degli Eagles and Death Metal è anche questa roba qui.
21.42. Il motore della Polo in sosta in boulevard Voltaire si spegne. I quattro uomini scendono dall'auto. Il cellulare torna a illuminarsi. Il messaggio ha 18 battute di testo. "On est parti. On commence". Siamo partiti. Cominciamo. Il destinatario del messaggio è Abdelhamid Abaaoud. Il mastermind della cellula. Lo psicopatico di origini marocchine con passaporto belga che trascina cadaveri nel deserto di Raqqa con il suo fuoristrada. L'uomo sfuggito in gennaio all'operazione che ha smantellato la cellula di Verviers. Quello che la Francia dà per certo in Siria, ma che in Francia è tornato per chiudere il conto. "Vite, vite! Partez, ça tire". Veloci, veloci, sparano. "Didi" è un'istituzione al Bataclan. Un po' buttafuori, un po' butta dentro, un po' angelo custode per chi, a notte, non si regge più in piedi per l'alcool. Ne ha viste tante. Non le ha viste tutte. Non quello che gli si è appena parato di fronte agli occhi. Due ragazzi usciti per fumare sono stati giustiziati da quei cavalieri dell'Apocalisse che ora puntano a passo svelto verso l'interno del teatro. Sono pochi passi. Tra la strada e la "fosse" dove si balla, si grida, si suda, sono pochi metri. Una porta a vetri, il guardaroba, due ante girevoli. "I meet the Devil and this is his song". Incontro il Diavolo e questa è la sua canzone, canta Jesse Hughes annunciando una delle loro hit, "Kiss the devil". Bacia il diavolo. La prima raffica sulla platea ne falcia una decina, ma suona come un effetto speciale. La seconda mette in fuga Hughes, mentre il chitarrista, Dave Catching, continua ancora per qualche istante a tenere il centro della scena. Poi, l'intera band si rifugia nel retro palco. La musica si interrompe e ora si sentono solo grida. Di dolore, di terrore, di implorazione. Le raffiche non cessano un solo istante. Chi non è riuscito a fuggire usando le uscite di emergenza sui lati della platea ora è sdraiato a terra. Sono centinaia. Qualcuno si finge morto. Qualcuno si copre con i morti. Altri strisciano in un lago di sangue e brandelli di carne. Gli uomini del commando hanno il volto di bambini e la voce da orchi vendicatori. "Avete ucciso i nostri fratelli in Siria, ora siamo qui". "È colpa del vostro presidente Hollande". In due, cominciano ad aggirarsi tra i corpi stesi. "Se qualcuno muove il culo, lo ammazziamo". Ma è una minaccia infame. Perché loro ammazzano anche chi resta immobile. Con un piede colpiscono chi è a terra per verificare se sia in vita o meno. E al primo cenno di reazione fanno fuoco alla nuca. Chi non è più in platea è in cerca di un qualunque nascondiglio. Le intercapedini del teatro, i camerini, i bagni, i locali della attrezzeria. In una delle toilette, un gruppo di ragazzi e ragazze sfonda il controsoffitto e si infila nei condotti della areazione. Una donna incinta si appende ad una delle finestre. Qualcuno salta giù chiudendo gli occhi fracassandosi gambe e bacino. Una colonna umana riesce ad arrampicarsi fino ai sottotetti. Qualcuno, guadagnate le scale antincendio, raggiunge il tetto del teatro e di lì salta sul palazzo prospiciente. Bussa disperatamente a porte e finestre.
22.01. Bfm, la televisione all news francese, annuncia: "Una sparatoria a colpi di kalashnikov ha provocato diversi morti in un ristorante nel decimo arrondissement di Parigi".
22.18. L'agenzia di stampa Reuters batte il primo take che annuncia l'orrore fuori dai confini del Paese. "Two dead, seven wounded in shooting in restaurant in central Paris". Due morti, sette feriti in sparatoria nel centro di Parigi. Nessuno immagina. Nessuno sa. Tranne chi è dentro il teatro e chi verso il teatro sta correndo impugnando una pistola. È un commissario di quartiere che ha raccolto il primo allarme e che resterà un angelo senza nome. Entra nell'edificio scavalcando decine di cadaveri. E nella hall distingue la sagome di uno dei macellai. Lo protegge soltanto un giubbotto antiproiettile. E quando le raffiche cominciano a raggiungerlo risponde al fuoco. Uno dei tre con il kalashnikov salito sul palco, crolla. Gli altri due fuggono verso la galleria. All'esterno del Bataclan arriva il furgone blindato nero della BRI la "Brigade recherche intervention", l'unità di élite della polizia giudiziaria. Gli uomini che ne scendono sono al comando di Christophe Molmy. È uno sbirro che, dieci mesi prima, ha condotto il blitz all'Hypercacher di Porte de Vincennes dove si era asserragliato Amedy Coulibaly. Ha scritto un romanzo, Loups blessés, lupi feriti, sull'umanità storta che ha combattuto per una vita: banditi, tossici, rapinatori. Gli mancano i martiri di Allah. Li ha trovati. Molmy è un uomo colto. Sa dare alle cose il loro nome. "E' l'inferno di Dante ", comunica alla centrale dall'interno del teatro. Pile di corpi smembrati, lamenti. Un silenzio di morte bucato dal concerto di decine di suonerie di cellulari che squillano a vuoto accanto a ragazze e ragazzi che non possono più rispondere. I due martiri in galleria si sono barricati in un locale con venti ostaggi. Vorrebbero negoziare. O almeno così dicono. Ma non si capisce cosa. Né a che prezzo. Molmy e le teste di cuoio che sono salite in galleria dove tutto è ancora buio e le uniche luci sono quelle dei puntatori laser dei fucili di precisione della BRI, raggiungono la porta che li separa dai due terroristi e dagli ostaggi. Uno di loro grida "Fermatevi o ci uccideranno tutti!". Convincono gli assediati a prendere un cellulare attraverso cui comunicare con il negoziatore della BRI. Lo stesso che aveva inutilmente trattato per ore con Coulibay. Con i due martiri va ancora peggio. Non riesce neppure il primo degli step del protocollo del negoziatore. Quello che impone di stabilizzare l'interlocutore. Raffreddarlo. Sgonfiarlo di adrenalina. Riportargli i battiti cardiaci a una condizione di lucidità. Dall'altra parte della porta si farfuglia soltanto di Siria e Hollande. Si minacciano decapitazioni e non si negozia nulla. Molmy capisce che i 20 ostaggi non sono e non saranno moneta di scambio. Sono solo animali sacrificali. E anche per questo quando i due provano a chiamare Bfm fanno cadere la linea del cellulare. Non vogliono che quello che sta per accadere vada in diretta televisiva e in mondovisione. Sono le 23.45. Negli ospedali di Parigi sono stati riaperti tutti i blocchi operatori d'emergenza e tutti i chirurghi richiamati. Dalle ambulanze vengono sbarcate lettighe su cui sono stesi uomini e donne che sembrano usciti da una trincea. Sul marciapiede di boulevard Voltaire il prefetto di Parigi Michel Cadot è in linea con Hollande e il ministro dell'Interno Cazeneuve. Il presidente ha appena parlato in tv alla nazione, visibilmente sconvolto. "Quello che vogliono è farci paura". Al telefono il Prefetto Cadot annuisce. La decisione è presa. Si dia l'assalto. Anticipate da lunghi minuti di scambio di fuoco, due deflagrazioni scuotono il piano superiore del Bataclan. È finita. Bisogna solo evacuare i feriti e contare i morti. Ottantanove. Ai tavolini del "Les Béguines", un pub nel cuore di Molenbeek, Bruxelles,Mohamed Hamri e Hamza Attou stanno fumando l'ennesima canna e buttando giù l'ennesima birra. Il locale ha riaperto da qualche giorno dopo essere stato chiuso dalla polizia belga per droga. Da due anni il proprietario èIbrahim Abdeslam. Da qualche ora, di quel proprietario è rimasto un tronco d'uomo carbonizzato in boulevard Voltaire. Ma questo Mohamed e Hamza non lo sanno. O, almeno, racconteranno di non saperlo. Squilla il cellulare. E' Salah, il fratello di Ibrahim. Chiama da Parigi. "Dimmi fratello". "Sono qui a Parigi. Ho bisogno che tu mi venga a prendere. Ora. Pago io la benzina e l'autostrada. Ti aspetto. Ci vediamo a Barbès", il quartiere arabo del diciottesimo arrondissement, dove verrà ritrovata la terza auto. La Clio nera. Alle tre del mattino una Volkswagen Golf 3 grigia targata ILJV 973 che percorre l'autostrada A2 Bruxelles-Parigi passa la frontiera tra il Belgio e la Francia. A bordo, Mohamed e Hamza, che dell'auto è il proprietario. Non c'è ombra di gendarme lungo la strada. La Francia ha appena annunciato la chiusura delle frontiere, ma il dispositivo fatica a mettersi in moto. Alle 5, la Golf è a Parigi e carica Salah.
Alle 9,15 del mattino di sabato 14 novembre, la Golf grigia va in senso inverso. All'altezza di Cambrai, accosta all'invito di una pattuglia della Gendarmerie francese. I quattro uomini mostrano i documenti. L'agente li controlla al terminale della banca dati del ministero dell'Interno. Tra le mani si ripassa il documento di quell'uomo indicato come Salah Abdeslam. Risultano precedenti per furto e spaccio di droga. Il gendarme torna alla Golf e restituisce i documenti ai tre uomini. "Bon voyage Monsieur".
L'attacco agli Usa dell'11 settembre 2001: gli schianti, il fumo e le vittime che cadono dal cielo, scrive la Redazione di Tiscali L'America subiva il peggior attacco della sua storia. E oggi quell'11 settembre del 2001 è ancora vivo perché alimentato da nuovi timori. Ecco la successione, minuto per minuto, della tragedia che ha cambiato anche gli equilibri politici internazionali. L'ora indicata è quella di New York e Washington, indietro di sei ore rispetto a quella italiana.
7.59 - Il volo American Airlines 11 decolla dal Logan International Airport di Boston. Sul Boeing 767, diretto a Los Angeles, vi sono 95 persone.
8.14 - Il volo United Airlines 175 decolla dallo stesso aeroporto con 65 persone a bordo. Anche questo è un Boeing 767 e anche questo è diretto a Los Angeles.
8.15 - Primo segnale di allarme. Il volo AA11 non rispetta le disposizioni dei controllori di volo.
8.15 - Il volo American Airlines 77 decolla dal Dulles Airport di Washington. E' un Boeing 757 con 64 persone a bordo, diretto a Los Angeles.
8.40 - Boston informa il Norad (North American Aerospace Defense Command) che il volo AA11 è stato probabilmente dirottato.
8.42 - Il volo UA93 decolla da Newark (New Jersey) alla volta di San Francisco. E' un Boeing 757, con a bordo 44 persone.
8.43 - La Faa (Federal Aviation Administration) notifica al Norad che anche il volo UA175 è stato dirottato.
8.46 - Il volo AA11 si schianta contro la Torre Nord del World Trade Center di New York. Il Norad ordina il decollo immediato di due caccia F-15 dalla base di Falmouth (Massachusetts).
8.49 - La Cnn interrompe le trasmissioni. "Un aereo ha colpito una delle torri del World Trade Center".
8.50 - La prima autopompa dei vigili del fuoco giunge al Wtc.
9.00 - Il presidente George W. Bush, in visita a una scuola elementare a Sarasota (Florida), viene informato dal consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice che un aereo ha colpito un grattacielo del Wtc.
9.03 - Il volo UA175 colpisce la Torre Sud.
9.07 - Bush è informato dal capo di gabinetto Andrew Card che "un secondo aereo ha colpito la seconda torre".
9.16 - La Faa informa il Norad che anche il volo UA93 è stato dirottato.
9.21 - Le autorità di New York chiudono i ponti e i tunnel di accesso a Manhattan.
9.24 - Il Norad apprende che anche il volo AA77 è stato dirottato.
9.26 - La Faa ordina il blocco di tutti i decolli negli aeroporti Usa.
9.30 - Bush in Florida: "L'America è sotto attacco".
9.32 - Wall Street interrompe le operazioni.
9.37 - I controllori di volo di Washington avvertono che un aereo non identificato è diretto verso la capitale.
9.43 - Il Volo AA77 colpisce il Pentagono.
9.45 - La Casa Bianca viene evacuata. Il vicepresidente Dick Cheney è portato nel bunker blindato sotto la residenza. La Faa blocca il traffico aereo sugli Usa.
9.55 - L'Air Force One con a bordo Bush decolla dalla Florida. Bush telefona a Cheney e ordina l'allerta delle forze militari Usa nel mondo.
9.58 - I passeggeri del volo UA93, informati di quanto accaduto agli altri velivoli, si scagliano contro i dirottatori per prendere il controllo dell'aereo.
9.59 - Crolla la Torre Sud.
10.03 - Il volo UA93 precipita in un campo della Pennsylvania, nei pressi di Shanksville.
10.28 - Crolla anche la Torre Nord.
10.45 - Le autorità ordinano l'evacuazione di tutti gli edifici federali di Washington.
12.36 - Bush parla alla nazione da Barksdale, Indiana. "La nostra libertà è stata attaccata da un codardo senza volto. La determinazione della nostra grande nazione è stata messa alla prova. Supereremo questa prova".
13.02 - Il sindaco di New York Rudolph Giuliani ordina l'evacuazione di Manhattan a sud di Canal Street.
13.27 - Dichiarato lo stato di emergenza a Washington.
14.50 - Bush si sposta in aereo al quartier generale del Comando Strategico Usa nella base aerea Offut (Nebraska) dove presiede una video-conferenza con i membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale a Washington.
17.20 - Crolla anche il Seven World Trade Center, un edificio di 47 piani.
18.45 - Bush rientra alla Casa Bianca.
20.30 - Il presidente parla a reti unificate alla nazione. "I responsabili la pagheranno. L'America non farà distinzioni tra i terroristi e coloro che li ospitano".
21.00 - Bush torna a riunirsi con il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Viene discusso anche un primo piano di rappresaglia militare contro i terroristi.
ORGOGLIOSO DI ESSERE CRISTIANO E CATTOLICO OCCIDENTALE.
I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.
Le puntualizzazioni saccenti della sinistra a sinistra.
DISINFORMAZIONE. Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. Doppia disinformazione: da una parte una frase associata ad Oriana Fallaci, ma non è sua, mentre il contenuto di quella frase è stato alterato riportando una considerazione errata sul terrorismo, scrive il 18 novembre 2015 David Tyto Puente su “Bufale”. Da qualche giorno, ma già a inizio 2015 in seguito all’attentato terroristico contro Charlie Hebdo, viene largamente condivisa questa frase associata erroneamente ad Oriana Fallaci e citata da Giuliano Ferrara durante una puntata di Servizio Pubblico: Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. In realtà si tratta di una frase del musulmano saudita Abdel Rahman al Rashed (all’epoca direttore della televisione Al Arabiya) tratta da un suo editoriale e riportata nel libro “Oriana Fallaci intervista se stessa – L’apocalisse”: Anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte dei terroristi sono musulmani. Tornando alla frase diffusa online e citata da Ferrara a inizio 2015, in questo articolo raccoglieremo qualche esempio di terrorismo di matrice non islamica.
Che cos’è il terrorismo? Prima di parlare di terroristi bisogna capire che cos’è il terrorismo: Il terrorismo è una forma di lotta politica che consiste in una successione diazioni criminali violente, premeditate ed atte a suscitare clamore come attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi, ai danni di enti quali istituzioni statali e/o pubbliche, governi, esponenti politici o pubblici, gruppi politici, etnici o religiosi. Le organizzazioni dedite a tale pratica vengono definite “organizzazioni terroristiche”, mentre l’individuo è definito come terrorista, termine che in storiografia indica un membro del governo in Francia durante il periodo del Regime del Terrore. In realtà non esiste una definizione accettata da tutti del terrorismo, ma ne è stata data una, nel 1937, dalla Società delle Nazioni: “fatti criminali diretti contro lo Stato in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone”. Fatti criminali in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone. Teniamolo a mente.
Le statistiche. Secondo gli studi svolti dall’FBI, nell’arco di tempo tra il 1980 e il 2005, il 94% degli atti terroristici negli Stati Uniti non sono di matrice islamica. In questo grafico possiamo vedere che il 6% è di matrice islamica, il 7% di matrice ebraica, il 42% dei latinos e via dicendo. È innegabile il fatto che il numero di vittime dell’11 settembre sia ben superiore rispetto agli altri episodi. Ricordiamo che per atti terroristici non si considerano solo esplosioni o kamikaze. Ecco le tipologie di atti terroristici registrati dallo studio dell’FBI: Tutti i terroristi sono musulmani è come dire che tutti gli italiani sono mafiosi. Tra tutti i pregiudizi che calano sugli italiani il peggiore è senz’altro l’assioma “italiani=mafiosi”. All’estero incontriamo sempre qualcuno che appena sa che siamo italiani casca in questo luogo comune che, in un modo o nell’altro a seconda della pazienza di ognuno di noi, ci fa imbarazzare per la sua stupidità. Sentirci dare dei “mafiosi” è un insulto, per molti anche molto grave. Per chi non se ne è reso ancora conto, la Mafia è un gruppo terroristico a tutti gli effetti e di certo non è di religione musulmana.
Il terrorismo in Italia – Gli “anni di piombo”. La storia del terrorismo italiano è ben impressa nella memoria del nostro Paese, terrorismo ad opera degli stessi italiani nostri connazionali. Il periodo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta viene ricordato con il nome “anni di piombo” di cui ricordiamo la “strategia della tensione” (strategia politica da realizzare mediante un disegno eversivo, tesa alla destabilizzazione o al disfacimento di equilibri precostituiti). Non possiamo assolutamente dimenticarci le stragi di quei periodi:
Strage di piazza Fontana a Milano (diciassette vittime e ottantotto feriti);
Strage di Gioia Tauro (sei vittime e sessantasei feriti);
Strage di Peteano a Gorizia (tre vittime e due feriti);
Strage della Questura di Milano (quattro vittime e una quarantina di feriti);
Strage di Piazza della Loggia a Brescia (otto vittime e centodue feriti);
Strage dell’Italicus (Strage sull’espresso Roma-Brennero, dodici vittime e centocinque feriti);
Strage della stazione di Bologna (ottantacinque vittime e oltre duecento feriti);
Così come non possiamo dimenticarci le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo.
Il terrorismo in Italia – La Mafia. Come dicevamo in precedenza, non si può negare in alcun modo che la mafia sia un gruppo terroristico a tutti gli effetti, la storia ne è testimone. Non bisogna dimenticare le stragi compiute ad atto della malavita organizzata:
Strage del Rapido 904 (17 morti e 267 feriti);
Strage di Pizzolungo (l’obiettivo era il magistrato Carlo Palermo, ma invece vennero uccisi una donna e dei suoi due figli gemelli);
Strage di via dei Georgofili (cinque morti e una quarantina di feriti);
Strage di via Palestro (cinque morti);
La strage di Capaci (dove rimasero uccisi il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, mentre una decina di persone restarono ferite);
La strage di via d’Amelio (dove rimasero uccisi il giudice Borsellino e cinque agenti di scorta, mentre ventitré persone restarono ferite).
Il terrorismo cristiano. Nella storia non esistono solo terroristi di religione islamica o ebraica, ma anche di fede cristiana: Il Terrorismo Cristiano comprende atti di terrorismo compiuti da gruppi o individui che citano obiettivi o motivazioni da loro interpretati come "cristiani", o entro un contesto di base di violenza tra diverse fazioni e/o pregiudizi quali l’intolleranza religiosa. Come altre forme di terrorismo religioso, i terroristi cristiani hanno indicato interpretazioni di principi di fede – in questo caso interpretazioni del Vecchio Testamento (bibbia) – come propria ispirazione per giustificare violenza e omicidi.
Il massacro di Utøya. Non possiamo dimenticarci del Massacro di Utøya, in Norvegia, ad opera del terrorista cristiano protestante Anders Behring Breivik, dichiarato anti-multiculturalista, anti-marxista e anti-islamista. Lui stesso si autodefinisce “salvatore del Cristianesimo” e “il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950“. Il suo gesto portò alla morte ben 77 persone, ma l’obiettivo di Breivik fu quello di mandare un segnale al popolo norvegese contro il Partito Laburista e fermare la distruzione della cultura norvegese causata dall’immigrazione musulmana.
Il movimento ultracattolico Christian Identity e il gruppo Army of God. Un gruppo ultracattolico che ritiene i cattolici ariani la “Razza Eletta del Signore”, guidati dal terrorista Eric Robert Rudolph (foto sotto), furono i colpevoli dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 (111 feriti ed un morto), della bomba contro la clinica per aborti ad Atlanta ed il bar Otherside Lounge (bar frequentato da clientela lesbica) nel 1997, della bomba contro la clinica per aborti di Birmingham nel 1998. Negli Stati Uniti d’America è presente anche un gruppo terroristico chiamato “Army of God“, a cui era associato anche il terrorista Eric Robert Rudolph, i quali rivendicarono gli attentati del 1997 contro le cliniche per aborti ed inviarono oltre 500 lettere contenenti polvere bianca, spacciata per antrace, a 280 operatori nel 2001. Nel 1999 furono arrestati e deportati da Israele i membri del gruppo ultracristiano Concerned Christians grazie all’operazione “Operation Walk on Water”, la quale aveva sventato il loro attentato contro la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Il gruppo terroristico ultracristiano era convinto di compiere un atto necessario per il ritorno di Gesù Cristo. Da non dimenticare il famoso gruppo terroristico americano Ku Klux Klan. Il gruppo terroristico americano giustificava la sua azione contro i neri e contro gli ebrei attraverso l’interpretazione di alcuni versetti della Bibbia tra cui quello della Genesi 9, 24-27: «Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli! Disse poi: Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!» Per quanto possa sembrare strano, nella simbologia del KKK c’era anche la croce che brucia, simbolo usato per indurre terrore.
Il terrorismo ebraico. Non bisogna dimenticare il gruppo paramilitare sionista Irgun Zvai Leumi giudicato terrorista dal Regno Unito che operò durante il controllo britannico della Palestina dal 1931 al 1948, anno in cui il gruppo fu disciolto e i suoi membri vennero integrati nelle neo-costituite Forze Israeliane di Difesa. Da citare anche il gruppo paramilitare sionista Lohamei Herut Israel (chiamato dai britannici Banda Stern), di cui bisogna ricordare il massacro di Massacro di Deir Yassin, dove vennero uccise più di 100 arabi costringendo i superstiti a lasciare l’insediamento. Da non dimenticare l’attentato contro il King David Hotel di Gerusalemme nel 1946 (foto sotto), dove vennero uccise 91 persone di varie nazionalità. L’Italia se li dovrebbe ricordare soprattutto per l’attentato compiuto a Roma il 31 ottobre 1946, dove tre giovani terroristi attaccarono l’ambasciata britannica situata presso Porta Pia facendo esplodere due ordigni che causarono la totale distruzione dell’edificio.
L’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda. Non tutti conoscono l’esistenza dell’Esercito di resistenza del Signore, un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana (che opera anche nel nord dell’Uganda, nel Sudan del Sud, nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana). Il gruppo è guidato da Joseph Kony (foto sotto), il quale si dichiara fondamentalista cristiano contro all’Islam e a favore della creazione di una teocrazia basata sui Dieci Comandamenti.
I massacri degli islamici in Africa centrale. Parliamo dei massacri ad opera dei cristiani ed animisti anti-Balaka nello Stato di Centr’Africa, dove la minoranza musulmana viene massacrata. Nel solo mese di gennaio 2014 vi furono circa 1000 vittime, ma il conflitto dura da anni. A denunciare questi massacri fu Amesty International nel 2014. Ciò causò la fuga di numerosi credenti musulmani verso i paesi vicini.
Libano e Palestina. Non bisogna dimenticare il Lebanese Phalanges Party, il “partito delle falangi” di matrice cristiana, le cui milizie compirono i massacri di Sabra e del campo profughi di Shatila ai danni delle popolazioni musulmane e palestinesi durante la guerra civile libanese (1975-1990).
Eppure Ayman Al-Zawahiri, terrorista egiziano, leader di Al-Qā'ida: ha pronunciato queste frasi:«Il nostro messaggio per voi è chiaro, forte e definitivo: non vi sarà alcuna salvezza fino a quando non vi ritirerete dalla nostra terra, smetterete di rubare il nostro petrolio e le nostre risorse, porrete fine al vostro supporto agli infedeli e alla corruzione dei governanti....E' un fatto certo che non tutti i musulmani sono terroristi, ma è altrettanto certo, ed eccezionalmente doloroso, che quasi tutti i terroristi sono musulmani.....Siamo una nazione fatta di pazienza. E noi resisteremo per combattervi, se Dio vorrà, fino all'ultimo minuto....Dobbiamo dissanguare economicamente l'America provocandola, in modo che continui a spendere massicciamente sulla sicurezza. [Dichiarazione del 13 settembre 2013].
Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” del 19 novembre 2015: invece di denunciare l'Isis manifestano contro di noi. La Francia ieri si è svegliata con le notizie del blitz delle teste di cuoio contro i terroristi islamici e in tutta Europa, Italia compresa, si è seguito in tv l'evolversi dell'assedio di Saint Denis. Tuttavia, mentre in ogni diretta televisiva si parlava dell'azione delle forze speciali francesi e di quella ragazza che ha scelto di farsi esplodere per evitare l'arresto, Maryan Ismail si preoccupava di far sapere a tutti di aver organizzato a Milano una fiaccolata sotto la sede di Libero. Sì, avete letto bene. Un raduno davanti alla redazione perché io e i colleghi chiedessimo scusa ai musulmani per il titolo di sabato scorso, «Bastardi islamici». Mentre in Europa ci sono tizi che, nel nome di Allah, vanno in giro ad ammazzare centinaia di persone colpevoli di vivere in Occidente - e dunque di andare allo stadio, a teatro o al ristorante -, la signora Ismail si preoccupava del titolo di Libero. Non chiedeva a ogni islamico di condannare gli attentatori, di invitare ogni imam a tenere un sermone contro gli assassini, di lanciare una fatwa contro il califfo Al Baghdadi e i suoi seguaci. Domandava a noi di scusarci con i musulmani per aver accostato ai bastardi che hanno sparato contro giovani inermi il riferimento all'islam. Vi chiedete chi sia Maryan Ismail? La signora, di cui fino a ieri ignoravo l'esistenza, è nata a Mogadiscio, in Somalia, ma da anni vive a Milano. Figlia di un diplomatico e politico somalo, è arrivata in Italia in qualità di rifugiata politica e la politica da quel che si capisce è la sua passione, tanto da averla indotta a iscriversi al Pd, entrando a far parte della segreteria cittadina del partito. (...) La sua biografia l'ho desunta da Internet, dove tra l'altro si trova una sua polemica a proposito della costruzione della moschea nel capoluogo lombardo. A Maryan non va giù l'idea che il comune, guidato come è noto da un sindaco sostenuto dal Pd, abbia fatto un bando per assegnare un lotto di terreno su cui edificare il luogo di preghiera degli islamici locali. La signora avrebbe preferito che l'amministrazione comunale invece di cedere a questa o a quella associazione la costruzione e la gestione della moschea, gestisse in proprio il sito, in modo da averne il controllo. Fosse passata la sua tesi, oltre agli asili e alle scuole comunali, a Pisapia sarebbe toccato pure fare l'imam o il muezzin, chiamando a raccolta i fedeli. Perfino i suoi, cioè quelli del Pd, l'hanno giudicata una follia, al punto che il segretario cittadino le ha risposto un po' piccato, facendole capire che la moschea non è l'Atm e non tocca all'amministrazione municipale occuparsi del servizio. La sensazione è che Maryan sia in cerca di un po' di visibilità, soprattutto in vista delle prossime elezioni comunali, quando cioè in primavera si dovrà eleggere il nuovo sindaco. E allora, cosa c'è di meglio se non organizzare una bella fiaccolata in nome della pace per fare la guerra a Libero? Di certo sfilando in piazza dichiarandosi vittime di un'offesa a mezzo stampa non si rischia una pistolettata. Per quanto le nostre parole e i nostri titoli non piacciano, mi risulta che non abbiano ancora ammazzato nessuno. Cosa ben diversa invece è contestare integralisti e terroristi, che come si sa, e come si è visto in questi giorni, non vanno troppo per il sottile, anche con quelli che in apparenza dovrebbero essere fratelli. Come ha scritto l'altro ieri Ernesto Galli della Loggia, nel mondo islamico, anche quello moderato che non si riconosce nelle tesi più radicali e nello Stato islamico, si fa molta fatica a condannare senza se e senza ma le fazioni più estremiste che si ispirano al Corano. A parte le dissociazioni post attentati, non esistono infatti prese di posizione nette contro gli integralisti. Ho provato anche a chiedere a Stefano Dambruoso, uno che da pm si è occupato di terrorismo, quante volte gli sia capitato di ricevere da appartenenti alla comunità islamica delle denunce contro persone sospette di predicare odio o di intrattenere rapporti con organizzazioni terroristiche. La risposta è stata: mai. A volte si ottiene qualche confidenza, nella speranza che si chiuda un occhio su altre faccende, ma vere e spontanee dichiarazioni all'autorità neppure il magistrato che per primo si è occupato di integralisti ne ha mai ottenute. E allora siamo sempre al punto di partenza: ci si indigna per un titolo che associa i terroristi e gli islamici, ma anche tra chi si dichiara moderato si fa poco o nulla per fermare i soggetti più pericolosi. Per certi versi par di vedere l'atteggiamento della sinistra ai tempi degli anni di piombo, quando qualcuno sosteneva che i brigatisti erano sedicenti. Vedrete, tra un po' ci diranno che anche quelli del Bataclan sono sedicenti islamici. Eh sì, sta a vedere che i jihadisti invece che figli di Maria sono figli della Cia.
Libero e Bastardi islamici, ecco cosa pensa Vittorio Feltri, scrive “Libero Quotidiano” il 19 novembre 2015. Nel lungo elenco di persone dotate di razionalità e onestà intellettuale che hanno difeso la scelta di Libero del titolo "Bastardi islamici" va doverosamente aggiunto il fondatore di questo quotidiano, Vittorio Feltri, che a Un giorno da pecora su Raidue ha prima ironizzato: "E come vogliamo chiamarli, discoli o birichini? Non credo sia esagerato definire bastardi i terroristi che hanno compiuto una strage come quella di Parigi". Poi Feltri ha spiegato: "Bisogna leggere oltre il significato delle parole: bastardi è un termine che si riferiva a tutti i terroristi, non a tutti gli islamici. Il titolo - ha aggiunto - si riferiva al fatto che i terroristi che hanno colpito in Francia non sono dei frati trappisti o degli scout, ma degli islamici". Feltri risponde anche alla provocazione della conduttrice Geppi Cucciari, quando chiede se in caso di attentati terroristi compiuti da italiani bisognerebbe fare un titolo "Bastardi cristiani". Feltri dice: "Se ci fossero dei terroristi cristiani che vanno in un Paese a compiere degli attentati, perché non definirli cristiani? Se lo facessero si potrebbe fare, ma non lo fanno, quindi non possiamo definire i cristiani terroristi. Mentre quelli a Parigi, guarda caso, sono islamici o islamisti".
Giorgia Meloni su “Libero Quotidiano” del 17 novembre 2015, perché difendo il titolo di Libero: dagli altri giornali l'Islam è sparito. "Caro direttore, leggo delle polemiche scatenate da "Bastardi islamici", titolo di apertura del suo giornale all' indomani degli attentati di Parigi. C' è chi è arrivato a chiedere le sue dimissioni, altri hanno paventato denunce. L' hanno insultata, chiesto la sua radiazione dall' ordine dei giornalisti, qualcuno ha addirittura invocato la galera. Ma sono la sola ad aver visto dietro quel titolo, che colpisce come un pugno perché appare come un insulto sfrontato, un significato molto più profondo di quello che gli è stato attribuito da chi si lascia condizionare dai pregiudizi della propria visione ideologica? Perché personalmente ho interpretato quel «bastardi» come illegittimi, fasulli, impostori: «Bastardi islamici» ovvero «Impostori islamici», islamici deviati. Un messaggio che addirittura potrebbe piacere ai fan del politicamente corretto. Per intenderci, se lo stesso titolo lo avesse pubblicato il manifesto gli stessi che oggi attaccano Libero starebbero plaudendo al genio comunicativo. A proposito del manifesto, titoli ad effetto come questo che colpiscono allo stomaco e costringono a riflettere, ne fa parecchi (il titolista non lo conosco ma è un genio vero). Mi viene in mente il titolo «Niente asilo» sopra la foto del piccolo Aylan, il bambino siriano morto sulle spiagge turche. Il messaggio era chiaro: gli è stato negato il diritto di asilo politico, e ora che è morto non potrà andare all' asilo come gli altri bambini. Nessuno è stato così idiota da credere che il manifesto stesse facendo sarcasmo o insultando un bambino morto. Lo stesso sforzo di perspicacia non guasterebbe anche per cercare di capire i titoli (choc) dei quotidiani vicini alla destra. E quindi, col solito anticonformismo che ci contraddistingue, le scrivo direttore per esprimere a lei e al suo giornale la nostra solidarietà. Piuttosto approfitterei per fare una riflessione su titoli e prime pagine di altri quotidiani, come ad esempio Repubblica: non troverete mai le parole «islam» e «musulmani», quasi che gli attacchi a Parigi fossero stati compiuti da indefiniti gruppi terroristici di matrice sconosciuta. Ma questa è un'altra storia (e un altro giornalismo). Giorgia Meloni
E LI CHIAMANO MODERATI...Islam, sondaggio tra i musulmani in Italia: il 20% non condanna la strage di Parigi, scrive “Libero Quotidiano" il 20 novembre 2015. Qual è la reazione dei musulmani (moderati) alla strage di matrice islamica di Parigi. Bruno Vespa oggi su Il Giorno illustra un sondaggio che ha mostrato a Porta a porta condotto da Ipr su un campione dei due milioni di musulmani residenti in italia (di cui 800mila ormai cittadini italiani). Di questi, l'80% condanna la strage di Parigi, il 12% la giustifica e l'8% dice di non avere una opinione in merito. Il 75% degli intervistati dice che i terroristi si comportano male, il 15% sostiene che sbagliano, ma li comprende e un 5% dice che agiscono bene, perché bisogna combattere la cultura occidentale. Secondo il sondaggio, un musulmano su 4 pensa che la colpa degli attacchi sia degli occidentali e meno della metà dice che si tratta di singoli terroristi che non hanno niente a che fare con la religione islamica. Il 40% ritiene che Francia sbaglia a reagire e ad attaccare militarmente "perché così si fomenta il terrorismo". Ma voi denuncereste un terrorista o qualcuno che lo favorisce? Il 70% risponde di sì. Quanto all'integrazione, il 25% non si sente parte del tessuto italiano, mentre la metà non ha alcuna intenzione di farlo.
Portavoce Ppe: "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Fratoianni: "Frase gravissima". L'articolo sul sito internet del Partito popolare europeo che attacca la sinistra. L'esponente di Sinistra Italiana contro le affermazioni di Monika Hohlmeier: "L'eurodeputata tedesca sfrutta le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei". Forenza (L'Altra Europa con Tsipras): "Ci aspettiamo delle scuse", scrive Monica Rubino su “La Repubblica” 19 novembre 2015. Sul sito del Partito popolare europeo, nella sezione "Comunicati stampa", c'è un articolo dal titolo "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Il pezzo riferisce che l'eurodeputata tedesca Monika Hohlmeier, coordinatrice del Comitato delle Libertà civili degli Affari Interni al Parlamento Europeo, ha criticato i colleghi di sinistra per il loro atteggiamento "lassista" nei confronti del terrorismo. Segue poi un virgolettato della Hohlmeier, che giustifica il titolo del comunicato: "Sembra che per i socialisti, i liberali, i verdi e i comunisti - sostiene l'esponente del Ppe - non ci sia nessuna lezione da trarre dagli attacchi di Parigi. Questi gruppi di sinistra invitano i terroristi a sfruttare le lacune della nostra legislazione sulla sicurezza al fine di perpetrare altri attentati". Per poi concludere: "Le buone intenzioni per prevenire il terrorismo non sono più sufficienti, è necessario cambiare le leggi". Il nesso stabilito dalla Hohlmeier fra i terroristi e il "lassismo della sinistra", come lei stessa dichiara, ha mandato su tutte le furie Sinistra Italiana, che interviene per bocca del deputato Nicola Fratoianni: "Trovo gravissime le affermazioni di Monika Hohlmeier - afferma l'esponente di SI - La deputata tedesca afferma senza vergogna che i terroristi voterebbero allegramente la sinistra, ed utilizza i morti e le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei, il respingimento dei profughi che scappano da Daesh, la chiusura delle frontiere. Esattamente le stesse posizioni che hanno i terroristi che insanguinano il Medioriente e le nostre città". "La destra estrema - prosegue il coordinatore di Sel - evidentemente ha fatto egemonia all’interno del Ppe. Quello che mi impressiona di più è quanto le posizioni della destra europea finiscano per fare il gioco dei terroristi, che nella loro agghiacciante propaganda scommettono proprio su questo: ridurci alle leggi speciali, alla paura, all’indifferenza verso chi soffre. I terroristi stanno già votando la destra estrema in Europa, a suon di morti e paura. Perchè odiano la democrazia. La signora Hohlmeier - conclude Fratoianni - farebbe bene a pensarci prima di parlare”. "Le parole della collega deputata europea Monika Hohlmeier – dichiara Eleonora Forenza, capodelegazione dell’Altra Europa con Tsipras al Parlamento europeo – sono inaccettabili. Da militante di sinistra ed europarlamentare del gruppo Gue/Ngl, voglio dire all’esponente popolare che noi siamo da sempre, e realmente, contro i terroristi, contro ogni forma di terrorismo: perchè lavoriamo per politiche di pace e giustizia sociale, difendiamo i diritti dei migranti, siamo contro chi usa la paura e l’odio per affermare la propria idea di società. Anche per queste ragioni ci opponiamo alle politiche della grande coalizione di cui fa parte il Ppe: fondare l’Europa sul neoliberismo e sulla solidarietà militare. Mi aspetto da Hohlmeier delle scuse per questa indecente dichiarazione, che strumentalizza in modo bieco e maldestro il dramma di Parigi".
Toni Capuozzo: "L'islam moderato non esiste", scrive Alessandra Menzani su “Libero Quotidiano” del 30 novembre 2015. Ex operaio a Marghera, ex contestatore, ex Lotta Continua, figlio di un poliziotto, friuliano, Toni Capuozzo oggi è un cane sciolto che attacca la destra per i Marò e la sinistra sulla guerra in Siria. Non ha bandiera né etichette. Fa fatica a stare fermo. Al lavoro di redazione preferisce quello sul campo, per questo ha raccontato, da inviato, quasi tutte le guerremoderne o i conflitti, dalle Falkland nel 1982 all'ex Jugoslavia, dall'America Latina all'Afghanistan. Le sue sono le occhiaie più famose della tv. Dal 2001 conduce Terra, l'approfondimento che prima era delTg5, di cui era vicedirettore, e oggi va in onda su Rete4. Stasera, per l'ultimo appuntamento della stagione, parla dei cristiani perseguitati in Siria e Iraq.
Perché questa puntata?
«Perché non se ne parla abbastanza. La Siria oggi è il buco nero del mondo, crea e distrugge alleanze. In Iraq, nella regione del nord, fino a Massul che è nelle mani dell'Isis, intere famiglie scappano ma vivono un conflitto: andiamo in Europa o restiamo? Il dilemma dilania la comunità cristiana, una minoranza, perché chi fugge vivrà un esilio per sempre».
Quanto all'Islam, pensa che esista quello moderato?
«No. È una contraddizione in termini. È ovvio che non tutti gli islamici sono terroristi ma non si può parlare di Islam moderato. Ha mai sentito parlare di cattolico moderato o di protestante moderato? È come dire che si può essere molto islamici o poco islamici. I fratelli musulmani sono moderati? No. Hamas lo è? No».
Gli islamici «buoni», chiamiamoli così, potevano essere più decisi nel dissociarsi dagli attentati di Parigi?
«Io parlo con molti musulmani e sento le solite litanie: colpa degli occidentali, colpa di Israele, l'Isis è stata finanziata dagli Usa. Parole per nulla moderate, o no? I terroristi uccidono nel nome di Allah. Faccio un esempio. Se tuo figlio violenta una ragazza è ancora tuo figlio. Il vostro rapporto diventa difficile, ti chiedi dove hai sbagliato come genitore, ma è sangue del tuo sangue. Troppo comodo dire che è colpa di altri se ha sbagliato».
Il Papa dice che questa è una Guerra mondiale a puntate. Se è vero, quale sarà la prossima?
«Temo ancora per l'Europa. Come possiamo difenderci? Con la forza, la fantasia e la lucidità di immaginare un nuovo assetto mediorientale».
Cameron promette le bombe, la Merkel manda le truppe, Putin è il più bellicoso. La risposta cauta dell'Italia come la giudica?
«Se facciamo egoisticamente i codardi diminuiamo il rischio di attentati in Italia. Questo è ovvio. Certo non è una gran soddisfazione. Quello che può consentire all'Italia di salvare la faccia è di prendersi più responsabilità in Libia che è di fronte a casa e fa parte della piccola sfera di influenza italiana. Comunque la vigliaccheria italiana di non mandare aerei è la vigliaccheria internazionale di non fare la guerra di terra e far fare ai curdi il lavoro sporco».
Tra tutte le guerre che ha seguito per lavoro, dall'ex Jugoslavia all'Afghanistan, quale le ha lasciato il ricordo più doloroso?
«Quella dei Balcani. La più vicina a noi. Nel cuore dell'Europa. Quando una guerra è lontana pensi che noi siamo riparati, protetti. "Da noi queste cose non si fanno". Invece sì: assedi, stupri, pulizia etnica. L'assedio di Sarajevo è durato quattro anni».
E poi ha anche un ricordo molto personale.
«Un figlio, lo chiamo così. Portai un bambino piccolo via da Sarajevo assediata, l'ho nascosto in una macchina. Aveva perso la mamma, non aveva una gamba, e l'ho tenuto 5 anni. Poi è tornato là. È quasi più figlio degli altri, è come se l'avessi partorito io. Adesso ha 22 anni e attraversa un periodo difficile».
Quanti altri figli ha?
«Due. Il ragazzo, il più piccolo, studia. Mia figlia è laureata in marketing e lavora nel settore turistico a Londra».
È stato un padre assente?
«Un po'. Stare lontano per lunghi periodi a volte complica, a volta facilita le cose. Certo, salti qualche compleanno, qualche pagella scolastica. Quando sono piccoli i figli ti vedono come la persona più forte del mondo. Crescendo il rapporto diventa più complesso. Oggi è decisamente buono. Sono felice che non facciano i giornalisti, comunque. Con la mia ex moglie ho un rapporto bellissimo, oggi sono legato da otto anni a un'altra donna che fa l'ufficio stampa».
È difficile essere fidanzata con Toni Capuozzo?
«Non più che stare con un impiegato di banca… È vero che ogni tanto si vogliono cambiare gli altri, ma ho sempre fatto questa vita, sono sempre stato così. E poi a parte il lavoro faccio una vita tranquilla, il massimo dell'evasione per me è andare allo stadio nella bella stagione a vedere il Milan».
Dice che è felice che i suoi figli non facciano i giornalisti. Oggi - con Twitter, i blog, Youtube - ha ancora senso un lavoro come il suo? L'inviato, il giornalismo di guerra?
«Le cose non si escludono. La rete ha portato una ventata di aria fresca e di democrazia ma allo stesso tempo la professionalità, la ricerca dei fatti, la garanzia di un lavoro artigiano, contano molto. A volte la rete è come il cesso di un autogrill. Nessuno ha mai telefonato a Samantha il cui numero appare nel cesso di un autogrill. Perché sai che è uno scherzo. Nell'anonimato ti muovi con circospezione. Un giornalista invece ha quella tracciabilità che a volte garantisce autorevolezza».
Però lei ama scrivere su Facebook.
«Ci sono le risposte, i feedback, è divertente anche se non è pagato. Quando avevo la rubrica sul Foglio era una specie di confessionale in cui avevo una libertà maggiore rispetto alla tv, in cui è giusto tenere un maggiore equilibrio. In televisione parlo a gente che non c'è, che non vedo. Su Facebook mi esprimo, c'è un dibattito».
Nell'ultimo libro, Il segreto dei Marò, edito da Mursia, scrive la sua convinzione innocentista. Perché è sempre rimasta una voce tutto sommato isolata?
«Il sentire comune è fortemente influenzato dall'informazione, l'informazione è influenzata dalla classe politica. E la politica sui Marò ha fatto una figuraccia. Nemmeno il centrodestra se la cava. Quella dei due fucilieri è la storia di un insuccesso italiano. Come dicevo l'informazione ha fatto la sua parte, non ho mai visto Bruno Vespa con il plastico dell'Oceano Indiano o Nuzzi e Sottile interpellare psicologi sul caso. Meglio parlare di Meredith…».
Perché si è appassionato tanto al caso Marò?
«Per motivi personali e giornalistici. Conoscevo Latorre dal 2006, quando a Kabul aveva comandato una scorta che mi accompagnava durante un servizio in elicottero. Un professionista serio, non un Rambo che spara a inermi pescatori scambiandoli per pirati. Poi volevo ricondurre tutti ai fatti, vedere i documenti dell'inchiesta indiana, parlare del caso in modo oggettivo e senza pregiudizi politici».
Come definirebbe il suo rapporto con la politica?
«Come quello dell'ex alcolista con il vino: non ne sopporto la vista. Non voto da un quarto di secolo. Non è un messaggio, non ne sono fiero. L'ho anche tenuto nascosto a mia figlia per lungo tempo».
Quali altri sono i suoi difetti, se si possono chiamare così?
«Fumo, in modo accanito. Odio la vita d'ufficio. Non tengo la foto dei figli sulla scrivania. Non faccio selfie, tranne l'altro giorno con Gerry Scotti: lui mi è simpatico e ho messo la foto su Facebook. Non ho il gusto per il potere. Non sono portato per l'organizzazione, soprattutto del lavoro altrui. Quando ero vice direttore del Tg5 dicevo che avevo solo potere su me stesso. Non frequento stanze dei bottoni o salotti importanti».
Ma scusi, le sembrano difetti?
«Ora che mi ci fa pensare più che difetti sono pregi».
Oriana Fallaci, l'ultima lezione: "Non esiste un Islam moderato. Il Corano è il loro Mein Kampf" su "Libero Quotidiano dell'1 settembre 2014. Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, pubblichiamo l'ultima parte del discorso che Oriana Fallaci tenne nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. "...Punto numero tre. Soprattutto non credo alla frode dell'Islam Moderato. Come protesto nel libro Oriana Fallaci intervista sé stessa e ne L'Apocalisse, quale Islam Moderato?!? Quello dei mendaci imam che ogni tanto condannano un eccidio ma subito dopo aggiungono una litania di «ma», «però», «nondimeno»? È sufficiente cianciare sulla pace e sulla misericordia per essere considerati Mussulmani Moderati? È sufficiente portare giacche e pantaloni invece del djabalah, blue jeans invece del burka o del chador, per venir definiti Mussulmani Moderati? È un Mussulmano Moderato un mussulmano che bastona la propria moglie o le proprie mogli e uccide la figlia se questa si innamora di un cristiano? Cari miei, l'Islam moderato è un'altra invenzione. Un'altra illusione fabbricata dall'ipocrisia, dalla furberia, dalla quislingheria o dalla Realpolitik di chi mente sapendo di mentire. L'Islam Moderato non esiste. E non esiste perché non esiste qualcosa che si chiama Islam Buono e Islam Cattivo. Esiste l'Islam e basta. E l'Islam è il Corano. Nient'altro che il Corano. E il Corano è il Mein Kampf di una religione che ha sempre mirato a eliminare gli altri. Una religione che ha sempre mirato a eliminare gli altri. Una religione che si identifica con la politica, col governare. Che non concede una scheggia d'unghia al libero pensiero, alla libera scelta. Che vuole sostituire la democrazia con la madre di tutti i totalitarismi: la teocrazia. Come ho scritto nel saggio Il nemico che trattiamo da amico, è il Corano non mia zia Carolina che ci chiama «cani infedeli» cioè esseri inferiori poi dice che i cani infedeli puzzano come le scimmie e i cammelli e i maiali. È il Corano non mia zia Carolina che umilia le donne e predica la Guerra Santa, la Jihad. Leggetelo bene, quel «Mein Kampf», e qualunque sia la versione ne ricaverete le stesse conclusioni: tutto il male che i figli di Allah compiono contro di noi e contro sé stessi viene da quel libro. È scritto in quel libro. E se dire questo significa vilipendere l’Islam, Signor Giudice del mio Prossimo Processo, si accomodi pure. Mi condanni pure ad anni di prigione. In prigione continuerò a dire ciò che dico ora. E continuerò a ripetere: «Sveglia, Occidente, sveglia! Ci hanno dichiarato la guerra, siamo in guerra! E alla guerra bisogna combattere». Visto? Potrei andare avanti per sempre quando sermoneggio di queste cose. Così la smetto e dico: caro David, caro Daniel, caro Robert, cari compagni d'arme con cui condivido questo premio, cari amici del Center for the Study of Popular Culture: davvero noi esercitiamo un dovere molto faticoso e molto doloroso. Il dovere di raccontare la verità. E, raccontando la verità, dar voce a chi non ha voce. Alla gente male informata o nient'affatto informata. Alla gente che dorme o non pensa con la propria testa e che tuttavia, quando viene informata, bene informata, si sveglia e pensa con la propria testa (anzi si accorge di pensare ciò che non sapeva di pensare ma pensava già). O alla gente che pur pensando non parla per inerzia o timidezza o paura. Non siamo molti, lo so. Ma esistiamo. Siamo sempre esistiti. E sempre esisteremo. Sotto ogni fascismo, ogni nazismo, ogni bolscevismo, ogni islamismo, ogni maccartismo, ogni cancro del cervello, ogni cancro dell'anima. E nonostante gli insulti, le messe alla gogna, le persecuzioni, le beffe, le galere, i gulag, le forche che stroncano il corpo non l’anima. Ah! Per quanto sia amaro considerarci fuorilegge-eretici-dissidenti in una società che a parole si definisce libera e democratica, noi siamo davvero i nuovi eretici. I nuovi fuorilegge. I nuovi dissidenti. Quindi lasciate che mi congedi con la seguente confessione. Io non sono giovane ed energica come voi. Non ho la salute che spero voi abbiate. A dirla in modo brusco e brutale, sono disperatamente malata. Ho raggiunto ciò che i dottori chiamano la Fine della Strada, e non durerò a lungo. Ma sapere che voi fate quello che fate, pensare che voi sarete qui quando io non ci sarò più, mi aiuta parecchio a esercitare quel dovere contro il nemico. A non dargli pace finché avrò un filo di fiato. Meglio: come ho detto quando ho incominciato a parlare, io non accarezzo affatto l'idea di imitare Annie Taylor. Mica son pazza. Ma se necessario, proprio necessario, davvero necessario, bé… tirerò un gran respiro, chiuderò gli occhi, forse mi farò il segno della Croce, (non si sa mai), e salterò anche sopra le Cascate del Niagara. Ok? Grazie per avermi ascoltato. Oriana Fallaci
Marco Travaglio: "Oriana Fallaci non era una grande giornalista", scrive “Libero Quotidiano il 27 novembre 2015. "Chiedere scusa a Oriana Fallaci? No. Era una grandissima scrittrice, ma non una grande giornalista, perché aveva un rapporto con la verità piuttosto soggettivo". Così Marco Travaglio nel corso di Otto e Mezzo su La7. Il direttore del Fatto Quotidiano ha risposto così ad Alessandro Sallusti, che nel corso della puntata aveva chiesto a Marco Manetta di scusarsi per le accuse di "islamofobia" rivolte alla Fallaci. Nessuna scusa, però. Anzi, un nuovo insulto, reso ancor più grottesco dal fatto che sia Travaglio a parlare di "obiettività". "Non c'era un intervistato di Oriana Fallaci che si riconoscesse nelle sue interviste - ha aggiunto -. Perché lei intervistava sempre se stessa. Scriveva sicuramente da Dio, il che l'autorizzava a dire anche delle cose molto iperboliche".
Beppe Grillo: meglio la Fallaci che i «fighetti del giornalismo» (tipo Severgnini e Riotta), scrive Beppe Severgnini su Italians de “Il Corriere della Sera” del 19 settembre 2006. Ciao Beppe! Nel caso ti fosse sfuggita, ecco questa «perla» del blog di Beppe Grillo. «Morta Oriana Fallaci quanti giornalisti liberi di nazionalità italiana rimangono in giro? La Fallaci ha scritto cose che non condividevo e altre su cui ero d'accordo. Ma si è presa sempre dei rischi. Diceva la sua verità, ci metteva la sua faccia. Lascia, più che un vuoto, un baratro nel giornalismo italiano. Fare il giornalista non è facile, ci vuole il protettore. Giornalisti senza padroni non ce ne sono più, e quelli che resistono sono sempre più anziani. E anche ripetitivi, ma non ditelo a Eugenio Scalfari. Bisogna andare nella biblioteca comunale e leggersi vecchi pezzi di Montanelli per tirarsi un po' su. E Travaglio? Mi si chiederà. Ma Travaglio non è un giornalista. Essere giornalista e non anche servo è una questione di astuzia. Io comunque preferisco il giornalista schierato senza se e senza ma. E' più pulito, mi è quasi simpatico. Anche se nessuno lo prende sul serio, come un ubriaco al bar, e tutti gli vogliono bene. Fa la pubblicità, ma non è una pubblicità ingannevole. Feltri, Fede, Ferrara, Rossella, la vecchia guardia, gente semplice, una razza in estinzione. Insidiata dagli opinionisti che hanno, soprattutto, una grande opinione di se stessi. I fighetti del giornalismo, intellettualmente onesti, con la cravatta giusta e la rubrica. Leggi i loro articoli e alla fine ti rimane un senso di vuoto. Non hanno più bisogno di mentire per coprire i fatti. Li annullano con il nulla. E non fanno neppure fatica. I Riotta, i Severgnini, Mentana. Oriana, ci mancherai».
La grande balla dell'islamofobia, scrive di Francesco Borgonovo su “L’Intraprendente del 1 dicembre 2015. Pubblichiamo un estratto di Tagliagole, Jihad corporation di Francesco Borgonovo (Bompiani, pagg. 684, 15 euro). L’autore, caporedattore di Libero e autore de La Gabbia, effettua un’ampia ricognizione sul fenomeno del terrorismo islamico e in particolare dell’Isis, analizzando tra l’altro le abilità propagandistiche dell’esercito del Califfo, capace di attirare aspiranti jihadisti da tutto il mondo. “L’islamofobia aiuta a rafforzare lo Stato islamico”, ha dichiarato durante un intervento nella sede del parlamento europeo a Strasburgo re Abd Allah II di Giordania. A sua altezza verrebbe da rispondere, con il massimo rispetto ovviamente, che le cose non stanno così. Piuttosto, ad aiutare lo Stato islamico è chi continua a sostenere che l’islamofobia non solo esiste, ma è pure in aumento. In tutti i documenti propagandistici diffusi sul web, i tagliagole dell’Isis insistono sul fatto che i musulmani nel mondo vengono perseguitati. In Black Flags from Rome – in cui si promette, fra le altre cose, l’invasione dell’Italia – compare un capitolo abbastanza corposo dove si spiega come l’Europa sia sprofondata in una “età oscura” e come, per far sfogare la popolazione esasperata dalla crisi, si organizzino campagne discriminatorie nei confronti dei musulmani. In nome dell’islamofobia sono stati portati in tribunale anni fa Oriana Fallaci e Michel Houellebecq, colpevoli soltanto di avere espresso le loro opinioni. Di islamofobia sono stati accusati i redattori di Charlie Hebdo. Da vittime di una strage assurda sono diventati colpevoli. Il giornale satirico è diventato, appunto, il simbolo dell’islamofobia occidentale. Peccato che si tratti di una menzogna. Che cosa sia la cosiddetta “islamofobia” lo spiega bene lo storico Walter Laqueurin un saggio intitolato Gli ultimi giorni dell’Europa, che si presenta come “epitaffio per un vecchio continente”, tanto per restare in tema di morti viventi. Come ricostruisce bene lo studioso, il termine islamofobia “cominciò a essere usato correntemente nel 1998 dopo la pubblicazione di un rapporto del Runnymede Trust, una fondazione inglese che ha la missione di combattere la discriminazione razziale e di mantenere buone relazioni fra le minoranze etniche. Il gruppo di lavoro che affrontò il problema della paura e dell’odio per l’islam e i musulmani era guidato dal professor Gordon Conway, biologo, vicerettore dell’Università del Sussex e poi presidente della Rockefeller Foundation”.
L’idea è che esisterebbe, in Occidente, un odio diffuso nei confronti dei musulmani, che sarebbero discriminati in virtù della loro appartenenza religiosa. Da questo presupposto deriva un’ulteriore convinzione, pericolosissima. Ovvero che, sentendosi sotto pressione e odiati nei Paesi in cui vivono, i musulmani siano spinti a radicalizzarsi. Questo presupposto è alla base del romanzo Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid, da cui è stato tratto il film omonimo di Mira Nair. Il protagonista, Changez, di origini pakistane, si laurea a Princeton e, grazie alle sue indubbie capacità professionali, trova un impiego in una società prestigiosa di analisi finanziarie. Ma ecco che interviene l’islamofobia: dopo l’11 settembre, il giovane sente nei suoi confronti una crescente diffidenza da parte dei colleghi e, più in generale, da parte degli americani. Non potendone più di sopportare i pregiudizi, torna in patria e diviene un professore universitario. Non solo: si radicalizza, come se le pressioni subite da parte degli occidentali ne avessero provocato l’esplosione. Il pensiero che permea il romanzo di Hamid è lo stesso che il re di Giordania ha sintetizzato nel suo intervento al parlamento europeo. L’islamofobia diventa così una scusa per giustificare i radicali e gli estremisti. È per via delle stupidaggini che si raccontano a proposito dell’“odio per i musulmani” che, come ho raccontato in precedenza, c’è persino chi ha la faccia tosta di giustificare un macellaio come Jihadi John, come ha fatto Asim Qureshi della fondazione britannica Cage. Grazie al discorso sull’islamofobia, si sposta l’attenzione dalle vere vittime – per esempio i giornalisti e i vignettisti di Charlie Hebdo massacrati senza pietà o gli ostaggi sgozzati – e la si concentra su vittime presunte, arrivando perfino a giustificare un assassino seriale. Grazie al discorso sull’islamofobia, inoltre, si autorizzano associazioni musulmane più o meno radicali a dire le cose più atroci. Per evitare di passare per islamofobi, governi come quello inglese o quello francese (che pure, storicamente, si è sempre mostrato incredibilmente tollerante e inclusivo nei confronti degli islamici) hanno appaltato interi quartieri, lasciandoli nella mani dei predicatori estremisti o favorendo di fatto l’instaurazione della shari’a nel cuore di metropoli come Londra. Che la questione dell’islamofobia sia una montatura a uso e consumo degli estremisti (o semplicemente di chi vuole imporre la propria cultura senza rispetto) lo dimostra il semplice buon senso. La vicenda del processo a Houellebecq, che ho già citato, è chiarissima. L’islamofobia, tanto per cominciare, non è razzismo. Perché se davvero ci fosse un odio diffuso nei confronti degli islamici, allora ne sarebbero vittime tutti i convertiti, che abbiano o meno la barba e che indossino o meno palandrane. Se esiste un atteggiamento di timore, semmai, è nei confronti degli arabi o di quei musulmani che, in virtù del loro aspetto, possono venire inquadrati come radicali. Ammesso che questo timore esista e sia diffuso, si tratta comunque di un sentimento che poggia su presupposti per lo meno comprensibili. Lo spiega bene Laqueur: “Se in anni recenti c’è stata in Europa una ostilità nei confronti dei musulmani, essa non è stata in risposta alla loro religione, ma al fatto che per lo più gli attentati terroristici sono stati compiuti da musulmani: ‘terrorofobia’ sarebbe un termine più esatto. Se quelli che sono stati coinvolti in atti di terrorismo fossero stati eschimesi, l’orrore e la paura sarebbero stati diretti a loro, anche se la maggioranza degli eschimesi non fosse stata coinvolta. È naturalmente sleale generalizzare a un intero gruppo etnico la condanna meritata da pochi, ma probabilmente ciò è inevitabile, specialmente se una porzione significativa del gruppo non prende chiaramente le distanze dagli ‘attivisti’ né si esprime contro la violenza, ma al contrario sostiene o almeno dichiara comprensione per i terroristi”. Ed è difficile negare che quest’ultimo sia stato l’atteggiamento tenuto da una larga fetta del mondo musulmano (islamici che vivono in Europa e America compresi). “Nel 2006”, scrive ancora Laqueur, “una ricerca del Pew Research Center ha concluso che in Paesi prevalentemente musulmani gli abitanti sono molto più critici degli occidentali di quanto accada in senso opposto in Occidente, e che lo stesso vale, anche se in misura minore, per le comunità musulmane in Europa: in altre parole, c’è molto più una fobia antioccidentale che una islamofobia”.
Eppure…
Terrorismo, per Laura Boldrini l'Isis siamo noi: "Abbiamo seminato odio", scrive su “Libero Quotidiano” di Enrico Paoli il 19 novembre 2015. L’Europa parla di guerra, di attacco senza precedenti. Ed è un linguaggio che non è più isolato, fuori sincrono rispetto alle scene che ci passano davanti agli occhi nei telegiornali e nei servizi dedicati alla Francia. È semplicemente la dura realtà che i fatti di Parigi hanno messo al centro del dibattito politico di tutti i Paesi. Eppure l’illuminata e progressista presidentessa della Camera, Laura Boldrini, ha sentito ancora una volta l’urgenza, se non proprio l’impellenza, di marcare il proprio territorio, di mettersi fuori dal coro. Come se starci dentro fosse un problema, un neo da rimuovere. Quando il neo in questione, a dire il vero, è il fenomeno del terrorismo con tutte le sue complicazioni. Ma la Boldrini è così, un eterno salmone anche quando la storia richiederebbe ben altro. In una lunga intervista al settimanale L’Espresso, in edicola oggi, la terza carica dello Stato sostiene che la guerra all’Isis si combatte «con la politica», dialogando con gli attori in campo, esclusa ovviamente la stessa Isis». La presidente della Camera fa notare che «dopo cinque anni di guerra in Siria ci sono state 250mila vittime, oltre la metà della popolazione è fuori casa forzatamente», sostiene la Boldrini, «ci sono quattro milioni di profughi di cui due in Turchia». «La guerra è nefasta, crea odio e disfacimento», sostiene l’inquilina di Montecitorio, «abbiamo seminato odio, abbiamo creato contrapposizione. Abbiamo predicato lo scontro di civiltà, l’errore più grave di tutti. Ora proseguire su questa strada sarebbe miopia politica». Insomma, le forze della coalizione, la stessa Europa, l’America in particolare, avrebbero provocato il processo di reazione che si sta traducendo in atti terroristici, in stragi che colpiscono i civili nella loro quotidianità. La colpa è nostra, sembra essere la sintesi estrema del ragionamento fatto dalla Boldrini. Non solo. La presidente della Camera, sottolineando come la sua sia «una posizione realista, non buonista», rimarca il fatto di non essere mai stata «contro gli interventi militari a prescindere, mi è capitato anche di lavorare in situazioni in cui erano l’unico modo per fermare il massacro di civili innocenti. Ma bisogna evitare di creare odio su odio», sostiene la Boldrini, «fermarsi a riconsiderare gli strumenti con cui vogliamo combattere questa guerra. Tagliare i finanziamenti. Non comprare più il petrolio che arriva dai territori occupati dai tagliagole, un milione di dollari al giorno. Rafforzare l’intelligence: fare un salto nell’integrazione europea significa anche avere una sola politica di sicurezza e di difesa». Tutte belle ricette, tutte belle idee, ma che fanno drammaticamente a cazzotti con la realtà. Nel momento in cui prendi uno schiaffo, non puoi fermarti a chiedere perché, puoi solo reagire, con una forza simile se non addirittura superiore. Poi arriva il momento del dialogo, dunque della politica. Perché veniamo attaccati, perché hanno insanguinato Parigi è già passato. Le domande riguardano già il futuro. L’Europa, in questo momento non ha tutto questo tempo. Parigi ha dimostrato che siamo in una fase di emergenza. Soprattutto di carattere tecnico militare, inteso come sicurezza dei cittadini. E poi c’è il capitolo socio-economico, che la Boldrini ama in modo particolare. «I rifugiati sono le prime vittime del terrore. Chi vuole rimandarli indietro fa un regalo all’Is che si presenterebbe come l’unica protezione», sostiene la terza carica dello Stato, «chi dice che tutti i musulmani sono uguali consegna a poche migliaia di miliziani la rappresentanza di miliardi di persone. Una follia. Si pensa sempre che il nemico venga da fuori», fa notare la Boldrini, «invece è qui, in casa nostra. Le ricette semplici sono un inganno. E sono anche le meno efficaci. Perché il terrorismo è una minaccia globale, che colpisce ad ogni latitudine: a Parigi come a Beirut, ad Ankara come a Nairobi». Ecco, se le cose stanno esattamente così, è evidente la contraddizione in termini contenuta nel ragionamento della Boldrini, che spegne le ipotesi di risposta militare come soluzione ma parla di nemico già presente in casa nostra. Dobbiamo tenercelo? «Il governo ha finora tenuto una posizione ragionevole che condivido. Sulla lotta al terrorismo», ribadisce la Boldrini, «serve senso di responsabilità da parte di tutti». Già, la responsabilità. Noi riflettiamo, loro attaccano. Ancora.
Bufera dopo il post del portavoce di Gabellone, la Sinistra chiede la rimozione. La polemica, nata sul web prosegue a colpi di comunicati stampa. Dopo il post delle scorse ore del portavoce del presidente della provincia di Lecce Antonio Gabellone ne chiedono la rimozione dall'incarico il gruppo “Salento bene comune”, Abaterusso e Carlo Salvemini. Gabellone non risponde, per l'interessato: mera strumentalizzazione, scrive “TeleRama il 18 novembre 2015. Continua a far discutere il post su Facebook scritto dal portavoce del presidente della Provincia Cosimo Carulli sulla morte di Valeria Solesin, negli attacchi terroristici a Parigi. “Non portava la kefiah, non agitava bandiere della pace, dunque sarà dimenticata in fretta .– si legge – Solo una ragazza normale e studiosa, figuriamoci se la feccia della nostra società le riconoscerà qualche onore. Sta circolando tra le agenzie di stampa la notizia sulla morte di una nostra connazionale. Valeria, studentessa modello alla Sorbona di Parigi per mano di bastardi senza scrupoli; ma certamente non farà nessun effetto ai nostri tanti connazionali caproni comunisti vestiti del loro finto egualitarismo con il portafoglio pieno e del loro dialogo del niente con gente come loro, puzzolente e stragista, brigatista e violenta quanto loro. Scenderanno in campo per le varie Vanessa e Greta, le cooperanti in gita di piacere in Siria (piacere in tutti i sensi….), per la Sgrena a cui bastò un rapimento per un seggio in Parlamento e non per i Quattrocchi morti per l’Italia. Insomma, restano quelli che sono: il tumore maligno dell’Italia”.
Il Movimento 5 Stelle, da sempre dalla parte del terrorismo, scrive “Il Corriere del Giorno” il 16 novembre 2015. Degli attivisti del Movimento5Stelle dal baso della loro evidente “ignoranza” ci accusano di percepire contributi dello Stato, quando in realtà chi viene retribuito con i soldi pubblici (ed altro che gli sbandierati e promessi 2.500 euro in campagna elettorale!) sono i loro deputati e consiglieri comunali e regionali, ed i loro “portaborse”, che spesso sono loro parenti diretti o indiretti! Ma questa volta vogliamo ricordarvi alcuni comportamenti dei loro rappresentanti nelle sedi istituzionali.
Era il 12 novembre 2013 e la deputata Emanuela Corda, esponente del Movimento 5 Stelle, non poteva trovare giorno migliore… per commemorare a modo suo, l’attentatore kamikaze che ha ucciso 19 Carabinieri a Nassiriya. Infatti quel giorno, 12 novembre, ricadeva il decennale di quella strage. Con squallido e volgare tempismo, l’onorevole “grillina” ha voluto spendere parole d’affetto e di comprensione nei confronti del giovane attentatore. Nel suo discorso, pronunciato davanti agli attoniti colleghi deputati, Emanuela Corda ha ricordato, dopo una doverosa introduzione in memoria dei 19 italiani e 9 iracheni uccisi: “Nessuno ricorda il giovane marocchino che si suicidò per portare a compimento quella strage. Quando si parla di lui se ne parla come di un assassino, e non anche come vittima, perché anch’egli fu vittima oltre che carnefice”. Parole squallide, allucinanti, quasi incredibili, cui la deputata grillina sembra porre rimedio: “Una ideologia criminale l’aveva convinto che quella strage fosse un gesto eroico e lo aveva mandato a morire“, ma l’apparente rinsavimento durò poco, perché Emanuela Corda continuò così: “e non è escluso che quel giovane come tanti kamikaze islamici fosse spinto dalla fame, dalla speranza che quel suo sacrificio sarebbe servito per far vivere meglio i suoi familiari, che spesso vengono risarciti per il sacrificio del loro caro“. Avete letto bene. Si lo ha giustificato in quanto “spinto dalla fame”. Come se per logica conseguenza si potesse uccidere per fame. Anche il giovane marocchino, ricordato “affettuosamente” dalla deputata grillini, è stato una vittima. Vero, è morto anch’egli nell’attentato. Ma ha scelto di uccidere 28 persone. Commemorarlo in un giorno come questo, in ricordo delle vittime di Nassiriya, appare tanto fuori luogo quanto di cattivo gusto. Ancor più in una istituzione come il Parlamento italiano. Cosa ne penseranno i delusi dalla politica, che votando Movimento 5 Stelle hanno contribuito a portare persone come Emanuela Corda in Parlamento?
Il 12 novembre 2014, l’anno successivo e questa volta, sempre in occasione della ricorrenza dell’anniversario di Nassirya, è stato un consigliere regionale (candidato Governatore) della Regione Lazio per il M5S, a manifestare la sua “vicinanza” ideologica al terrorismo. Infatti, durante il minuto di silenzio che il presidente del Consiglio Regionale del Lazio Daniele Leodorifece osservare, tutti i consiglieri si sono alzati in piedi tranne quello del M5S, Davide Barillari. Il consigliere del Ncd, Giuseppe Cangemi, tra l’altro ex paracadutista, subito dopo gli si e” fatto sotto e stava per attaccarlo fisicamente se non fosse stato trattenuto da alcuni consiglieri, tra i quali Gino De Paolis di Sel e Daniele Mitolo di Per il Lazio. Barillari provo a replicare: “Vorrei alzarmi per ogni morto che abbiamo nel Lazio, in ogni scenario di lotta, comprese le morti bianche. Dovremmo alzarci continuamente. Semmai è questione di chiedersi perchè muoiono queste persone. Queste persone sono morte a causa di una guerra”. Le reazioni “Il consigliere Barillari si dovrebbe vergognare: rimanere seduto durante il minuto di silenzio per l’undicesimo anniversario della strage di Nassiriya e per la Giornata del ricordo dei caduti nelle missioni internazionali è una provocazione inaccettabile”. E’ quanto dichiarò Giuseppe Cangemi, consigliere Ncd della Regione Lazio. “Il consigliere grillino- aggiunse- ha oltraggiato la memoria dei militari che hanno perso la vita, dileggiato la sofferenza delle loro famiglie e offeso tutti gli italiani che si sono inchinati davanti alle bare dei nostri caduti a Nassiriya. Barillari dovrebbe chiedere scusa oppure dimettersi”. Lo sdegno nei confronti dell’esponente del M5S fu “bipartizan”. Marco Vincenzi, presidente del gruppo del Partito democratico al termine del minuto di silenzio per commemorare l’eccidio dei militari italiani a Nassiriya, dichiarò: “Il consigliere del M5SBarillari questa mattina si e” reso responsabile di un gesto grave che offende l’istituzione regionale, l’Italia e l’intera comunità internazionale. I nostri militari caduti a Nassiriya, e in altri teatri di guerra, erano in missione di pace, impegnati a difendere la popolazione civile. Strumentalizzare come ha fatto il consigliere Barillari, la barbarie di Nassiriya, rappresenta uno dei peggiori episodi per l’Aula consiliare della Regione Lazio che stigmatizzo e condanno con forza. Desidero esprimere, infine, a nome del gruppo del Partito democratico, solidarietà e vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per l’impegno quotidiano a difesa della pace nelle missioni internazionali”.
Era il 13 agosto 2014 ed i deputati “grillini” della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico. “Mogherini e Pinotti giocano a fare la guerra in Iraq senza aver consultato il Parlamento preventivamente. Si fermino e vengano a riferire in Aula prendendosi le loro responsabilità di fronte al Paese. Bombardamenti e forniture di armi non fanno altro che alimentare gli stessi fenomeni che si vogliono contrastare. Praticamente è come curare un diabetico con iniezioni di glucosio.” “Il duo Ue-Usa decide di bombardare per mettere pace, con la giustificazione che tutto ciò serva a prevenire il genocidio, mentre per uguali situazioni nel vicinissimo Medio oriente non si procede certo con misure analoghe – concludevano – Violenza genera violenza e l’articolo 11 della costituzione non è un optional.” Una posizione molto netta, ribadita anche dal capogruppo M5S in commissione Esteri alla Camera Manlio Di Stefano in un’intervista a La Stampa: “Noi occidentali abbiamo dato per scontato che la nostra fosse l’unica democrazia possibile. Affrontare le cause con rispetto significa interrogarsi se non ci siano altre forme di governo e di democrazia che vanno bene per i posti dove sono.” Di Stefano attaccò anche gli Stati Uniti e il loro “interventismo accanito contro alcuni territori e il totale oblio di altri territori” (il riferimento era alla Palestina, ndr). Come soluzione, propose “un intervento diplomatico forte”, o al massimo interventi di corpi non armati e interventi umanitari, invece dei “bombardamenti veri e propri” che “polarizzano ulteriormente le divisioni”. “Vero, sono terroristi – concludeva Di Stefano – Ma siamo sicuri che ogni terrorista morto non ne nascano altri cento? Quella provocazione del Califfato di arrivare fino a Roma significa questo: più voi intervenite, più noi reagiremo.” Solo pochi giorni prima Di Stefano era stato al centro di una polemica politica dopo aver attaccato Israele, definendo “genocidio” quello in atto in questi mesi a Gaza. Contro di lui si erano espressi portavoce delle comunità ebraiche e anche l’ambasciata d’Israele in Italia.
Era il 16 agosto 2014 ed un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, i cui proventi pubblicitari non entrano nelle casse del M5S ma del loro “padre-padrone-comico-guru”, il deputato Alessandro Di Battista scriveva: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione”. Non a caso in quei giorni i deputati grillini della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico invitando alla “calma” e al “rispetto” per capire “fenomeni radicali come Isis“, adesso è la volta di Di Battista che nel post pubblicato sul blog di Grillo scriveva: “L’obiettivo politico (parlo dell’obiettivo politico non delle assurde violenze commesse) dell’ISIS, ovvero la messa in discussione di alcuni stati-nazione imposti dall’occidente dopo la I guerra mondiale, ha una sua logica“. Ma l’apice del lunghissimo post arrivava quando il grillino parlava del terrorismo: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Questo è un punto complesso ma decisivo. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. È triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore”, scriveva Di Battista. Non era la prima volta che il M5S difende le posizioni più estreme dell’Islam. Ancor prima di impegnarsi attivamente in politica Beppe Grillo, durante i suoi spettacoli, attaccava le politiche occidentali e giustificava quelle islamiche. Fino ad arrivare all’intervista del 2012 a un giornale israeliano in cui si prodigava in una strenua difesa dell’Iran di Ahmadinejad: “Quelli che scappano, sono oppositori. Ma chi è rimasto non ha le stesse preoccupazioni che abbiamo noi all’estero. L’economia lì va bene, le persone lavorano. È come il Sudamerica: prima si stava molto peggio. Ho un cugino che costruisce autostrade in Iran. E mi dice che non sono per nulla preoccupati”. Non contento…. il deputato M5s disse la sua anche sull’11 settembre : “L’attentato alle Torri Gemelle fu una panacea per il grande capitale nordamericano. Forse anche a New York qualcuno “alle 3 e mezza di mattina rideva dentro il letto” come capitò a quelle merde dopo il terremoto a L’Aquila. Quei 3.000 morti americani vennero utilizzati come pretesto per attaccare l’Afghanistan, un paese con delle leggi antitetiche rispetto al nostro diritto ma che con il terrorismo internazionale non ha mai avuto a che fare”. Quelle parole di Di Battista riuscirono ad unire tutta la politica italiana, accomunata dallo sdegno: da Forza Italia al Partito Democratico, passando per l’Udc e Scelta Civica. Il coro fu unanime: “Siamo al game over per la credibilità e per il margine di tollerabilità del Movimento 5 Stelle” (Forza Italia). “Di Battista a ferragosto deve aver preso un brutto colpo di sole” (Italia dei Valori), “l’ignoranza di Di Battista fa pena” (Ncd). Ma questa volta, alla luce dell’attentato di Parigi, riecheggiano le parole di Di Battista. Ma cosa aspettarsi da uno che ha un padre che partecipando ad una manifestazione dei grillini, dichiarò: “Io di destra? Sono fascista, è un’altra cosa”. Ecco, cari lettori, da chi è composto il Movimento 5 Stelle. Con loro l’Italia ha definitivamente toccato il fondo.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 20 novembre 2015 umilia Vauro: "Coniglio e bastardo: ti spiego pure perché". Allora sei un bastardo anche tu, Vauro Senesi, e di che religione non importa, anzi sei un coniglio, un coniglio mannaro, uno che mette sullo stesso piano i lettori di Libero e i plauditori della strage di Parigi, uno che ha trovato la soluzione allo scontro di civiltà, e cioè questa: arrestare Maurizio Belpietro e le sue sporche truppe. Ma prego, Vauro, a te la parola, come hai fatto nella mattinata di ieri nel vacuo parolaio che è L' aria che tira su La7: avevano appena trasmesso un servizio su un islamico di Catania (uno tutto contento per i morti di Parigi) e poi eccoti: «Sono il primo a condannare il pazzo che a Catania dice quelle cose, però...». C' è un però: «Quando quel pazzo lì sarà arrestato, perché è un fomentatore di odio, ma allora: il signor Belpietro? Quando lo arrestiamo il signor Belpietro, che scrive un titolone così "Bastardi islamici?"». Perché, che ha fatto in concreto Belpietro? «Il signor Belpietro mette a rischio la mia sicurezza, e la sicurezza di ognuno di noi, perché al pari - che non è al pari, perché quello è un poveraccio ignorante, mentre il signor Belpietro dovrebbe essere un intellettuale (voci che si sovrappongono, ndr) ... è criminale, mette in pericolo la vita dei nostri figli, perché se domani un cretino fomentato dal titolo di Belpietro prende a accoltella il primo che incontra... (voci che si sovrappongono, ndr) ... la paura che ho, è che quelli che ci dovrebbero difendere dal terrorismo sono gli stessi che hanno creato il terrorismo». Riassunto: il terrorismo l'ha creato Belpietro o quelli come lui, il quale, non pago, vuole altro sangue e allora aizza gli islamici col titolo «Bastardi islamici» dopo che degli islamici (bastardi) hanno fatto a pezzi dei civili; Belpietro dunque mette in pericolo i figli di Vauro e tutti gli altri. Parentesi: è record, perché l'altro giorno Giafar al Siqilli (come si è ribattezzato ridicolmente Pietrangelo Buttafuoco) aveva scritto sul Fatto che «se il musulmano è un bastardo, un coltello prima o poi se lo ritrova», ora invece arriva Vauro e aggiunge che lo stesso titolo «mette in pericolo la vita dei nostri figli». Insomma, con un solo titolo fai fuori tutti. Ecco spiegata vignetta che Vauro ha piazzato in prima pagina sul Fatto di lunedì: la scritta «Il sangue non si è ancora asciugato» e Belpietro e Salvini che dicono «possiamo sguazzarci». Ma dicevamo de La7 e de L' aria che tira: nel bailamme a quel punto interveniva la conduttrice Myrta Merlino (le cui pettinature sono l'unica giustificazione all' esistenza dell'Isis) e con vacuo cerchiobottismo cercava di sedare: «Belpietro ha fatto un titolo sbagliato, ma...». Ma. Però. Tuttavia. È anche vero che. Insomma, povero Vauro, forse no, forse non sei un bastardo: mettere sullo stesso piano Libero e gli assassini di Parigi è da bastardi e basta, ma è solo che hai una fottuta paura. Ce l'avevi nel 2006, quando attaccasti le vignette danesi anti-Maometto perché, detto con parole tue, «messaggi violenti provocano reazioni violente». Poi però andasti da Santoro con la maglietta di solidarietà, che nel tuo caso avrebbe dovuto essere: «Siano tutti Charlie, da oggi». E poi via, al calduccio a fare vignette su Berlusconi e su Renzi. Ti teneva compagnia Maurizio Crozza, secondo il quale era meglio sfottere il Papa o Bush «perché loro influenzano il nostro modo di vivere». I bastardi musulmani, in effetti, influenzano il nostro modo di morire.
Altro che corano: citiamo il Padre Nostro. A un terrorista islamico che puntandoti il mitra ordina di recitare versetti coranici, chiunque di noi, laico o fedele che sia, dovrebbe rispondere con le parole del Padre Nostro, che è preghiera di libertà e carità, scrive Alessandro Sallusti Sabato 21/11/2015 su "Il Giornale". E tre. Dopo l'aereo russo e la notte di Parigi, lo stragismo islamico fa tappa in Africa, a Bamako, capitale del Mali. Nel grande hotel degli occidentali si contano i morti e in Europa si rinnova la falsa indignazione di chi a parole fa il duro ma in realtà si tiene ben alla larga dall'affrontare il nemico come si dovrebbe in una situazione come quella che stiamo vivendo. Fa paura pensare che una religione dichiari guerra agli infedeli, ma - coerentemente con quanto scritto nel Corano - è esattamente quello che sta accadendo. Che non si tratti di tutto l'islam o solo di una parte, non so quanto minoritaria, è rebus che lasciamo agli esperti di statistica. Perché, per quanto riguarda la sostanza, i fatti parlano sempre più chiaro. Ieri a Bamako è successo che i terroristi hanno sottoposto 170 ostaggi all'esame di Corano: chi sapeva recitare i versetti del profeta ha avuto salva la vita, chi no è finito nella lista dei condannati a morte. In questa tragedia c'è una beffa atroce, perché se i terroristi islamici avessero voluto - per paradosso - graziare anche i conoscitori dei vangeli, credo che in pochi l'avrebbero scampata, tanta è l'ignoranza di un Occidente che si è voluto auto-scristianizzare in nome del multiculturalismo, fenomeno bello in astratto ma, nei fatti, bomba (in tutti i sensi) pronta a esplodere quando meno te lo aspetti, come infatti sta accadendo. Non parlo della mancanza di fede, che è fatto personale. Parlo della consapevolezza della storia che ci ha generato, che invece dovrebbe essere patrimonio collettivo e collante di civiltà. A un terrorista islamico che puntandoti il mitra ordina di recitare versetti coranici, chiunque di noi, laico o fedele che sia, dovrebbe rispondere con le parole del Padre Nostro, che è preghiera di libertà e carità. Se non altro per dimostrare a questa gentaglia «come muore un occidentale» o «come muore un cristiano», sulla scia della celebre frase pronunciata in faccia al boia da Fabrizio Quattrocchi durante la guerra in Irak. Ma forse è chiedere troppo. In un Paese dove Laura Boldrini è presidente della Camera non è tempo di eroi, è il tempo di coccole per i 200mila immigrati islamici «moderati» che in cuor loro tifano Isis. Che brutti tempi.
In Europa crescono i crimini legati all'odio contro i cristiani. È questo uno dei trend che emerge dai dati sugli "hate crimes" diffusi dall'Osce/Odihr per l'anno 2014: in Europa sempre più spesso ad essere colpiti da questo tipo di crimini sono gli appartenenti alla maggioranza della comunità, scrive Alessandra Benignetti Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Chi lo ha detto che sono solo le minoranze ad essere perseguitate? Dal rapporto dell’OSCE/ODIHR, che qualche giorno fa ha reso pubblici i dati del 2014 sui cosiddetti “hate crimes” in 46 paesi del mondo, compresa l’Italia, emerge un quadro ben diverso. Uno dei dati più interessanti di questo rapporto infatti, che ogni anno raccoglie dati sugli "hate crimes", ovvero quei crimini contro persone o beni che sono motivati da un pregiudizio o discriminazione, è infatti quello sui crimini contro i cristiani negli stessi Stati europei. Questo trend è evidenziato dai dati collezionati dall’Osce attraverso un duplice sistema di raccolta informazioni, che coinvolge, da un lato i punti di contatto nazionali ufficiali di 43 Paesi, e dall’altro le segnalazioni di 122 ONG legate alla società civile. Secondo i dati forniti da questi diversi attori, si evince che almeno in tre grandi Stati dell'Europa occidentale, come Francia, Germania ed Italia, le aggressioni fisiche e materiali con alla base pregiudizi contro la fede cristiana, supererebbero in certi casi sia quelle nei confronti di altri gruppi religiosi, sia quelle derivanti da pregiudizi di altra natura. In Italia, infatti, nel 2014 gli “hate crimes” a sfondo religioso, anche contro i Cristiani, vengono subito dopo quelli legati alla xenofobia. A confermare questo trend si aggiungono anche i dati che riguardano, ad esempio, gli “hate crimes” in Francia nell’anno 2013, dove si sono registrati 602 casi di crimini motivati da pregiudizio contro i Cristiani, tra cui 197 casi di profanazione di cimiteri e 405 casi di danneggiamento di chiese. Nello stesso anno in Francia, “solo” 301 sono stati invece, secondo l’Osce/Odihr, gli “hate crimes” contro i musulmani. Anche i dati che riguardano la Germania per il 2014 riportano centinaia di casi di violenza nei luoghi di preghiera, nelle chiese, la profanazione di un cimitero e, nel 2013, anche alcuni casi di aggressione fisica. "Benché i dati pubblicati dall'OSCE/ODIHR siano tra i più completi a livello internazionale, certamente vi è un ampio numero oscuro di “hate crimes” non registrati”, ha commentato Mattia Ferrero, delegato per le attività internazionali dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, sentito al telefono da ilGiornale.it, “tuttavia, è possibile svolgere alcune considerazioni sui trend riscontrabili”. “Uno degli aspetti di maggiore interesse consiste nel fatto che gli “hate crimes” colpiscono tanto le minoranze, quanto le maggioranze. In particolare, gli “hate crimes” contro i Cristiani, anche e soprattutto nell'Europa occidentale, rappresentano un numero molto significativo, comparabile, se non superiore in alcuni casi, a quelli nei confronti di altre comunità religiose” continua l’avvocato Ferrero, “in secondo luogo, essendo gli “hate crimes” motivati da odio religioso, principalmente degli atti di violenza contro luoghi di culto e non violenze contro le persone, le vittime e le autorità sono portati a sottovalutarli, ed è quindi necessario aumentare l'attenzione, sia a livello politico e di opinione pubblica, sia da parte delle autorità, verso gli “hate crime” anticristiani”. Inoltre il delegato dell’Unione Giuristi Cattolici ha sottolineato come occorra “valutare con molta attenzione gli "hate crimes" più ricorrenti, ovvero quelli motivati da odio etnico, razziale, nazionalistico e religioso, perché si tratta di fenomeni che sono in grado di portare ad un escalation di violenza a livello interno ed internazionale”. “La prevenzione di conflitti ed instabilità dell'area europea passa anche attraverso la prevenzione e lotta di questo tipo di hate crimes" ha affermato l’avvocato. Un altro trend che emerge dai dati del report, è quello che vede, in quasi tutti i Paesi esaminati, i casi di hate crimes contro persone LGBT, sottostare in valore numerico ai casi di violenza motivati da odio etnico e religioso, che sono invece predominanti. È quanto ha evidenziato in una nota stampa l’associazione Pro Vita Onlus, tramite il portavoce dell’associazione Alessandro Fiore. “Alcune associazioni e molti organi di stampa presentano il fenomeno dei crimini d'odio contro persone LGBT come un'assoluta emergenza nazionale, i dati oggettivi a nostra disposizione ci restituiscono un quadro diverso”, ha dichiarato il portavoce. Come ha affermato l’Osce nella decisione di Atene n.9 del 2009, quindi, anche gli individui appartenenti alla maggioranza della comunità possono essere vittime di “hate crimes”, ed è importante per questo, si legge nella decisione della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, contrastare i crimini di odio a tutti i livelli. Sono soprattutto questo tipo di crimini spesso, infatti, a minacciare la “sicurezza dei singoli e la coesione sociale”, fino a sfociare in “conflitti e violenza su larga scala”.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 21 novembre 2015 umilia Antonio Di Pietro: ecco la prova, parla arabo. Islam moderato, titoli moderati: trovare un linguaggio comune è la cosa più importante. Chi meglio di Antonio Di Pietro? Ecco il suo contributo (iperstestuale) espresso ieri mattina a «Coffee Break», su La7: «Guardi, si fa presto a riempirsi la bocca... ehm... di... ergh... agenti segreti, la sicurezza, la la... il controllo del territorio... tra i dire e il fare non è mica facile, eh, perché prendi case di questo genere, per poi accorgersi semplicemente quando è già fatta la frittata, non è facile andare all’interno... ma prevenire: bisogna prevenire, ma bisogna anche avere il senso del... ergh... la responsabilità di dire fino a che punto è possibile, ecco perché io ritengo, quel che sta succedendo, che succederà questa manifestazione che fanno... Ergh… domani, sia importante per un motivo molto semplice: perché deve far capire al popolo italiano che... l’islam è una cosa... bh... è una cosa, ebeh... l’Isis è un’altra, che... ergh... la religione musulmana è una cosa, che coloro che... usz.. zhezhe... si riempono la bocca di questa parola ma che in realtà... ergh... sono problemi psichiatrici, sono problemi mentali, sono problemi che... per risolverli bisogna semplicemente isolarli e cercare che qualcuno dica di chi li conosce, di chi ha rapporti con lui, ci dica qualchecosa. Ecco perché sotto questo aspetto io ritengo che il messaggio che viene mandato in questo momento dalle istituzioni, anche dal governo Renzi che io ho sempre contrastato con tante altre (incomprensibile) sia un messaggio corretto... in questo momento dobbiamo stare tutti uniti. Questo momento cominciare a fare polemica quello non va bene quello non va bene quello non va bene, serve semplicemente a creare confusione... il... quel che a me preoccupa qual è? È il proselitismo... quel che a me preoccupa è che ci sono menti malate che vedendo tutto quel che sta vedendo, lo voglio fare anch’io, lo voglio fare anch’io. Perché viene in mente a fare tutto questo. Ecco, in questo senso che cosa può avvenire? Il controllo del territorio siamo innanzitutto noi stessi, senza stare seduto sulla sedia e pensare: perché quello non ha fatto quello? Ma mica è Mandrake, il poliziotto, bisogna che qualcuno glielo dico, e allora quando succedono queste cose, come quelle che avete visto adesso in questa ragazza, sicuramente, nel suo entourage, nel suo ambiente, nel suo territorio, tante persone hanno capite che qualcosa non andava, e allora facciamo una cosa: d’ora in poi ogni volta che capiamo qualcosa che non va, meglio una una segnalazione in più, magari sbagliata... non chiudiamoci... perché i migliori agenti in sicurezza di noi stessi siamo noi stessi. Dobbiamo essere tutti partecipi tutti insieme. Io mi metto a dire male del governo Renzi perché poteva mettere più poliziotti: ma se ci stai pure tu a vederle e segnala il fatto, no?». Così disse il noto moderato Antonio Di Pietro: perché trovare un linguaggio comune - tra l’italiano e l’arabo - è la cosa più importante.
Orgoglioso di essere cristiano e cattolico.
I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.
L’Islam è generato da un profeta guerriero ed il suo fine è la morte. I suoi adepti uccidono in nome di Allah materialmente o apologicamente con il loro sostegno o con il loro silenzio. Tutti seguaci di un Dio cattivo perché permette morte, sofferenza, odio, ignoranza, disuguaglianza, intolleranza e retrogradia. Una religione che nega ogni piacere terreno ed ogni libertà. Alle donne non è riconosciuto un paradiso paritario in cielo ed in terra condannate all’inferno: assoggettate all’uomo solo come strumento di piacere ed utilità. Per i diversi non c’è scampo. Imposizione della loro fede e rifiuto di reciprocità di libertà religiosa. Quando un mussulmano uccide gli innocenti, e lo fa spesso con viltà usando il terrorismo, lo fa gridando “Allah akbar” (Dio è il più grande). Il progresso è usato solo come strumento di morte (vedi il nucleare). La cultura dell’Islam è solo la conoscenza del Corano e la divulgazione in tutti i modi del suo messaggio. Prima annettono e poi annientano ogni traccia o testimonianza o storia di altre culture. Il loro strumento di morte è il terrorismo. Viatico di viltà, non di sacrificio.
Il cristianesimo è nato con l’avvento di Gesù Cristo: per alcuni, un profeta di pace; per altri, Dio buono e figlio di un Dio buono che aborra violenza e morte. Un credo per la vita, la libertà e la felicità. I cristiani hanno i loro peccati: veniali e capitali. Mai nessuno, però, ha mai ucciso in nome di Cristo, ricevendo approvazione da parte degli altri cristiani, se non in un’epoca oscura ed oggi rinnegata come quella dell’inquisizione. I sedicenti cristiani hanno ucciso con terrorismo e genocidio, ma non in nome della fede, ma solo in nome di una ideologia: indipendentismo e colonialismo in minima parte; per il restante, totalitarismo di sinistra: nazista, fascista e comunista. I cristiani hanno ucciso mussulmani, affianco ed alleati di mussulmani, ma solo per ritorsione e fanno la guerra a viso aperto. Non usano il terrorismo. Le Crociate sono l’orgoglio dei cristiani veri. Strumento di liberazione di luoghi santi e difesa dei fedeli in quei luoghi trucidati per la loro confessione religiosa. Le crociate hanno scaturito solo progresso e libertà. La cultura occidentale è rappresentare in ogni modo tutte le manifestazioni del creato. Per questo è immensa e sublime. La scienza e la tecnica sono strumenti di vita, benessere e progresso. Le armi di distruzioni di massa, da sempre, sono solo strumento di dissuasione o usati a fine di pace come nella seconda guerra mondiale.
Io da parte mia ho scritto “Culturopoli. L’Italia della Discultura e dell’Oscurantismo”. Sta ai mussulmani ed ai sinostroidi, attingere un po’ di sapere per aprirsi la mente e vedere il mondo da un’altra prospettiva.
Parigi. 13 novembre 2015, ore 21 circa. Attacco all’occidente.
Attentati Parigi: 129 morti e 352 feriti, Isis rivendica. «Più di cinque arresti» in Belgio. Hollande: «Atto di guerra». Quattro italiani feriti. Sette terroristi morti, hanno agito in tre team. L'esplosivo la «Madre di Satana». Perquisizioni e arresti a Bruxelles. Valls: «È guerra, ci saranno altri attacchi». Evacuato volo Air France ad Amsterdam. Un francese arrestato a Londra, scrive "Il Corriere della Sera” il 14 novembre 2015. Il clima di paura che attanaglia Parigi dopo la serie di attentati di venerdì notte non si è quietato nemmeno a 24 ore di distanza dalla carneficina. Sabato sera la polizia ha fatto evacuare la zona della Tour Eiffel e decine di poliziotti hanno circondato e ispezionato l'Hotel Pullman, proprio accanto alla celebre attrazione, comunque chiusa dopo gli attacchi della vigilia. Chiusa anche la vicina stazione della metropolitana e della ferrovia Champ de Mars in quello che, però, si è rivelato un falso allarme bomba, ma che è un chiaro segnale della tensione che attanaglia la Francia. La capitale francese si è svegliata sabato mattina in un clima spettrale dopo la tragedia in quello che sembrava un venerdì di divertimento, spensieratezza e di sport. La puntuale rivendicazione da parte dell’Isis (è «solo l’inizio della tempesta»), arrivata sabato mattina e che la Casa Bianca ritiene attendibile, ha contribuito ad abbattere il clima. «Quello che è successo venerdì a Parigi è un atto di guerra commesso da un’armata jihadista contro i valori che noi difendiamo e che siamo: un Paese libero», ha detto il presidente François Hollande in un discorso televisivo. «La Francia è stata aggredita in modo vergognoso e violento, sarà spietata contro la barbarie dello Stato islamico, agirà con tutti i mezzi, sul fronte interno ed esterno». Sabato sera il primo ministro Manuel Valls, in diretta su Tf1, ha ribadito la posizione di Hollande: «Siamo in guerra. Sarà lunga e difficile. E per questo dico che dobbiamo attenderci altri attacchi». Il procuratore di Parigi non ha escluso che alcuni terroristi siano sfuggiti e siano in fuga e in un’operazione legata agli attentati «almeno 5 arresti» sono stati effettuati in Belgio. L'esplosivo usato è stato il Tatp, perossido di acetone, un potente esplosivo primario talmente instabile da essere soprannominato «la madre di Satana». Si tratta dello stesso tipo di esplosivo impiegato anche negli attacchi di Londra che, il 7 luglio 2005, causarono 52 vittime su metropolitane e autobus. Una miscela di acqua ossigenata, acetone e acido solforico o acido cloridrico, sostanze facilmente reperibili in commercio, che risulta molto sensibile al calore, all'attrito e agli urti, come spiega il Centro nazionale antiterrorismo americano. Il bilancio, «sfortunatamente ancora provvisorio e in continua evoluzione», è pesantissimo: 129 morti e 352 feriti, di cui 99 in stato di urgenza assoluta, 177 in urgenza relativa, ha riferito il procuratore della Repubblica François Molins. Delle vittime, 89 provengono solo dalla sala concerti Bataclan. Sette i terroristi morti e non otto, come affermato in un primo momento. Di questi sei sono riusciti ad azionare i detonatori delle loro cinture esplosive, uno è stato invece ucciso dalla polizia. Nella capitale francese sabato le scuole di ogni ordine e grado, i musei e gli istituti di cultura, ma anche i luoghi simbolo come la Tour Eiffel o il parco di Eurodisney sabato sono rimasti chiusi. Con loro i principali grandi magazzini. Undici stazioni del metrò sono rimaste chiuse, tra queste lo snodo di Place de la République presso i luoghi delle principali sparatorie. Se le scuole - sospese in tutto lo Stato - dovrebbero riaprire lunedì, per i luoghi culturali non è ancora stata presa una decisione. Inoltre, diversi eventi musicali e mondani sono stati cancellati dalle star: gli U2, che avrebbero dovuto suonare sabato sera all’Accorhotels Arena e in diretta tv, hanno rinviato il concerto; Natalie Portman non sarà più alla prima del film «Jane got a gun»; è stato cancellato il photo call di «Bridge of spies» con Steven Spielberg, Mark Rylance e Amy Ryan, previsto domenica; i Foo Fighters, che avrebbero dovuto suonare sabato sera a Torino e lunedì a Parigi, hanno addirittura annullato la tournée. Gli attentatori «Erano bianchi, erano giovani sui 25 anni». E ancora: «Sembravano soldati delle forze speciali». Tra loro potrebbe esserci una donna. Ecco le prime informazioni fornite da alcuni testimoni sull’identità degli attentatori di Parigi che sarebbero arrivati in auto sui luoghi delle stragi. Di certo hanno agito «quasi sicuramente» in tre squadre d’attacco, ha spiegato Molins, invocando «Siria e Iraq» sia all’interno del Bataclan sia negli scambi con le forze dell’ordine. Indossavano tutti cinture esplosive che contenevano anche bulloni per massimizzare il numero di vittime. Di certo uno degli assalitori, che ha agito al teatro Bataclan, si chiamava Ismaël M., aveva 30 anni ed era di nazionalità francese, residente a Chartres, nel centro del Paese. Ma soprattutto era schedato negli archivi dei servizi di informazione francesi dal 2010 per «radicalismo». Aveva avuto problemi di giustizia, ma per reati di tipo comune. «Non era mai stato incarcerato». In serata fonti vicine all'inchiesta hanno riferito che il padre e il fratello di uno dei kamikaze sono sotto custodia: secondo l'Agenzia France Presse sono in corso perquisizioni presso i domicili dei due, a Romilly-sur-Seine e a Bondoufle. Anche in questo caso sarebbero parenti di un cittadino francese, non è stato chiarito se si tratti di Ismaël M. Un altro terrorista, di cui non sono ancora stati resi noti nome e nazionalità, aveva tentato di entrare dentro lo Stade de France, dove stava per iniziare l’amichevole Francia-Germania, con la cintura esplosiva sotto ai vestiti. Sarebbe stato fermato all’ingresso dagli addetti ai controlli e avrebbe fatto detonare l’esplosivo. Lo riferisce il Wall Street Journal. Altri tre sarebbero stati belgi, provenienti dal quartiere di Molenbeek di Bruxelles, zona già interessata dai blitz in Belgio seguiti alle stragi di gennaio a Charlie Hebdoe nel supermercato Hyper Kosher. Un’operazione di polizia è stata effettuata a Bruxelles nel quartiere di Molenbeek e «più di cinque arresti» sono stati effettuati, secondo il ministro della Giustizia belga Koen Geens. Il premier Charles Michel ha poi precisato che uno dei fermati venerdì sera era a Parigi. La pista belga è nata a caldo, visto che già venerdì sera, in alcune testimonianze, si parlava di due auto nere, con alla guida 18-20enni: una delle due vetture, una Polo con targa appunto belga, sarebbe stata ritrovata con nel cruscotto biglietti per il parcheggio del quartiere di Molenbeek a Bruxelles. L’uomo che l’aveva presa a noleggio, un cittadino francese residente in Belgio, è stato arrestato al confine tra i due Paesi. È invece confermata la notizia del ritrovamento di un passaporto siriano sul corpo di uno dei kamikaze morti allo Stade de France: si tratta di un uomo «nato nel settembre 1990 in Siria, non noto ai servizi di informazione francese». Il documento appartiene a un rifugiato registrato sull'isola di Lero, in Grecia lo scorso 3 ottobre, secondo quanto riferito dal ministro dell’Interno di Atene Nikolaos Toskas. E sono sempre le autorità greche a far sapere che anche un altro degli attentatori è probabile sia entrato in Europa passando dalla Grecia. Sono state le autorità francesi, chiedendo l'identificazione attraverso le impronte digitali, a chiedere informazioni ad Atene a riguardo. Secondo l'emittente Mega si tratterebbe di un uomo arrivato in agosto, sempre a Lero. Prende forza un possibile legame con un arresto effettuato il 5 novembre scorso in Baviera. Un uomo era stato arrestato durante un controllo di routine in autostrada e nell’auto sono stati trovati «esplosivi, molte mitragliatrici e pistole». Si tratta di un montenegrino di 51 anni in viaggio proprio per Parigi che, per il premier del Land tedesco Horst Seehofer, ci sarebbe regione di ritenere legato alle stragi di Parigi. Il ministro degli interni tedesco Thomas de Maizière ha spiegato che «ci sono indagini in corso su un’eventuale connessione», precisando che l’arresto era stato segnalato alle autorità francesi. Falso, invece, l’allarme di sabato mattina per un’automobile con quattro persone armate a bordo che avrebbe forzato un casello autostradale nelle Yvelines, a sud-ovest di Parigi. Tra le vittime risultano diversi non francesi: due sorelle tunisine; una cittadina americana; due romeni; due belgi; uno spagnolo; un portoghese; un bulgaro. Il Regno Unito ha fatto sapere che un suo cittadino è stato identificato, ma che teme che tra le vittime ce ne siano altri. Diverse persone, tra cui almeno uno svedese, risultano dispersi. Tra loro c’è un’italiana, Valeria Solesin. Tra i feriti non gravi anche quattro giovani italiani: i fratelli Andrea e Chiara Ravagnani, di Dro, in Trentino, che erano con Soresin, e Massimiliano Natalucci e Laura Appolloni di Senigallia, in provincia di Ancona. In questo caso la donna è stata raggiunta alla spalla da una scheggia o da un proiettile ed è già stata operata, Natalucci è stato medicato. Ambedue non sono in pericolo di vita. Tra i feriti anche un cittadino della Romania. Gli attacchi sono avvenuti negli stessi minuti in diversi luoghi diversi della capitale: cinque nella parte est tra il X e l’XI arrondissement nella zona tra Place de la Republique e la Bastiglia (una delle aree più affollate del divertimento parigino del venerdì sera), un altro nei quartieri settentrionali all’esterno dello Stade de France mentre si stava svolgendo l’incontro amichevole di calcio Francia-Germania, alla presenza di Hollande e del ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier). Questa la cronologia:
- 21,20: un primo kamikaze si fa esplodere in Avenue Jules Rimet, la strada che fiancheggia lo Stade de France: morta una persona oltre all’attentatore. L’esplosione è udita distintamente all’interno, la partita viene momentaneamente sospesa poi prosegue fino la termine.
- 21,25: sparatoria nelle terrazze dei ristoranti Le Carillon e Le Petit Cambodge, nel X arrondissement tra Rue Bichat e Rue Alibert provoca almeno quindici morti e dieci feriti.
- 21,30: un secondo kamizake si fa esplodere in Avenue Jules Rimet fuori dallo stadio: anche qui morto un passante e l’attentatore.
- 21,32: un’altra sparatoria in un ristorante vicino al primo causa almeno cinque morti: si tratta della birreria À la Bonne Bière in Rue de la Fontaine au Roi, XI arrondissement: 5 morti, 8 feriti gravi.
- 21,36: al bar La Belle Équipe all’incrocio di Rue de Charonne con Rue de Faidherbe nell’XI arrondissement una nuova sparatoria provoca 19 morti, nove feriti gravi.
- 21,40 circa: un kamikaze si fa saltare in aria dentro al ristorante «Le Comptoir Voltaire» sul boulevard Voltaire, sempre nel XI, ferendo gravemente una persona.
- 21,40: tre terroristi armati entrano nella sala di concerti Le Bataclan mentre è in corso il concerto della band americana Eagles of Death Metal: qui avviene la peggiore strage, 89 morti, centinaia di feriti (tra i quali i due italiani). Qui, secondo alcuni testimoni, avrebbe agito anche una donna. Nel contrattacco delle forze di sicurezza i tre terroristi vengono uccisi: due sono riusciti ad azionare le loro cinture esplosive.
- 21,53 un terzo terrorista si fa esplodere presso il McDonald’s che si trova nei pressi dello Stade de France: oltre al jihadista muore un passante.
- 00,20 del 14 novembre: le forze di sicurezza lanciano il blitz al Bataclan cercando di liberare gli ostaggi. Un terrorista viene ucciso, gli altri due si fanno saltare in aria.
Il presidente Hollande è stato subito portato via dallo Stade de France e ha raggiunto immediatamente l’Eliseo, dove ha presieduto una riunione di emergenza del governo nella quale è stata decisa la dichiarazione dello stato di emergenza e la chiusura delle frontiere. Poi l’Eliseo ha precisato meglio le parole del presidente: le frontiere non sono chiuse ma saranno aumentati i controlli. Le procedure Schengen erano infatti già state sospese dal 13 novembre al 13 dicembre per il vertice sul clima Cop21 di Parigi. «La Francia è più forte e può essere ferita, ma oggi si rialza. Difendiamo la nostra patria, ma anche i valori dell’umanità: la Francia saprà assumersi le sue responsabilità». Il presidente ha annunciato che si rivolgerà alle Camere in seduta congiunta a Versailles, una procedura prevista dalla Costituzione francese per situazioni eccezionali. Hollande ha anche annunciato che non parteciperà al G20 in programma in Turchia nel fine settimana. Sempre sabato mattina a Londra il terminal nord dell’aeroporto di Gatwick è stato evacuato per «misura precauzionale» a causa di un pacchetto sospetto, riprendendo le attività solo intorno alle 16 (le 17 italiane). Un francese di 41 anni, originario di Vendôme (Loira), è stato fermato perché avrebbe compiuto gesti che hanno insospettito le forze di sicurezza e sarebbe stato trovato in possesso di un’arma.
Dal comunicato dell’Isis sulla rivendicazione degli attacchi di Parigi è possibile capire molto sul linguaggio dell’organizzazione terroristica. È Repubblica a fare un’analisi del bollettino di guerra che si apre con la sura Al-Hasr, il bando che fa riferimento all’elemento sorpresa che recita: “quelli fra la gente della Scrittura che erano miscredenti. Voi non pensavate che sarebbero usciti, e loro credevano che le loro fortezze li avrebbero difesi contro Allah. Ma Allah li raggiunse da dove non se lo aspettavano e gettò il terrore nei loro cuori: (…). Traetene dunque una lezione, o voi che avete occhi per vedere”. Non si parla dunque di non attaccare luoghi noti, ma i più nomali, dove loro “non se lo aspettano” come per esempio il Bataclan, un luogo, secondo i terroristi, si teneva “una festa della perversione” dove c’erano “centinaia di idolatri”. I bersagli sono stati scelti “minuziosamente” anche se poco importa che tipo di musica si stesse suonando in quel momento, l’importante era colpire la cultura occidentale. È proprio questa precisione che fa ritenere alla polizia francese che tra i terroristi vi fossero pure dei francesi già schedati come potenzialmente pericolosi. Il comunicato, poi, prosegue con l’elogio ai martiri che si sono fatti esplodere allo stadio dove si giocava l’amichevole Francia-Germania, a cui assisteva “l’imbecille” Hollande. Paesi come la Francia che lottano con ijihadisti nelle zone calde saranno “i principali bersagli dello stato islamico” e sentiranno ancora ‘l’odore della morte’ per aver insultato il Profeta, con un nuovo sottile riferimento implicito a Charlie Hebdo. L’attacco alla laicista Francia, rivendica il documento, è una ripercussione per aver bombardato lo Stato islamico, un atto che non è servito a nulla “quando l’attacco è stato portato nelle maleodoranti strade di Parigi”. Un bollettino che si chiude col versetto 8 della sura 63: “La potenza appartiene ad Allah, al Suo Messaggero e ai credenti, ma gli ipocriti non lo sanno”, con chiaro riferimento a quei musulmani moderati che credono solo a parole.
"Libero Quotidiano" 14 novembre 2015: Bastardi islamici. Maurizio Belpietro: "Altro che siamo tutti Charlie Hebdo: siamo tutti in pericolo, perché il terrorismo islamico non fa distinzione tra uomini e donne, fra combattenti e innocenti. Il terrorismo islamico vuole non solo uccidere, terrorizzare, colpire chiunque sia ritenuto un infedele. Il 2015 è cominciato a Parigi sotto i peggiori auspici, con l’irruzione di due fratelli imbottiti di armi e di odio religioso. E a distanza di meno di un anno il 2015 si conclude nello stesso modo: con un’irruzione in un ristorante, in una sala da concerti e persino allo stadio, con ostaggi e altri morti. La contabilità delle vittime a notte non è ancora nota, ma si parla di decine di cadaveri, né è conosciuta con chiarezza la dinamica, quanti siano i terroristi in campo, di quali fazioni si professino militanti, da dove vengano e come siano potuti sfuggire ai controlli dell'antiterrorismo. Ma in fondo che serve sapere tutto ciò? L'unica cosa che c'è da sapere e che serve a qualcosa è che l'Occidente ha sbagliato tutto e continua a sbagliare".
Maurizio Belpietro e i bastardi: ecco perché difendo quei titoli. Ieri sul titolo di Libero "Bastardi islamici" ha scatenato una serie di polemiche e accuse. Oggi, nel suo editoriale il direttore Maurizio Belpietro difende la scelta e si difende dalle accuse partendo soprattutto dalla lingua italiana. "È come se un cattolico uccidesse delle persone e qualcuno scrivesse bastardi cattolici, ci è stato obiettato. Non tutti gli islamici sono terroristi, non tutti i cattolici sono persone pacifiche. Vero. Ma noi non abbiamo scritto che tutti gli islamici sono terroristi né lo abbiamo pensato (...) Noi non abbiamo insultato gli islamici in generale", scrive Belpietro. E ancora: "Noi abbiamo scritto: Bastardi (sostantivo) islamici (aggettivo). La lingua italiana è chiara, non lo è solo per chi è in malafede e non vuole vedere la realtà".
Querelati dal genero di Gino Strada. Pirla on line, tutti gli insulti: farete la fine di Charlie. Il rosario d'insulti è lungo quanto una quaresima, scrive "Libero Quotidiano" il 15 novembre 2015. Ce n'è per tutti i gusti e, soprattutto, è stato saccheggiato l'intero vocabolario delle parolacce. Ovviamente all' appello non mancano quelli che incitano alla violenza pura. Anzi, all' azione fisica. Come fa Alessandro Guerri che su Facebook scrive: «Io li ammazzerei tutti, come quelli di Charlie, d' altronde mica si può scrivere quel che si vuole...poi sai che belle magliette con su scritto Je suis Libero, me comprerei non una ma due». Prego, si accomodi pure. Però il top lo toccano il giornalista Maso Notarianni, genero di Gino Strada, che ha deciso di denunciare il direttore di Libero. Sulla stessa lunghezza Hamza Roberto Piccardo, tra i fondatori dell'Unione delle Comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). Intervistato dal quotidiano on line Lettera43, diretto da Paolo Madron, ha affermato di provare «nausea, schifo, dolore più che rabbia», per il titolo di Libero. «Non si rendono conto del male che stanno facendo», chiosa Piccardo, «questi vogliono la guerra civile per interessi politici». Resta uno solo enorme dubbio: contro gli assassini c' è la stessa vibrata indignazione? A volte il dubbio diventa certezza, vista la rapidità dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia. Il presidente, Gabriele Dossena, ha segnalato il titolo «Bastardi islamici», al Consiglio di disciplina territoriale perché faccia una approfondita valutazione del caso e per verificare se ci siano state o no violazioni delle Carte deontologiche della professione giornalistica. E poi c' è la rete che non si smentisce mai. Su Twitter Barbara Collevecchio chiede di dare a quelli dell'Isis «l'indirizzo di Belpietro». E saremmo noi i «seminatori d' odio». Andrea Giambartolomei, invece, «30 anni, scrivo per @ilfattoquotidiano. Frequento tribunali e librerie. Le opinioni sono mie. Rt#endorsement. info sul blog», tocca l' apice: «Se dovesse succedere qualcosa a Maurizio Belpietro non scriverò mai qualcosa tipo #jesuisBelpietro. Ecco». Vorremmo tanto sapere come la pensano al Fatto Quotidiano di personaggi così. E siccome è sempre meglio esagerare una giornalista del Tg2, Chiara Prato, Chiarap su Twitter, oltre a mostrare la prima pagina di Libero ripresa da un sito arabo non ufficialmente Isis ma «simpatizzante», arriva al punto di sostenere che saremmo addirittura «complici dei terroristi». Se qualcuno vuol confondere le idee ai lettori e ai telespettatori ci riesce benissimo. Per fortuna Giuseppe Cruciani, conduttore de La Zanzara su Radio 24, prova raddrizzare la barra. «Non tutti gli islamici sono bastardi, ma quelli che ammazzano sono islamici bastardi», scrive sul social network dei cinguettii. Sempre su Twitter, dove in queste ore «#Libero» è trend topic, si legge: «#Libero sciacallo: persona che per rubare approfitta delle disgrazie altrui», attacca un utente, accusando Belpietro. «Come aggiungere odio all' odio #Libero #vergogna», aggiunge Carlotta. Tanti chiedono poi di intervenire contro Belpietro: «Prima pagina di #Libero su #ParisAttacks. Ma come vi salta in mente? Radiare Belpietro dall' ordine dei giornalisti. Subito», scrive Stefano Sanguineti. Ma c' è anche chi difende la scelta di Libero. «Per la #fecciarossa il vero problema è il titolo di #Libero», ribatte un altro utente. Mentre un secondo scrive: «Non sarà censurando #Libero che si vincerà la guerra in atto contro l'#ISIS».
Per farsi notare denuncia Belpietro per “istigazione all’odio religioso”, scrive Francesco Severini sabato 14 novembre 2015 sul “Il Secolo D’Italia”. Maurizio Belpietro, direttore di Libero, è stato denunciato dal giornalista Maso Notarianni, ex caporedattore del quotidiano di Rifondazione comunista, Liberazione, per il titolo della prima pagina di oggi, Bastardi islamici, riferita agli attentati di Parigi. Un titolo volutamente “forte”, frutto di una corale indignazione ma che ha suscitato non poche polemiche. Un dibattito, quello sul linguaggio da utilizzare in situazioni tragiche come quelle che l’Occidente sta vivendo, passato in secondo piano dinanzi alle drammatiche notizie che arrivano da Parigi. Un dibattito che sicuramente tornerà a fare capolino anche se sarebbe utile che tutte le energie intellettuali disponibili, anche quelle di Notarianni, siano spese per approfondire e comprendere la fase che stiamo vivendo anziché ingaggiare una guerra delle parole con il direttore di un giornale evidentement sgradito agli esponenti della sinistra. “La legge italiana stabilisce dei confini per la libertà di satira e di stampa, io – spiega Notarianni – credo quel titolo sia un’istigazione all’odio religioso con l’aggravante dell’insulto a una religione. Quel tipo di comunicazione è pericolosa oltre che criminale, credo sia stato sensato fare una denuncia”. Ora, mentre il mondo si interroga sulle strategie da adottare per fronteggiare la bestialità dei jihadisti, il pericolo è davvero rappresentato dai titoli, sia pure opinabili, di Maurizio Belpietro? “Qualcuno ci dà degli ignoranti – replica Belpietro – per il titolo Bastardi islamici. Ignoranti son quelli che non sanno che bastardo significa figlio illegittimo”. A Belpietro ha risposto, tra gli altri, Cecilia Strada: “Unghie sugli specchi a parte, siete seminatori di odio. Che genera odio. Non ve l’ha insegnato la mamma? Siete pericolosi”. Pericolosi, dunque, sarebbero i giornalisti di Libero. Su altri e ben più concreti pericoli, invece, meglio sorvolare. Questa è la logica di una sinistra sempre più disconnessa dalla realtà.
SIAMO TUTTI ORIANA FALLACI.
La sinistra non condanna l’estremismo islamico, ma attacca la destra. La colpa degli attentati di Parigi è dell’Islam, perché islamici i suoi esecutori. Ma se il centrodestra lo dice, per la sinistra sta facendo sciacallaggio. Loro lo chiamano sciacallaggio, noi buonsenso. Condannare l’Islam, tutto l’Islam, per i terribili attentati di Parigi non significa cavalcare “i corpi ancora caldi”. I tweet di Salvini, quelli di Daniela Santanché, le condanne del centrodestra a un’Europa che si è svegliata schiava del buonismo sono segno di ragionevolezza. Non opportunismo politico. Per l’intellighenzia radical-chic, invece, no. Nemmeno il tempo di dormire qualche ora con le immagini del massacro ancora davanti agli occhi, ed ecco che l’Espresso pubblica in pompa magna un articolo in cui anziché biasimare l’Islam attacca il centrodestra. La sua colpa, secondo i signori buonisti, è quella di avere “il tweet già salvato da qualche parte, pronto in canna per essere lanciato al momento opportuno”. Certo. Non è l’islamismo il problema, non lo sono le bombe né i 128 morti. Il problema sono i tweet di Salvini, i titoli dei giornali di centrodestra. “La serie di attentati che ha sconvolto Parigi – scrive su l’Espresso Mauro Munafò – è diventata l’occasione perfetta per i politici italiani di Lega e destra per riversare il loro odio su social network, prendendosela genericamente con tutto l’Islam, attaccando chiunque chiedesse di ragionare prima di sparare a zero, appoggiando interventi e soluzioni rapide giusto per fare incetta di like e, nelle loro speranze, voti”. Maledetto prosciutto negli occhi. Nemmeno di fronte al fatto compiuto riescono ad ammettere che le porte aperte, il relativismo, la favola della differenza tra Islam radicale e moderato hanno generato un mostro, quotidianamente allattato. Uno sgorbio ormai troppo grande da estirpare. “Buonisti=complici”, ha scritto ieri sera Matteo Salvini. “L’Islam festeggia i nostri morti”, aggiungeva Daniela Santanché. E la sinistra, lei sì sciacalla, affonda il colpo. Cosa c’è di sbagliato, ci chiediamo. L’Islam “moderato” ha dimostrato di non essere all’altezza. Non esiste nessuna “degenerazione” o “follia” jihadista. I terroristi hanno agito con cognizione di causa, sapevano dove colpire. Sapevano cosa colpire: i luoghi dello svago, il tempo del calcio. L’Europa si è di fatto sottomessa a tutto questo. Accettando finanche di limitare la propria libertà pur di affermare l’ideologia buonista. Crocifissi nell’urina e mostre cristiane negate sono solo la punta dell’iceberg. La guerra è brutta, ma il pacifismo, ormai, è inutile. Il centrodestra da tempo ha lanciato l’allarme. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Fonte: il giornale.
Così la sinistra radical-chic del web insulta la Fallaci. C'è chi la paragona al vitel tonné e chi attacca Salvini per aver proposto la lettura obbligatoria dei suoi libri nelle scuole, scrive Francesco Curridori Sabato 14/11/2015 su “Il Giornale”. Sui social, a distanza di anni, si rende il dovuto tributo alla scrittrice Oriana Fallaci, vista come un'infallibile Cassandra. Ma non mancano quelli che bistrattano i suoi lettori come degli ignoranti che condividono acriticamente i suoi pensieri. Proprio sulla pagina Facebook dell'Espresso, come testo di accompagnamento a un articolo sui fatti di Parigi, si può leggere: “Prima di condividere acriticamente citazioni di Oriana Fallaci e status di Salvini, leggete questo - dal blog Il Paese che non ama". In molti, poi, ricordano la lettera che Tiziano Terzani gli indirizzò che terminava con queste parole: "La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perchè se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte". Altri utenti di Facebook scrivono: "Aveva ragione Oriana Fallaci", su internet tornano le frasi della scrittrice fiorentina. "Certo, non basterà un #JeSuisParis a risolvere i problemi. Ma citare i deliri razzisti di Oriana Fallaci peggiora solo la situazione" oppure di Twitter: "La Fallaci viene citata da chi dubito l'abbia mai letta. Io invece spero che ragione, eguaglianza e voglia di creare un mondo migliore vincano su paura del diverso, ignoranza e violenza". Una delle frasi più offensive forse è questa: "Oriana Fallaci è come il Vitel Tonné a Capodanno: a nessuno piace, ma qualcuno insiste sempre a tirarlo fuori per l'occasione". Le più politicamente rilevanti però sono i tweet che i followers di Matteo Salvini hanno scritto in risposta all'invito di rendere obbligatoria la lettura dei libri della Fallaci. Il commento più significativo viene dal matematico e filosofo Francesco Maria Fontana: "Salvini ha torto. E Fallaci ha grandi responsabilità: ha predicato l'odio razziale e religioso. E l'odio genera odio".
Gli attentati di Parigi e la Fallaci. «Scusaci Oriana, avevi ragione». Il risarcimento postumo è online. Aspra ma vera, violenta ma realista. Fallaci protagonista su Facebook e Twitter, scrive Pier Luigi Battista su “Il Corriere della Sera” del 15 novembre 2015. Su Twitter, su Facebook, sui social network, dopo l’apocalisse di Parigi è tutto uno «scusaci Oriana». Anzi, tutto no. La parte opposta se la prende aspramente, rancorosamente, con «il delirio della Fallaci», con «l’odio fallaciano». Uno ha scritto, come in una disputa teologica, contro il «fallacianesimo». Ma insomma, da una parte e dall’altra fioriscono le citazioni di Oriana Fallaci. Si vede nel massacro di Parigi il frutto della «profezia di Oriana». Si citano brani interi de La rabbia e l’orgoglio, un libro che ha venduto un numero incalcolabile di copie, che ha intercettato un umore popolare, che ha dato voce a un sentimento diffuso. E oggi, dopo anni di dimenticanza e di marginalizzazione, lo «scusaci Oriana» sembra essere la ricompensa postuma, il risarcimento per una sordità, quasi a considerare Oriana Fallaci come una intrattabile estremista. Mentre ora si vede che le sue diagnosi non erano poi così insensate. Un passo della Fallaci molto citato: «Intimiditi dalla paura di andar controcorrente cioè d’apparire razzisti, non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione». «Brava Oriana», «Scusaci Oriana», «Non ti hanno voluto ascoltare Oriana», si batte e si ribatte sui social network. E giù anche con gli improperi di Oriana Fallaci sull’Italia molle e arrendevole, «l’avamposto che si chiama Italia» come lo definiva beffardamente lei: «avamposto comodo strategicamente perché offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà». E sulla «coglioneria» s’alza la standing ovation dei fallaciani dell’ultimissima ora, o forse della prima perché compravano avidamente i suoi libri ma non avevano il palcoscenico di Internet sul quale esibirsi. E la profezia della Fallaci che viene rilanciata, e poi contestata, e poi brandita come un’arma della guerra culturale, e poi vituperata, e poi sventolata come una bandiera: «Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi». E poi, la previsione più precisa, geograficamente circostanziata, in perfetta connessione con l’orrore che ha scosso la Francia: «Parigi è persa, qui l’odio per gli infedeli è sovrano e gli imam vogliono sovvertire le leggi laiche in favore della sharia». La Francia che non ha mai amato Oriana Fallaci. E bisognerebbe anche ricordare che in Francia la Fallaci, assieme a Michel Houellebecq molto prima che uscisse Sottomissione, fu messa sul banco degli accusati con l’imputazione, che assomiglia a una scomunica ideologica, di «islamofobia»: un’impostura intellettuale che diventa reato e che in Francia, nella Parigi che ieri è stata sconvolta dalla follia fanatica dei combattenti jihadisti, è diventata un’arma di ricatto per tacitare la «parola contraria», come direbbe Erri De Luca in un contesto peraltro completamente diverso. La Fallaci del dopo 11 settembre ha sempre diviso l’opinione pubblica: l’hanno amata e l’hanno odiata, hanno comprato milioni di suoi libri e l’hanno bollata come fanatica al contrario, come guerrafondaia scatenata, come una pericolosa incendiaria quando descriveva Firenze assediata e violentata dagli immigrati che orinavano sul sagrato del Duomo, con un’immagine aspra, violenta. Senza che nessuno si chiedesse: aspra ma vera? Violenta ma corrispondente alla realtà? Oggi, dopo il massacro di Parigi, quelle domande tornano di attualità e vengono assorbite e fagocitate da quel grande mostro onnivoro che è il mondo dei social network. «Scusaci Oriana» su Twitter. Neanche una «profezia» della Fallaci poteva arrivare a tanto.
Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista. La violenza va repressa con la violenza ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno, scrive Claudio Magris su “Il Corriere della Sera” del 15 novembre 2015. Siamo in piena Quarta guerra mondiale. Le tre precedenti avevano almeno schieramenti nettamente contrapposti; anche la Terza, cosiddetta Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei più diversi Paesi della terra, per nostra fortuna da noi lontani. In questa Quarta, che poche ore fa ha fatto strage a Parigi dopo averne fatte molte altre, non si sa bene chi combatta contro chi; nel caos che infuria nel Medio Oriente, ad esempio, è spesso difficile capire chi sia nostro alleato o nemico. Assad, ad esempio, è stato indicato ora quale tiranno da abbattere ora quale possibile alleato. In questo enorme pulviscolo sanguinoso è difficile combattere chi semina stragi, ovvero l’Isis. Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio - precario e odioso, ma pur sempre equilibrio - di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati. Ma l’Isis non è Al Qaeda, non è una società segreta inafferrabile; si proclama uno Stato, seppur sedicente e non ben definito. Dovrebbe quindi essere più facile colpirlo in modo sostanziale. Certo la strategia perdente è quella adottata sinora, soprattutto dagli Stati Uniti, con quei bombardamenti a singhiozzo che non bastano a togliere di mezzo quel cosiddetto Stato e magari, con le perdite non sempre precisamente mirate che infliggono, feriscono e irritano altre forze e compagini politiche. È inutile -- anche inutilmente violento - dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene. È ovvia l’esecrazione per le stragi compiute a Parigi e altrove, con la destabilizzazione generale della vita sociale e collettiva che esse provocano. Si può pure deprecare la scarsa efficacia dei Servizi segreti dinanzi a nemici così sfuggenti, anche se bisogna riconoscere che è più difficile scoprire le trame dell’Isis che quelle della Cia o del Kgb. A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo. È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. Quei dirigenti scolastici che hanno annullato per quel motivo la gita dovrebbero essere licenziati in tronco e messi in strada ad aumentare le file dei disoccupati, perché evidentemente non sono in grado di svolgere il loro lavoro, come dovrebbe essere licenziato un insegnante che in una gita scolastica a Granada vietasse ai suoi allievi di visitare l’Alhambra per non offendere la loro fede cristiana. La violenza va repressa con la violenza, ma anche - e sperabilmente - esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando pure nelle zucche più dure la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno. Solo Allah, ripetono i versetti sulle pareti dell’Alhambra, è il vincitore. Le stragi di Parigi e tutte le violenze dimostrano, purtroppo, che spesso l’imbecille violenza è più forte del Signore, comunque questi venga chiamato.
Non è solo terrorismo, l'Islam integralista dell'Isis è come il nazismo. Dobbiamo affermare che non è più tempo di sentirsi in colpa e fare distinguo tenendo solo presente che l'Islam non è il terrorismo così come il cristianesimo non era la sant'inquisizione ma che l'isis è come il nazismo, scrive Marco Carrai il 15 Novembre 2015 su “Il Foglio”. Le immagini di Parigi di venerdì notte hanno forse tolto l'ultimo velo alle profetiche parole pronunciate da Papa Francesco qualche tempo fa e nuovamente ieri: siamo pienamente dentro la terza guerra mondiale. Immagini che eravamo abituati a vedere da decenni in luoghi come Kabul, Beirut, Baghdad sono piombate dentro le nostre case, le nostre vie, i nostri ristoranti, i nostri luoghi di spensierato intrattenimento e ci hanno improvvisamente svegliato dal torpore talvolta buonista talvolta integralista che ci ha avvolto da anni. La Francia - paese che, anche grazie alle sue storiche rivoluzioni ha portato la modernità e la libertà che oggi sentiamo minacciate - è stata attaccata con atti di guerra terroristica e ha risposto con la chiusura delle frontiere. Questa scelta è emblematica di quanto ancora non si sia capito che il nemico lo abbiamo in casa. Coltivato dal buonismo che ha fatto dell'accoglienza senza se e senza ma un mantra e da un altrettanto uguale sentimento di intolleranza che ha messo ai margini non integrandoli generazioni di immigrati che hanno costruito città con proprie regole, dentro città che da 400 anni vivono invece con regole di libertà. Se ancora oggi non possiamo non dirci tutti francesi allora diciamolo fino in fondo ma traiamone le conseguenze. La rivoluzione francese nasce per l'eliminazione di privilegi e per costituire uno stato che abbia una sua propria costituzione dentro la quale i cittadini si riconoscono. E' come il figlio di una famiglia adottiva. Ha un genitore naturale ma, cresciuto da un'altra famiglia vive, convive ed accetta gli insegnamenti della sua famiglia adottiva. Quando non è così succedono solo disastri. Se è vero che nessuna cultura è superiore ad altre, è anche vero che le culture subiscono mutamenti e sarebbe solo falso buonismo non affermare con forza che 400 anni della recente storia ha permesso all'occidente di costruire una piattaforma tollerante di cittadinanza mentre ancora qualcuno decide di uccidere in nome di Dio. Oggi più che mai, dobbiamo riporre la nostra fiducia nella nostra Intelligence e capacità di prevenzione anche a costo di veder ridurre momentaneamente - ma solo momentaneamente perché altrimenti avrebbero vinto loro - alcuni nostri diritti. Ma qualsiasi attività preventiva seppur fatta al meglio non servirà da sola se non capiamo che i pazzi non possono trovare posto nella nostra civiltà e nei nostri Paesi. Forse, anzi di sicuro, con tutta la forza dobbiamo affermare che non è più tempo di sentirsi in colpa e fare distinguo tenendo solo presente che l'Islam non è il terrorismo così come il cristianesimo non era la sant'inquisizione ma che l'isis è come il nazismo. Noi siamo più forti solo perché abbiamo le nostre regole e le nostre libertà. In definitiva la nostra cultura. Che va difesa. Ad ogni costo. Così come altre volte è successo nella storia del 900.
Basta buonismo: fuori le palle, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale” il 14 novembre 2015. L’Occidente è sotto attacco. Siamo tutti sotto attacco. Parigi, Madrid, Londra o Casalpusterlengo. Poco cambia. Ai loro occhi siamo tutti uguali. Siamo noi che ci sentiamo tutti diversi e andiamo avanti in ordine sparso. La mattanza di Parigi è l’11 settembre – l’ennesimo – dell’Europa. È una carneficina che macella la nostra carne, le nostre vite e la nostra sgangherata società. Ci odiano. Ci vogliono annientare. Chiunque essi siano. Questi bastardi che agiscono in nome di Allah. Non c’è un criterio, non c’è una scelta nella loro follia. Non c’è niente. Solo la voglia di sangue. Loro sono colpevoli. Ma hanno dei complici. Oggi è schiantato il multiculturalismo, il sogno dell’integrazione, l’illusione lisergica del melting pot, la retorica bavosa e cattocomunista delle porte aperte, l’ipocrisia del terzomondismo col culo degli altri. Poi c’e l’iniquità politica dell’Europa, che essendo un’Europa delle banche e degli affari se ne fotte dei cittadini e di quello che gli succede. Non fa politica estera, al massimo fa commercio estero. E Obama? Questo premio Nobel per la pace sulla fiducia, questo pessimo politico favorito dalla pigmentazione della sua pelle, non esiste. È un fantasma. Persevera in una politica estera nella quale il limite del globo è l’ombelico dell’America. L’11 settembre 2001 siamo stati tutti americani, non solo nelle parole, anche nei fatti. Anche nelle guerre sbagliate. Sbagliatissime. Ma nessuno, mai, in questi anni si è sentito veramente europeo davanti all’orrore del terrorismo. Nè gli americani, nè gli europei. Poi c’è il governo italiano. Che ha il potere, la sovranità, le qualità di un’amministrazione condominiale e la lungimiranza di una talpa. Siamo nelle mani di Renzi e di Alfano. E tra meno di un mese c’è un Giubileo che ci stamperà sulla fronte i cerchi concentrici del bersaglio. Comunque vada, e speriamo bene, dobbiamo sapere che al momento abbiamo perso. Avremo paura a prendere la metropolitana, ad andare al lavoro, a girare per Roma e per Milano. Il terrorismo ci ha mangiato il mondo, lo ha ridotto, ristretto. Facciamo un discorso stupido: pensate in quanti posti non andreste in vacanza ora? Egitto e Tunisia. Probabilmente Marocco e Turchia. Iraq, Afganistan e Siria sono ovviamente impraticabili. Ma anche Parigi e tutte le capitali europee. Tra poco avremo paura a prendere l’aereo, il treno, l’autobus. Ieri sera sono morti degli innocenti seduti in un ristorante e in un teatro. Senza colpa. Senza motivo. Stavano facendo le cose di tutti i giorni. Vogliono rinchiuderci in casa, toglierci la libertà, vietarci il mondo, impedirci la vita se non ce la fanno a togliercela. Siamo dei bersagli. Non è più il momento dell’ipocrisia, delle belle parole, dell’altruismo, dell’accoglienza per tutti. Abbiamo bisogno di un po’ di egoismo. Siamo in tempo di guerra. E dobbiamo farla. Anche al buonismo che ci impedisce di difenderci. O saremo sottomessi.
Il nemico che trattiamo da amico. (Questo articolo fu pubblicato sul Corriere della Sera il 16 luglio 2005). All’indomani dell’attentato terroristico di matrice islamica che ha insanguinato la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, si inseriscono nel dibattito pubblico di queste ore, le riflessioni di Oriana Fallaci sul rapporto tra Islam e Occidente. L’articolo fu scritto dopo la strage alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 da Oriana Fallaci.
Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos' altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr' anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all' Occidente, di culto della morte, di suicidio dell'Europa. Un'Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr' anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell' Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr' anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell' Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.
Incominciai con «La Rabbia e l'Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L' Apocalisse». E tra l'uno e l'altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l'islamico sorpreso con l'esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia di destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra all'Occidente, Culto della Morte, Suicidio dell'Europa, Sveglia Italia Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l'ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi terroristi vogliono distruggere i nostri valori, che questo stragismo è di tipo fascista ed esprime odio per la nostra civiltà».
Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all'apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un'altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla. Nulla. Dall'antiamericanismo all'antioccidentalismo al filoislamismo, tutto continua come prima. Persino in Inghilterra. Sabato 9 luglio cioè due giorni dopo la strage la BBC ha deciso di non usare più il termine «terroristi», termine che esaspera i toni della Crociata, ed ha scelto il vocabolo «bombers». Bombardieri, bombaroli. Lunedì 11 luglio cioé quattro giorni dopo la strage il Times ha pubblicato nella pagina dei commenti la vignetta più disonesta ed ingiusta ch'io abbia mai visto. Quella dove accanto a un kamikaze con la bomba si vede un generale anglo-americano con un'identica bomba. Identica nella forma e nella misura. Sulla bomba, la scritta: «Killer indiscriminato e diretto ai centri urbani». Sulla vignetta, il titolo: «Spot the difference, cerca la differenza».
Quasi contemporaneamente, alla televisione americana ho visto una giornalista del Guardian, il quotidiano dell'estrema sinistra inglese, che assolveva l'apologia di reato manifestata anche stavolta dai giornali musulmani di Londra. E che in pratica attribuiva la colpa di tutto a Bush. Il criminale, il più grande criminale della Storia, George W. Bush. «Bisogna capirli». Cinguettava «la politica americana li ha esasperati. Se non ci fosse stata la guerra in Iraq...». (Giovanotta, l'11 settembre la guerra in Iraq non c'era. L'11 settembre la guerra ce l'hanno dichiarata loro. Se n'è dimenticata?). E contemporaneamente ho letto su Repubblica un articolo dove si sosteneva che l'attacco alla subway di Londra non è stato un attacco all'Occidente. E' stato un attacco che i figli di Allah hanno fatto contro i propri fantasmi. Contro l'Islam «lussurioso» (suppongo che voglia dire «occidentalizzato») e il cristianesimo «secolarizzato». Contro i pacifisti indù e la magnifica varietà che Allah ha creato. Infatti, spiegava, in Inghilterra i musulmani sono due milioni e nella metropolitana di Londra non trovi un inglese nemmeno a pagarlo oro. Tutti in turbante, tutti in kefiah. Tutti con la barba lunga e il djellabah. Se ci trovi una bionda con gli occhi azzurri è una circassa». (Davvero?!? Chi l'avrebbe mai detto!!! Nelle fotografie dei feriti non scorgo né turbanti né kefiah, né barbe lunghe né djellabah. E nemmeno burka e chador. Vedo soltanto inglesi come gli inglesi che nella Seconda Guerra Mondiale morivano sotto i bombardamenti nazisti. E leggendo i nomi dei dispersi vedo tutti Phil Russell, Adrian Johnson, Miriam Hyman, più qualche tedesco o italiano o giapponese. Di nomi arabi, finoggi, ho visto soltanto quello di una giovane donna che si chiamava Shahara Akter Islam).
Continua anche la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. Vale a dire delle moschee che esigono e che noi gli costruiamo. Nel corso d' un dibattito sul terrorismo, al consiglio comunale di Firenze lunedì 11 luglio il capogruppo diessino ha dichiarato: «E' ora che anche a Firenze ci sia una moschea». Poi ha detto che la comunità islamica ha esternato da tempo la volontà di costruire una moschea e un centro culturale islamico simili alla moschea e al centro culturale islamico che sorgeranno nella diessina Colle val d'Elsa. Provincia della diessina Siena e del suo filo-diessino Monte dei Paschi, già la banca del Pci e ora dei Ds. Bé, quasi nessuno si è opposto. Il capogruppo della Margherita si è detto addirittura favorevole. Quasi tutti hanno applaudito la proposta di contribuire all' impresa coi soldi del municipio cioé dei cittadini, e l'assessore all'urbanistica ha aggiunto che da un punto di vista urbanistico non ci sono problemi. «Niente di più facile». Episodio dal quale deduci che la città di Dante e Michelangelo e Leonardo, la culla dell'arte e della cultura rinascimentale, sarà presto deturpata e ridicolizzata dalla sua Mecca. Peggio ancora: continua la Political Correctness dei magistrati sempre pronti a mandare in galera me e intanto ad assolvere i figli di Allah. A vietarne l'espulsione, ad annullarne le (rare) condanne pesanti, nonché a tormentare i carabinieri o i poliziotti che con loro gran dispiacere li arrestano. Milano, pomeriggio dell'8 luglio cioé il giorno dopo la strage di Londra. Il quarantaduenne Mohammed Siliman Sabri Saadi, egiziano e clandestino, viene colto senza biglietto sull' autobus della linea 54. Per effettuare la multa i due controllori lo fanno scendere e scendono con lui. Gli chiedono un documento, lui reagisce ingaggiando una colluttazione. Ne ferisce uno che finirà all'ospedale, scappa perdendo il passaporto, ma la Volante lo ritrova e lo blocca. Nonostante le sue resistenze, dinanzi a una piccola folla lo ammanetta e nello stesso momento ecco passare una signora che tutta stizzita vuole essere ascoltata come testimone se il poverino verrà processato ed accusato di resistenza. I poliziotti le rispondono signora ci lasci lavorare, e allora lei allunga una carta di identità dalla quale risulta che è un magistrato. Sicché un po' imbarazzati ne prendono atto poi portano Mohammed in questura e qui... Bé, invece di portarlo al centro di permanenza temporanea dove (anziché in galera) si mettono i clandestini, lo lasciano andare invitandolo a presentarsi la prossima settimana al processo cui dovrà sottoporsi per resistenza all' arresto e lesioni a pubblico ufficiale. Lui se ne va, scompare (lo vedremo mai più?) e indovina chi è la signora tutta stizzita perché lo avevano ammanettato come vuole la prassi.
La magistrata che sette mesi fa ebbe il suo piccolo momento di celebrità per aver assolto con formula piena tre musulmani accusati di terrorismo internazionale e per aver aggiunto che in Iraq non c'è il terrorismo, c'è la guerriglia, che insomma i tagliateste sono Resistenti. Sì, proprio quella che il vivace leghista Borghezio definì «una vergogna per Milano e per la magistratura». E indovina chi anche oggi la loda, la difende, dichiara ha fatto benissimo. I diessini, i comunisti, e i soliti verdi. Continua anche la panzana che l'Islam è una religione di pace, che il Corano predica la misericordia e l'amore e la pietà. Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d'ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli. Continua anche la frottola dell'Islam vittima dell'Occidente. Come se per quattordici secoli i musulmani non avessero mai torto un capello a nessuno e la Spagna e la Sicilia e il Nord Africa e la Grecia e i Balcani e l'Europa orientale su su fino all' Ucraina e alla Russia le avesse occupate la mia bisnonna valdese. Come se ad arrivare fino a Vienna e a metterla sotto assedio fossero state le suore di sant'Ambrogio e le monache Benedettine. Continua anche la frode o l'illusione dell'Islam Moderato. Con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani.
Bé, il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ce l'avevamo in casa l'11 settembre del 2001 cioé a New York. Ce l'avevamo in casa l'11 marzo del 2004 cioé a Madrid. Ce l'avevamo in casa l'1, il 2, il 3 settembre del medesimo anno a Beslan dove si divertirono anche a fare il tiro a segno sui bambini che dalla scuola fuggivano terrorizzati, e di bambini ne uccisero centocinquanta. Ce l'avevamo in casa il 7 luglio scorso cioé a Londra dove i kamikaze identificati erano nati e cresciuti. Dove avevano studiato finalmente qualcosa, erano vissuti finalmente in un mondo civile, e dove fino alla sera precedente s'eran divertiti con le partite di calcio o di cricket. Ce l'abbiamo in casa da oltre trent'anni, perdio. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel nostro sistema sociale. Cioé col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. E' un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Tale intensità che verrebbe spontaneo gridargli: se siamo così brutti, così cattivi, così peccaminosi, perché non te ne torni a casa tua? Perché stai qui? Per tagliarci la gola o farci saltare in aria? Un nemico, inoltre, che in nome dell'umanitarismo e dell' asilo politico (ma quale asilo politico, quali motivi politici?) accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che per partorire non ha bisogno della procreazione assistita, delle cellule staminali. Il suo tasso di natalità è così alto che secondo il National Intelligence Council alla fine di quest'anno la popolazione musulmana in Eurabia risulterà raddoppiata. Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all' imam (però guai se arresti l'imam.
Peggio ancora, se qualche agente della Cia te lo toglie dai piedi col tacito consenso dei nostri servizi segreti). Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l'esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca. (Ma quando in seguito alla strage di Londra la Francia denuncia il trattato di Schengen e perfino la Spagna zapatera pensa di imitarla, l'Italia e gli altri paesi europei rispondono scandalizzati no no). Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l'alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che protetto dalla Sinistra al Caviale e dalla Destra al Fois Gras e dal Centro al Prosciutto ciancia, appunto, di integrazione e pluriculturalismo ma intanto ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioé «col liquore». E attenta a non ripeter l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». (Parlo, s'intende, dell'arabo con la cittadinanza italiana che mi ha denunciato per vilipendio all'Islam. Che contro di me ha scritto un lercio e sgrammaticato libello dove elencando quattro sure del Corano chiede ai suoi correligionari di eliminarmi, che per le sue malefatte non è mai stato o non ancora processato). Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. (Parlo, s'intende, dell'arabo con la cittadinanza inglese che per puro miracolo beccarono sulla American Airlines).
Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. (Parlo, s'intende, dell'arabo con cittadinanza olandese che probabilmente anzi spero verrà condannato all' ergastolo e che al processo ha sibilato alla mamma di Theo: «Io non provo alcuna pietà per lei. Perché lei è un'infedele»). Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioé pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino. Continua anche il discorso sul Dialogo delle due Civiltà. Ed apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell'Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall' Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c' è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta.
L' Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà. E visto che ho toccato questo argomento mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'Islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al Cristianesimo. Nonché per istigazione all' omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato Italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro degli Interni dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia. (Quanto a voi, signori del Parlamento, congratulazioni per aver respinto la proposta del ministro della Giustizia: abolire il reato di opinione. E particolari congratulazioni all' onorevole di Alleanza Nazionale che oltre ad aver gestito quel rifiuto ha chiesto di abolire il reato d' apologia del fascismo). Continua anche l'indulgenza che la Chiesa Cattolica (del resto la maggiore sostenitrice del Dialogo) professa nei riguardi dell' Islam. Continua cioé la sua irremovibile irriducibile volontà di sottolineare il «comune patrimonio spirituale fornitoci dalle tre grandi religioni monoteistiche». Quella cristiana, quella ebraica, quella islamica. Tutte e tre basate sul concetto del Dio Unico, tutte e tre ispirate da Abramo. Il buon Abramo che per ubbidire a Dio stava per sgozzare il suo bambino come un agnello. Ma quale patrimonio in comune?!?
Allah non ha nulla in comune col Dio del Cristianesimo. Col Dio padre, il Dio buono, il Dio affettuoso che predica l'amore e il perdono. Il Dio che negli uomini vede i suoi figli. Allah è un Dio padrone, un Dio tiranno. Un Dio che negli uomini vede i suoi sudditi anzi i suoi schiavi. Un Dio che invece dell'amore insegna l'odio, che attraverso il Corano chiama cani-infedeli coloro che credono in un altro Dio e ordina di punirli. Di soggiogarli, di ammazzarli. Quindi come si fa a mettere sullo stesso piano il cristianesimo e l'islamismo, come si fa a onorare in egual modo Gesù e Maometto?!? Basta davvero la faccenda del Dio Unico per stabilire una concordia di concetti, di principii, di valori?!? E questo è il punto che nell' immutata realtà del dopo-strage di Londra mi turba forse di più. Mi turba anche perché sposa quindi rinforza quello che considero l'errore commesso da papa Wojtyla: non battersi quanto avrebbe a mio avviso dovuto contro l'essenza illiberale e antidemocratica anzi crudele dell'Islam. Io in questi quattr' anni non ho fatto che domandarmi perché un guerriero come Wojtyla, un leader che come lui aveva contribuito più di chiunque al crollo dell'impero sovietico e quindi del comunismo, si mostrasse così debole verso un malanno peggiore dell'impero sovietico e del comunismo. Un malanno che anzitutto mira alla distruzione del cristianesimo. (E dell'ebraismo). Non ho fatto che domandarmi perché egli non tuonasse in maniera aperta contro ciò che avveniva (avviene) ad esempio in Sudan dove il regime fondamentalista esercitava (esercita) la schiavitù. Dove i cristiani venivano eliminati (vengono eliminati) a milioni. Perché tacesse sull'Arabia Saudita dove la gente con una Bibbia in mano o una crocetta al collo era (è) trattata come feccia da giustiziare. Ancora oggi quel silenzio io non l'ho capito e...
Naturalmente capisco che la filosofia della Chiesa Cattolica si basa sull'ecumenismo e sul comandamento Ama il nemico tuo come te stesso. Che uno dei suoi principii fondamentali è almeno teoricamente il perdono, il sacrificio di porgere l'altra guancia. (Sacrificio che rifiuto non solo per orgoglio cioè per il mio modo di intendere la dignità, ma perché lo ritengo un incentivo al Male di chi fa del male). Però esiste anche il principio dell'autodifesa anzi della legittima difesa, e se non sbaglio la Chiesa Cattolica vi ha fatto ricorso più volte. Carlo Martello respinse gli invasori musulmani alzando il crocifisso. Isabella di Castiglia li cacciò dalla Spagna facendo lo stesso. E a Lepanto c'erano anche le truppe pontificie. A difendere Vienna, ultimo baluardo della Cristianità, a romper l'assedio di Kara Mustafa, c'era anche e soprattutto il polacco Giovanni Sobienski con l'immagine della Vergine di Chestochowa. E se quei cattolici non avessero applicato il principio dell'autodifesa, della legittima difesa, oggi anche noi porteremmo il burka o il jalabah. Anche noi chiameremmo i pochi superstiti cani-infedeli. Anche noi gli segheremmo la testa col coltello halal. E la basilica di San Pietro sarebbe una moschea come la chiesa di Santa Sofia a Istanbul. Peggio: in Vaticano ci starebbero Bin Laden e Zarkawi. Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l'intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? Lei è un uomo tanto erudito, Santità. Tanto colto. E li conosce bene. Assai meglio di me. Mi spieghi dunque: quando mai nel corso della loro storia, una storia che dura da millequattrocento anni, sono cambiati e si sono ravveduti? Oh, neanche noi siamo stati e siamo stinchi di santo: d' accordo. Inquisizioni, defenestrazioni, esecuzioni, guerre, infamie di ogni tipo. Nonché guelfi e ghibellini a non finire. E per giudicarci severamente basta pensare a quel che abbiamo combinato sessanta anni fa con l'Olocausto. Ma poi abbiamo messo un po' di giudizio, perbacco. Ci abbiamo dato una pensata e se non altro in nome della decenza siamo un po' migliorati. Loro, no.
La Chiesa Cattolica ha avuto svolte storiche, Santità. Anche questo lei lo sa meglio di me. A un certo punto si è ricordata che Cristo predicava la Ragione, quindi la scelta, quindi il Bene, quindi la Libertà, e ha smesso di tiranneggiare. D' ammazzare la gente. O costringerla a dipinger soltanto Cristi e Madonne. Ha compreso il laicismo. Grazie a uomini di prim' ordine, un lungo elenco di cui Lei fa parte, ha dato una mano alla democrazia. Ed oggi parla coi tipi come me. Li accetta e lungi dal bruciarli vivi (io non dimentico mai che fino a quattro secoli fa il Sant' Uffizio mi avrebbe mandato al rogo) ne rispetta le idee. Loro, no. Ergo con loro non si può dialogare. E ciò non significa ch'io voglia promuovere una guerra di religione, una Crociata, una caccia alle streghe, come sostengono i mentecatti e i cialtroni. (Guerre di religione, Crociate, io ?!? Non essendo religiosa, figuriamoci se voglio incitare alle guerre di religione e alle Crociate. Cacce alle streghe io?!? Essendo considerata una strega, un'eretica, dagli stessi laici e dagli stessi liberals, figuriamoci se voglio accendere una caccia alle streghe. Ciò significa, semplicemente, che illudersi su di loro è contro ragione. Contro la Vita, contro la stessa sopravvivenza, e guai a concedergli certe familiarità.
La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. Anche questo lo dico da quattro anni. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all' Africa cioè ai paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Lo stesso Bin Laden ce lo ha promesso. In modo esplicito, chiaro, preciso. Più volte. I suoi luogotenenti (o rivali), idem. Lo stesso Corriere lo dimostra con l'intervista a Saad Al-Faqih, l'esiliato saudita diventato amico di Bin Laden durante il conflitto coi russi in Afghanistan, e secondo i servizi segreti americani finanziatore di Al Qaeda. «E' solo questione di tempo. Al Qaeda vi colpirà presto» ha detto Al-Faqih aggiungendo che l'attacco all'Italia è la cosa più logica del mondo. Non è l'Italia l'anello più debole della catena composta dagli alleati in Iraq? Un anello che viene subito dopo la Spagna e che è stato preceduto da Londra per pura convenienza. E poi: «Bin Laden ricorda bene le parole del Profeta. Voi costringerete i romani alla resa. E vuole costringer l'Italia ad abbandonare l'alleanza con l'America». Infine, sottolineando che operazioni simili non si fanno appena sbarcati a Lampedusa o alla Malpensa bensì dopo aver maturato dimestichezza con il paese, esser penetrati nel suo tessuto sociale: «Per reclutare gli autori materiali, c'è solo l'imbarazzo della scelta».
Molti italiani non ci credono ancora. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli Interni, a rischio Roma e Milano, all' erta anche Torino e Napoli e Trieste e Treviso nonché le città d' arte come Firenze e Venezia, gli italiani si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi. Ha ragione Vittorio Feltri quando su Libero scrive che la decadenza degli occidentali si identifica con la loro illusione di poter trattare amichevolmente il nemico, nonché con la loro paura. Una paura che li induce ad ospitare docilmente il nemico, a tentar di conquistarne la simpatia, a sperare che si lasci assorbire mentre è lui che vuole assorbire. Questo senza contare la nostra abitudine ad essere invasi, umiliati, traditi. Come dico nell'«Apocalisse», l'abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L'apatia genera inerzia. L'inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l'indifferenza soffoca l'istinto di autodifesa cioè l'istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d' essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall'apatia, dall'inerzia, dall' indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che per non perdere la Libertà a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l'autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d' essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l'attacco verrà, udiremo le consuete scemenze. Colpa degli americani, colpa di Bush.
Quando verrà, come avverrà quell'attacco? Oddio, detesto fare la Cassandra. La profetessa. Non sono una Cassandra, non sono una profetessa. Sono soltanto un cittadino che ragiona e ragionando prevede cose che secondo logica accadranno. Ma che ogni volta spera di sbagliarsi e, quando accadono, si maledice per non aver sbagliato. Tuttavia riguardo all' attacco contro l'Italia temo due cose: il Natale e le elezioni. Forse supereremo il Natale. I loro attentati non sono colpacci rozzi, grossolani. Sono delitti raffinati, ben calcolati e ben preparati. Prepararsi richiede tempo e a Natale credo che non saranno pronti. Però saranno pronti per le elezioni del 2006. Le elezioni che vogliono vedere vinte dal pacifismo a senso unico. E da noi, temo, non si accontenteranno di massacrare la gente. Perché quello è un Mostro intelligente, informato, cari miei. Un Mostro che (a nostre spese) ha studiato nelle università, nei collegi rinomati, nelle scuole di lusso. (Coi soldi del genitore sceicco od onesto operaio). Un Mostro che non s' intende soltanto di dinamica, chimica, fisica, di aerei e treni e metropolitane: s' intende anche di Arte. L'arte che il loro presunto Faro di Civiltà non ha mai saputo produrre. E penso che insieme alla gente da noi vogliano massacrare anche qualche opera d' arte. Che ci vuole a far saltare in aria il Duomo di Milano o la Basilica di San Pietro? Che ci vuole a far saltare in aria il David di Michelangelo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio a Firenze, o il Palazzo dei Dogi a Venezia? Che ci vuole a far saltare in aria la Torre di Pisa, monumento conosciuto in ogni angolo del mondo e perciò assai più famoso delle due Torri Gemelle? Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta. Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.
Oriana Fallaci a una terrorista. «Un neonato per te è un nemico?». La giornalista e scrittrice nel 1970 intervistò Rascida Abhedo, palestinese, che fece esplodere due bombe in un mercato di Gerusalemme provocando una carneficina, scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista del 1970 all’attentatrice palestinese Rascida Abhedo.
Sembrava una monaca. O una guardia rossa di Mao Tse-tung. Delle monache aveva la compostezza insidiosa, delle guardie rosse l’ostilità sprezzante, di entrambe il gusto di rendersi brutta sebbene fosse tutt’altro che brutta. Il visino ad esempio era grazioso: occhi verdi, zigomi alti, bocca ben tagliata. Il corpo era minuscolo e lo indovinavi fresco, privo di errori. Ma l’insieme era sciupato da quei ciuffi neri, untuosi, da quel pigiama in tela grigioverde, un’uniforme da fatica suppongo, di taglia tre volte superiore alla sua: quella sciatteria voluta, esibita, ti aggrediva come una cattiveria. Dopo il primo sguardo, ti apprestavi con malavoglia a stringerle la mano, che ti porgeva appena, restando seduta, costringendoti a scendere verso di lei nell’inchino del suddito che bacia il piede della regina. In silenzio bestemmiavi: «Maleducata!». La mano toccò molle la mia. Gli occhi verdi mi punsero con strafottenza, anzi con provocazione, una vocetta litigiosa scandì: «Rascida Abhedo, piacere». Poi, rotta dallo sforzo che tal sacrificio le era costato, si accomodò meglio contro la spalliera del grande divano in fondo al salotto dove occupava il posto d’onore. Dico così perché v’erano molte persone, e queste le sedevan dinanzi a platea: lei in palcoscenico e loro in platea. Una signora che avrebbe fatto da interprete, suo marito, un uomo che mi fissava muto e con sospettosa attenzione, un giovanotto dal volto dolcissimo e pieno di baffi, infine Najat: la padrona di casa che aveva organizzato l’incontro con lei. Come lei, essi appartenevano tutti al Fronte Popolare, cioè il movimento maoista che da Al Fatah si distingue per la preferenza a esercitare la lotta coi sabotaggi e il terrore. Però, al contrario di lei, eran tutti ben vestiti, cordiali e borghesi: invece che ad Amman avresti detto di trovarti a Roma, tra ricchi comunisti à la page, sai tipi che fingono di voler morire per il proletariato ma poi vanno a letto con le principesse. La signora che avrebbe fatto da interprete amava andare in vacanza a Rapallo e calzava scarpe italiane. Najat, una splendida bruna sposata a un facoltoso ingegnere, era la ragazza più sofisticata della città: in una settimana non l’avevo mai sorpresa con lo stesso vestito, con un accessorio sbagliato. Sempre ben pettinata, ben profumata, ben valorizzata da un completo giacca-pantaloni o da una minigonna. Non credevi ai tuoi orecchi quando diceva: «Sono stanca perché ho partecipato alle manovre e mi duole una spalla perché il Kalashnikov rincula in modo violento». Stasera indossava un modello francese e il suo chic era così squisito che, paragonata a lei, la monaca in uniforme risultava ancor più inquietante. Forse perché sapevi chi era. Era colei che il 21 febbraio 1969 aveva fatto esplodere due bombe al supermercato di Gerusalemme, causando una carneficina. Era colei che dieci giorni dopo aveva costruito un terzo ordigno per la cafeteria della Università Ebraica. Era colei che per tre mesi aveva mobilizzato l’intera polizia israeliana e provocato Dio sa quanti arresti, repressioni, tragedie. Era colei che il Fronte custodiva per gli incarichi più sanguinolenti. Ventitré anni, ex maestra di scuola. La fotografia appesa in ogni posto di blocco: «Catturare o sparare». La patente di eroe. Al suo tono strafottente, provocatorio, ora s’era aggiunta un’espressione di gran sufficienza: la stessa che certe dive esibiscono quando devono affrontare i giornalisti curiosi. Mi accomodai accanto a lei sul divano. Lasciai perdere ogni convenevole, misi in moto il registratore: «Voglio la tua storia, Rascida. Dove sei nata, chi sono i tuoi genitori, come sei giunta a fare quello che fai». Alzò un sopracciglio ironico, tolse di tasca un fazzoletto. Si pulì il naso, lenta, rimise in tasca il fazzoletto. Si raschiò la gola. Sospirò. Rispose.
«Sono nata a Gerusalemme, da due genitori piuttosto ricchi, piuttosto conformisti, e assai rassegnati. Non fecero mai nulla per difendere la Palestina e non fecero mai nulla per indurmi a combattere. Fuorché influenzarmi, senza saperlo, coi loro racconti del passato. Mia madre, sempre a ripetere di quando andava a Giaffa col treno e dal finestrino del treno si vedeva il Mediterraneo che è così azzurro e bello. Mio padre, sempre a lagnarsi della notte in cui era fuggito con la mia sorellina su un braccio e me nell’altro braccio. E poi a dirmi dei partiti politici che c’erano prima del 1948, tutti colpevoli d’aver ceduto, d’aver deposto le armi, ma il suo era meno colpevole degli altri eccetera. E poi a mostrarmi la nostra vecchia casa al di là della linea di demarcazione, in territorio israeliano. Si poteva vederla dalle nostre finestre e penso che questo, sì, m’abbia servito. Prima di andare a letto la guardavo sempre, con ira, e a Natale guardavo gli arabi che si affollavano al posto di blocco per venire dai parenti profughi. Piangevano, perdevano i bambini, i fagotti. Erano brutti, senza orgoglio, e ti coglieva il bisogno di fare qualcosa. Questo qualcosa io lo scoprii nel 1962 quando entrai a far parte del Movimento nazionale arabo, il Fronte Popolare di oggi. Avevo quindici anni, non dissi nulla ai miei genitori. Si sarebbero spaventati, non avrebbero compreso. Del resto si faceva poco: riunioni di cellula, corsi politici, manifestazioni represse dai soldati giordani».
Come eri entrata in contatto con quel movimento?
«A scuola. Cercavano adepti fra gli studenti. Poi venne il 1967: l’occupazione di Gerusalemme, di Gerico, del territorio a est del Giordano. Io in quei giorni non c’ero, ero nel Kuwait: insegnavo in una scuola media di una cittadina sul Golfo. C’ero stata costretta perché nelle scuole della Giordania c’era poca simpatia pei maestri palestinesi. L’occupazione di Gerusalemme mi gettò in uno stato di sonnolenza totale. Ero così mortificata che per qualche tempo non vi reagii e ci volle tempo perché capissi che agli altri paesi arabi non importava nulla della Palestina, non si sarebbero mai scomodati a liberarla: bisognava far questo da soli. Ma allora perché restavo in quella scuola a insegnare ai ragazzi? Il mio lavoro lo amavo, intendiamoci, lo consideravo alla stregua di un divertimento, ma era necessario che lo abbandonassi. Mi dimisi e venni ad Amman dove mi iscrissi subito al primo gruppo di donne addestrate dall’FPLP. Ragazze tra i diciotto e i venticinque anni, studentesse o maestre come me. Era il gruppo di Amina Dahbour, quella che hanno messo in prigione in Svizzera per il dirottamento di un aereo El Al, di Laila Khaled, che dirottò l’aereo della TWA, di Sheila Abu Mazal, la prima vittima della barbarie sionista».
La interruppi: anche questo nome m’era familiare perché ovunque lo vedevi stampato con l’appellativo di eroina e sui giornali occidentali avevo letto che era morta in circostanze eccezionali. Chi diceva in combattimento, chi diceva sotto le torture.
Rascida, come morì Sheila Abu Mazal?
«Una disgrazia. Preparava una bomba per un’azione a Tel Aviv e la bomba scoppiò tra le sue mani» .
Perché?
«Così».
Raccontami degli addestramenti, Rascida.
«Uffa. Eran duri. Ci voleva una gran forza di volontà per compierli. Marce, manovre, pesi. Sheila ripeteva: bisogna dimostrare che non siamo da meno degli uomini! E per questo in fondo scelsi il corso speciale sugli esplosivi. Era il corso che bisognava seguire per diventare agenti segreti e, oltre alla pratica degli esplosivi, prevedeva lo studio della topografia, della fotografia, della raccolta di informazioni. I nostri istruttori contavano molto sulle donne come elemento di sorpresa: da una ragazza araba non ci si aspettano certe attività. Divenni brava a scattar fotografie di nascosto ma specialmente a costruire ordigni a orologeria. Più di ogni altra cosa volevo maneggiare le bombe, io sono sempre stata un tipo senza paura. Anche da piccola. Non m’impressionava mai il buio. I corsi duravano a volte quindici giorni, a volte due mesi o quattro. Il mio corso fu lungo, assai lungo, perché dovetti anche imparare a recarmi nel territorio occupato. Passai il fiume molte volte, insieme alle mie compagne. A quel tempo non era difficilissimo perché gli sbarramenti fotoelettrici non esistevano, ma la prima volta non fu uno scherzo. Ero tesa, mi aspettavo di morire. Ma presto fui in grado di raggiungere Gerusalemme e stabilirmici come agente segreto».
Dimmi delle due bombe al supermarket, Rascida.
«Uffa. Quella fu la prima operazione di cui posso rivendicare la paternità. Voglio dire che la concepii da sola, la preparai da sola, e da sola la portai fino in fondo. Avevo ormai partecipato a tanti sabotaggi del genere e potevo muovermi con disinvoltura. E poi avevo una carta di cittadinanza israeliana con cui potevo introdurmi in qualsiasi posto senza destare sospetto. Poiché abitavo di nuovo coi miei genitori, scomparivo ogni tanto senza dare nell’occhio. L’idea di attaccare il supermarket l’ebbi quattro giorni dopo la cattura di Amina a Zurigo, e la morte di Abdel. Nella sparatoria con l’israeliano, ricordi, Abdel rimase ucciso. Bisognava vendicare la morte di Abdel e bisognava dimostrare a Moshe Dayan la falsità di ciò che aveva detto: secondo Moshe Dayan, il Fronte Popolare agiva all’estero perché non era capace di agire entro Israele. E poi bisognava rispondere ai loro bombardamenti su Irbid, su Salt. Avevano ucciso civili? Noi avremmo ucciso civili. Del resto nessun israeliano noi lo consideriamo un civile ma un militare e un membro della banda sionista».
Anche se è un bambino, Rascida? Anche se è un neonato? (Gli occhi verdi si accesero d’odio, la sua voce adirata disse qualcosa che l’interprete non mi tradusse, e subito scoppiò una gran discussione cui intervennero tutti: anche Najat, anche il giovanotto col volto dolcissimo. Parlavano in arabo, e le frasi si sovrapponevan confuse come in una rissa da cui si levava spesso un’invocazione: «Rascida!». Ma Rascida non se ne curava. Come un bimbo bizzoso scuoteva le spalle e, solo quando Najat brontolò un ordine perentorio, essa si calmò. Sorrise un sorriso di ghiaccio, mi replicò).
«Questa domanda me la ponevo anch’io, quando mi addestravo con gli esplosivi. Non sono una criminale e ricordo un episodio che accadde proprio al supermarket, un giorno che vi andai in avanscoperta. C’erano due bambini. Molto piccoli, molto graziosi. Ebrei. Istintivamente mi chinai e li abbracciai. Ma stavo abbracciandoli quando mi tornarono in mente i nostri bambini uccisi nei villaggi, mitragliati per le strade, bruciati dal napalm. Quelli di cui loro dicono: bene se muore, non diventerà mai un fidayin. Così li respinsi e mi alzai. E mi ordinai: non farlo mai più, Rascida, loro ammazzano i nostri bambini e tu ammazzerai i loro. Del resto, se questi due bambini morranno, o altri come loro, mi dissi, non sarò stata io ad ammazzarli. Saranno stati i sionisti che mi forzano a gettare le bombe. Io combatto per la pace, e la pace val bene la vita di qualche bambino. Quando la nostra vera rivoluzione avverrà, perché oggi non è che il principio, numerosi bambini morranno. Ma più bambini morranno più sionisti comprenderanno che è giunto il momento di andarsene. Sei d’accordo? Ho ragione?»
No, Rascida.
La discussione riprese, più forte. Il giovanotto dal volto dolcissimo mi lanciò uno sguardo conciliativo, implorante. V’era in lui un che di straziante e ti chiedevi chi fosse. Poi, con l’aiuto di alcune tazze di tè, l’intervista andò avanti.
Perché scegliesti proprio il supermarket, Rascida?
«Perché era un buon posto, sempre affollato. Durante una decina di giorni ci andai a tutte le ore proprio per studiare quando fosse più affollato. Lo era alle undici del mattino. Osservai anche l’ora in cui apriva e in cui chiudeva, i punti dove si fermava più gente, e il tempo che ci voleva a raggiungerlo dalla base segreta dove avrei ritirato la bomba o le bombe. Per andarci mi vestivo in modo da sembrare una ragazza israeliana, non araba. Spesso vestivo in minigonna, altre volte in pantaloni, e portavo sempre grandi occhiali da sole. Era interessante, scoprivo sempre qualcosa di nuovo e di utile, ad esempio che se camminavo con un peso il tragitto tra la base e il supermarket aumentava. Infine fui pronta e comprai quei due bussolotti di marmellata. Molto grandi, da cinque chili l’uno, di latta. Esattamente ciò di cui avevo bisogno».
Per le bombe?
«Sicuro. L’idea era di vuotarli, riempirli di esplosivo, e rimetterli dove li avevo presi. Quella notte non tornai a casa. Andai alla mia base segreta e con l’aiuto di alcuni compagni aprii i bussolotti. Li vuotai di quasi tutta la marmellata e ci sistemai dentro l’esplosivo con un ordigno a orologeria. Poi saldai di nuovo il coperchio, perché non si vedesse che erano stati aperti e...»
Che marmellata era, Rascida?
«Marmellata di albicocche, perché?»
Così... Non mangerò mai più marmellata di albicocche. (Rascida rise a gola spiegata e a tal punto che le venne la tosse).
«Io la mangiai, invece. Era buona. E dopo averla mangiata andai a dormire».
Dormisti bene, Rascida?
«Come un angelo. E alle cinque del mattino mi svegliai bella fresca. Mi vestii elegantemente, coi pantaloni alla charleston, sai quelli attillati alla coscia e svasati alla caviglia, mi pettinai con cura, mi truccai gli occhi e le labbra. Ero graziosa, i miei compagni si congratulavano: «Rascida!». Quando fui pronta misi i bussolotti della marmellata in una borsa a sacco: sai quelle che si portano a spalla. Le donne israeliane la usano per fare la spesa. Uh, che borsa pesante! Un macigno! L’esplosivo pesava il doppio della marmellata. Ecco perché negli addestramenti ti abituano a portare pesi».
Come ti sentivi, Rascida? Nervosa, tranquilla?
«Tranquilla, anzi felice. Ero stata così nervosa nei giorni precedenti che mi sentivo come scaricata. E poi era una mattina azzurra, piena di sole. Sapeva di buon auspicio. Malgrado il peso della borsa camminavo leggera, portavo quelle bombe come un mazzo di fiori. Sì, ho detto fiori. Ai posti di blocco i soldati israeliani perquisivano la gente ma io gli sorridevo con civetteria e, senza attendere il loro invito, aprivo la borsa: «Shalom, vuoi vedere la mia marmellata?». Loro guardavano la marmellata e con cordialità mi dicevano di proseguire. No, non andai dritta al supermarket: dove andai prima è affar mio e non ti riguarda. Al supermarket giunsi poco dopo le nove. Che pensi? (Pensavo a un episodio del film La battaglia di Algeri, quello dove tre donne partono una mattina per recarsi a sistemare esplosivi su obiettivi civili. Una delle tre donne è una ragazza che assomiglia straordinariamente a Rascida: piccola, snella, e porta i pantaloni. Passando ai posti di blocco strizza l’occhio ai soldati francesi, civetta. Chissà se Rascida aveva visto il film. Magari sì. Bisognava che glielo chiedessi quando avrebbe finito il racconto. Ma poi me ne dimenticai. O forse volli dimenticarmene per andarmene via prima). Pensavo... a nulla».
Cosa accadde quando entrasti nel supermarket, Rascida?
«Entrai spedita e agguantai subito il carry-basket, sai il cestino di metallo dove si mette la roba, il cestino con le ruote. Al supermarket c’è il self-service, ti muovi con facilità. La prima cosa da fare, quindi, era togliere i due bussolotti di marmellata dalla mia borsa e metterli nel carry-basket. Ci avevo già provato ma con oggetti più piccoli, non così pesanti, coi bussolotti grandi no e per qualche secondo temetti di dare nell’occhio. Mi imposi calma, perciò. Mi imposi anche di non guardare se mi guardavano altrimenti il mio gesto avrebbe perso spontaneità. Presto i bussolotti furono nel carry-basket. Ora si trattava di rimetterli a posto ma non dove li avevo presi perché non era un buon punto. Alla base avevo caricato i due ordigni a distanza di cinque minuti, in modo che uno esplodesse cinque minuti prima dell’altro. Decisi di mettere in fondo al negozio quello che sarebbe esploso dopo. L’altro, invece, vicino alla porta dove c’era uno scaffale con le bottiglie di birra e i vasetti».
Perché, Rascida?
«Perché la porta era di vetro come le bottiglie di birra, come i vasetti. Con l’esplosione sarebbero schizzati i frammenti e ciò avrebbe provocato un numero maggiore di feriti. O di morti. Il vetro è tremendo: lanciato a gran velocità può decapitare, e anche i piccoli pezzi sono micidiali. Non solo, la prima esplosione avrebbe bloccato l’ingresso. Allora i superstiti si sarebbero rifugiati in fondo al negozio e qui, cinque minuti dopo, li avrebbe colti la seconda esplosione. Con un po’ di fortuna, nel caso la polizia fosse giunta alla svelta, avrei fatto fuori anche un bel po’ di polizia. Rise divertita, contenta. E ciò le provocò un nuovo accesso di tosse».
Non ridere, Rascida. Continua il tuo racconto, Rascida.
«Sempre senza guardare se mi guardavano, sistemai i due bussolotti dove avevo deciso. Se qualcuno se ne accorse non so, ero troppo concentrata in ciò che stavo facendo. Ricordo solo un uomo molto alto, con il cappello, che mi fissava. Ma pensai che mi fissasse perché gli piacevo. Te l’ho detto che ero molto graziosa quella mattina. Poi, quando anche il secondo bussolotto fu nello scaffale, comprai alcune cose: tanto per non uscire a mani vuote. Comprai un grembiule da cucina, due stecche di cioccolata, altre sciocchezze. Non volevo dare troppi soldi agli ebrei».
Cos’altro comprasti, Rascida?
«I cetriolini sottaceto. E le cipolline sottaceto. Mi piacciono molto. Mi piacciono anche le olive farcite. Ma cos’è questo, un esame di psicologia?»
Se vuoi. E li mangiasti quei cetriolini, quelle cipolline?
«Certo. Li portai a casa e li mangiai. Non era un’ora adatta agli antipasti e mia madre disse, ricordo: «Da dove vengono, quelli?». Io risposi: «Li ho comprati al mercato». Ma che te ne importa di queste cose? Torniamo al supermarket. Avevo deciso che l’intera faccenda dovesse durare quindici minuti. E quindici minuti durò. Così, dopo aver pagato uscii e tornai a casa. Qui feci colazione e riposai. Un’ora di cui non ricordo nulla. Alle undici in punto aprii la radio per ascoltar le notizie. Le bombe erano state caricate alle sei e alle sei e cinque, affinché scoppiassero cinque ore dopo. L’esplosione sarebbe dunque avvenuta alle undici e alle undici e cinque: l’ora dell’affollamento. Aprii la radio per accertarmene e per sapere se... se erano morti bambini nell’operazione».
Lascia perdere, Rascida. Non ci credo, Rascida. Cosa disse la radio?
«Disse che c’era stato un attentato al supermarket e che esso aveva causato due morti e undici feriti. Rimasi male, due morti soltanto, e scesi per strada a chiedere la verità. Radio Israele non dice mai la verità. La verità era che le due bombe avevan causato ventisette morti e sessanta feriti fra cui quindici gravissimi. Bè, mi sentii meglio anche se non perfettamente contenta. Gli esperti militari della mia base avevano detto che ogni bomba avrebbe ucciso chiunque entro un raggio di venticinque metri e, verso le undici del mattino, al supermarket non contavi mai meno di trecentocinquanta persone. Oltre a un centinaio di impiegati».
Rascida, provasti anzi provi nessuna pietà per quei morti?
«No davvero. Il modo in cui ci trattano, in cui ci uccidono, spenge in noi ogni pietà. Io ho dimenticato da tempo cosa significa la parola pietà e mi disturba perfino pronunciarla. Corre voce che ci fossero arabi in quel negozio. Non me ne importa. Se c’erano, la lezione gli servì a imparare che non si va nei negozi degli ebrei, non si danno soldi agli ebrei. Noi arabi abbiamo i nostri negozi, e i veri arabi si servono lì».
Rascida, cosa facesti dopo esserti accertata che era successo ciò che volevi?
«Dissi a mia madre: «Ciao, mamma, esco e torno fra poco». La mamma rispose: «Va bene, fai presto, stai attenta». Chiusi la porta e fu l’ultima volta che la vidi. Dovevo pensare a nascondermi, a non farmi più vedere neanche se arrestavano i miei. E li arrestarono. Non appena il Fronte Popolare assunse la paternità dell’operazione, gli israeliani corsero da quelli che appartenevano al Fronte. Hanno schedari molto precisi, molto aggiornati: un dossier per ciascuno di noi. E tra coloro che presero c’era un compagno che sapeva tutto di me. Così lo torturarono ma lui resistette tre giorni: è la regola. Tre giorni ci bastano infatti a metterci in salvo. Dopo tre giorni disse il mio nome, così la polizia venne ad arrestarmi ma non mi trovò e al mio posto si portò via la famiglia. Mio padre, mia madre, mia sorella maggiore e i bambini. Mia madre e i bambini li rilasciarono presto, mio padre invece lo tennero tre mesi e mia sorella ancora di più. Al processo non ci arrivarono mai perché in realtà né mio padre né mia sorella sapevano niente».
E tu cosa facesti, Rascida?
«Raggiunsi una base segreta e preparai la bomba per la cafeteria dell’Università Ebraica. Questo accadde il 2 marzo e purtroppo io non potei piazzare la bomba, che non ebbe un esito soddisfacente. Solo ventotto studenti restaron feriti, e nessun morto. In compenso le cose peggiorarono molto per me: la mia fotografia apparve dappertutto e la polizia prese a cercarmi ancor più istericamente. Fu necessario abbandonare la base segreta e da quel momento dovetti cavarmela proprio da me. Mi trasferivo di casa in casa, una notte qui e una notte là, per strada mi sembrava sempre d’esser seguita. Un giorno un’automobile mi seguì a passo d’uomo per circa due ore. Esitavano a fermarmi, credo, perché ero molto cambiata e vestita come una stracciona. Riuscii a far perdere le mie tracce e, in un vicolo, bussai disperatamente a una porta. Aprì un uomo, cominciai a piangere e a dire che ero sola al mondo: mi prendesse a servizio per carità. Si commosse, mi assunse e rimasi lì dieci giorni. Al decimo, giudicai saggio scomparire. Ero appena uscita che la polizia israeliana arrivò e arrestò l’uomo. Al processo, malgrado ignorasse tutto di me, fu condannato a tre anni. È ancora in prigione».
Te ne dispiace, Rascida?
«Che posso farci? In carcere ce l’hanno messo loro, mica io. E io ho sofferto tanto. Tre mesi di caccia continua».
Ci credo, avevi fatto scoppiare tre bombe! E come tornasti in Giordania, Rascida?
«Con un gruppo militare del Fronte. Si passò le linee di notte. Non fu semplice, dovemmo nasconderci molte ore nel fiume e bevvi un mucchio di quell’acqua sporca. Sono ancora malata. Ma partecipo lo stesso alle operazioni da qui e l’unica cosa che mi addolora è non poter più mettere bombe nei luoghi degli israeliani».
E non vedere più i tuoi genitori, averli mandati in carcere, ti addolora?
«La mia vita personale non conta, in essa non v’è posto per le emozioni e le nostalgie. I miei genitori li ho sempre giudicati brava gente e tra noi c’è sempre stato un buon rapporto, ma v’è qualcosa che conta più di loro ed è la mia patria. Quanto alla prigione, li ha come svegliati: non sono più rassegnati, indifferenti. Ad esempio potrebbero lasciare Gerusalemme, mettersi in salvo, ma rifiutan di farlo. Non lasceremo mai la nostra terra, dicono. E se Dio vuole...»
Credi in Dio, Rascida?
«No, non direi. La mia religione è sempre stata la mia patria. E insieme a essa il socialismo. Ho sempre avuto bisogno di spiegare le cose scientificamente, e Dio non lo spieghi scientificamente: il socialismo sì. Io credo nel socialismo scientifico basato sulle teorie marxiste-leniniste che ho studiato con cura. Presto studierò anche Il Capitale: è in programma nella nostra base. Voglio conoscerlo bene prima di sposarmi».
Ti sposi, Rascida?
«Sì, tra un mese. Il mio fidanzato è quello lì». (E additò il giovanotto dal volto dolcissimo. Lui arrossì gentilmente e parve affondare dentro la poltrona).
Congratulazioni. Avevi detto che nella tua vita non c’è posto per i sentimenti.
«Ho detto che capisco le cose solo da un punto di vista scientifico e il mio matrimonio è la cosa più scientifica che tu possa immaginare. Lui è comunista come me, fidayin come me: la pensiamo in tutto e per tutto nel medesimo modo. Inoltre v’è attrazione fra noi ed esaudirla non è forse scientifico? Il matrimonio non c’impedirà di combattere: non metteremo su casa. L’accordo è incontrarci tre volte al mese e solo se ciò non intralcia i nostri doveri di fidayin. Figli non ne vogliamo: non solo perché se restassi incinta non potrei più combattere e il mio sogno più grande è partecipare a una battaglia, ma perché non credo che in una situazione come questa si debba mettere al mondo bambini. A che serve? A farli poi morire o almeno restare orfani?»
(Allora si alzò il fidanzato, che si chiamava Thaer, e con l’aria di scusarsi venne a sedere presso di me. Guardandomi con due occhi di agnello, parlando con voce bassissima, dolce come il suo viso, disse che conosceva Rascida da circa tre anni: quando lei insegnava nel Kuwait e lui studiava psicologia all’università. «Mi piacque come essere umano, pei suoi pregi e i suoi difetti. Dopo la guerra del 1967 le scrissi una lettera per annunciarle che sarei diventato fidayin, per spiegarle che l’amavo, sì, ma la Palestina contava più del mio amore. Lei rispose: “Thaer, hai avuto più fiducia in me di quanta io ne abbia avuta in te. Perché tu m’hai detto di voler diventare fidayin e io non te l’ho detto. Abbiamo gli stessi progetti, Thaer, e da questo momento mi considero davvero fidanzata con te”.» «Capisco, Thaer. Ma cosa provasti a sapere che Rascida aveva ucciso ventisette persone senza un fucile in mano?» Thaer prese fiato e congiunse le mani come a supplicarmi di ascoltarlo con pazienza. «Fui orgoglioso di lei. Oh, so quello che provi, all’inizio la pensavo anch’io come te. Perché sono un uomo tenero, io, un sentimentale. Non assomiglio a Rascida. Il mio modo di fare la guerra è diverso: io sparo a chi spara. Ma ho visto bombardare i nostri villaggi e mi sono rivoltato: ho deciso che avere scrupoli è sciocco. Se invece d’essere uno spettatore obbiettivo tu fossi coinvolta nella tragedia, non piangeresti sui morti senza il fucile. E capiresti Rascida.») Certo è difficile capire Rascida. Ma vale la pena provarci e, per provarci, bisogna avere visto i tipi come Rascida nei campi dove diventano fidajat: cioè donne del sacrificio. Lunghe file di ragazze in grigioverde, costrette giorno e notte a marciare sui sassi, saltare sopra altissimi roghi di gomma e benzina, insinuarsi entro reticolati alti appena quaranta centimetri e larghi cinquanta, tenersi in bilico su ponticelli di corde tese su trabocchetti, impegnarsi in massacranti lezioni di tiro. E guai se sbagli un colpo, guai se calcoli male il salto sul fuoco, guai se resti impigliato in una punta di ferro, guai se dici basta, non ce la faccio più. L’istruttore che viene dalla Siria, dall’Iraq, dalla Cina, non ha tempo da perdere con le femminucce: se hai paura, o ti stanchi, ti esplode una raffica accanto agli orecchi. Hai visto le fotografie. Ch’io sappia, neanche i berretti verdi delle forze speciali in Vietnam, neanche i soldati più duri dei commandos israeliani vengono sottoposti ad addestramenti così spietati. E da quelli, credi, esci non soltanto col fisico domato ma con una psicologia tutta nuova. Dice che in alcuni campi (questo io non l’ho visto) le abituano perfino alla vista del sangue. E sai come? Prima sparano su un cane lasciandolo agonizzante ma vivo, poi buttano il cane tra le loro braccia e le fanno correre senza ascoltarne i guaiti. Dopo tale esperienza, è dimostrato, al dolore del corpo e dell’anima non badi più. Al campo Schneller conobbi una fidajat che si chiamava Hanin, Nostalgia. La intervistai e mi disse d’avere venticinque anni, un figlio di sei e una figlia di due. Le chiesi: «Dove li hai lasciati, Hanin?». Rispose: «In casa, oggi c’è mio marito». «E cosa fa tuo marito?» «Il fidayin. Oggi è in licenza.» «E quando non c’è tuo marito?» «Qua e là.» «Hanin, non basta un soldato in famiglia?» «No, voglio passare anch’io le linee, voglio andare anch’io in combattimento.» Poi ci mettemmo a parlare di altre cose, del negozio di antiquariato che essi possedevano a Gerusalemme, del fatto che non gli mancassero i soldi eccetera. La conversazione era interessante, si svolgeva direttamente in inglese, e io non mi curavo del lieve sospiro, quasi un lamento, che usciva dalle pieghe del kaffiah. I grandi occhi neri erano fermi, la fronte era appena aggrottata, e pensavo: poverina, è stanca. Ma poi l’istruttore chiamò, era giunto il turno di sparare al bersaglio, e Hanin si alzò: nell’alzarsi le sfuggì un piccolo grido. «Ti senti male, Hanin?» «No, no. Credo soltanto d’essermi slogata un piede. Ma ora non c’è tempo di metterlo a posto, lo dirò quando le manovre saranno finite.» E raggiunse le compagne, decisa, col suo piede slogato. Per capire Rascida, o provarci, bisogna anche avere visto le donne che hanno fatto la guerra senza allenarsi: affrontando di punto in bianco la morte, la consapevolezza che la crudeltà è indispensabile se vuoi sopravvivere. In un altro campo conobbi Im Castro: significa Madre di Castro. Im essendo l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano per le donne, e Castro essendo il nome scelto da suo figlio maggiore: fidayin. Im Castro era un donnone di quarant’anni, con un corpo da pugile e un volto da Madonna bruciata dalle intemperie. Acqua, vento, sole, rabbia, disperazione, tutto era passato su quei muscoli color terracotta riuscendo a renderli più forti e più duri anziché sgretolarli. Contadina a Gerico, era fuggita nel 1967 insieme al marito, il fratello, il cognato, due figli maschi e due femmine. Qui era giunta dopo Karameh e qui viveva sotto una tenda dove non possedeva nulla fuorché una coperta e un rudimentale fornello con due pentole vecchie. Le chiesi: «Im Castro, dov’è tuo marito?». Rispose: «È morto in battaglia, a Karameh». «Dov’è tuo fratello?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dov’è tuo cognato?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dove sono i tuoi figli?» «Al fronte, sono fidayin.» «Dove sono le tue figlie?» «Agli addestramenti, per diventare fidajat.» «E tu?» «Io non ne ho bisogno. Io so usare il Kalashnikov, il Carlov, e queste qui.» Sollevò un cencio e sotto c’era una dozzina di bombe col manico. «Dove hai imparato a usarle, Im Castro?» «A Karameh, combattendo col sangue ai ginocchi.» «E prima non avevi mai sparato, Im Castro?» «No, prima coltivavo grano e fagioli.» «Im Castro, cosa provasti ad ammazzare un uomo?» «Una gran gioia, che Allah mi perdoni. Pensai: hai ammazzato mio marito, ragazzo, e io ammazzo te.» «Era un ragazzo?» «Sì, era molto giovane.» «E non hai paura che succeda lo stesso ai tuoi figli?» «Se i miei figli muoiono penserò che hanno fatto il loro dovere. E piangerò solo perché essendo vedova non potrò partorire altri figli per darli alla Palestina.» «Im Castro, chi è il tuo eroe?» «Eroe è chiunque spari la mitragliatrice.» Le guerre, le rivoluzioni, non le fanno mai le donne. Non sono le donne a volerle, non sono le donne a comandarle, non sono le donne a combatterle. Le guerre, le rivoluzioni, restano dominio degli uomini. Per quanto utili o utilizzate, le donne vi servono solo da sfondo, da frangia, e neanche la nostra epoca ha modificato questa indiscutibile legge. Pensa all’Algeria, pensa al Vietnam dove esse fanno parte dei battaglioni vietcong ma in un rapporto di cinque a venti coi maschi. Pensa alla stessa Israele dove le soldatesse son così pubblicizzate ma chi si accorge di loro in battaglia se non sono una figlia di Moshe Dayan. In Palestina è lo stesso. Dei duecentomila palestinesi mobilitati da Al Fatah, almeno un terzo son donne: intellettuali come Rascida, madri di famiglia come Hanin, signore borghesi come Najat, contadine come Im Castro. Però quasi tutte sono in fase di riposo o di attesa, pochissime vivono nelle basi segrete, e solo in casi eccezionali partecipano a un combattimento. È indicativo, ad esempio, che tra i fidayin al fronte non ne abbia incontrata nessuna e che l’unica di cui mi abbian parlato sia una cinquantaquattrenne che fa la vivandiera per un gruppo di Salt. È indiscutibile, inoltre, che l’unica di cui si possa vantare la morte sia quella Sheila cui scoppiò una bomba in mano. A usare le donne nella Resistenza non ci sono che i comunisti rivali di Al Fatah i quali le impiegano senza parsimonia per gli atti di sabotaggio e di terrorismo. La ragione è semplice e intelligente. In una società dove le donne hanno sempre contato quanto un cammello o una vacca, e per secoli sono rimaste segregate al ruolo di moglie di madre di serva, nessuno si aspettava di trovarne qualcuna capace di dirottare un aereo, piazzare un ordigno, maneggiare un fucile. Abla Taha, la fidajat di cui si parlò anche alle Nazioni Unite per gli abusi che subì in prigione sebbene fosse incinta, racconta: «Quando mi arrestarono al ponte Allenby perché portavo esplosivo, gli israeliani non si meravigliarono mica dell’esplosivo. Si meravigliarono di scoprirlo addosso a una donna. Per loro era inconcepibile che un’araba si fosse tolta il velo per fare la guerra». La stessa Rascida, del resto, spiega che al corso di addestramento le donne venivano incluse come «elemento di sorpresa». Il discorso cui volevo arrivare, comunque, la morale della faccenda, non è questo qui. È che la sorpresa su cui gli uomini della Resistenza palestinese contavano per giocare il nemico, ha colto di contropiede anche loro. «Tutto credevamo,» mi confessò un ufficiale della milizia fidayin «fuorché le donne rispondessero al nostro appello come hanno fatto. Ormai non siamo più noi a cercarle, sono loro a imporsi e pretendere di andare all’attacco.» «E qual è la sua interpretazione?» gli chiesi. L’ufficiale non era uno sciocco. Accennò una smorfia che oscillava tra il divertimento e il fastidio, rispose: «Lo sa meglio di me che l’amore per la patria c’entra solo in parte, che la molla principale non è l’idealismo. È...sì, è una forma di femminismo. Noi uomini le avevamo chiuse a chiave dietro una porta di ferro, la Resistenza ha aperto uno spiraglio di quella porta ed esse sono fuggite. Hanno compreso insomma che questa era la loro grande occasione, e non l’hanno perduta. Le dico una cosa che esse non ammetterebbero mai in quanto è una verità che affoga nel loro subcosciente: combattendo l’invasore sionista esse rompono le catene imposte dai loro padri, dai loro mariti, dai loro fratelli. Insomma dal maschio». «E sono davvero brave?» «Oh, sì. Più brave degli uomini, perché più spietate. Abbastanza normale se ricorda che il loro nemico ha due facce: quella degli israeliani e la nostra». «E crede che vinceranno?» «Non so. Dipende dal regime politico che avrà la Palestina indipendente. Capisce cosa voglio dire?» Voleva dire ciò che dice, silenziosamente, Rascida. La società araba non è una società disposta a correggere i suoi tabù sulla donna e sulla famiglia. Le tradizioni mussulmane sono troppo abbarbicate negli uomini del Medio Oriente perché a scardinarle basti una guerra o il progresso tecnologico che esplode con la guerra. Finché dura l’atmosfera eroica, lo stato di emergenza, può sembrare che tutto cambi: ma, quando sopraggiunge la pace, le vecchie realtà si ristabiliscono in un battere di ciglia. Lo si è visto già in Algeria dove le donne fecero la Resistenza con coraggio inaudito e dopo ricaddero svelte nel buio. Chi comanda oggi in Algeria? Gli uomini o le donne? Che autorità hanno le Rascide che un tempo piazzavano le bombe? Perfino gli ex guerriglieri hanno quasi sempre sposato fanciulle all’antica, senza alcun merito militare o politico. Maometto dura: dura più di Confucio. Sicché tutto fa credere che i palestinesi, pur essendo tra gli arabi più europeizzati e moderni, commettano in futuro la stessa scelta o ingiustizia degli algerini: «Brave, bravissime, sparate, aiutate, ma poi via a casa». Ma, sotto sotto, le loro donne lo sanno e, poiché la Storia non offre solo l’esempio dell’Algeria, corrono fin da ora ai ripari. Come? Buttandosi dalla parte di coloro che abbracciano l’ideologia della Cina maoista: cioè il Fronte Popolare di George Abash. In Cina le donne non sono mica tornate a lavare i piatti; stanno anch’esse al potere, hanno vinto. Per vincere è necessario annullare ogni sentimento, incendiare le case dei vecchi, gli ospedali dei bambini, il più innocuo supermarket? E va bene. Per vincere è necessario imbruttirsi, sacrificare i genitori, credere nel socialismo scientifico, rendersi odiose? E va bene. Ciò che conta è non ricadere nel buio come le algerine, quando la pace verrà. Ciò che conta è non rimettere il velo quando gli uomini saranno in grado di cavarsela, come sempre, da soli. Può sembrare un paradosso, e forse lo è. Ma vuotando quei due bussolotti di marmellata e ficcandoci dentro esplosivo, Rascida non fece che comprarsi il domani. In fondo le ventisette creature che essa maciullò a Gerusalemme morirono perché lei si togliesse per sempre il velo e lo trasferisse sul volto dolcissimo del suo fidanzato, l’ignaro Thaer. Amman, marzo 1970 (Tratto da Intervista con il potere, Rizzoli 2009)
Sull'islam aveva ragione quella "pazza" di Oriana Fallaci. L'odio per l'Occidente, il fallimento dell'integrazione: in queste righe sembra di leggere la cronaca di oggi, scrive Oriana Fallaci su “Il Giornale”. Leggete queste righe come fossero un saggio scritto ieri, e avrete una valida analisi dei fatti di attualità degli ultimi giorni. Ma, com'è ovvio, le righe che seguono sono state scritte da Oriana Fallaci non in queste ore, ma all'indomani dell'11 settembre del 2001, dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Parole scritte con rabbia e con l'intensità di cui lei era capace, ma anche con coraggio. Un coraggio che dette fastidio a chi preferiva non intendere le sue ragioni. Abbiamo deciso di ripubblicare un estratto dei suoi scritti sul rapporto tra l'Islam e l'Occidente, che si possono leggere in versione integrale nei libri editi da Rizzoli:
Con "La rabbia e l'orgoglio" (2001), Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni, dalla pubblicazione di "Insciallah", epico romanzo sulla missione occidentale di pace nella Beirut dilaniata dallo scontro tra cristiani e musulmani e dalle faide con Israele. Dieci anni in cui la Fallaci sceglie di vivere ritirata nella sua casa newyorchese, come in esilio, a combattere il cancro. Ma non smette mai di lavorare al testo narrativo dedicato alla sua famiglia, quello che lei chiama "il-mio-bambino", pubblicato postumo nel 2008, "Un cappello pieno di ciliege". L'undici settembre le impone di tornare con furia alla macchina da scrivere per dar voce a quelle idee che ha sempre coltivato nelle interviste, nei reportage, nei romanzi, ma che ha poi "imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello" dicendosi "tanto-la-gente-non-vuole-ascoltare". Il risultato è un articolo sul "Corriere della Sera" del 29 settembre 2001, un sermone lo definisce lei stessa, accolto con enorme clamore in Italia e all'estero. Esce in forma di libro nella versione originaria e integrale, preceduto da una prefazione in cui la Fallaci affronta alle radici la questione del terrorismo islamico e parla di sé, del suo isolamento, delle sue scelte rigorose e spietate. La risposta è esplosiva, le polemiche feroci. Mentre i critici si dividono, l'adesione dei lettori, in tutto il mondo, è unanime di fronte alla passione che anima queste pagine.
"La forza della ragione" (2004) voleva essere solo un post-scriptum intitolato "Due anni dopo", cioè una breve appendice a "La rabbia e l'orgoglio". Ma quando ebbe concluso il lavoro, Oriana Fallaci si rese conto di aver scritto un altro libro. L'autrice parte stavolta dalle minacce di morte ricevute per "La rabbia e l'orgoglio" e, identificandosi in tal Mastro Cecco che a causa di un libro venne bruciato vivo dall'Inquisizione, si presenta come una Mastra Cecca che, eretica irriducibile e recidiva, sette secoli dopo fa la stessa fine. Tra il primo e il secondo rogo, l'analisi di ciò che chiama l'Incendio di Troia, ossia di un'Europa che a suo giudizio non è più Europa, ma Eurabia, colonia dell'Islam.
Oriana Fallaci intervista se stessa (2004). “Scrivere per libertà e disobbedienza”: è il monito che ha sempre guidato Oriana Fallaci e che ha ispirato anche questo libro, terzo e ultimo volume della Trilogia iniziata con La Rabbia e l’Orgoglio (2001) e proseguita con La Forza della Ragione (2004). Completando le sue riflessioni sul declino morale e intellettuale della nostra civiltà, la grande scrittrice costruisce una lunga intervista a sé stessa e la arricchisce con uno straordinario Post-Scriptum che si rifà all’Apocalisse dell’evangelista Giovanni. Con la sua scrittura magistrale, potente, provocatoria, la Fallaci ci offre un’accorata testimonianza della sua vita e del suo pensiero: scrive con la consueta schiettezza di terrorismo islamico e della crisi europea, racconta la sua lotta contro il cancro, rimarca principi etici da difendere senza compromessi, colpisce con durissimi fendenti la pavidità della politica e traccia il ritratto senza sconti di un Occidente rassegnato e indifeso, sempre più prossimo al rischio di andare in frantumi.
Un atto di giustizia rileggerli oggi che il quadro è ancora più chiaro e molti, che le davano della pazza, sono costretti ad ammettere che invece ci aveva visto giusto.
***
Sono anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia». Anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna. Incominciai con La Rabbia e l'Orgoglio. Continuai con La Forza della Ragione. Proseguii con Oriana Fallaci intervista sé stessa e con L'Apocalisse. I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia-di-destra». E sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all'Occidente, Culto-della-Morte, Suicidio-dell'Europa, Sveglia-Italia-Sveglia.
Il nemico è in casa. Continua la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in Paesi lontani. Be', il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente-inserito-nel-nostro-sistema-sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all'imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l'esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.
Il crocifisso sparirà. Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l'alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioè «col liquore». E-attenta-a-non-ripeter-l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioè pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino.
Dialogo tra civiltà. Apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell'Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall'Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c'è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta. L'Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà.
Una strage in Italia? La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai Paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi.
Multiculturalismo, che panzana. L'Eurabia ha costruito la panzana del pacifismo multiculturalista, ha sostituito il termine «migliore» col termine «diverso-differente», s'è messa a blaterare che non esistono civiltà migliori. Non esistono principii e valori migliori, esistono soltanto diversità e differenze di comportamento. Questo ha criminalizzato anzi criminalizza chi esprime giudizi, chi indica meriti e demeriti, chi distingue il Bene dal Male e chiama il Male col proprio nome. Che l'Europa vive nella paura e che il terrorismo islamico ha un obbiettivo molto preciso: distruggere l'Occidente ossia cancellare i nostri principii, i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra civiltà. Ma il mio discorso è caduto nel vuoto. Perché? Perché nessuno o quasi nessuno l'ha raccolto. Perché anche per lui i vassalli della Destra stupida e della Sinistra bugiarda, gli intellettuali e i giornali e le tv insomma i tiranni del politically correct , hanno messo in atto la Congiura del Silenzio. Hanno fatto di quel tema un tabù.
Conquista demografica. Nell'Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per razzismo-xenofobia-blasfemia. Ma nessun processo liberticida potrà mai negare ciò di cui essi stessi si vantano. Ossia il fatto che nell'ultimo mezzo secolo i musulmani siano cresciuti del 235 per cento (i cristiani solo del 47 per cento). Che nel 1996 fossero un miliardo e 483 milioni. Nel 2001, un miliardo e 624 milioni. Nel 2002, un miliardo e 657 milioni. Nessun giudice liberticida potrà mai ignorare i dati, forniti dall'Onu, che ai musulmani attribuiscono un tasso di crescita oscillante tra il 4,60 e il 6,40 per cento all'anno (i cristiani, solo 1'1 e 40 per cento). Nessuna legge liberticida potrà mai smentire che proprio grazie a quella travolgente fertilità negli anni Settanta e Ottanta gli sciiti abbiano potuto impossessarsi di Beirut, spodestare la maggioranza cristiano-maronita. Tantomeno potrà negare che nell'Unione Europea i neonati musulmani siano ogni anno il dieci per cento, che a Bruxelles raggiungano il trenta per cento, a Marsiglia il sessanta per cento, e che in varie città italiane la percentuale stia salendo drammaticamente sicché nel 2015 gli attuali cinquecentomila nipotini di Allah da noi saranno almeno un milione.
Addio Europa, c'è l'Eurabia. L'Europa non c'è più. C'è l'Eurabia. Che cosa intende per Europa? Una cosiddetta Unione Europea che nella sua ridicola e truffaldina Costituzione accantona quindi nega le nostre radici cristiane, la nostra essenza? L'Unione Europea è solo il club finanziario che dico io. Un club voluto dagli eterni padroni di questo continente cioè dalla Francia e dalla Germania. È una bugia per tenere in piedi il fottutissimo euro e sostenere l'antiamericanismo, l'odio per l'Occidente. È una scusa per pagare stipendi sfacciati ed esenti da tasse agli europarlamentari che come i funzionari della Commissione Europea se la spassano a Bruxelles. È un trucco per ficcare il naso nelle nostre tasche e introdurre cibi geneticamente modificati nel nostro organismo. Sicché oltre a crescere ignorando il sapore della Verità le nuove generazioni crescono senza conoscere il sapore del buon nutrimento. E insieme al cancro dell'anima si beccano il cancro del corpo.
Integrazione impossibile. La storia delle frittelle al marsala offre uno squarcio significativo sulla presunta integrazione con cui si cerca di far credere che esiste un Islam ben distinto dall'Islam del terrorismo. Un Islam mite, progredito, moderato, quindi pronto a capire la nostra cultura e a rispettare la nostra libertà. Virgilio infatti ha una sorellina che va alle elementari e una nonna che fa le frittelle di riso come si usa in Toscana. Cioè con un cucchiaio di marsala dentro l'impasto. Tempo addietro la sorellina se le portò a scuola, le offrì ai compagni di classe, e tra i compagni di classe c'è un bambino musulmano. Al bambino musulmano piacquero in modo particolare, così quel giorno tornò a casa strillando tutto contento: «Mamma, me le fai anche te le frittelle di riso al marsala? Le ho mangiate stamani a scuola e...». Apriti cielo. L'indomani il padre di detto bambino si presentò alla preside col Corano in pugno. Le disse che aver offerto le frittelle col liquore a suo figlio era stato un oltraggio ad Allah, e dopo aver preteso le scuse la diffidò dal lasciar portare quell'immondo cibo a scuola. Cosa per cui Virgilio mi rammenta che negli asili non si erige più il Presepe, che nelle aule si toglie dal muro il crocifisso, che nelle mense studentesche s'è abolito il maiale. Poi si pone il fatale interrogativo: «Ma chi deve integrarsi, noi o loro?».
L'islam moderato non esiste. Il declino dell'intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione. Prima d'essere eticamente sbagliato è intellettualmente sbagliato. Contro Ragione. Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l'Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l'affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l'arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione. Morire di sete e di solitudine in un deserto sul quale il Sole di Allah brilla al posto del Sol dell'Avvenir è contro Ragione.
Ecco cos'è il Corano. Perché non si può purgare l'impurgabile, censurare l'incensurabile, correggere l'incorreggibile. Ed anche dopo aver cercato il pelo nell'uovo, paragonato l'edizione della Rizzoli con quella dell'Ucoii, qualsiasi islamista con un po' di cervello ti dirà che qualsiasi testo tu scelga la sostanza non cambia. Le Sure sulla jihad intesa come Guerra Santa rimangono. E così le punizioni corporali. Così la poligamia, la sottomissione anzi la schiavizzazione della donna. Così l'odio per l'Occidente, le maledizioni ai cristiani e agli ebrei cioè ai cani infedeli.
La Parigi della Fallaci capitale d'Eurabia e dei collaborazionisti. Nella Trilogia, molti passi sulla Francia ormai contro-colonizzata dall'immigrazione musulmana. Colpa (anche) degli intellettuali, scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Secondo Oriana Fallaci, Parigi era la capitale d'Eurabia. Quest'ultimo termine, introdotto nel dibattito dalla storica Bat Ye'Or (in Eurabia, Lindau), descrive il futuro del Vecchio Continente dilaniato al suo interno dallo scontro con l'islam. Alla radice ci sono gli accordi di cooperazione tra Europa e Paesi arabi firmati negli anni Settanta. L'Europa avrebbe fornito tecnologia ai Paesi arabi in cambio di greggio e manodopera. Si teorizzava la necessità di una forte immigrazione, presto diventata accesso incontrollato, verso le nostre sponde. La massiccia presenza di stranieri in Europa, secondo la Fallaci, era il cavallo di Troia di una colonizzazione al contrario. Rileggiamo La Forza della Ragione (Rizzoli, 2004). Per i difensori dell'Occidente, Parigi è persa. «Non è facile avere coraggio in un Paese dove esistono più di tremila moschee» e i musulmani sono così numerosi (ben oltre l'ufficiale dieci per cento della popolazione). In Francia «il razzismo islamico cioè l'odio per i cani-infedeli regna sovrano e non viene mai processato, mai punito». Gli imam dichiarano di voler sfruttare la democrazia «per occupare territorio» e sovvertire le leggi laiche in favore della sharia. L'antisemitismo è in crescita. I quartieri di troppe città, stravolte dal cambiamento demografico, hanno perso l'identità francese per acquisire quella magrebina. Di fronte a queste tesi, l'intellighentia scese compatta in campo per screditare la Fallaci. La giornalista fu tra i primi, in Europa, a sperimentare strumenti ed effetti del politicamente corretto. Ripercorriamo questa vicenda esemplare. La Rabbia e l'Orgoglio (Rizzoli) esce a Parigi nel maggio 2002. Mentre la prima tiratura di 25 mila copie va esaurita in due settimane, gli intellettuali si esibiscono sui giornali. Ad aprire la polemica è il settimanale Le Point. Secondo il filosofo Bernard-Henri Lévy, il libro della Fallaci è paragonabile alle peggiori opere antisemite come Bagatelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline: «È un libro razzista. Con meno talento, è un Bagatelle antiarabo». Stessa linea per Françoise Giroud su Le Nouvel Observateur: «La Fallaci tocca nel lettore qualcosa di profondo, d'inconfessato, che egli negherà sempre di aver pensato ma che queste pagine cariche di odio e di disprezzo rischiano di illuminare brutalmente». Il sociologo Gilles Kepel su Le Monde imputa al libro di aver sancito la vittoria di Osama bin Laden, trascinando l'Occidente sul campo della reazione isterica. Una voce fuori dal coro? Charlie Hebdo ammette la verità di fondo del libro. Ma anche il settimanale satirico, di fronte alla reazione dei lettori, è costretto a «ritrattare» (in parte). All'inizio di giugno, la Fallaci risponde sul Corriere della Sera. L'articolo Eppure con la Francia non sono arrabbiata è accompagnato da brani composti in francese per La Rabbia e l'Orgoglio e ora tradotti in italiano. In breve: la specie tutta europea dei «voltagabbana» (o collaborazionisti) trova la sua origine e massima espressione in Francia fin dal Medioevo. Tra i voltagabbana più abili nello schierarsi sempre dalla parte vincente, ci sono gli intellettuali. Oggi ha vinto il politicamente corretto. E quindi... «Queste creature patetiche, inutili, questi parassiti. Questi falsi sanculotti che vestiti da ideologi, giornalisti, scrittori, teologi, cardinali, attori, commentatori, puttane à la page, grilli canterini, giullari usi a leccare i piedi ai Khomeini e ai Pol Pot, dicono solo ciò che gli viene ordinato di dire. Ciò che gli serve a entrare o restare nel jet-set pseudointellettuale, a sfruttarne i vantaggi e i privilegi, a guadagnar soldi». Gli intellettuali hanno rimpiazzato l'ideologia marxista con la «viscida ipocrisia» che «in nome della Fraternité (sic) predica il pacifismo a oltranza cioè ripudia perfino la guerra che abbiamo combattuto contro i nazifascismi di ieri, canta le lodi degli invasori e crucifigge i difensori». La cultura è il regno delle mode. La moda «o meglio l'inganno che in nome dell'Humanitarisme (sic) assolve i delinquenti e condanna le vittime, piange sui talebani e sputa sugli americani, perdona tutto ai palestinesi e nulla agli israeliani». La moda «o meglio la demagogia che in nome dell'Égalité (sic) rinnega il merito e la qualità, la competizione e il successo». La moda «o meglio la cretineria che in nome della Justice (sic) abolisce le parole del vocabolario e chiama gli spazzini “operatori ecologici”». La moda «o meglio la disonestà, l'immoralità, che definisce “tradizione locale” e “cultura diversa” l'infibulazione ancora eseguita in tanti paesi musulmani». La moda di magnificare le conquiste culturali dell'islam per farlo apparire superiore all'Occidente. E infine la moda «che permette di stabilire un nuovo terrorismo intellettuale: quello di sfruttare a proprio piacimento il termine “razzismo”. Non sanno che cosa significa eppure lo usano lo stesso». Passano dieci giorni. Tre associazioni francesi denunciano la Fallaci per islamofobia e incitazione al razzismo. Era accaduto, poco prima, anche a Michel Houellebecq, a causa dei duri giudizi sull'islam contenuti nel romanzo Piattaforma (Bompiani) e ribaditi in un'intervista. Il tribunale di Parigi assolve la Fallaci mentre La Rabbia e l'Orgoglio supera le duecentomila copie. Quanta fatica sprecata per liquidare la Fallaci. Oriana guardava lontano mentre gli intellettuali non si sono accorti dei processi storici e delle ideologie di morte che hanno davanti agli occhi.
Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. L i chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell'Annie Taylor Award, il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero: «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione. Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico»: «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.
I TAGLIA GOLE TRA DI NOI.
La guerra siriana si combatteva in Italia. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista con obiettivo soprattutto i cristiani. A rivelarlo è un'indagine della polizia e dai magistrati anti-terrorismo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Un piccolo spezzone della guerra civile siriana si è combattuto in Italia. Ma era ancora troppo presto per capirlo. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista: ferimenti, aggressioni, pestaggi, danneggiamenti, devastazioni, minacce e intimidazioni. Le vittime appartengono alle minoranze politico-religiose più perseguitate dalle milizie islamiste in Siria: le violenze in Italia hanno colpito soprattutto cristiani. A rivelarlo è un'indagine, avviata dalla polizia e dai magistrati anti-terrorismo di Milano, che viene ricostruita in un articolo del settimanale “l'Espresso”. Da quando è esplosa la guerra civile in Siria, le forze di polizia di tutti i Paesi occidentali hanno cominciato a sorvegliare le partenze degli estremisti verso i fronti di guerra. A Milano la Digos ha messo sotto controllo, in particolare, un gruppo di siriani residenti da anni tra Milano, Como e Monza: spariti dall’Italia, sono ricomparsi, mitra in pugno, in una serie di foto e video pubblicati su Internet tra febbraio e luglio del 2012. Solo a quel punto la polizia, ricostruendo le loro precedenti attività in Italia, ha scoperto che quegli stessi jihadisti siriani avevano già colpito, segretamente, anche a casa nostra. L’unica azione visibile si è svolta nella notte del 10 febbraio 2012 nel centro di Roma: un plotone di oppositori siriani ha dato l’assalto all’ambasciata di Damasco, che è stata occupata e devastata. Quel raid di protesta contro il regime del presidente-dittatore Bashar El-Assad è stato organizzato proprio dal gruppo di estremisti che poi sono partiti per la guerra in Siria. Nei mesi successivi le indagini della polizia hanno collegato alla stessa cellula jihadista molte altre azioni violente, mai denunciate per paura. Tra le vittime, due siriani di fede cristiana, che gestivano un bar a Cologno Monzese. Il loro locale è stato devastato nell'estate 2011 da un commando di oltre trenta uomini armati di bastoni e spranghe di ferro. Sulla saracinesca è poi comparsa una scritta in arabo: «Per tutti i siriani: quelli che sono a favore del presidente devono stare attenti. In Siria ci penseremo noi. Quelli che ammazzano nel jihad, vivono con Dio». Nella primavera 2012, dopo altre gravi intimidazioni, i due cristiani hanno ceduto il bar e si sono trasferiti. Un altro agguato di stampo jihadista ha colpito due siriani che lavorano regolarmente tra Milano e la Brianza: uno è cristiano, l’altro della minoranza sciita-alauita, ma i loro amici più cari sono sunniti. Il 16 luglio 2011 hanno partecipato a una fiaccolata filo-Assad organizzata da un'associazione di cui fanno parte anche cittadini italiani. Mentre tornavano a casa in macchina, sono stati circondati e picchiati ferocemente da almeno 15 sprangatori jihadisti. Le due vittime, sanguinanti a terra, sono state salvate dall'arrivo dei carabinieri. Il cristiano è stato ricoverato al San Raffaele con una gamba spappolata e operato più volte. A una spedizione punitiva è sfuggito anche un religioso legato alla Fratellanza Musulmana, il partito allora al potere in Egitto, che aveva messo al bando le sette jihadiste dalle moschee milanesi. A quel punto l’ala dura dei salafiti siriani lo ha minacciato di morte: «Sei un traditore.... Ti uccideremo a coltellate... Ti sgozzeremo come un cane». Dopo mesi di indagini, la Digos ha smascherato gli esponenti più violenti del gruppo jihadista milanese. Ma a quel punto erano già partiti tutti per la guerra. Uno dei più sanguinari è stato identificato in due video-choc, girati in Siria nel maggio 2012 (e scoperti da un fotoreporter della Rai): con il mitra a tracolla, si è fatto riprendere con un plotone di uomini armati, mentre uccidevano con un colpo alla testa sette prigionieri di guerra, legati e torturati.
"Decapitazioni e orrore, Medusa tra di noi". Il sentimento di Marco Belpoliti per il 2015. Il suo sguardo era scomparso da secoli dall’iconografia collettiva, ma le immagini con le decapitazioni dell’Isis lo hanno fatto tornare. E di nuovo ci pietrifica. Lo scopo dei carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo. Esattamente come accadeva nei supplizi precedenti l’Illuminismo, scrive Marco Belpoliti “L’Espresso” Il primo è stato il fotoreporter americano James Foley. Poi nell’arco di un mese sono stati decapitati un altro reporter statunitense, Steven Sotoff, e il cooperante scozzese David Haines. Il rito pressoché identico prevede che il condannato sia vestito di un camicione arancione, mentre il boia è in nero, con il capo e il viso occultati. Tiene in mano un coltello esibito come strumento di morte. La decapitazione ha generato un immediato senso di orrore lasciando attonita l’intera platea televisiva occidentale. Le immagini della decollazione sono state viste da milioni di persone e commentate da giornali, televisioni, siti internet. Basta? No. Pochi giorni fa la notizia che un commando di talebani pakistani entra in una scuola a Peshawar e uccide a freddo 132 bambini e i loro insegnanti, per poi essere a loro volta uccisi dalle forze di sicurezza. L’orrifico è entrato nelle case degli abitanti dell’Europa e dell’America. Qualcosa che era scomparso da due secoli almeno dalle piazze del Vecchio Continente ha fatto così la sua cruenta riapparizione - per quanto negli ultimi anni ci siano state molte altre decapitazioni, per esempio nelle guerre combattute nell’ex Jugoslavia così come in altri sequestri di ostaggi. Basti ricordare il reporter americano Daniel Pearl, sequestrato in Pakistan e decapitato nel 2002, e il giovane imprenditore Nicholas Berg in Iraq nel 2004: ma non sempre furono così platealmente visibili all’opinione pubblica, e soprattutto non prevedevano la “serializzazione” che caratterizza orrendamente le decapitazioni di oggi. Che appaiono quasi come puntate di una atroce serie, in cui ciascun episodio contiene l’annuncio del successivo. All’inizio del suo volume “Sorvegliare e punire” (1975) Michel Foucault racconta un supplizio, tratto dalla “Gazzetta di Amsterdam”, cui è condannato il 2 marzo 1757 tale Robert-François Damiens. Il suo corpo è squartato tra terribili tormenti sulla pubblica piazza a opera di sei cavalli, che tirano le membra da parti opposte. Nell’arco di pochi decenni da quella data in Europa si smette di amputare, fare a pezzi e marchiare i condannati; il corpo non è più oggetto dello spettacolo pubblico, così da scomparire come “principale bersaglio della repressione penale”. Salvo poi fare la sua terribile ricomparsa con il Terrore, attraverso l’uso della ghigliottina e delle teste mozzate esibite, ancora sulle piazze, durante la Rivoluzione francese. Nel sistema giuridico americano, dove tutt’ora esiste la pena di morte cancellata invece in Europa, ha ricordato di recente Giorgio Mariani, è contemplata l’uccisione del condannato mediante una iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. Nella cultura puritana di quel Paese, almeno sul suo territorio, è respinta come barbara ogni forma di decollazione: la testa non può e non deve essere separata dal corpo, il quale va conservato nella sua integrità nel momento in cui viene eseguita una sentenza di morte. L’orrore che hanno suscitato i filmati dell’Isis proviene anche da questa tradizione, oltre che dal culto del corpo che negli ultimi settant’anni si è diffuso in Occidente. Questo nonostante che nei decenni passati in Europa, come in altri luoghi del Pianeta, siano accaduti fatti terribili, le guerre e i conseguenti massacri della ex-Jugoslavia, o le vicende del genocidio in Uganda, con amputazioni, decapitazioni, squartamenti. In Europa la decapitazione degli ostaggi americani e inglesi nelle mani dei membri dell’Isis sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Questo nonostante che nella nostra tradizione iconografica sia ben presente l’immagine della decollazione, quella di san Giovanni Battista, o quella di Giuditta nei confronti di Oloferne, come ci ha ricordato non molti anni fa la mostra allestita da Julia Kristeva al Museo del Louvre, poi raccolta in “La testa senza il corpo” (Donzelli). C’è persino un santo, San Dionigi, protettore di Parigi, il cui miracolo è consistito nel mettersi sotto braccio la propria testa tagliata, per mano dei soldati romani, e risalire la collina che prende ora il suo nome nella capitale francese. Per quanto espunto dalla nostra giustizia, l’orrore ritorna continuamente nelle nostre cronache. Si è letto solo pochi giorni fa di una madre che avrebbe ucciso il proprio bambino. L’orrore è cosa ben diversa dal terrore che con gli atti di decapitazione l’Isis vorrebbe provocare nel mondo occidentale, qualcosa di più profondo e radicale. La parola “orrore”, ricorda Adriana Caravero, viene dal verbo latino horreo, di incerta etimologia ma di sicuro significato: indica il rizzarsi dei peli del corpo, il suo tremolio per via dello spavento. Secondo uno studio, a rizzarsi sarebbero i capelli, azione inconsueta ma possibile, che si conserverebbe nel significato della parola italiana “orripilante”. La filosofa nel suo libro “Orrorismo” (Feltrinelli), il cui titolo costituisce un neologismo, sostiene che esiste una “fisica dell’orrore”, collegata a quella dell’agghiacciarsi, reazione fisiologica al freddo, che provoca la cosiddetta “pelle d’oca”. Sono tutti stati del corpo che colpiscono chi è esposto a spettacoli orripilanti. Primo Levi, all’inizio della “Tregua”, descrive la reazione dei giovani soldati russi che raggiungono il Lager dove il deportato si trova nel gennaio del 1945. I russi osservano dall’alto dei loro cavalli lo spettacolo bestiale dei cumuli dei cadaveri abbandonati dai nazisti in fuga. Orrore e insieme ripugnanza, qualcosa di diverso dalla paura, una forma di ribrezzo che in un libro, “Poteri dell’orrore” (Spirali), Julia Kristeva ha definito “ribrezzo”. C’è una figura classica che incarna perfettamente l’orrore di cui si parla: Medusa. La sua visione agghiaccia, paralizza, pietrifica. L’orrore è tale che chiunque ne fissi il viso - gli occhi, lo sguardo, ma anche i capelli a forma di serpenti come l’ha dipinta Caravaggio - viene trasformato in roccia. Quelle che si presentano al nostro sguardo nei film rilasciati nel web dai carnefici dell’Isis sono immagini inguardabili, ripugnanti, che fanno ribrezzo. Lo scopo di questi carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo, esattamente come accadeva nei supplizi che precedono le riforme penali prodotte dall’Illuminismo nel diritto occidentale. Si vuole distruggere l’unità del corpo provocando negli spettatori l’orrore. Più questo, ribadisce Caravero, che non il terrore. C’è un’altra figura mitologica che viene spesso evocata proprio per definire l’altro aspetto dell’orrore, cui ci hanno abituato le cronache recenti: Medea. Ripudiata da Giasone a vantaggio della figlia del re di Corinto, Medea uccide i suoi figli per vendetta, come racconta Euripide nella tragedia. Lei, che aveva aiutato il suo uomo a conquistare il Vello d’oro, diventa il modello degli infanticidi a seguire. In una versione del mito citata da Károly Kerényi, Medea taglia a pezzi i corpi delle sue vittime, evocando così la fantasia orripilante dello smembramento. Adriana Cavarero sottolinea come non esista un analogo mito maschile per descrivere l’orrore dell’uccisione dei propri congiunti, e come l’orrore dell’infanticidio sia ascritto alla madre quale segno di una follia estrema. Per riscattare Medea, o almeno cercare di capire l’orrore che la abita, la filosofa ricorda un episodio presente nel libro di W. G. Sebald, “Storia naturale della distruzione” (Adelphi), dedicato ai bombardamenti con cui gli Alleati distrussero le città tedesche nel corso del Secondo conflitto mondiale. Durante una fuga dalle tempeste di fuoco, a una donna si aprì di colpo la valigia che recava. Non conteneva gioielli o oggetti, ma il cadavere di suo figlio. Sebald riporta altri casi in cui le madri recarono con loro nella fuga corpi di bambini soffocati dal fumo o uccisi dai bombardamenti. Nella disperazione, scrive l’autrice, in cui l’orrore le aveva immerse, queste donne cercavano di curare le loro inermi creature oltre la stessa morte. Un modo per salvare i corpi dall’orrore terribile di quella distruzione. Davanti all’orrore delle immagini trasmesse dal web o sui canali televisivi, riportate nelle pagine dei giornali sotto forma di fotografie, a Gaza come in Afghanistan, in Cecenia come in Siria, possiamo decidere legittimamente di distogliere lo sguardo, cambiare canale, girare pagina, per non restare paralizzati, pietrificati da quello che si vede. Per quanto evochino qualcosa di pornografico – piacere morboso insieme all’orrore, com’è stato giustamente detto – non possiamo esimerci dal sapere che queste immagini hanno un valore etico, come ci ha ricordato Susan Sontag in “Davanti al dolore degli altri” (Mondadori). Fanno sorgere domande decisive e ci rendono consapevoli del fatto che esseri umani commettono cose terribili nei confronti di altri esseri umani. Cavarero la chiama “la violenza sull’inerme”, ed è questo il vero orrore che suscitano in noi.
Fatwa e morte. Così uccidono la satira, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Si dice che quando l'uomo con la penna incontra l'uomo con la pistola, l'uomo con la pistola è un uomo morto. Si dice, però. Perché la scia di sangue che ha macchiato libri, pellicole e paginate di giornale fresche d'inchiostro è ben più lunga di quella freschissima lasciata sulle vignette di Charlie Hebdo. Il settimanale che, ironia del destino, nel 2006 aveva deciso di mandare in edicola per solidarietà, insieme a numerosi quotidiani europei, anche italiani, le caricature di Maometto pubblicate l'anno prima sul quotidiano danese Jyllands-Posten e successivamente sul giornale norvegese Magazinet. In uno dei disegni, il profeta dell'Islam era raffigurato con una bomba al posto del turbante (il vignettista Kurt Westergaard da allora vive sotto costante protezione della polizia e solo per miracolo i tentativi di assassinio ai suoi danni non sono riusciti). Alla pubblicazione di quelle immagini, successe il finimondo: dall'Africa, al Medioriente, all'Afghanistan, all'Indonesia esplosero le proteste di piazza. In Nigeria morirono 130 persone negli scontri. A quel punto, il premier norvegese Anders Fogh Rasmussen all'inizio del 2006 raggiunse un accordo con la Lega Araba per la distribuzione di una lettera che era sostanzialmente di scuse e che, pur difendendo il principio della libertà di espressione, stigmatizzava la «demonizzazione» di alcuni gruppi in base all'appartenenza religiosa ed etnica. Il 30 gennaio giunsero le scuse anche del direttore del Jyllands-Posten. L'8 febbraio, una provocazione dell'allora ministro leghista Roberto Calderoli legata alle vignette incriminate, portò ad una violenta protesta in Libia e ad un attacco al consolato italiano di Bengasi, nel quale morirono 11 manifestanti. Ancor prima, il 2 novembre del 2004, c'era stato l'omicidio di Theo van Gogh, il regista olandese di “Submission”, un cortometraggio che aveva fatto scandalo nel mondo islamico per la scelta di scrivere dei versi di una sura del Corano sulla schiena della protagonista. L'assassino, Mohammed Bouyeri, in possesso della doppia cittadinanza olandese e marocchina, intercettò van Gogh nel centro di Amsterdam, esplodendo contro di lui otto colpi di pistola. Gli tagliò anche la gola e gli piantò nella pancia due coltelli, in uno dei quali era conficcato un documento contenente minacce ai governi occidentali, agli ebrei e ad Ayaan Hirsi Ali, deputata di origini somale ed autrice del film insieme a van Gogh. Il film fu ritirato e anche il produttore, Gijs van Vesterlaken, subì gravi minacce. Fino ad allora, l'unica condanna a morte nei confronti di un intellettuale inviso al regime islamico risaliva al 1989 ed era stata spiccata nei confronti dello scrittore britannico di origine indiana Salman Rushdie, all'epoca già una star affermata della narrativa internazionale. Nel suo libro, “I versetti satanici”, aveva fatto allusivamente riferimento alla figura del profeta Maometto. Fu per questo che a febbraio di quell'anno l'ayatollah Khomeini emanò una fatwa nella quale condannava a morte Rushdie, colpevole, a giudizio della massima autorità iraniana, di bestemmia. I killer non riuscirono a trovarlo ma nel 1991, fu accoltellato a morte da uno sconosciuto il traduttore giapponese dell'opera, Hitoshi Igarashi; e nello stesso anno, fu ferito anche il traduttore italiano, Ettore Capriolo, mentre nel 1993 fu la volta dell'editore norvegese del libro. Dopo la morte di Khomeini, la fatwa fu confermata nel 2005 dall'ayatollah Ali Khamenei, ma lo stesso Rushdie ammise che la condanna a morte aveva ormai un valore più retorico che reale. Anche se, nel 2012, lo scrittore fu costretto a rinunciare alla partecipazione al festival internazionale di letteratura di Jaipur, in India. I fanatici della Mecca erano tornati a farsi vivi.
Giannelli: «Non sapremo reagire La nostra società si è assuefatta al peggio», scrive “Luca Rocca su “Il Tempo”. L’uccisione dei giornalisti satirici del Charlie Hebdo, a Parigi, non sorprende Giannelli. Di una cosa il vignettista appare certo: stanno cercando di intimidirci. Ed è anche convinto, inoltre, che l’Occidente sia così assuefatto al peggio, che neanche di fronte a una strage di questa portata sarà in grado di reagire.
Giannelli, tre terroristi imbracciano un kalashnikov e colpiscono al cuore la nostra libertà.
«In questo mondo non mi stupisce più niente. La barbarie del nostro tempo supera qualsiasi immaginazione. Chi mai, fino a pochi anni fa, poteva immaginare che saremmo entrati in un tunnel così buio? Bisognerebbe scavare a fondo alla vicenda, capire le radici di questo odio, da dove proviene».
Nella sua carriera, si è mai imbattuto nell’intolleranza dell’Islam?
«Tanti anni fa, quando collaboravo con Repubblica, io e Forattini fummo convocati da Eugenio Scalfari, il quale ci raccomandò di andarci cauti con le vignette sull’Islam. Ho pensato che avesse ricevuto messaggi allarmanti. Personalmente però non ho mai ricevuto minacce».
Perché colpire la satira?
«L'integralismo islamico è intolleranza all'ennesima potenza, non riguarda solo la satira. Ma è vero che verso lo humor l’Islam ha una chiusura ermetica. Credo, però, che un attacco come quello al Charlie Hebdo rappresenti soprattutto un’intimidazione. Dopo una strage come quella avvenuta in Francia, infatti, anche se inconsciamente, prima di pubblicare un'altra vignetta contro Maometto, ci pensi due volte».
Saremo capaci di reagire?
«Io sono vecchio, ero ottimista e non lo sono più. Ho la sensazione che le reazioni della nostra società siano sempre meno frequenti. Siamo capaci di assuefarci a tutto. Ciò che un tempo ci sarebbe sembrato enorme, adesso ci appare quasi accettabile».
Quello di ieri è l’11 settembre della stampa?
«In un certo qual modo è così, ma non vedremo la stessa reazione vista dopo l’attacco del 2001 alle Torri Gemelle. E sa perché? Perché sono passati più di 10 anni, e lentamente ci siamo abituati a ogni efferatezza».
Krancic: «Per proteggere l’Islam l’Occidente si sta suicidando», scrive “Il Tempo”. È una tappa del suicidio dell’Occidente. A dirlo, nel giorno in cui gli integralisti islamici assaltano il cuore dell’Europa uccidendo dei disegnatori di satira che la loro «libertà di matita» la indirizzavano anche contro Allah, è uno dei maggiori vignettisti italiani, Alfio Krancic, che si dice sconvolto.
Qual è stato il suo primo pensiero alla notizia della la strage nella redazione del Charlie Hebdo?
«Sono ancora frastornato. Aver colpito un settimanale simbolo della trasgressione satirica, è indicativo del clima di odio che si è scatenato verso le manifestazioni di libertà dell'Occidente».
Lei ha mai realizzato vignette sull'Islam?
«Certo, anche sull’Isis e il “califfo nero” al Baghdadi, prendendo sempre le parti di Assad, Gheddafi, Saddam. Meglio quei regimi arabi laici che salvaguardano le altre religioni e ci proteggono dal fanatismo islamico. Perché quando in quei paesi le dittature cadono, non arriva la democrazia. E lo dimostra anche l'attentato in Francia».
Hai ricevuto minacce per quelle vignette?
«No. In Italia, fortunatamente, la minaccia islamica non ha mai preso di mira la satira, ma qualche giornalista, come Magdi Allam, o qualche politico, come Roberto Calderoli, rei di avere idee non in linea con il pensiero islamico e di manifestarle come desiderano».
Perché la satira sull’Islam provoca morte?
«La colpa è anche del politicamente corretto. Corretto unilateralmente, visto che protegge alcune espressioni religiose, come l'Islam, ma non la nostra religione, il cristianesimo. Una forma sadomasochistica ha pervaso le menti dell'Occidente. Siamo persino arrivati a contemplare il reato di islamofobia. L'Occidente si sta suicidando».
Un massacro come quello di ieri può segnare la fine del multiculturalismo in Europa?
«È molto difficile. Le forze culturali e intellettuali che dominano in Europa sono troppo forti. Impediranno ad alcuni movimenti politici e culturali di prendere il sopravvento sul multiculturalismo. Al contempo, però, la strage inevitabilmente aumenterà l'intolleranza verso gli intolleranti».
Vauro: «Difendo il diritto al gioco della libertà e alla libertà del gioco», scrive Massimiliano Lenzi su “Il Tempo”. «La satira è tale perché da sempre sbeffeggia i potenti ed i prepotenti». Vauro, vignettista e satirico a sinistra da una vita (da Il Manifesto a Servizio Pubblico, su La7) - che trent'anni e passa fa, come racconta a Il Tempo, «ha lavorato pure al Charlie Hebdo» - il giorno dopo l'attentato dei fondamentalisti islamici al giornale satirico francese, è sconvolto ed addolorato. «Sono fuori di me, perché la satira è la libertà assoluta e nessuno deve violentarla. Mai. Perché la satira è da sempre contro tutti i tipi ed ogni forma di fondamentalismi».
Gli chiediamo cosa, secondo lui, toscano che attinge la propria ironia da Cecco Angiolieri in avanti, rappresenti per le nostre libertà ciò che è successo a Parigi.
«Si è colpita un'arte – risponde –, la satira, che è la cosa meno violenta che si possa immaginare perché qualsiasi tema affronti è sempre un gioco. C'è sempre un elemento di gioia e di poesia nell'ironia satirica e l'irruzione di una violenza così assurda e demente incarna un attentato contro la fantasia degli uomini e delle donne. È come se i terroristi assassini avessero fatto irruzione durante l'ora di ricreazione in una scuola, compiendo una strage efferata di bambini, Erodi contro ogni libertà, perché vede, la satira ha sempre una propria componente infantile. E poi devo dirle che che c'è un'altra cosa, ancora, che mi preoccupa...».
Che cosa?
«Quello che mi preoccupa è che sento già parlare di scontri e di guerre di religione. Io – aggiunge – vorrei sperare che la satira non diventi arruolabile da nessuno, mai. Vede, sui social media ieri mi sono arrivati inviti a fare vignette contro Maometto, per dimostrare di avere le palle. Ma io non credo si possa fare satira per dimostrare di avere le palle, perché la forza del ridere deve essere più forte della fine, anche della morte. Quello che voglio ostinatamente difendere, continuare a difendere, è il diritto al gioco della libertà ed alla libertà del gioco. Perché dopo l'attentato vigliacco di Parigi al Charlie Hebdo siamo tutti meno liberi. Ed anche meno felici».
Vincino: «L’Islam non c’entra? Certi soloni vadano a quel paese», scrive ancora Lenzi. «La cosa tragica e divertente, sa quale è? È ascoltare certi Soloni dire che l'Islam non c'entra niente, perché è buono e non c'entra che i killer, uccidendo, hanno gridato di vendicare Maometto, con la frase di rito "Allah akbar": ma andate tutti quanti a quel paese, ipocriti!». Vincino, vignettista de Il Foglio ed anticonformista da una vita intera, non si rassegna all'ecatombe delle libertà che si è consumata ieri nel cuore di Parigi, e alla mollezza di certe reazioni italiane ed occidentali. «Ieri hanno centrato ed ucciso un posto come verità, e non come simbolo. Perché il Charlie Hebdo era il luogo dove è nata la libertà di satira in Europa, ed anche la mia. "Il Male" con i suoi autori nacque anche grazie a loro, tutte la rubriche delle copertine rifiutate ad esempio, una colonna straordinaria con 4 vignette terribili in cui potevi mettere le cose più libere ed inimmaginabili». Poi Vincino si sofferma sulle persone, e spiega che «all'interno di Hebdo trovavi poeti veri, come Georges Wolinski, figlio di un polacco e di un'italiana emigrati in Tunisia, un poeta dell'amore e del sesso. E vedere Wolinski morire durante una riunione di satira mi commuove». Perché Vincino, sulla satira, come spiega al nostro giornale, «ha fatto un festival, a Roma, all'epoca di Nicolini. Wolinski era come tutti i veri umili, semplice e generoso. Ma liberi totalmente. E questo vale per il Charlie Hebdo, che perciò va a cozzare con le religioni. Sempre. Poi, oggi, ci sono le religioni che sono un po' più buone ed altre in alcune parti del mondo, più cattive. Cattivissime. L'Hebdo non ha mai ceduto un centimetro sulla vivisezione delle religioni, sia cattolica che islamica. Avevano capito per primi la questione della libertà poste dalle vignette pubblicate dal giornale danese Jyllands-Posten su Maometto, e seguite da mobilitazione contro nei paesi arabi. Roberto Calderoli, una vignetta se la mise su una maglietta sotto la giacca. Noi, comunque sia, speriamo di non finire mai in una maglietta di Calderoli ma quello che ieri è stato attaccato sono l'illuminismo e la nostra civiltà».
Ecco i nomi delle dodici vittime dell'attacco del 7 gennaio 2015 alla redazione di Charlie Hebdo:
- Stephane Charbonnier, alias Charb, vignettista e direttore;
- Georges Wolinski, vignettista;
- Jean Cabut, alias Cabu, vignettista;
- Bernard Verlhac, alias Tignous, vignettista;
- Philippe Honoré, vignettista;
- Bernard Maris, economista ed editorialista;
- Elsa Cayat, psicologa e giornalista;
- Michel Renaud, ex consigliere del sindaco di Clermont Ferrand;
- Mustapha Ourrad, correttore di bozze;
- Fréderic Boisseau, addetto alla portineria;
- Franck Brinsolaro, poliziotto;
- Ahmed Merabet, poliziotto.
Decapitato l’umorismo francese. Quattro celebri vignettisti tra le vittime: Charb, Cabu, Tignous e Wolinski Sull’ultimo numero la caricatura di un terrorista: «Gli auguri entro gennaio», scrive Antonio Angeli su “Il tempo”. Cinque minuti di puro terrore, un muro di piombo e fuoco: alla fine in terra, senza vita, restano in 12. Parigi e il mondo piangono il più grave e sanguinoso atto di terrorismo degli ultimi anni: sono rimasti uccisi 8 giornalisti, 2 agenti, un ospite della redazione e il portiere dello stabile. Delle vittime alcuni sono celebri: vignettisti, inguaribili umoristi, di quelli che se cerchi di mettergli il bavaglio diventano più tenaci, e gli è costata cara, soni diventati bersaglio di una violenza inaudita; una strage che ricorda quella all’inizio di un vecchio film di spionaggio: «I tre giorni del Condor».
Ucciso il direttore del settimanale satirico parigino «Charlie Hebdo», Stéphane Charbonnier detto «Charb», celebre disegnatore satirico, classe 1967, in passato già minacciato più volte per le vignette su Maometto, e per questo messo sotto la protezione della polizia. Non gli è servito, non è stato sufficiente. Nel numero uscito proprio la scorsa settimana c’è la sua ultima vignetta, profetica e agghiacciante, ora che si è consumato il massacro. Il titolo dell’illustrazione: «Ancora nessun attentato in Francia», sotto il pupazzetto che raffigura un terrorista islamico, con la barba e il mitra sulle spalle, che dice: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri». Caduti sotto il fuoco dei terroristi i tre più importanti vignettisti della testata: Cabu, Tignous e Georges Wolinski, molto famoso anche in Italia, da anni. Nell’attentato è rimasto ucciso anche l’economista Bernard Maris, azionista della testata parigina.
Jean Cabut meglio noto come Cabu, 76 anni, antimilitarista e di spirito anarchico, ha collaborato con tutte le principali testate francesi come caricaturista e disegnatore di fumetti. Attualmente disegnava sia per «Charlie Hebdo» che per il suo principale concorrente, «Le Canard Enchainé». Per «Pilote», una delle principali riviste francesi di fumetti, aveva creato il personaggio del «Grand Duduche», liceale maldestro. Era il padre del cantante Mano Solo, morto di malattia nel 2010. Charb, 47 anni, disegnatore satirico, collaborava anche con il quotidiano del partito comunista «L’Humanité» e due delle principali riviste francesi di fumetti, «Fluide Glacial» e «L’Echo des Savanes». Sue le strisce, irriverenti e al limite del pornografico, del cane Maurice, bisessuale e anarchico, e Patapon, gatto asessuato e fascista.
Ucciso anche Bernard Verlhac, detto Tignous, 57 anni. I suoi disegni venivano pubblicati da «Charlie Hebdo», «Marianne» e «Fluide Glacial».
E poi c’era il più famoso di tutti, fumettista e vignettista noto, non solo in Francia, ma anche in Europa, per il suo caratteristico taglio caustico nel rappresentare la quotidianità. È Georges Wolinski, con «Charlie Hebdo» collaborava da anni. Nato a Tunisi il 28 giugno del ’34, Wolinski aveva esordito come disegnatore per la rivista «Hara-Kiri», dalla quale era poi passato a «Action», «Paris-Presse», «Hara-Kiri Hebdo», «L’Humanité», e infine «Paris-Match». Attualmente era anche capo redattore di «Charlie Mensuel». Wolinski aveva ottenuto la popolarità con i fatti del maggio del ’68, attraverso la rivista «Action». La sua cifra stilistica era costituita dalla capacità di porre l’accento sui personaggi, dall'ampio uso di doppi sensi, anche sessuali - tanto da farlo conoscere a molti come l'umorista del sesso - e dal taglio caustico nel rappresentare il cinismo quotidiano. Il fumettista era anche noto per avere collaborato, negli anni ’70, con Georges Pichard creando il personaggio di Paulette.
Bernard Maris era invece un professore d’economia allo Iep di Tolosa e attualmente insegnava anche all’Istituto di studi europei dell’università Parigi-VIII. Il 68enne era anche una firma per diversi giornali, come «Le Monde», «Le Figaro Magazine» e «Le Nouvel Observateur». Del settimanale satirico era stato uno dei fondatori, con l’11% delle azioni, e fino al 2008 direttore aggiunto. Era uno dei principali studiosi della globalizzazione «etica e sociale». Un grande intellettuale francese, tra le sue attività, anche la scrittura, con la pubblicazione di diverse opere letterarie.
Non tutte le firme del settimanale satirico sono state messe a tacere. È una carneficina che «ha decapitato» il settimanale, come succede in «Siria e in Iraq»: così ha reagito Bernard «Willem» Holtrop, vignettista di «Charlie Hebdo», scampato all’assalto che ricorda che le vittime «non sono dei colleghi, sono degli amici». E la carneficina del settimanale parigino ha scatenato una silenziosa, gigantesca reazione, a livello mondiale. In Francia tantissime persone sono scese in strada con un cartello: «JeSuisCharlie», «Io sono Charlie», con il chiaro riferimento alla testata. L'ambasciata americana a Parigi ha anche cambiato la sua icona Twitter in #JeSuisCharlie, in segno di sostegno alla Francia. «La libertà di espressione è un diritto umano», ha twittato Amnesty Italia.
Charlie Hebdo, una storia di satira irriverente. La testata è nota per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo, scrive “Il Tempo”. Charlie Hebdo è un settimanale satirico di tradizione libertaria, dal tono irriverente e anticonformista. Il giornale difende le libertà individuali e ha un orientamento di sinistra, fortemente anti religioso. Charlie Hebdo è noto per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. Anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia neanche i partiti di sinistra francesi. Secondo l'attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette "tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell'astensionismo".
Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Nella settimana precedente le illustrazioni avevano suscitato proteste in alcuni Paesi musulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta.
Nel 2011 la sede del giornale venne colpita da alcune bombe molotov; l'attacco fu lanciato prima dell'uscita nelle edicole di un numero con in copertina un'altra vignetta satirica con Maometto. Il sito web del settimanale fu invece preso di mira da hacker. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni '60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi "un giornale stupido e cattivo".
La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, a novembre del 1970 la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina "Bal tragique à Colombey - un mort", ossia 'Ballo tragico a Colombey, un mortò, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell'Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì.
Matite satiriche. Satiriche come le penne di sinistra che alzano le sopracciglia quando si parla di satira di destra.
Charlie Hebdo, parlano Staino, Altan, Vauro e Makkox: «La satira non si fa intimidire». Dopo l'attentato al giornale satirico francese, che ha causato dodici vittime, parlano alcuni dei più celebri fumettisti italiani. Che piangono gli amici scomparsi e dicono: "Questi omicidi devono far crescere la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo", scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”. Hanno la voce rotta. Cercano le parole giuste. Promettono che nulla cambierà nel loro lavoro, ma temono che niente sarà più come prima. Alcuni dei più noti vignettisti italiani, da Staino a Altan, da Vauro a Makkox, commentano al telefono con “l'Espresso” la tragedia parigina, l'assalto al giornale satirico “Charlie Hebdo”.
Il dolore più grande è quello di Sergio Staino, che nell'attacco ha perduto un amico, il disegnatore Georges Wolinski. «La mia prima reazione è stata di andare a vedere se tra le vittime ci fosse Georges. Lo reputavo improbabile, visto che non lavora all'interno della redazione. E invece hanno ammazzato anche lui, significa che sapevano che oggi era prevista la riunione», racconta Staino: «Avevo conosciuto Wolinski all'inizio degli anni Ottanta, quando ero andato a visitare la redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi. Poi era stato più volte mio ospite, e aveva anche partecipato a un mio film del 1992, “Non chiamarmi Omar”, con Ornella Muti, ricordo che si era innamorato di Stefania Sandrelli». Staino, storico disegnatore dell'“Unità”, ha fatto vignette su Hamas e l'Islam politico, ma mai sulla religione musulmana in sé. Tuttavia ha sempre difeso il diritto alla libertà di espressione, anche quando, dice, «le vignette erano artisticamente di scarso valore, come quelle su Maometto, una peggiore dell'altra, pubblicate in Danimarca dallo “Jyllands Posten”». La cosa che più lo colpisce è che i terroristi abbiano voluto colpire i più deboli: «Non sono andati a colpire che ne so la Cia, ma dei vignettisti. È come attaccare la Croce Rossa, è una cosa da vigliacchi». E ora? Cambierà qualcosa nel mondo della satira? I vignettisti si autocensureranno? «No, non succederà mai», risponde Staino: «La nostra molla sono la ricerca della verità, lo sberleffo dei fondamentalisti, il dubbio, l'antidogmatismo. Questi omicidi accresceranno la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo».
È d'accordo anche Vauro, storica matita del “Manifesto” prima e di “Servizio pubblico” e “Annozero” poi. «Non credo che reagiremo con quella forma tremenda di censura che è l'autocensura. Noi che viviamo di satira siamo, che piaccia o no, degli istintivi. In noi domina quell'elemento ludico, infantile, anche inopportuno come spesso sono inopportuni i bambini, un elemento che non si fa intimorire dalle minacce di un gruppo di intolleranti». Vauro conosceva Wolinski, e dice di essere rimasto annichilito davanti alla notizia dell'attacco. Lo hanno colpito molto anche certi inviti che gli sono arrivati sui social network, che gli dicevano «Ora disegna Maometto se hai le palle». «Io ho disegnato Maometto, e ho anche “affrescato” i muri dell'ospedale di Emergency a Kabul al tempo dell'oscurantismo talebano. Non mi farò fermare dai fondamentalisti islamici, ma non devo neanche dimostrare niente a nessuno».
Anche Francesco Tullio Altan, storico vignettista di “Espresso” e “Repubblica”, ha perso degli amici oggi. Non nasconde che ora possa diventare più difficile, per un vignettista, ironizzare sull'Islam, ma non crede che l'attacco sia da intendersi contro il mondo della satira: «Come gli attentati alle metropolitane o ai treni, questo non è che un episodio della grande guerra contro la libertà in generale».
Makkox, infine. Il disegnatore del “Post” e di “Gazebo” ammette di aver sentito crescere in sé una rabbia davanti alla notizia. «Quei nomi, quei colleghi di cui a casa ho i libri...», dice incredulo, per poi confessare il suo tormento interiore: «Oggi cambia tutto. Questo attacco ci radicalizzerà tutti, spingerà tutti noi a essere manichei, è come una chiamata alle armi. Il discorso pubblico verrà sconvolto. Da un lato vorrei dire liberamente che non mi piacciono le vignette contro Maometto o Gesù, che non le trovo efficaci, che il problema sono l'Isis e i preti pedofili e non le religioni, però poi penso subito che un'opinione così non potrò più esprimerla, perché potrei essere accusato di stare dalla parte dei “nemici”. Dall'altra la rabbia che provo mi spinge a prendere posizione, a non tirarmi indietro». La satira si farà più cauta? «Sì farà magari meno cauta, si radicalizzerà, il rischio è che perderemo tutti un po' il senso critico, vincerà l'estremista che è in noi, mentre proprio ora avremmo bisogno di essere razionali».
Tutti sono consapevoli dei tanti rischi che si aprono. Dice Vauro: «Quello che è successo a Parigi, una vera azione militare, non deve innescare nuove guerre, non dobbiamo inventare nuovi nemici dove non ce ne sono e generare nuovi conflitti armati». Guardando all'Italia, Staino aggiunge: «Il pericolo è ora che nella vicenda inzuppino il pane i fondamentalisti di casa nostra, la destra becera e intollerante. A destra come a sinistra abbiamo bisogno che le persone più illuminate guidino il dibattito, e aiutino la parte migliore del mondo musulmano a farsi sentire».
Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo".
Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie. Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.
Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis, il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.
Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.
Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?
«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».
Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.
«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».
Torniamo a voi musulmani.
«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».
Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?
«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».
Basta manifestarlo, urlare se serve.
«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».
Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?
«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».
La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?
«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».
I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?
«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».
Cosa rimprovera al mondo musulmano?
«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».
C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?
«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».
Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?
«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».
Non ha paura?
«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».
Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?
«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».
Charlie Hebdo siamo tutti noi. La strage nel giornale parigino è un attacco alla nostra stessa idea di civiltà. Una sfida portata dall’estremismo fondamentalista che l’occidente deve affrontare e vincere. Perché in gioco c’è il nostro modello di convivenza, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Hanno sparato e ucciso nella sede del giornale satirico francese “Charlie Hebdo” ma è come se lo avessero fatto nelle case di noi tutti. Perché quelle pallottole sono idealmente indirizzate contro uno dei valori su cui si regge la nostra idea di civiltà, progresso, democrazia. È un pilastro fondativo della modernità occidentale il considerare che la satira è, deve essere, libera e nessun potere, fosse anche un potere che fa ascendere la propria fanatica legittimità direttamente da un dio, si può arrogare il diritto di imbrigliarla. “Charlie hebdo” ha avuto il coraggio di ribadirlo, nella sua gloriosa e travagliata storia (irridente anche nei confronti dei regnanti di Francia), davanti alle minacce per i titoli, gli editoriali e le vignette che hanno avuto come bersaglio l’Islam e Maometto (l’ultima, pubblicata sul sito pochi minuti prima dell’assalto, la vedete qua sotto). La vignetta di “Charlie Hebdo” con il califfo che augura: “e soprattutto la salute”Ma l’estremismo fondamentalista non tollera lo sberleffo, mette al bando il sorriso. Vuole pervadere di cupezza censoria e regolare nei dettagli la vita di sudditi da ridurre all’obbedienza. Tutto il contrario di quanto l’Europa e i suoi cittadini hanno deciso per se stessi, almeno dai Lumi in poi, da quando la libertà di espressione è diventata un diritto inalienabile accanto agli altri che definiscono la dignità degli umani. Che l’attacco a queste conquiste, a questo modo di intendere la partecipazione alla vita pubblica, avvenga a Parigi, aggiunge una suggestione simbolica che rende ancor più potente l’atto e chiama a una reazione altrettanto decisa e coesa. La capitale francese è il luogo dove i valori alla base della nostra convivenza hanno trovato la culla. Anche quello dove la laicità si è declinata in quella dottrina dell’assimilazionismo per cui coloro che abitano nel Paese sono perciò “citoyen de la République”, tutti uguali davanti alla legge secolare, con l’opportunità di esercitare il culto che preferiscono a patto che non interferisca coi supremi diritti dello Stato. Un modello di integrazione che ha coinvolto mezzo milioni di ebrei, cinque milioni di musulmani e recentemente entrato in sofferenza anche, e soprattutto, a causa di una crisi economica che ha contrapposto immigrati vecchi e nuovi e francesi delle classi meno agiate. Mai tuttavia, nemmeno nelle rivolte delle banlieue datate 2006, era stato messo in discussione l’ordine dei valori. Anzi: i disperati rivoltosi chiedevano di essere “più francesi”, di avere le stesse chance degli altri “citoyen”. Ma ora che il conflitto si è radicalizzato in Medioriente, ora che lo Stato Islamico offre una terra, un credo e un irresistibile richiamo alla violenza nichilista, ecco che alcune frange esportano la guerra in Europa in un furore iconoclasta che ha l’obiettivo di radere al suolo, e a casa nostra, ciò che rende l’occidente un originale e riuscito paradigma di emancipazione. Non siamo ancora a quella catarsi catastrofista che lo scrittore Michel Houellebecq tratteggia nel suo ultimo romanzo “Sottomissione”, ma il livello dello scontro col fanatismo islamista si è alzato con “Charlie Hebdo” e merita che si aprano finalmente gli occhi. Ci si renda conto della realtà emergenziale e si chiami alla comune difesa di un modo di vivere a cui non vogliamo rinunciare, gli stessi fratelli islamici europei non infatuati del Jihad. Per fortuna, la stragrande maggioranza.
1. MOSTRARE O CENSURARE I DISEGNI DI CHARLIE HEBDO: ORA I MEDIA SI DIVIDONO. Enrico Franceschini per “la Repubblica”. Siamo tutti Charlie Hebdo: lo dicono i cartelli della gente nelle strade di tutta Europa, lo affermano i titoli dei giornali di tutto l’Occidente. Ma non tutti i giornali occidentali — pur condannando come barbaro l’attacco di Parigi e difendendo il diritto del settimanale francese di fare satira come vuole su quello che vuole — hanno ripubblicato le vignette messe sotto accusa dagli estremisti islamici. Il mondo dei media si è per il momento diviso fra chi non pubblica nulla o soltanto vignette che non ritraggono Maometto e chi invece ha pubblicato proprio il materiale che ha fatto infuriare gli islamisti, come la famosa copertina di Charlie Hebdo in cui il Profeta ammonisce: «Vi farò dare 100 frustate se non morite dal ridere!» Adesso un appello lanciato da Timothy Garton Ash, docente di relazioni internazionali a Oxford, columnist del Guardian e di Repubblica, autore di saggi di successo, chiede a tutti i giornali d’Europa di pubblicare le vignette più “forti” del settimanale francese come gesto collettivo in difesa della libertà di stampa. Ma le opinioni in materia appaiono contrastanti. In Gran Bretagna nessun quotidiano ha pubblicato le vignette di Charlie Hebdo. «Siamo dei codardi», scrive amaramente un columnist del Times. Viceversa Tony Barber, commentatore del Financial Times, definisce «editorialmente stupida» la scelta del settimanale parigino di provocare consapevolmente l’ira dei musulmani e lo giudica «non il miglior campione di libertà di espressione»: uscito prima sul sito, il suo articolo è stato ritoccato ieri sera, cancellando questi due severi giudizi, che hanno scatenato sdegno sui social network, ma li ha ripristinati nella versione cartacea pubblicata ieri mattina. Non finisce qui. In America il Washington Post afferma: «Non pubblichiamo mai immagini che possono offendere qualunque religione» e il New York Times segue la stessa linea. Ma il quotidiano del Watergate deve incassare le critiche di una delle sue firme di punta, Carl Bernstein, che con Bob Woodword fece esplodere quello scandalo. In Danimarca alcuni giornali hanno pubblicato le vignette e altri no. L’ Huffington Post, il Daily Beast, Slate e altre testate online le hanno pubblicate; la Bbc e la Cnn no. D’altra parte, come denuncia il blog statunitense Gawker, considerato in patria una sorta di “tempio” della controinformazione, il Daily Telegraph britannico e il New York Daily News hanno pensato bene di “pixelare”, quindi rendendole irriconoscibili, le copertine più controverse contro il Profeta e l’Islam. Stephen Pollard, direttore del Jewish Chronicle, un giornale britannico, pone il dilemma in questi termini: «Il mio istinto giornalistico mi dice di pubblicare tutto, ma che diritto ho di rischiare la vita dei miei redattori?».
2. MA PER L’AMERICA I DISEGNI SUL PROFETA MANCANO DI RISPETTO. Paolo Mastrolilli per “La Stampa”. L’attacco terroristico di Parigi sta spaccando i media americani. Non nella condanna dell’attentato, ovviamente unanime, ma nella opportunità di ripubblicare le vignette del periodico Charlie Hebdo, che hanno provocato la furia degli estremisti. I grandi giornali come New York Times, Washington Post, Wall Street Journal e Usa Today hanno scelto di non farlo. La linea usata dai loro direttori è abbastanza simile: non pubblichiamo immagini che sono state pensate con lo scopo dichiarato di offendere la religione e mancarle di rispetto. Descriverle basta, per compiere il servizio di informazione dovuto al lettore. Questa posizione per certi versi si riflette nella prudenza che la stessa Casa Bianca aveva usato nel settembre del 2012, quando la diffusione di un video giudicato offensivo verso Maometto aveva generato proteste in molti Paesi del Medio Oriente. Era seguito poi l’assalto al consolato americano di Bengasi, che però in seguito si è scoperto essere un’operazione premeditata di un gruppo terroristico. Allora il portavoce del presidente Obama, Jay Carney, aveva commentato proprio alcune vignette pubblicate da Charlie Hebdo, dicendo che non metteva in discussione il diritto di stamparle, ma il giudizio della direzione che aveva deciso di farlo. In altre parole, la libertà di espressione andava sempre difesa, ma forse si potevano evitare le provocazioni. Più dura ancora è stata la reazione ieri del gruppo cattolico conservatore Catholic League. Il suo direttore, Bill Donohue, ha detto che «i musulmani hanno il diritto di essere arrabbiati». Naturalmente Donohue non giustifica l’attentato, però aggiunge che «se Stephane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, fosse stato meno narcisista, oggi sarebbe ancora vivo. Maometto per me non è sacro, ma non mi è mai passato per la testa di insultare deliberatamente i musulmani offendendolo». Questa linea non è stata condivisa da tutti, nelle redazioni dei giornali americani. La pagina degli editoriali del Washington Post, che nella tradizione dei media Usa ha una gestione separata e autonoma dalla direzione, ha pubblicato una vignetta di Charlie Hebdo, e lo stesso ha fatto l’edizione online del Wall Street Journal. Usa Today invece ha optato per mettere le altre vignette che hanno condannato l’attacco di Parigi, mentre diversi giornali hanno stampato foto in cui si vedono i disegni contestati del periodico francese. L’editorialista del New York Times Ross Douthat ha commentato così: «Se qualcuno vuole ammazzarti per una cosa che vuoi dire, significa che quella cosa va detta». Il dibattito dunque è aperto, fra l’opportunità di prendere decisioni editoriali che non siano apertamente mirate a creare guai, e il dovere di evitare sempre la censura e difendere la libertà.
3. PLANTU: “CONTINUEREMO A PRENDERE IN GIRO. CON LE MATITE DENUNCIAMO LE VIOLENZE”. Cesare Martinetti per “la Stampa”. E adesso? «Il faut continuer se moquer», dice Plantu, non dobbiamo smettere di prendere e prendersi in giro con i disegni. Dunque la satira vive, a Parigi, a cominciare dal grande bureau di Jean Plantu, al settimo piano di Le Monde. Il suo studio è una foresta popolata dalle sagome dei suoi personaggi, la sua scrivania un accumulo di bruillon, schizzi, prove, colori. Plantu ci mostra la vignetta che ha appena concluso per il giornale di oggi: una macchia rossa in strada, il tricolore a mezz’asta sulla tour Eiffel, la bandiera di Charlie Hebdo sull’ingresso dell’Eliseo, una Marianna in lacrime, due barbuti che si allontanano con il kalashnikov sulle spalle e il topolino (l’alter ego del disegnatore) che li guarda reggendo un cartello: «gros connards», diciamo grandi bastardi.
Plantu dal 1985 disegna la vignetta sulla prima pagina di Le Monde e dieci anni fa ha creato «Cartoonist for peace». Che fate?
«Cerchiamo ogni giorno di dialogare con disegnatori cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e arriviamo talvolta a fare dei ponti con le nostre piccole matite là dove altri con le loro asce scavano fossati».
Nel vostro programma c’è l’impegno ad essere rispettosi dei credenti. Ci riuscite sempre?
«Ci sono mille modi di raccontare le cose, ho passato la notte qui al giornale a ricevere disegni dal medioriente, dal maghreb di tutte le religioni. C’è l’immagine seria e rispettosa e ci può essere quella un po’ folle. E noi vogliamo tentare di essere più forti degli intolleranti, essere impertinenti senza offendere i credenti. Bisogna continuare la battaglia avendo rispetto per il dolore delle persone che vivono in Iraq o in Afghanistan e smettere di dire che la guerra è lontana. No è qui, a casa nostra».
Ma se c’è di mezzo la religione tutto si complica. Come si superano queste divisioni?
«A noi non interessa sapere se Gesù Cristo ha camminato sulle acque o cosa ha fatto Maometto. Quello che ci interessa è: c’è una donna lapidata? Non è un problema di religione ma di diritti umani, e prendiamo matite e pennarelli per denunciare le violenze. E capita che ci riusciamo perché l’arte e la creatività sono sempre più forti dell’intolleranza».
Lei ora si sente un bersaglio?
«Non lo considero un problema. Io lavoro molto con le scuole. Un disegno è qualcosa che ognuno vede, se ne appropria, ci si può esprimere in mille modi, lascio la mia matita a qualcun altro. Oggi siamo con tutto il cuore con Charlie Hebdo e tutti possono firmare questo disegno, la mano è anonima».
A Charlie Hebdo qualcuno aveva passato il segno del rispetto?
«Io penso che gli artisti abbiano tutti i diritti, di disegnare e fare il ritratto di chiunque. Ciò detto siamo nel 2015, e bisogna fare attenzione perché laggiù all’angolo della strada c’è un mascalzone che aspetta soltanto che gli facciamo un regalo per liberare la sue folle armate di kalashnikov e granate. Abbiamo creato l’associazione dieci anni fa per battere l’imbecillità dei farabutti».
I quattro di Charlie erano nell’associazione?
«Solo Tignous».
4. LA LIBERTÀ DEGLI ALTRI. Francesco Merlo per “la Repubblica”. Non ci piacciono le vignette anti islamiche di Charlie Hebdo, anche se abbiamo sempre pensato che fosse suo pieno diritto pubblicarle. Erano coerenti infatti con la natura canzonatoria e provocatoria di quel giornale, con la sua idea di satira vasta e disinteressata, con quell’accanimento derisorio portato alle estreme conseguenze dinanzi al quale, scriveva Italo Calvino «mi faccio piccolo piccolo». «Perché — aggiungeva — supera la soglia del particolare per mettere in questione l’intero genere umano, confinando con una concezione tragica del mondo». E tuttavia non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico e l’immenso dolore per la morte di 12 persone libere e innocenti. Appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione, anche se, sbeffeggiando il profeta Maometto, più che bestemmia in senso stretto quelle caricature erano empietà aggressiva in una città, Parigi, dove tantissime jeunes filles musulmane passeggiano per gli Champs-Élysées con i capelli al vento. A Parigi sono musulmane le studentesse universitarie, le impiegate, le giornaliste, e sono arabi musulmani i grandi chirurghi e i piccoli venditori di frutta, le star del pop e i professori universitari, gli edicolanti e i camerieri dei ristoranti. Tutti laici come i calciatori eredi di Zidane e come il poliziotto finito con un colpo di Kalashnikov dal fanatico terrorista, con un accanimento selvaggio che offende tutti i codici militari e in nome di un Dio killer che svilisce qualsiasi Dio. Di sicuro al Dio macellaio la stragrande maggioranza dei musulmani francesi non crede e non crederà mai. Dunque sono un pretesto le vignette blasfeme. Se Charlie Hebdo non fosse mai esistito i terroristi avrebbero sparato in un bar, in una stazione del metrò o in un aeroporto. Le vignette sono l’alibi dell’attacco e del ricatto all’Occidente, più insidioso per noi, spaventati da una violenza irriducibile dalla quale è difficile difendersi, che per le frustrazioni nazionaliste, etniche e religiose di quella minoranza di profughi ribelli e di barbuti arrabbiati e confusi dalla quale provengono i terroristi in cerca di una scusa per uccidere. Dal punto di vista militare questo nuovo terrorismo diffuso prova a rilanciare, a partire dalla città più civile tollerante e laica d’Europa, il famoso scontro di civiltà. Ma la strage nella sede di un giornale rischia di armare di più i francesi tentati da Marine Le Pen che i francesi musulmani che, per la verità, non sono tentati né dallo Stato Islamico né da Al Qaeda. La bestemmia diventa così uno di quei dispositivi accidentali della storia, come il naso di Cleopatra per esempio. E basta guardare la felicità dei leghisti italiani e le reazioni scomposte dei fanatici delle Leghe Sante. I 12 morti di Parigi sono come un richiamo della foresta per i nostri cristianisti con il Crocifisso tra i denti che papa Francesco aveva messo a cuccia, un ritorno alla natura per l’estrema destra razzista pronta alla difesa di una Francia e di un’Europa bianche e cristiane. La paura sui cui soffiano è quella dall’islamizzazione immaginata nel romanzo Sottomissione da Houellebecq, preso in giro proprio dalla copertina di Charlie Hebdo: «Le predizioni del mago Houellebecq: “Nel 2015 perdo i denti...” (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e “nel 2022, faccio il Ramadan!”». La verità è che persino la rabbia delle squadracce di banlieue a Parigi, anche se araba e violenta, non è governata dagli integralisti islamici. E in fondo questi terroristi così barbari sono quelli che non ce l’hanno fatta, gli scarti feroci di un’integrazione che è invece riuscita, non solo in Francia. E sono due volte disadattati, sia in Francia sia nelle milizie islamiche dove devono sempre conquistarsi i quarti di nobiltà terrorista sgozzando e massacrando più degli altri. Ieri a caldo una vignetta di Charlie Hebdo mostrava un energumeno tutto bardato di nero incappucciato e sudato che entrava in Paradiso mitragliando e gridando: «dove sono le mie vergini?». Riceveva questa risposta al tempo stesso canzonatoria e malinconica: «Sono nel paradiso dei vignettisti». Disadattato anche là. È già stato scritto che Charlie Hebdo aveva deriso, e certamente avrebbe continuato a farlo, anche i simboli delle altre religioni. E ricordo bene le natiche del Papa, il matrimonio omosessuale tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e la masculinità di Shiva, senza risparmiare neppure Buddha, un dio “parzialmente scremato”. Si rideva forte e facile con Charlie Hebdo, perché la scurrilità di Maometto, raffigurato prono con le stelline sulle terga, quando ti arriva sotto gli occhi, è più veloce del pensiero. E certo è ancora libertà d’espressione la violazione dei codici del rispetto delle religioni. Ma non avere stampato le bestemmie è stato il nostro codice di libertà di espressione, coniugata, ancora di più adesso che siamo tutti sotto choc, con il controllo degli istinti. La laicità e la secolarizzazione comportano infatti anche un governo dell’invocazione e dell’imprecazione: della preghiera, che non è un selvaggio rito collettivo, e della bestemmia, soprattutto del Dio altrui. Ma viviamo in una parte del mondo — ecco la differenza — dove la libertà è la cosa più importante. Non conta che gli altri la pensino come me: ma che siano liberi di pensare e di esprimere le loro idee con il solo limite del rispetto delle leggi. Ecco perché difendiamo la libertà di Charlie di esprimersi secondo la sua natura e le sue modalità, le sue libere scelte, anche quando non sono le nostre. Facciamo sapere a tutti gli estremisti religiosi del mondo che mai rinunzieremo alla critica e alla satira, anche delle religioni, e non accetteremo un ritorno all’inquisizione e alla punizione fisica delle bestemmie, al medioevo islamico. Anche se non diventeremo mai, come vorrebbero gli estremisti islamofobi, tutti sbeffeggiatori di Maometto.
Terrorismo islamico a Parigi: massacro al giornale Charlie Hebdo. Due terroristi fanno irruzione nella redazione di Charlie Hebdo armati di kalashnikov, poi fuggono a Reims. Tra i dodici morti c'è il direttore Charb. Un poliziotto giustiziato per strada, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Armati di kalashnikov due terroristi hanno assaltato la redazione di Charlie Hebdo. Cinque minuti di sangue e quello che è l'attentato più cruento commesso in Francia dal 1961, ai tempi della guerra di Algeria, fa ripiombare Parigi e l'intera Europa nell'incubo del fondamentalismo islamico. Al grido di "Vendicheremo il Profeta" due uomini incappucciati e vestiti di nero hanno fatto irruzione nella reception del settimanale satirico e hanno aperto il fuoco. A terra i cadaveri crivellati di colpi di dodici persone. Tra questi il direttore Stephane Charbonnier, che firma le vignette Charb, e altri sette giornalisti. Una raffica di colpi, almeno una trentina, con i mortali AK47. Dodici morti a terra e i giornalisti in fuga sui tetti. Un assalto che porta la firma della jihad islamica. La colpa di Charb e dei disegnatori di Charlie Hebdo? Aver pubblicato vignette satiriche su Maometto. Già nel 2011 la redazione fu distrutta da una molotov. L’attentato, che non provocò vittime, avvenne nel giorno dell'uscita del numero speciale dedicato alla vittoria elettorale degli islamisti in Tunisia. Il titolo "Maometto direttore responsabile di Charia Hebdo" era un gioco di parole sulla sharia. Anche nell'ultimo numero non è mancata la provocazione: in copertina campeggia una foto dello scrittore Michel Houellebecq, al centro di polemiche per il romanzo Sottomissione che racconta l’arrivo al potere in Francia di un presidente islamico. A fare irruzione è stato un commando armato formato da Said e Cherif Kouachi, due fratelli franco-algerini di 32 e 34 anni legati alla rete terrorista yemenita e da poco tornati dalla Siria. Oltre a Charb i due hanno ammazzato otto giornalisti (tra questi Jean Cabut detto Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Bernard Maris e Philippe Honoré), il poliziotto Franck D., un ospite della redazione (Michel Renaud) e il portinaio. Tra gli undici feriti c'è il giornalista Philippe Lançon. Dopo il blitz sono scappati a bordo di una Seat guidata dal 18enne Hamyd Mourad. Durante la fuga hanno investito un passante e hanno ingaggiato un secondo scontro a fuoco con le forze di polizia. Immagini di violenza inaudita che sono state riprese dai tetti: l'agente Ahmed Merabet è stato giustiziato con un colpo alla testa mentre si trovava, inerme, ferito a terra. Solo dopo diverse ore le teste di cuoio dei reparti Raid sono riuscite a localizzarli a Reims. Il presidente francese Francois Hollande ha parlato di "attentato terroristico di eccezionale barbarie, un attentato alla nostra libertà". Un attentato che arriva a stretto giro da altri tre inquietanti attacchi al grido "Allah hu Akbar". Il 22 dicembre a Nantes, nella Francia nord occidentale, un camion è stato lanciato sul tradizionale mercatino natalizio ferendo undici persone. Nemmeno ventiquattr'ore prima a Digione, nel nord est del Paese, un 40enne alla guida di una Renault Clio aveva travolto la folla mandando all'ospedale 13 persone. Sempre al grido di "Allah hu Akbar". Vicende troppo simili e troppo vicine per non metterle in relazione tra loro. A queste va poi aggiunta una terza, quella di Jouè-lès-Tours dove un convertito all'Islam è entrato nel commissariato cittadino e ha aggredito tre poliziotti. Una scia di sangue nel nome di Allah.
Dal direttore Charb al mitico Wolinski, la strage della satira nella redazione di Charlie Hebdo. Tra le dodici vittime dell'assalto anche cinque celebri vignettisti: il direttore, il vecchio e storico creatore di "Paulette", Cabu, Tignous e Honoré, scrive Francesco Fasiolo su “La Repubblica”. Un giornale satirico simbolo della libertà di stampa e di espressione. Questo è diventato Charlie Hebdo nel corso degli anni. E per questo è tragicamente divenuto anche l'obiettivo simbolo del terrorismo. Dieci collaboratori uccisi in redazione, tra loro alcuni dei grandi vignettisti famosi ben oltre i confini francesi. Una storia cominciata nel 1960, quando nacque Hara-Kiri, definito dai suoi fondatori (tra cui Cabu e Georges Wolinski, tra le vittime dell'attentato) "un giornale stupido e cattivo", da subito protagonista di innumerevoli battaglie e censurato un paio di volte dalla magistratura francese. E' nel 1970 che lo stesso gruppo, dopo l'ennesimo scandalo (una copertina che ironizzava sulla morte di Charles De Gaulle e che costò al giornale il blocco delle pubblicazioni) diede vita al "Charlie Hebdo", riferimento al celebre Charlie Brown dei Peanuts. Da allora sono stati attacchi, sarcasmo e ironie contro la destra, ma anche la gauche, su tutti i fronti e tutti i temi.
Vignette su Maometto. È però nel 2006 che l'Hebdo diventa noto al pubblico internazionale con la scelta di ripubblicare le dodici controverse vignette su Maometto del giornale danese Jyllands-Posten. Immediate arrivarono le proteste di esponenti del mondo islamico, il giornale fu incriminato per razzismo e l'allora direttore Philippe Val fu assolto nel 2008 da un tribunale francese. Nel novembre 2011 esce "Charia Hebdo", il numero speciale dedicato alla vittoria degli islamisti in Tunisia. In copertina una immagine di Maometto che promette "Cento frustate se non morite dal ridere". Prima che l'edizione arrivasse nelle edicole, la sede della rivista viene distrutta da un incendio provocato da un lancio di molotov. Il numero vende 400.000 copie, il direttore Charb viene minacciato di morte e messo sotto protezione.
Le vittime. Charb era il nome d'arte di Stéphane Charbonnier, 47 anni, alla guida del settimanale dal maggio 2009. Insieme a lui, nell'attentato sono morti anche altri quattro vignettisti: Cabu, Tignous, Philippe Honoré e Georges Wolinski. E' proprio quest'ultimo il nome più noto anche fuori dalla Francia. Controcorrente e provocatorio Wolinski, nato a Tunisi nel 1934, lo è sempre stato. Gli italiani lo hanno conosciuto sin dagli anni 70, quando leggevano su Linus le sue storie dissacranti. Disegnatore e sceneggiatore, con Georges Pichard crea il personaggio di Paulette, inizialmente su Charlie Mensuel e poi protagonista di pubblicazioni autonome. La protagonista è una giovane ricchissima, che ha almeno due particolarità: è di sinistra e appare spesso, in pratica sempre, nuda o seminuda. Le sue storie sono sempre in bilico tra l'erotico e il politico, perché la ragazza, in opposizione con la sua vantaggiosa situazione economica e sociale, è pienamente calata nel clima degli anni '70, tra lotte studentesche, manifestazioni contro la guerra in Vietnam, suggestioni hippy. Se in passato Wolinski è stato al centro di polemiche, accusato di immoralità o pornografia per le nudità e le tematiche trattate (tra i suoi libri "Il porcone maschilista" e "Le donne pensano solo a quello") , a 80 anni era uno dei nomi più importanti del fumetto mondiale. Una fama che gli è stata riconosciuta nel 2005, con la vittoria del Grand Prix di Angouleme, in pratica l'equivalente nel mondo dei comics dell'Oscar alla carriera, e con una grande retrospettiva del 2012 alla Bibliotheque Nationale de France, dove sono custoditi tutti i suoi archivi. Cabu, vero nome Jean Cabut, 76 anni, era uno dei pilastri di Charlie Hebdo, sin dalla fondazione di Hara-Kiri. Il suo nome era rimbalzato sui media di tutto il mondo quando nel febbraio 2006, in piena polemica per le vignette danesi su Maometto, disegnò in copertina il Profeta che insultava i fondamentalisti. Tra i suoi lavori, molto famoso in Francia è "Mon Beauf", serie su un francese medio, razzista e maschilista. Bernard Verlhac era invece il vero nome di Tignous, 57 anni, che lavorava anche per Fluide glacial, storicamente uno dei più importanti magazine francesi di fumetti. Al suo attivo otto libri. Il più recente, intitolato "5 ans sous Sarkozy" (Cinque anni sotto Sarkozy) è stato pubblicato nel 2011. Fa venire i brividi oggi l'ultima vignetta di Charb, pubblicata sull'ultimo numero di Charlie Hebdo, mostrava un terrorista islamico sotto la scritta: "Ancora nessun attentato in Francia". "Aspettate" diceva l'uomo armato "Abbiamo ancora tutto gennaio per farvi i nostri auguri".
Il dissacrante Charlie Hebdo, nato alla sinistra della sinistra, scrive Anna Maria Merlo su “Il Manifesto”. Il settimanale. Da sempre indipendenti, dagli industriali e dalla pubblicità. Vignette e reportage corrosivi. Non solo contro l’islam: il primo bersaglio sono state la chiesa cattolica e l’estrema destra. Cabu e Wolinski, che sono stati assassinati ieri assieme al più giovane Charb, nell’attentato che ha fatto 12 vittime nella redazione del settimanale Charlie Hebdo, sono stati protagonisti fin dagli anni ’60 dell’avventura, iniziata con Hara-Kiri, della stampa satirica libertaria francese della seconda metà del XX secolo. All’inizio, c’erano personalità come Topor, Reiser, lo scrittore François Cavanna, che hanno l’idea di pubblicare la versione francese di Linus italiano. Nel ’70, dopo varie censure di cui è vittima Hara-Kiri – l’ultima, a novembre, dopo la morte di De Gaulle, per un titolo dissacrante – il gruppo fonda Charlie Hebdo (dal nome di un personaggio di Schultz e con un riferimento ironico a Charles De Gaulle). Della prima versione di Charlie Hebdo usciranno, fino all’81, 580 numeri. Un altro numero uscirà nell’82. Nel ’92, la testata rinasce. Fa effetto oggi, di fronte agli avvenimenti, ricordare che la società costiuita allora per il rilancio si chiamava Les Etitions Kalachnikof. Nel ’92 partecipa già Charb, che dal 2009 era diretore della pubblicazione. Charlie Hebdo ha radici nella sinitra della sinistra, ma non ha mai avuto una linea editoriale precisa. La sua storia è fatta di battaglie, di scontri, di abbandoni, di ostracismi, di ritorni. E di molte polemiche, anche interne alla redazione: nel 2002, un articolo a difesa del libro La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, viene subito criticato. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ci sono prese di posizione conflittuali contro una parte dell’estrema sinistra, accusata di non aver condannato gli islamisti per antiamericanismo. Philippe Val, che all’inizio degli anni 2000 diventa direttore della pubblicazione, accusa Tariq Ramadan di essere un propagandista antisemita. Val nel 2005 difende il «sì» al referendum sul Trattato costituzionale europeo, altri difendono il «no» – che sarà vittorioso – sulle pagine del settimanale. Charlie Hebdo non si limita alla satira, ma pubblica anche reportage sulla società e sulle grandi questioni dell’attualità mondiale (in particolare, alla fine degli anni ’70, importanti inchieste sull’estrema destra). Oncle Bernard (l’economista Bernard Maris, assassinato anch’egli ieri) ha firmato cronache economiche sempre di grande interesse. La caratteristica di Charlie Hebdo, con le sue vignette corrosive che molto spesso hanno disturbato, è sempre stata l’indipendenza, dalle ideologie come dal denaro. «Non vogliamo ricchi industriali come azionisti – aveva detto Charb nel 2010 – e non vogliamo neppure dipendere dalla pubblicità. Non prendiamo quindi gli aiuti di Stato che vanno ai giornali cosiddetti “di deboli introiti pubblicitari”, visto che non abbiamo pubblicità. L’indipendenza, l’indipendenza totale, ha un prezzo». Charlie Hebdo ha sempre lottato contro tutti i fanatismi. Il primo bersaglio è stata la chiesa cattolica, in quanto religione maggioritaria in Francia. Le vignette sono state sempre corrosive, a volte anche con una certa pesantezza. Il settimanale molte volte è stato denunciato, dai politici, dai cattolici, di recente dai musulmani. Charb ha sempre precisato: la critica è sull’«alienazione delle fede», qualunque essa sia. Nel 2006, Charlie Hebdo pubblica le caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten, arricchite da altre vignette firmate dai disegnatori del settimanale. Il Consiglio francese del culto musulmano chiede la censura del numero e sporge denuncia. L’allora presidente, Jacques Chirac, condanna le «provocazioni manifeste». Ne seguirà un processo nel 2007, dove ha testimoniato, a favore della libertà di stampa, anche François Hollande, non ancora presidente. La storia delle caricature di Maometto, che sembra all’origine del massacro di ieri, era già stata la causa di un incendio criminale di cui era stata vittima la sede di Charlie Hebdo nel novembre 2011. La redazione, allora, era stata ospitata per due mesi da Libération. Altre caricature di Maometto susciteranno polemiche e denunce nel 2012. La copertina in edicola di Charlie Hebdo questa settimana prende in giro lo scrittore Michel Houellebecq, di cui ieri è uscito l’ultimo libro, Soumission, che racconta dell’elezione di un islamista alla presidenza della Repubblica francese nel 2022.
L'attentato che spazza via le certezze della sinistra. L'attentato terroristico di Parigi è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani hanno fallito: ha risvegliato la coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Tutto, compreso quello moderato, scrive Roberto Bettinelli su “L’Informatore”. Il massacro nella redazione del giornale satirico Charles Hebdo è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani in tutto il mondo hanno fallito: ha risvegliato l’ottusa coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Michele Serra su Repubblica ha evocato «la terza guerra mondiale» sentenziando che «esiste un fanatismo islamista terrificante contro il quale l’Islam per primo è chiamato a mobilitarsi». Fino ad ora nessuno mai nel campo della sinistra, e men che meno un esponente illustre della sua intellighenzia come l’ex direttore di Cuore, si era spinto fino a pronunciare una condanna che per la prima volta varca il confine fra l’Islam moderato e l’Islam dei terroristi. Serra l’ha fatto, e nel farlo, ha sicuramente interpretato lo stato d’animo di gran parte del popolo della sinistra che è stato scosso in profondità e con una forza mai provata in precedenza dalla ferocia di un fondamentalismo che ha preso di mira un valore intoccabile come la libertà di stampa e di satira. Una reazione inedita che rivela come per la cultura politica che anima Repubblica esista una gerarchia delle libertà. E fra queste la libertà di stampa e di satira, uno dei generi prediletti dalla sinistra, siano da collocare su un gradino più alto della libertà di religione. La prova che non ci sbagliamo è che in questa occasione Serra e il giornale più letto e autorevole della sinistra italiana hanno preso posizione contro tutto l'Islam, anche quello moderato, rompendo con la lettura ideologica che li separa nettamente e che non è disposta a tollerare nessuna sovrapposizione. E sono stati costretti a farlo da una macabra beffa che cade tragicamente a poche settimane dalla risoluzione del parlamento europeo che ha riconosciuto, per iniziativa del Pse, il diritto alla Palestina di costituire uno stato autonomo. Un'azione diplomatica che sembrava assicurare la pace ma che ha contribuito a innescare la risposta dei terroristi che hanno attaccato il giornale diretto da Stephan Charbonnier, colpevole di aver ripetutamente pubblicato vignette e fumetti contro Maometto e Al Baghdadi, il leader dell’Isis. Lo scenario non poteva essere più chiaro. Da un lato l'Europa che, sulla spinta di un’adesione incondizionata e irresponsabile al dogma del multiculturalismo, riconosce il diritto palestinese di formare un proprio stato nonostante la massiccia presenza di formazioni legate ad Al Quaeda nella striscia di Gaza e in Cisgiordania; dall’altro il terrorismo islamico che colpisce a morte una delle capitali più importanti dell’Unione Europea, uccide 12 persone tra giornalisti e poliziotti, getta nell’incubo perenne degli attentati l’intero occidente. Adesso che i ‘lupi solitari’ hanno travolto con la loro furia omicida un simbolo della libertà di stampa e di satira come Charles Hebdo, la sinistra insorge e attacca l’Islam, tutto, che dovrebbe ribellarsi e comportarsi «come fece la sinistra con le Brigate Rosse». Così suggerisce Serra stabilendo un parallelo fra quello che avrebbe fatto il Pci negli anni di piombo e quello che dovrebbero fare oggi i mussulmani che non si riconoscono nella brutalità di Al Quaeda e dell’Isis. Il consiglio di Serra è apprezzabile, ma ha l’odore fastidioso dell’ipocrisia. A sconfiggere le Brigate Rosse non fu il Pci ma furono i carabinieri del generale Alberto Dalla Chiesa. L’Italia divenne il teatro di uno scontro spietato. Vinse lo Stato. E per un solo motivo: fra i due contendenti fu il più duro e implacabile. Lo stesso deve valere per i terroristi che ammazzano e muoiono nel nome di Allah. Ci saranno altri attentati e altri morti. L’alleanza dell’Islam moderato può essere utile ai fini della vittoria finale. Ma non può bastare. L’Europa e l’occidente, se non vogliono soccombere, non hanno altra scelta che porre fine alle illusioni di un multicuralismo che è l'esatto contrario del rispetto delle identità dei popoli. Ma soprattutto devono accettare di avere di fronte un nemico che vuole la loro fine con tutti i mezzi disponibili. E fare altrettanto.
Charlie Hebdo, quella satira “cattiva” che disturbava i perbenisti. Il giornale francese è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani per le sue vignette su Maometto. Venne più volte chiuso e poi riaperto, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Un simbolo del giornalismo francese, un giornale nato e cresciuto negli anni 70, che si autodefiniva con ironia “bete e méchant”, bestiale e cattivo, iconoclasta, un giornale che disturbava l’opinione pubblica perbenista, capace anche di ironizzare su Charles De Gaulle il giorno della sua morte e che per questo chiuso per un po’. Nato dalle ceneri di Hara-Kiri, lanciato da Georges Bernier e François Cavanna, Charlie Hebdo è un giornale a fumetti satirico che ha fatto della provocazione la sua cifra costituente. “Journal bete et méchant”, secondo l’autodefinizione degli autori. Vi hanno lavorato negli anni caricaturisti come Francis Blanche, Topor, Fred, Reiser, Wolinski, Gébé, Cabu. Più volte chiuso e poi riaperto in seguito a denunce e a crisi editoriali. Il nome Charlie viene scelto nel 1969 quando il giornale appare sostanzialmente come versione francese dell’italiano Linus e come quest’ultimo prendi il nome da un personaggio dei Peanuts (Charlie Brown). Nel 1992 assume l’attuale identità. Il giornale è sostanzialmente espressione di una sinistra culturale. Tuttavia vi si trovano le opinioni e le posizioni più diverse e anche contrapposte. Nel 2002 aveva preso posizione a favore di Oriana Fallaci quando venne pubblicata in Francia “La rabbia e l’orgoglio”, il suo pamphlet contro i cedimenti occidentali all’islamismo. Nel 2006 CB pubblicò le famose vignette di satira su Maometto e i costumi musulmani che erano uscite sul settimanale danese Jyllands-Posten provocando manifestazioni violente di protesta in tutto il mondo islamico. Disegnatori e giornalisti danesi vennero minacciati ripetutamente. Charlie Hebdo scelse di pubblicare quelle vignette aggiungendone altre francesi per solidarietà e per marcare una linea di libertà di espressione contro tutte le intolleranze religiose. La pubblicazione provocò proteste nella comunità musulmana francese, il Consiglio del culto musulmano chiese che il giornale venisse sequestrato, lo stesso presidente della Repubblica Jacques Chirac censurò la scelta di Charlie Hebdo. Da allora il giornale – che pure tratta con articoli e vignette tutti i temi di società - è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani. Da allora un presidio di polizia era stato istituito davanti alla sede del giornale.
Charlie Hebdo, la storia della rivista già colpita per le vignette su Maometto. Il settimanale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. Pubblicato la prima volta nel 1970, scatena subito polemiche all'indomani dei funerali del generale Charles de Gaulle. Nel 2011 la sede viene incendiata, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Satirico, irriverente e anticonformista. E’ questo lo spirito di Charlie Hebdo, il settimanale francese che questa mattina è stato preso di mira da un commando di terroristi armati che hanno compiuto una strage nella sede parigina. Il giornale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. E si pone l’obiettivo di difendere le libertà individuali. La rivista è soprattutto nota per le sue vignette e illustrazioni politicamente scorrette, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. E anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia i partiti di sinistra francesi. Secondo l’attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette “tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell’astensionismo”. Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten e vendendo 400.000 copie. In Italia le vignette vennero riprese dal ministro delle Riforme Roberto Calderoli che in un’intervista televisiva indossò una maglietta con le illustrazioni, un episodio che scatenò forti reazioni popolari nel mondo arabo, culminate con alcuni morti in Libia. Il numero di Charlie Hedbo incendiò proteste violente nei Paesi mussulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta. A fine 2011, la redazione venne completamente distrutta da un incendio doloso e il sito del giornale venne attaccato dagli hacker dopo un numero speciale denominato Sharia Hebdo. Attacchi di matrice islamica, secondo gli inquirenti. Temporaneamente, la redazione si trasferì nei locali del quotidiano Liberation, per poi migrare in nuovi locali; l’attacco fu lanciato prima dell’uscita nelle edicole di un numero con in copertina un’altra vignetta satirica con Maometto. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni ’60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi “un giornale stupido e cattivo”. La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, uscì in edicola per la prima volta nel 1970, ispirato a Charlie Brown. A novembre dello stesso anno la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina ‘Bal tragique à Colombey – un mort’, ossia ‘Ballo tragico a Colombey, un morto’, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell’Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì, ha una tiratura media settimanale di 100.000 copie, con 15.000 abbonati.
Giuliano Ferrara alza i toni l’8 gennaio 2015 durante «Servizio Pubblico» su La7. Il direttore de Il Foglio ritiene che la strage di Parigi non sia "terrorismo" ma che faccia parte di un'ampia strategia voluta dal mondo islamico per «andare contro l'Occidente cristiano-giudaico». «Questa è una Guerra Santa, se non lo capite siete dei coglioni!», tuona Ferrara.
Vietato parlare di Islam, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Dopo la strage di Parigi esiste ancora la libertà di stampa? Si può ancora pubblicare oppure no un’opinione anche quando questa è politicamente scorretta? Ieri tutti i quotidiani traboccavano di articoli di fondo inneggianti alla libertà minacciata dall’assassinio a sangue freddo del direttore e dei principali collaboratori di Charlie Hebdo. E però gli stessi quotidiani si guardavano bene dal prendere di petto la questione, preferendo nascondere se non cancellare la parola islam. Sulla prima pagina del Corriere per trovarla ci si doveva sottoporre a una vera caccia al tesoro. Il titolo a tutta pagina non parlava di strage islamica o di terrorismo islamico, ma di «Attacco alla libertà. Di tutti». Ah sì? E da parte di chi? Per scoprirlo bisognava leggere il sommario su una colonna: «Al grido di “Allah è grande” tre terroristi assaltano il giornale delle vignette satiriche su Maometto: 12 vittime». Per capire poi che l’islam c’entra qualcosa, l’occhio doveva cascare sull’occhiello sfumato (una colonna) che sovrastava l’editoriale di Ernesto Galli Della Loggia: «Islam, la vera questione». Ecco, la notizia era lì, nell’occhiello. Solo allora si scopriva che l’islam c’entra qualcosa in quello che è accaduto a Parigi, perché Galli della Loggia scriveva che esiste un problema islam, «un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani dove nel complesso (nel complesso perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le parti del mondo». Questo è il punto. Ma il Corriere ha pensato bene di nasconderlo il più possibile, titolando sull’11 settembre dell’Europa, di cui peraltro nell’articolo non si fa nemmeno cenno e che comunque sarebbe sbagliato perché l’Europa ha già avuto i suoi 11 settembre con le bombe nel metrò di Londra (52 morti) e sui treni alla stazione di Madrid (191 morti).
Vietato illudersi: l'islam è il nemico, continua Belpietro. "È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità". Sono passati dieci anni da quando Oriana Fallaci scrisse queste frasi sulla prima pagina del Corriere. La più conosciuta e stimata giornalista italiana era appena stata denunciata per vilipendio all’Islam, perché nei suoi libri e nei suoi articoli si era permessa di metterci in guardia contro il Mostro, così lo chiamava, e di mettere in dubbio la fandonia dell’Islam buono contro quello cattivo. Oriana si opponeva alla nascita della moschea di Colle val d’Elsa, sosteneva che il mondo occidentale era in guerra e doveva battersi, attaccava il multiculturalismo, la teoria dell’accoglienza indiscriminata, la dottrina cattolica che insegna ad amare il nemico tuo come te stesso. E per questo, per quel che scriveva, fu considerata pazza dall’intellighezia progressista mondiale, quasi che l’integralista fosse lei, lei armata di penna e taccuino e non gli islamici armati di esplosivi, coltelli e kalashnikov che noi abbiamo invitato nelle nostre case e nelle nostre città, consentendo loro - in virtù della libera circolazione imposta dal trattato di Schengen - di viaggiare a loro piacimento, senza controlli e con la possibilità di organizzare qualsiasi massacro. Oriana è morta da anni, ma le sue nere profezie si stanno realizzando puntuali come erano state previste. Quel che è accaduto ieri nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, una delle poche testate che anni fa difesero nel silenzio generale il coraggio della scrittrice toscana, è esattamente ciò che lei aveva immaginato.
Il lungo incubo di Coco: «Ho aperto quella porta e hanno sparato a tutti». Parla la vignettista che per prima ha incontrato i due attentatori del «Charlie Hebdo» I due boia incappucciati le hanno puntato i kalashnikov alla testa, scrive Elisabetta Rosaspina “Il Corriere della Sera”. «Faccio attenzione quando si tratta di religione. Ci penso due volte prima di fare un disegno. Ma non mi autocensuro, è fuori questione» garantiva tre anni fa «Coco» al sito della cittadina di Carquefou (Loira Atlantica) dove ogni anno, dal 2000, si organizza il festival dei caricaturisti. Era stata lei, Corinne Rey, giovane disegnatrice, allora non ancora trentenne, ma già affermata nel mondo della stampa, a disegnare il manifesto dell’happening del 2011. Un signore dalle grandi fauci che inghiotte il mondo infilzato su uno stecchino, come fosse un’oliva. È lei, Corinne Rey, la mamma cui mercoledì mattina, sotto gli uffici di Charlie Hebdo , a Parigi, i due boia incappucciati hanno puntato i kalashnikov alla testa, ingiungendole di comporre il codice d’ingresso alla sede della redazione, l’ultimo ostacolo tra i killer e le loro prede. Gli assassini non l’hanno riconosciuta come una delle firme del settimanale e, forse, l’hanno risparmiata per questo. O perché, come invece ha ipotizzato lei, non si sono accorti che scivolava al riparo di una scrivania. Ma quella carneficina resterà negli occhi della giovane donna per sempre. «Superato l’ingresso hanno sparato a Wolinski poi a Cabu. Erano seduti uno accanto all’altro. Tutto è durato cinque minuti, forse anche meno. Una pioggia di colpi», ha rivissuto poco dopo il suo incubo, parlando al telefono con i colleghi de «L’Humanité ». Sotto choc, ma anche sotto protezione, come testimone diretta e ravvicinata di quel bagno di sangue, Coco si è salvata perché era andata a prendere la figlioletta all’asilo. Come lei, è scampata al massacro anche un’altra disegnatrice della redazione decimata, Catherine Meurisse, arrivata in provvidenziale ritardo alla riunione settimanale. Catherine ha fatto in tempo a incrociare i due uomini mascherati mentre fuggivano dal palazzo e ha intuito che qualcosa di terribile doveva essere accaduto. Anche se qualche altro passante si era fermato incuriosito, convinto che si stesse girando un film d’azione. È salva Coco, anche se ha visto e sentito morire i suoi colleghi e se non potrà più togliersi dalle orecchie e dalla memoria le urla di soddisfazione dei carnefici che gridavano i nomi delle loro vittime mentre sparavano, come in un sordido appello: «Pagherete per aver insultato il Profeta».
Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.
A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.
La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review, di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione, le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione, un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso, passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: «Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».
Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione, fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».
Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".
Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen. Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray, noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.
"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo».
«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione, immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.
Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?
«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».
La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?
«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».
In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?
«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».
Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?
«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».
La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?
«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».
Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?
«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».
Edward Luttwak: Islam significa «sottomissione», E questo è il suo vero obiettivo finale. L'ambiguità vi porta al macello. L'Europa, in particolare, tiene il piede in due scarpe, scrive di Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. A Edward Luttwak il politically correct non fa velo. Questo ebreo americano d'origine rumena, politologo e esperto di studi strategici, quando viene chiamato a parlare di terrorismo islamico, non infiocchetta distinguo ma dice quello che pensa. E il suo pensiero è spesso durissimo. È il caso di questa conversazione che ci ha concesso a poche ore dalla strage del Charlie Hebdo a Parigi.
Domanda. Mr. Luttwak questo attentato, nel cuore dell'Europa, è per gli Europei un brutto risveglio, non trova?
Risposta. Il punto non è solo di svegliarsi ma di agire.
D. Vale a dire?
R. Quello che c'è da fare è chiaro: dovete delegittimare questo trionfalismo musulmano.
D. Ma come, c'è un attacco terroristico e lei mi parla del trionfalismo? Che c'entra?
R. Centra, perché il trionfalismo è quello che crea un'atmosfera per cui qualcuno si sente in diritto di uccidere la gente.
D. Ma a quale trionfalismo si riferisce?
R. Quello praticato da persone, ragazze magari, che vanno con il hijab indosso per dimostrare la loro partecipazione a questa forma estrema di islamismo. Magari parlano perfettamente l'italiano, sono carine e gentili, dicono «non siamo affatto sottomesse», ma poi difendono Hamas, con la sua costituzione genocida.
D. Si riferisce a quel dibattito piuttosto animato che ha avuto in dicembre durante una puntata di Announo (in cui Luttwak, collegato dagli Usa, si toglieva l'auricolare quando parlava una giovane esponente musulmana in studio, ndr)?
R. Non mi riferisco a niente in particolare. Dico che queste persone vendono falsità a cominciare dall'etimologia stessa di Islam, che vuol dire «sottomissione», mentre loro dicono che significhi «amore».
D. Quella musulmana non è una religione come tutte le altre?
R. No, perché appunto vuole tutte le altre sottomesse. E in questa sottomissione prevede che le persone e gli Stati chinino il capo. Il disegno è che lo faccia Roma, Parigi, Washington.
D. Non c'è possibilità di discussione, quindi?
R. È inutile perdersi in chiacchiere con gente come Tariq Ramadani (scrittore e imam ginevrino di origine egiziana, che piace molto al mondo francofono, ndr), dovete sfrondare, dovete smettere di legittimarli o vi ritroverete quattro pazzoidi col kalashinikov in pugno, come questi di Parigi, che magari fino a ieri avevano fatto il ragioniere, l'architetto, il medico.
D. Sfrondare come?
R. Smettendo per esempio di parlare per acronimi: basta dire Isis. Cominciate a chiamarlo Stato islamico. E a cessare di trattare la religione musulmano come le altre. Capisco, che sia troppo spinoso, ma dovete ammettere che l'unico scopo di quel credo è sottomettere gli altri.
D. Nessuno la fa, secondo lei?
R. Ci sono già editori e giornalisti che, in Europa, hanno deciso di non occuparsi di questi cose e stare alla larga da queste vicende. La sottomissione comincia così.
D. E con gli islamici europei nessun dialogo è possibile allora?
R. L'unico dialogo è questo: «Riformatevi e diventate un altro tipo di religione». Non possono venire a dirci che non stanno con Isis perché sono brutti e cattivi, in quanto tagliatori di teste, e schierarsi con Hamas che, all'articolo 7 della propria Costituzione, prevede l'uccisione di tutti gli ebrei. Il giornalista, l'intellettuale e chiunque altro appoggi Hamas non merita di stare nella società civile, in quanto sostiene un'intenzione genocida proclamata.
D. Ma l'Europa della politica che cosa dovrebbe fare?
R. Essere meno ipocrita. Francois Hollande lo è quando avalla l'idea di un Islam moderato. È una falsa moderazione: l'imam che non perde un congresso sul dialogo interreligioso, lo trovi poi su YouTube con le prediche in arabo con cui chiama tutti alla jihad, alla guerra santa. I politici europei smettano di essere ipocriti perché, così facendo, indeboliscono milioni di post-islamici del Vecchio Continente.
D. Di chi parliamo?
R. Di quegli immigrati, oggi spesso cittadini francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che hanno voltato le spalle alla religione musulmana perché hanno capito che è irreformabile. Sono quelli che lasciano andare le loro moglie vestite all'occidentale, che non menano le loro figlie perché si scoprono le braccia. Vivono in Europa e oggi sono in imbarazzo a causa dell'ipocrisia di tanti vostri primi ministri.
D. Che cosa c'è nelle menti di chi ha organizzato l'attentato di Parigi? Le bombe ai treni in Spagna, nel 2004, spodestarono José Maria Aznar, impedendone la rielezione. Le raffiche parigine vogliono favorire l'avvento delle destre in Europa? Vogliono alzare il livello di scontro?
R. Alzare il livello dello scontro sarebbe sbagliato. Però siete di fronte a una scelta: o delegittimate l'Islam o delegittimate la democrazia.
Macellai islamici. Una dichiarazione di guerra all'Europa e alla libertà. Ma noi #nonabbiamopaura, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Questa è guerra. Altro che islam buono e islam cattivo, altro che multiculturalismo come risorsa e porte aperte all'immigrazione come dovere, altro che «cani sciolti». Hanno fatto strage di giornalisti nel cuore di Parigi, cioè nel cuore dell'Europa, in nome di Allah. Qualcuno li ha addestrati, qualcuno li ha istruiti, qualcuno li ha mandati a sparare agli inermi colleghi del settimanale satirico Charlie Hebdo (la cui testata oggi è affiancata alla nostra in segno di solidarietà). E siccome loro hanno urlato, tra una raffica e l'altra, che il mandante è Allah, ecco allora io dico: per loro Allah è il capo dei terroristi che vogliono sopprimere le basilari libertà dell'Occidente. Dico che l'immigrazione selvaggia è il grimaldello per entrare nella nostra storia, nelle nostre città. Dico che non ci sarà mai possibilità di integrazione, perché come scriveva Oriana Fallaci «non è vero che la verità sta sempre nel mezzo, a volte sta da una sola parte». E non ho dubbi che la parte giusta è la nostra, quella di una «civiltà superiore» (sempre per citare Oriana) che mai si sognerebbe di alzare un dito su Crozza per le sue imitazioni satiriche di Papa Francesco. Abbiamo un problema di polizia, di servizi segreti che fanno acqua, ma prima ancora abbiamo un problema politico e culturale di soggezione (vero presidente Boldrini?) nei confronti dei nostri carnefici, passati (vedi le scuse per Guantanamo), presenti (le cautele e i distinguo di oggi) e futuri. Io odio questa gente, così come gli uomini liberi hanno odiato nazisti e stalinisti. Il problema non è farsi ammazzare, ma farlo in silenzio. È spalancare le porte di casa senza nulla chiedere in cambio al nemico che si presenta con la faccia affamata e sofferente del profugo. È rinunciare a crocefissi, presepi e tradizioni per non offenderli. È inculcare - anche da parte di eminenti cardinali della Chiesa - nei nostri bambini l'idea che Gesù e Allah pari sono. È stato rinunciare - e lo dico da laico - a inserire le «radici cristiane» nella Costituzione europea. È non capire che siamo sull'orlo di una guerra civile europea tra islamici di passaporto europeo e il resto d'Europa. Non kamikaze invasati, ma banditi con tecniche brigatiste che vogliono salvare la loro vita, togliendola agli altri in nome di Allah. Per ribadire la nostra libertà, oggi ripubblichiamo quelle vignette che sono costate la vita ai colleghi francesi, senza che una sola di esse violasse le leggi di quel Paese. A noi i terroristi non hanno mai fatto paura. Ci fanno più paura le «attenuanti culturali» con cui la nostra magistratura troppo spesso giustifica le violazioni delle nostre leggi. E il termine «inarrestabile» usato per arrendersi all'immigrazione selvaggia. Avanti così, qui di «inarrestabile» ci sarà solo la fine dell'Occidente. E a questo gioco, noi non ci staremo mai. Che piaccia o no ad Allah.
L'editoriale-shock del Financial Times: "Stupidi i giornalisti di Charlie Hebdo", scrive “Libero Quotidiano”. È una voce fuori dal coro, una presa di posizione durissima e controcorrente mentre tutto il mondo condannava la strage nella redazione di Charlie Hebdo stringendosi alle famiglie dei morti. E' quella del quotidiano britannico Financial Times, che in un editoriale sul suo sito online afferma che i giornalisti e i vignettisti della rivista satirica francese si sono comportati in modo “stupido”. Il Ft accusa il magazine, che in passato era stato già colpito per la pubblicazione delle vignette su Maometto, di aver peccato di “stupidità editoriale” attaccando l’Islam. “Anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione”, si legge ancora. Sui social network gli altri media offrono giornalisti e solidarietà, ma il giornale della City invece attacca chi ha con quelle vignette causato la reazione terroristica. “Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, che devono essere catturati e giudicati, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocando i musulmani sono soltanto stupidi”. L'editoriale si chiede anche “quale impatto” gli omicidi “avranno sul clima politico, e in particolare le sorti di Marine Le Pen e il suo estrema destra Fronte Nazionale”.
Altro che moderati. Nel Corano i precetti dei killer. La carneficina della redazione del giornale francese mostra all'Occidente la verità che ci rifiutiamo di vedere. È il Corano a prescrivere l'omicidio contro gli "infedeli", scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Ciò che veramente mi sconvolge è il fatto che, subito dopo la condanna di rito e scontata della strage nella sede di Charlie Hebdo , la preoccupazione generale di tutti, quasi tutti, dal presidente americano Obama al presidente della Camera Boldrini, è di scagionare l'islam sostenendo che l'islam è una religione di pace, che Maometto non c'entra, che la stragrande maggioranza dei musulmani «moderati» sono contrari alla violenza e che i terroristi islamici sono una scheggia impazzita che offende il «vero islam». Eppure se c'è un caso emblematico che ci fa toccare con mano la contiguità e la consequenzialità sul piano del pensiero e dell'azione tra i sedicenti musulmani moderati e i terroristi islamici è proprio questo caso specifico che mette a confronto il divieto assoluto di raffigurare Maometto, precetto condiviso da tutti i fedeli di Allah, con l'esercizio della libertà d'espressione che è il fulcro della nostra civiltà occidentale. Questa strage è la punta dell'iceberg di un contesto saturo di odio per la diffusione di vignette satiriche nei confronti del profeta dell'islam, alimentato e condiviso da lunghi anni da tutti i musulmani di Francia. A partire dai «moderati» della Grande Moschea di Parigi, che rappresenta l'islam istituzionale ed è il referente del governo francese, e dai militanti «moderati» dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) che s'ispirano all'ideologia dei Fratelli musulmani, che nel 2007 intentarono e persero un processo contro Charlie Hebdo perché aveva ridiffuso delle vignette su Maometto bollate come blasfeme pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Così come altri terroristi islamici, evidentemente meno professionisti di quelli di ieri, avevano devastato nel 2011 la sede di Charlie Hebdo con una bottiglia molotov. Quella di ieri è stata una vera e propria azione di guerra condotta da terroristi che hanno combattuto e che uccidono spietatamente i nemici di Allah. Probabilmente si tratta di reduci dalla Siria o dall'Irak, dove si stima che almeno 600 cittadini francesi si siano uniti ai terroristi dell'Isis, dello Stato islamico dell'Irak e del Levante. Una realtà che ci obbliga a prendere atto che il terrorismo islamico nella sua versione più feroce è ormai un fenomeno endogeno, interno all'Europa, e che i suoi protagonisti sono cittadini europei musulmani. Così come nel maggio 2013 due terroristi islamici britannici, di origine nigeriana, decapitarono a Londra il soldato venticinquenne Lee Rigby, ieri a Parigi abbiamo assistito a un atto di guerra inedito per il contesto urbano europeo. La Francia, che è il Paese europeo che accoglie il maggior numero di musulmani è, insieme alla Gran Bretagna, il Paese multiculturalista per antonomasia, quello più a rischio di attentati terroristici islamici. E non è un caso. Quanto è accaduto evidenzia il fallimento di un modello di convivenza che precede il fallimento dell'attività dei servizi di sicurezza. Alla base c'è l'ideologia del relativismo con cui noi europei ci autoimponiamo di non usare la ragione per non entrare nel merito dei contenuti delle religioni, perché aprioristicamente le vogliamo mettere sullo stesso piano attribuendo così a ebraismo, cristianesimo e islam la stessa valenza, finendo per legittimare l'islam a prescindere da ciò che prescrive il Corano e da ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Così come c'è l'ideologia parallela del multiculturalismo che ci ha portato a concedere a ciascuna comunità etnico-confessionale il diritto di autogovernarsi anche se, ad esempio, la poligamia e l'uccisione dell'apostata in cui credono indistintamente tutti i musulmani, sono in flagrante contrasto con il nostro Stato di diritto. Il fallimento dei servizi di sicurezza è anch'esso legato a un deficit culturale frutto della tesi ideologica secondo cui l'islam è buono a prescindere mentre i terroristi islamici non sarebbero dei «veri musulmani», anche se - come si è ripetuto ieri - massacrano invocando «Allah è grande» e chiarendo «vendicheremo il nostro profeta Maometto». Noi europei saremo inesorabilmente condannati ad essere sconfitti fintantoché non prenderemo atto che il terrorista islamico è solo la punta dell'iceberg di un retroterra che l'ha fatto emergere e che si sostanzia di una filiera che inizia laddove si pratica il lavaggio di cervello predicando e inculcando l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei nemici dell'islam. La strage di Charlie Hebdo sostanzia il frutto avvelenato del reato di «islamofobia», il divieto di criticare l'islam, il Corano e Maometto. Si tratta di un pericolo che conosciamo bene anche in Italia. Quell'atrocità potremmo viverla anche qui a casa nostra.
Quell'islam moderato che dietro le quinte finanzia la guerra santa. Dai movimenti che in Italia bruciano false bandiere dell'Isis a Turchia e Qatar, che fingono amicizia con l'Occidente e danno soldi alla jihad, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Non ho mai avuto dubbi che i musulmani possono essere delle persone moderate, essendolo stato per 56 anni. Ma non credo affatto nei militanti del cosiddetto «islam moderato». Quelli che ad esempio lo scorso 21 settembre in Piazza Affari a Milano, usando uno stratagemma e ingannando il pubblico credulone compresi i giornalisti, diedero alle fiamme non la bandiera dell'Isis, che reca la scritta «Non vi è altro dio al di fuori di Allah» e «Maometto è l'inviato di Allah», bensì un drappo nero su cui avevano scritto a mano in italiano «Isis». Eppure stampa e tv hanno titolato: «I musulmani moderati bruciano la bandiera dell'Isis»! La verità è semplice: di islam ce n'è uno solo, Allah è lo stesso per i moderati e per i terroristi, Maometto è il profeta a cui si rifanno tutti i musulmani indistintamente. Bisogna ammettere che in fatto di bandiere fasulle i musulmani nostrani eccellono. Quando il 5 gennaio 2009 circa un migliaio di islamici arruolati dall'Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia) occuparono lo spazio antistante la Basilica di San Petronio a Bologna (che custodisce l'affresco di Giovanni da Modena con Maometto all'Inferno tra i seminatori di discordie, così come lo volle Dante), e diedero alle fiamme le bandiere israeliane, la Procura di Bologna li assolse perché erano da considerarsi «un drappo artigianalmente predisposto con un simbolo grafico», che deve essere ritenuto «un simulacro» e «un tentativo di emulazione», ma non la bandiera israeliana ufficiale! In realtà la contiguità tra i militanti del sedicente «islam moderato» e i terroristi islamici non si limita alla devozione dei nomi di Allah e di Maometto che fanno sì che la bandiera dell'Isis non possa essere bruciata, ma abbraccia l'insieme di un'ideologia che promuove la conversione all'islam, l'instaurazione della sharia e la riesumazione del Califfato. Il caso eclatante è quello della Turchia del regime islamico di Erdogan. A partire dal 2005 l'Occidente si è affidato totalmente alla Turchia nell'illusione che sarebbe riuscito a portare l'«islam moderato» dalla sua parte nella guerra contro Al Qaida. Assecondando la volontà di Erdogan, Stati Uniti e Unione Europea legittimarono politicamente i Fratelli Musulmani che sono riusciti a prendere il potere nei Territori palestinesi con Hamas, in Tunisia con Ennahda, in Libia e in Egitto, mentre in Siria hanno scatenato la guerra del terrore contro Assad. Ebbene la verità è che i turchi sono presenti in massa al vertice e nelle fila delle organizzazioni terroristiche, 2000 in seno a Jabhat al Nusra, affiliata ad Al Qaeda in Siria, e 3000 in seno all'Isis, forti del sostegno di Erdogan che fornisce loro assistenza militare, cure mediche e denaro in cambio del petrolio estratto nello «Stato islamico». Altro caso significativo della contiguità tra l'«islam moderato» e il terrorismo islamico è quello del Qatar, principale finanziatore dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo e dei gruppi terroristici affini in Siria, Libia e Tunisia, particolarmente impegnato negli investimenti in Europa come copertura alla più massiccia campagna di costruzione di moschee. Soltanto in Italia, a fronte dell'acquisto di alberghi di lusso, il St. Regis e l'InterContinental a Roma, il Gallia a Milano, il Four Seasons a Firenze e i resort sulla Costa Smeralda, il Qatar Charity Foundation ha donato 6 milioni di dollari ai centri islamici in Sicilia, mentre altre decine di milioni di dollari sono state donate - così come si legge sul suo sito - ai centri islamici a Saronno, Colle Val d'Elsa, Frosinone, Lecco, Roma, Ferrara, Bergamo, Sesto San Giovanni, Modena, Città di Castello, Vicenza, Verona, Torino, Mortara, Olbia, Mirandola, Taranto, Milano, Argenta (Ferrara), Gavardo (Brescia), Quingentole (Mantova). La verità è che il loro jihad, la guerra santa islamica, si traduce comunque nella nostra sottomissione: noi «perdiamo la testa» sia quando i terroristi ci decapitano, sia quando i «moderati» ci condizionano a tal punto da impedirci di usarla per salvaguardare la nostra civiltà.
Il predicatore radicale Choudary: "L'islam non crede alla libertà di pensiero". Dopo l'attacco a Charlie Hebdo difende l'idea che ci debbano essere dei limiti. "Le conseguenze sono note a tutti", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. "L'islam non è pace, ma piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione, perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione divina e non basate sui desideri della gente". La pensa così Anjem Choudary, un predicatore radicale tra i più ascoltati in Europa, intervistato su queste pagine alcuni mesi fa da Barbara Schiavulli, per un reportage nell'Europa estremista. Dopo l'attacco contro la redazione del Charlie Hebdo, in cui sono morte dodici persone, tra le quali giornalisti e il direttore del magazine satirico, ha riassunto in una lettera pubblicata da Usa Today il suo pensiero sui fatti, in netta contraddizione con opinioni molto più moderate espresse da altri imam e fedeli musulmani. "Persino i non musulmani che sposano l'idea della libertà di pensiero sono d'accordo sul fatto che comporti delle responsabilità", scrive Choudary, che ammonisce: "Le potenziali conseguenze dell'insultare il Messaggero Muhammad sono note a musulmani e non musulmani". Parole che suonano come un tentativo di giustificare fatti impossibili da legittimare. "Proprio perché l'onore del Profeta è qualcosa che tutti i musulmani vogliono difendere, molti prenderanno la legge nelle proprie mani", aggiunge il predicatore radicale, che ricorre poi a un argomento molto utilizzato da chi si colloca su posizioni estremiste come le sue. "I governi occidentali sono contenti di sacrificare libertà e diritti quando complici di torture e rendition - scrive - o quando limitano la libertà di movimento ai musulmani, sotto le mentite spoglie della difesa della sicurezza nazionale". E al governo francese chiede perché "mettere a rischio i propri cittadini" continuando a provocare il mondo islamico, come accusa il Charlie Hebdo di avere fatto. Parole, quelle del predicatore, che stupiscono fino a un certo punto. Già in passato aveva lodato gli attentatori dell'11 settembre e al Giornale aveva detto: "Bin Laden è il nostro eroe. Purtroppo è morto, ma la lotta continua anche senza di lui".
Chi l'ha visto il servizio pubblico sulla carneficina dei giornalisti? La figuraccia della Rai, scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. Il servizio pubblico della Rai? Chi l'ha visto?. Ma anche L'apprendista stregone e Che Dio ci aiuti. Sono i programmi trasmessi nella serata della strage terroristica di Parigi, definita da molti osservatori l'11 settembre dell'Europa. Niente speciali, zero edizioni straordinarie. Titoli che, riletti oggi, svelano un sapore autocritico verso quella che è una delle pagine più nere dell'informazione pubblica. Facevi zapping da un canale all'altro, mercoledì sera, e trovavi un programma di cronaca nera, un film qualsiasi, su Raiuno addirittura la replica di una fiction. L'informazione può attendere. E il famigerato approfondimento, totem dei talk show che sgomitano quotidianamente nei nostri teleschermi, può mettersi in fila. Senza spingere. Quando invece ci sono dodici morti causati da un atto terroristico nella redazione di un giornale della capitale francese, tutti assenti. In vacanza o chissà. Dopo i tg che hanno conquistato ascolti ben al di sopra della media, lo Speciale TgLa7 di Enrico Mentana è stato un approdo obbligato come lo zapping sulle reti all news, a cominciare da Rainews24 , la più solerte fin dal mattino a rendersi conto della gravità dell'accaduto. Su Mediaset, Retequattro ha aperto una lunga finestra dopo il tg con Mario Giordano e Paolo Del Debbio, mentre Matrix di Luca Telese è andato in onda in edizione straordinaria. In Rai solo a notte inoltrata arriverà uno spezzone di Porta a Porta nel tentativo di tamponare una falla gigantesca. Ma dopo il collegamento con Di Bella e le dichiarazioni del ministro Alfano, vedere Gigi D'Alessio e Lina Sastri commuoversi per la scomparsa del povero Pino Daniele aveva un inevitabile effetto-extraterrestre. Servizio pubblico latitante. Lacunoso. Ritardatario. Sui social network è un diluvio di proteste, di lamentele contro un canone - il cui pagamento la Tv pubblica ricorda in questi giorni con petulanza - purtroppo non corrisposto da servizi all'altezza in un momento storico come questo. Il ritardo sulla notizia si è accumulato fin dalla tarda mattinata quando, come ha notato tal Nicolino Berti su Twitter, «solo Raitre in edizione straordinaria su Parigi, Raiuno deve prima far scolare la pasta alla Clerici». I telegiornali Rai hanno fior di corrispondenti nella Ville Lumière, anche uno di lunga esperienza come Antonio Di Bella. Ma quella di mercoledì 7 gennaio, prima giornata post-festività, rimarrà una pagina buia. Il giorno dopo, la polemica infiamma. Il sindacato dei giornalisti Rai si straccia le vesti («Come si può parlare di riforma se poi di fronte a una vicenda di questa portata, il servizio pubblico non reagisce mettendo in campo almeno su una delle tre reti uno speciale di prima serata?»). Proteste arrivano da quasi tutte le forze politiche che hanno deciso di chiedere spiegazioni al dg Luigi Gubitosi. Riflessi appannati dai troppi dolciumi nelle calze della befana? Sottovalutazione dell'accaduto? Disabitudine alle dirette su fatti internazionali? Intoppi o veti burocratici sembrano da escludere. Non risulta, infatti, che siano state avanzate richieste di modifica dei palinsesti della prima serata dai vari direttori di rete o di testata ai quali compete la valutazione degli avvenimenti. Spostare la replica di Che Dio ci aiuti non sarebbe stato difficile nemmeno per i vertici di Viale Mazzini. Ora, dopo l'ennesima giornata nera, ci si augura che qualcosa cambi. E che Dio aiuti la Rai.
Toh, sui giornali i terroristi non sono più «islamici», scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. I «terroristi islamici» non esistono. Oggi vengono occultati dai mezzi di comunicazione di massa con l'eufemismo «jihadisti». Ma quanti italiani sanno che cosa significhi «jihadisti» o «jihad»? Il motto dei Fratelli musulmani evidenzia il significato più genuino del jihad: «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro leader. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è il nostro sentiero. Morire lungo il sentiero di Allah è la nostra aspirazione massima». Il divieto di usare il termine «terrorismo islamico» fu formalizzato nel 2006 (...)(...) dall'Unione europea. È sconvolgente il fatto che mentre i terroristi islamici sgozzano, decapitano e massacrano in ottemperanza ai versetti coranici e ai detti e fatti attribuiti a Maometto, l'Occidente - pur di negare l'evidenza - si sia spinto fino a «scomunicare» i terroristi islamici. Lo scorso 14 settembre, dopo la decapitazione dell'ostaggio britannico David Haines, il premier Cameron ha detto che i terroristi islamici dell'Isis «non sono musulmani ma mostri», «dicono di fare questo in nome dell'islam. È assurdo, l'islam è una religione di pace». Anche il presidente americano Obama, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu lo scorso 24 settembre, ha scagionato l'islam: «Gli Stati Uniti non saranno mai in guerra contro l'islam. L'islam insegna la pace». Ma lo sanno Obama e Cameron che il capo supremo del sedicente «Stato islamico», l'autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, oltre ad essere musulmano ha un dottorato di ricerca in Scienze islamiche? Secondo loro questi tagliatori di teste se non sono musulmani che cosa sarebbero? Di quale islam parlano? Il Corano è unico e di Maometto ce n'è solo uno. Il vescovo di Mosul, Emile Nona, intervistato da l'Avvenire lo scorso 12 agosto, ha detto che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam». Eppure il 23 ottobre, sotto l'egida della presidente della Camera Laura Boldrini, la stampa cattolica (L'Avvenire, Famiglia Cristiana e la Fisc), hanno promosso la campagna «Anche le parole possono uccidere», in cui si denuncia anche l'uso della parola «terrorista» in rapporto ai musulmani. Sempre la Boldrini aveva sponsorizzato nel 2007, da portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa, la «Carta di Roma», in cui si chiede di sostituire la parola «clandestino» con «migrante». Ebbene, dopo che nessun mezzo di comunicazione di massa usa più la parola «clandestino», ci ritroviamo in un'Italia in cui la clandestinità non solo non è più reato ma in cui risorse nazionali sono spese per favorire l'auto-invasione. Inevitabilmente accadrà lo stesso con l'abolizione della parola «terrorista islamico». Già oggi i terroristi islamici con cittadinanza europea, che rientrano dopo aver ucciso, sgozzato e decapitato in Siria e Irak, vengono accolti con la disponibilità riservata al figliol prodigo della parabola evangelica. Consentiamo che nelle moschee e sui siti Internet si predichi l'odio e la violenza nei nostri confronti, concependolo come libertà d'espressione fintantoché non si traduce concretamente nella nostra morte. Di questo passo finiremo per giustificare i terroristi islamici fino a legittimarli, sottoscrivendo noi stessi il nostro suicidio e la fine della nostra civiltà.
L'unica paura della sinistra? Che vincano gli "islamofobi". Dal Pd agli intellettuali progressisti il grande timore non è per la diffusione del radicalismo omicida islamico, ma per la crescita di consensi della destra, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Una minaccia paurosa, un nemico dentro casa, travestito da anonimo cittadino ma pronto a colpire con la forza cieca dell'odio: è lui, l'«islamofobo». Sì c'è qualche terrorista islamico armato di kalashnikov e lanciarazzi che stermina innocenti, ma il vero problema, il vero pericolo che corrono Francia, Italia ed Europa, adesso, più che l'ascesa degli islamisti, è l'ascesa dei terribili «islamofobi», che con la scusa degli sterminii in nome di Allah rischiano di prendere parecchi voti, e questo l'Occidente non può accettarlo. Bernardo Valli su Repubblica, in un commento a caldo sui dodici morti di Charlie Hebdo, ha subito ravvisato, con un brivido lungo la schiena, il vero rischio implicito nell'attentato: «Attizzare l'islamofobia». Un pericolo da combattere con uno spiegamento di forze speciali, intelligence, ed editorialisti istruiti per educare il volgo, che sennò si impressiona e poi vota male. Scende in campo anche Federico Rampini, sempre sul giornale di De Benedetti, con la domanda che in queste ore attanaglia l'Europa dopo gli attentati jihadisti e le minacce di nuovi morti: «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». Cioè la domanda non è «E adesso come ci difendiamo?» o «Adesso che fare con il radicalismo islamico», ma «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». La sconvolgente conseguenza politica della carneficina, osserva l'esperto di esteri di Repubblica, è infatti che si rafforzano «i partiti xenofobi in tutta l'Europa», mentre sarebbe bene si rafforzasse il centrosinistra che piace più a De Benedetti. Adesso «una vittoria di Marine Le Pen nella corsa all'Eliseo è più probabile», mentre la Lega Nord e le formazioni «anti-immigrati» in ascesa ovunque «raccoglieranno più consensi». Ci sarebbe da arrestare i terroristi solo per il favore fatto a Le Pen e Salvini. Terrorizzato anche Khalid Chaouki, deputato Pd di origine marocchina, tra i fondatori dei Giovani Musulmani d'Italia : «Questa tragedia rischia di trasformarsi in un'occasione d'oro per l'estrema destra francese e italiana e per gli ambienti antislamici - scrive preoccupato su Il Garantista - Temo che Marine Le Pen non si lascerà sfuggire l'occasione di cavalcare l'ondata emotiva francese e soffiare sul fuoco pericoloso dell'islamofobia; perciò è doveroso ribadire con forza che noi siamo contro il terrorismo di qualsiasi matrice ma anche contro l'islamofobia, che ne è l'altra faccia». Le feroci cellule islamofobe, fagocitate dai famosi «ambienti antislamici». Gente pericolosa da cui difendersi. Nessun problema culturale di integrazione dell'Islam trova invece l'ex ministro (per mancanza di prove, direbbe Dagospia ) Cécile Kyenge, miracolata da un seggio all'Europarlamento, che invece ravvede una seria minaccia nei fondamentalisti delle brigate Salvini, riconoscibili dalle felpe: «L'unico problema culturale lo ha creato chi come Salvini e la Lega Nord avvelena la società con i suoi proclami di odio e emargina il diverso, stigmatizzandolo» spiega l'ex ministra di origine congolese, che poi mette sullo stesso piano l'Isis e la Lega Nord. «Dobbiamo fermare tutti i moderni califfi fomentatori di odio, inclusi i nuovi professionisti dell'odio politico» come l'odiato Salvini. Sempre dal Pd è il giorno di Lia Quartapelle, giovane promessa di partito alla Farnesina e poi sfumata, che su La7 ha ripetuto la vecchia storia sulle paure sfruttate dagli estremisti di destra, «che fanno lo stesso gioco dei terroristi», mentre «nessun terrorismo è di matrice religiosa». Tutti allievi, però, di Laura Boldrini, che vorrebbe persino epurare il dizionario: «la parola “clandestino” - spiegò - andrebbe cancellata, è carica di pregiudizio e negatività». Gli islamofobi, invece, direttamente ai campi di rieducazione.
A Servizio Pubblico l'islam che sta coi macellai di Parigi: "Fascisti, se la sono cercata". Gli inviati di Santoro nelle banlieue francesi danno voce alla rabbia dei musulmani: "Hanno fatto bene ad ammazzarli, erano razzisti", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. È la storia di due ragazzi di banlieue sprofondati nell’abisso dell’estremismo e del terrore. Sono Cherif e Said Kouachi, i due franco-algerini di 32 e 34 anni, che ieri hanno insanguinato la Francia nella strage contro Charlie Hebdo. Eppure, il primo era ben noto all’antiterrorismo di Parigi, condannato nel 2008 per aver partecipato alla filiera delle Buttes-Chaumont, cellula islamica del nord della capitale che tra il 2003 e il 2005 era impegnata nella recluta di combattenti per al Qaeda in Iraq. Ed è proprio in queste banlieue che, ieri sera, Servizio Pubblico ha portato le proprie telecamere. Nel salotto di Michele Santoro va in scena il volto violento dell'islam. "Hanno fatto bene ad ammazzarli - tuona un intervistato - erano razzisti". "Non sono stati gli islamici - fa eco un altro - è tutta una trappola". La strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo fa da margine. Eppure le dodici persone ammazzate gridano ancora vendetta. I jihadisti che le hanno fatte fuori a colpi di kalashnikov sono ancora a piede libero. E a Servizio Pubblico c'è pure chi li giustifica, chi li difende, chi è pronto a stare dalla loro parte. Dalla parte dei violenti. Per Santoro, invece, è l'occasione buona per invitare i francesi a non votare il Front National di Marine Le Pen. Perché, a conti fatti, l'unica paura della sinistra è che alla fine vincano i partiti che loro considerano "islamofobi". Dal Partito democratico all'intellighenzia progrsessista non c'è una voce che grida contro il violento diffondersi dell'estremismo islamico. Sono tutti concentrati a tuonare contro la destra che, dall'Italia alla Francia, vede crescere i propri consensi di giorno in giorno. Eppure gli stessi servizi trasmessi dagli inviati di Servizio Pubblico parlano chiaro. Il quartiere di Saint Denis è la fotografia della polveriera su cui siede l'intera europa. Qui la concentrazione di immigrati è altissima. La stragrande maggioranza sono di fede islamica. E sono pronti a difendere, anche davanti alle telecamere, il massacro alla redazione di Charlie Hebdo. "Adesso daranno la colpa a noi - si lamenta un giovane - è sempre così". "Se è successo quello che è successo - fa eco un altro - è perché qualche colpa quelli di Charlie Hebdo ce l'hanno avuta". E ancora: "Se si offende il Profeta è naturale che qualcuno si vendichi". Mentre nelle piazze parigine si manifesta al grido Je suis Charlie, a Saint Denis di solidarietà per le dodici persone ammazzate non c'è spazio. Anche a Reims, città dei fratelli Said e Cherif Kouachi, la musica è la stessa. Nel quartiere di Croix Rouge, dove vivevano i due terroristi islamici, sono molti disposti a difenderli: "Li conoscevo, non sono terroristi". "Non possono essere stati loro - assicura un altro - è tutto un complotto".
Non eravate americani, ora non siete Charlie. Ieri come oggi dichiararsi tutti paladini della libertà è una menzogna vigliacca. Perché abbiamo rinunciato da tempo alla certezza di stare dalla parte giusta, scrive Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. Bugiardi, quelli che dicono o scrivono «Siamo tutti Charlie Hebdo». Mentono ora, come hanno mentito quasi 14 anni fa, quando scrivevano o dicevano «siamo tutti americani», all'indomani dell'11 settembre. È una vigliacca menzogna e qui non si parla del sentirsi oggi paladini della libertà di stampa e di satira. Qui si parla di molto di più. Dell'Occidente che si mette sul petto o sull'account dei social network lo slogan per sentirsi parte di qualcosa alla quale in realtà ha rinunciato da tempo: la certezza di stare dalla parte giusta. Ci abbiamo rinunciato quando abbiamo accettato che passasse la filosofia dei «distinguo». Il fanatismo islamico non conosce differenze: colpisce Stati e persone, militari e civili, cultura e satira. Uccide senza pietà, come ha fatto a Parigi. E la nostra risposta è il dubbio che in fondo ce la siamo cercata. O di più: che magari ci sia sotto la complicità o la manina di chissà quale potere o servizio segreto. La teoria del complotto sulla strage di Charlie Hebdo adesso appartiene a Beppe Grillo, ma presto penetrerà un pezzetto alla volta esattamente come è accaduto 14 anni fa per le Torri Gemelle. È uno dei sintomi della nostra sconfitta preventiva, questo. Aiuta la rimozione, la presa di distanza dall'evento che sconvolge le nostre coscienze nell'immediato, ma poi passa via. Il paragone con l'11 settembre sta in questo: è un ricordo sbiadito, una memoria residua, una rievocazione appannata. Dov'è finito il «siamo tutti americani» del giorno dopo? Non c'è: è sparito così in fretta da non lasciare più spazio nemmeno alla retorica. Quattordici anni sono pochi per ridurre solo a una data il momento che ha cambiato la storia, eppure non c'è un altro fatto che sia diventato passato con la stessa velocità. Sembra che l'Occidente abbia un pudore tutto suo ad alimentare la memoria e a piangere i propri morti: qualcosa che assomiglia alla paura di dare fastidio all'islam e alla vergogna per essersi sentiti tutti colpiti al cuore. Ricordiamo ossessivamente il 25 aprile, nonostante molti di noi non fossero neanche nati quel giorno e invece dimentichiamo l'11 settembre che invece abbiamo vissuto in diretta. Il secondo sintomo della nostra sconfitta sta nell'incapacità di accettare che a una guerra sporca si risponde con leggi straordinarie e a volte anche con qualcosa che sta al confine con la legge. L'hanno fatto tutti i Paesi occidentali quando hanno battuto il terrorismo domestico. Con il terrore internazionale no. Di più, abbiamo messo in discussione tutto: l'apertura di Guantanamo, gli interrogatori ai presunti terroristi, gli arresti dei sospetti. Abbiamo fatto passare i servizi segreti di tutto il mondo per criminali. Abbiamo rinunciato di fatto alla guerra in Afghanistan, convinti che i presupposti fossero sbagliati. Così via alla guerra del drone che ha pulito molte coscienze, ma in realtà ha fatto molti più morti. Anche la clamorosa campagna di autocritica sulle torture è stata un errore colossale. Noi processiamo (soprattutto noi stessi), loro fanno stragi. Allora, che significato ha il nostro senso di colpa? È una sconfitta doppia, perché rende l'Occidente ancora più vulnerabile. Qualcuno davvero pensa che se i governi avessero usato o usassero solo mezzi totalmente leciti la violenza cesserebbe o si ridurrebbe? No. Anzi, forse è il contrario. L'Occidente darebbe il segnale della sua debolezza e presterebbe il fianco a un'escalation del fanatismo. I fondamentalisti attaccano nel centro di una metropoli europea con i kalashnikov e noi applichiamo leggi ordinarie? Non abbiamo capito. Non capiamo. Non capisce soprattutto la politica, assente da 14 anni nel dibattito sulla guerra al terrorismo. Guardate l'imbarazzante reazione dell'Europa ai fatti di Parigi: non una sola voce comune, né tantomeno una voce forte di condanna o di presa d'atto che si tratta di una guerra dichiarata sul nostro territorio. L'Europa non esiste, punto. E più che sull'euro, sulla crisi, sull'austerità, lo dimostra sul terrorismo. Siamo in balia della nostra apatia e della nostra ideologia remissiva: la verità è che ci siamo autoconvinti che l'Occidente sia colpevole. Le immagini di Parigi hanno fatto rimbalzare quelle di Londra 2013, quando due inglesi di origine nigeriana uccisero sgozzandoli due agenti nell'indifferenza collettiva. Nessuna reazione. Paura, punto. L'Occidente si protegge chiedendo scusa. Perché? Ci siamo dimenticati che non siamo noi quelli dalla parte sbagliata. Ci siamo dimenticati che noi siamo le vittime.
IL TERRORISMO ISLAMICO CHE VIENE DA LONTANO. QUANDO NEW YORK E PARIGI ERAVAMO NOI.
27 DICEMBRE 2015. Gli attacchi agli aeroporti di Roma e Vienna, 30 anni fa. Breve storia di uno degli ultimi grandi attacchi terroristici compiuti da organizzazioni palestinesi in Europa, il 27 dicembre 1985, scrive “Il Post”. Alle 8 e 15 del 27 dicembre 1985, due commando palestinesi formati da sette terroristi attaccarono gli aeroporti di Roma e Vienna con armi automatiche e granate, in quello che diventò uno degli ultimi attacchi compiuti dal terrorismo internazionale in Italia e un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese. I due commando riuscirono a uccidere 19 persone e a ferirne più di 130 prima di essere uccisi o catturati a loro volta. I terroristi cominciarono ad agire a Roma, alle otto e un quarto in punto, quando quattro uomini armati entrarono nella grande sala dell’aeroporto dove centinaia di persone erano in fila per il check-in della compagnia aerea israeliana El Al e dell’americana TWA. I quattro uomini spararono sulla folla con armi automatiche e lanciarono alcune granate. Le guardie di sicurezza israeliane, alcune in borghese e mischiate tra i passeggeri, risposero al fuoco. La compagnia aerea israeliana era oggetto di attacchi da anni e oramai in tutti gli aeroporti del mondo si era dotata di guardie di sicurezza, spesso ex-militari o poliziotti. La sparatoria durò un minuto. Tre palestinesi furono uccisi dalle guardie armate, mentre il quarto fu ferito e catturato dalla polizia italiana. Mentre la sparatoria terminava a Fiumicino, altri tre uomini iniziarono a sparare contro le persone in coda davanti agli uffici di El Al nell’aeroporto di Vienna. Tre persone furono uccise da una granata e altre 39 rimasero ferite. I tre assalitori fuggirono in macchina, ma furono inseguiti e fermata dalla polizia austriaca. Uno di loro rimase ucciso nello scontro a fuoco, mentre altri due furono catturati. Durante il processo, i terroristi catturati dissero di appartenere ad Abu Nidal, un’organizzazione palestinese che nel 1974 si era separato da Fatah, il gruppo guidato da Yasser Arafat e la principale delle molte fazioni che lottavano per la liberazione della Palestina. Abu Nidal era uno dei gruppi più cruenti e, nel corso degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, uccise più di 900 persone in una serie di attentanti ed assassinii mirati, spesso nei confronti di altri palestinesi. Il doppio attacco di Fiumicino e Vienna fu il più ambizioso degli attentati che l’organizzazione provò a compiere in Europa e rappresentò un punto di svolta nella lotta per la liberazione della Palestina. L’opinione pubblica europea, che fino ad allora aveva adottato un atteggiamento cauto nei confronti del terrorismo palestinese, reagì con durezza agli attacchi. Pochi mesi prima, nel novembre del 1985, Arafat aveva dichiarato in un famoso discorso al Cairo che gli attacchi terroristici contro obiettivi israeliani all’estero servivano solo a danneggiare la causa palestinese. La reazione dell’opinione pubblica dopo gli attacchi sembrò in parte confermare le sue parole e negli anni successivi il terrorismo palestinese in Europa praticamente sparì. Le indagini successive e le confessioni dei terroristi catturati indicarono che il regime siriano, guidato da Hafez al Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar, aveva fornito aiuto logistico e ospitalità agli organizzatori dell’attentato. Gli Stati Uniti all’epoca accusarono anche il regime libico di Muammar Gheddafi. I servizi segreti tunisini dimostrarono che la Libia aveva fornito passaporti falsi ad alcuni dei terroristi, ma giudici e investigatori europei rimasero convinti che l’appoggio maggiore all’attacco fu fornito dai siriani. L’organizzazione Abu Nidal esiste ancora oggi, ma la sua forza politica e militare è andata scomparendo.
Assalto a Fiumicino. Il terrore 30 anni prima di Parigi, scrive Luca Laviola su “L’Ansa”, “America Oggi”, ecc. il 21-12-2015. Doveva finire come l'11 Settembre a New York - ma 16 anni prima -, con un aereo a schiantarsi su Tel Aviv. Invece fu la seconda strage dell'aeroporto di Fiumicino, con modalità che ricordano quella di Parigi a novembre. Era il 27 dicembre 1985 - 30 anni fa -: un gruppo di terroristi palestinesi assaltò con bombe a mano e kalashnikov i banchi della compagnia israeliana El Al e della statunitense Twa, sparando sulla gente in fila o al bar. Nello scontro a fuoco con i poliziotti e la sicurezza israeliana morirono 16 persone: 12 passeggeri, 3 terroristi e un addetto israeliano; 80 i feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che indagò, il commando doveva prendere un aereo e farlo precipitare su Israele. Come avrebbero poi fatto nel 2001 i kamikaze di Osama Bin Laden in America. Ma i terroristi furono scoperti e scatenarono l'apocalisse in aeroporto. "Sapevamo che nessuno di noi sarebbe uscito vivo", ha detto anni fa Ibrahim Khaled, l'unico dei quattro a essere catturato. Condannato a 30 anni, ha collaborato, chiesto perdono e di recente è tornato libero. Il massacro dell' '85 arrivò 12 anni dopo quello del 17 dicembre 1973, sempre a Fiumicino e da parte di arabi armati, con 34 vittime e modalità ancora più cruente: due bombe incendiarie gettate dentro un aereo pieno fermo sulla pista. A seguito di quella strage Aldo Moro avrebbe stretto un accordo con i gruppi palestinesi, che si impegnavano a non compiere azioni in Italia a patto di poter transitare per il Paese con armi ed esplosivi. Ma l'intesa segreta voluta dal ministro degli Esteri democristiano sarebbe emersa solo molti anni dopo. Il mandante dell'attentato dell' '85 era Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata a cui si era deciso il leader dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat. Condannato all'ergastolo in contumacia, Abu Nidal è stato ucciso nel 2002 a Bagdad. Il commando arrivò a Roma un mese prima, in un periodo in cui stava saltando il cosiddetto Lodo Moro (lo statista Dc era stato ucciso nel '78), che aveva risparmiato per 12 anni attentati palestinesi all'Italia. In poche settimane, un colpo di bazooka sull'ambasciata Usa, una bomba al Cafè de Paris in via Veneto, un'altra alla compagnia British Airways. Ad ottobre il dirottamento della nave Achille Lauro e l'uccisione di un passeggero americano sulla sedia a rotelle, Leon Klinghoffer. E si arriva al 27 dicembre 1985. Sono le 9.05 quando i quattro, che si trovano vicini ai check-in El Al e Twa, vengono individuati dalla security israeliana - probabilmente corpi speciali - e scoppia la sparatoria. Un minuto di terrore, i palestinesi mirano ai passeggeri in fila. Tra le vittime italiani, statunitensi, messicani, greci e un algerino. Tre terroristi vengono uccisi. Khaled, 18/enne, viene catturato. In simultanea a Vienna un altro gruppo attacca l'aeroporto, uccide 3 persone, decine i feriti. Due fedayn vengono presi, uno muore. L'ammiraglio Fulvio Martini, nell' '85 capo del Sismi (intelligence militare), ha scritto che dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato in Italia. Il 19 i servizi informarono che sarebbe avvenuto tra il 25 e il 31 dicembre a Fiumicino. Gli israeliani, scrive Martini, misero tiratori scelti a difesa della postazione El Al. Furono loro i primi a reagire. Le forze dell'ordine italiane erano impreparate. Nel 1992 i capi della sicurezza di Fiumicino sono stati assolti. Il 17 dicembre '73 era andata perfino peggio: un gruppo di terroristi arabi arrivato dalla Spagna in aereo con le armi nei bagagli a mano gettò bombe al fosforo dentro un Boeing Pan Am sulla pista, uccidendo 30 persone. Quindi dirottò un aereo su Atene, altri morti prima di arrendersi in Kuwait. Un massacro quasi dimenticato. Stragi di civili, come quelle dell'Isis oggi.
Strage di Fiumicino, parla il fotografo che visse quei momenti in diretta. Vergati: "Ero lì, la gente stava al bar e un attimo dopo era morta", scrive Luca Laviola su “L’Ansa” il 20 dicembre 2015.Il 13 novembre ha ripensato a quella strage avvenuta, trent'anni fa, a poche decine di metri da lui. "E' una cosa incredibile, a Parigi quelle persone stavano sedute al bar e un attimo dopo una sventagliata di mitra le ha uccise. Come il 27 dicembre dell'85 a Fiumicino". Elio Vergati aveva 46 anni e faceva il fotografo. Lo fa ancora oggi che ne ha 76 e vanta un secondo posto al premio Pulitzer e al World Press Photo. Sempre nella mitica agenzia Telenews che da decenni racconta quello che accade negli aeroporti romani di Fiumicino e Ciampino. "Ero nel nostro ufficio e sentimmo dei botti - racconta -. Si capì subito che erano bombe a mano e la gente scappava da tutte le parti. Ho preso la macchina fotografica e ho fatto di corsa i 100, 150 metri di distanza dai check-in dell'El Al e della Twa. Una sparatoria tremenda, ma sarà durata un minuto, non di più". E' la strage di Fiumicino: 4 terroristi palestinesi tirano bombe e sparano sulla gente in fila all'imbarco o al bancone del bar, prima che tre di loro vengano uccisi dalla sicurezza della compagnia israeliana. "Sono intervenuti subito - ricorda Vergati -, il quarto terrorista è stato catturato da un poliziotto italiano e ha rischiato il linciaggio". Una foto del reporter mostra il diciottenne Khaled Ibrahim portato via da un agente. Una delle tante esclusive scattate quel giorno da Vergati. "C'erano tanti feriti in terra, sangue, gente che chiedeva aiuto e si lamentava, una scena pazzesca - racconta -. Mentre scattavo le foto cercavo di rassicurarli, che i soccorsi sarebbero arrivati. Ma ti senti impotente. I primi feriti li hanno portati via con i carrelli dei bagagli. Ricordo una donna con il ginocchio aperto, poi ho saputo che è morta. Tra le vittime una ragazzina di 12 anni figlia di un giornalista americano". "Gli israeliani erano preparati, come sempre, loro difendevano i loro voli - dice il fotografo - due agenti italiani sono arrivati poco dopo. Dell'allarme lanciato dai servizi italiani si è saputo in seguito". Secondo alcune fonti gli addetti alla sicurezza dell'El Al - in realtà corpi speciali - avrebbero finito i tre palestinesi con un colpo alla nuca e poi sarebbero subito partiti per Israele. "Non lo so. Può darsi. Non li abbiamo più visti", dice Vergati che ricorda però che un palestinese aveva un foro sulla nuca e un rivolo di sangue. "La cosa più incredibile è che dopo la strage hanno chiuso l'aeroporto una mezz'ora massimo, poi è stata messa una paratia per non far vedere quel settore e hanno ripreso a fare biglietti - dice Vergati -. E la gente si lamentava che perdeva l'aereo". "Eravamo così vicini alla sparatoria, abbiamo trovato dei proiettili nel vetro dell'ufficio - ricorda -. La paura non la senti quando fai le foto, ti viene dopo, ti tremano le gambe e pensi 'ma che so' matto?'". Quella del resto era la seconda strage a cui Vergati assisteva in diretta al Leonardo Da Vinci. Il 17 dicembre 1973, 12 anni prima, un commando arabo gettò bombe incendiarie dentro un aereo della Pan Am fermo sulla pista: 30 morti bruciati. "Anche allora ero in ufficio e sentimmo le esplosioni - racconta -. Corsi dietro un agente con il mitra e mi piazzai dietro una colonna a fotografare. I terroristi erano a 40 metri e le pallottole fischiavano vicine". Vergati scattò la foto di un finanziere morto sulla pista "che arrivò seconda al Premio Pulitzer". Oggi Elio Vergati è ancora lì, lavora all'aeroporto di Fiumicino che nei decenni è molto cambiato, ma non è cambiato il modo in cui lui lavora. Con il suo compagno di lavoro di sempre Nevio Mazzocco, insieme allo storico direttore Lamberto Magnoni e a un collaudato gruppo di giornalisti sono conosciuti da tutti e conoscono tutti. Rimangono un punto di riferimento fondamentale per Fiumicino. Oggi come allora.
27 dicembre 1985, Abu Nidal attacca in aeroporto: 30 anni fa le stragi di Fiumicino e Vienna. Alle 9.15 due assalti simultanei di due gruppi armati palestinesi seminarono il terrore negli scali di Roma e della capitale austriaca: 17 vittime in Italia, 3 allo Schwechat, scrive di Antonio Ferrari su “Il Corriere della Sera” del 27 dicembre 2015. Fu una mattina di terrore in due aeroporti internazionali, Fiumicino e Vienna, quella del 27 dicembre 1985. Esattamente trent’anni fa, il gruppo che allora era il più estremista della galassia palestinese, guidato da Sabri el Banna detto Abu Nidal, decise di compiere con perfetta sincronia due simultanei e sanguinosi attentati, anche se all’epoca non esistevano il web e i cellulari. Bisognava fidarsi degli orologi da polso. Abu Nidal, che lo stesso presidente dell’Olp Yasser Arafat aveva condannato a morte per i suoi crimini, si opponeva a qualsiasi alito di trattativa, a qualunque cenno di disgelo con gli odiati israeliani, con gli americani e i loro alleati europei. Alle 9 e 15 minuti, secondo più o meno, di quel mattino due commando entrarono in azione negli scali delle due capitali con un unico obiettivo: uccidere il maggior numero possibile di persone. Quelle assiepate davanti ai banchi per l’imbarco in vista del Capodanno, o magari al bar per un caffè: famiglie serene, bambini sorridenti con i giocattoli ricevuti in dono a Natale, immigrati che tornavano a casa. Quattro terroristi, con i mitra nascosti sotto i giubbotti, presero posizione a Fiumicino, controllando da una ventina di metri di distanza i banchi della compagnia di bandiera israeliana El Al, e quelli dell’adiacente compagnia americana TWA (ndr. Uno degli attentatori, l’unico sopravvissuto, condannato e incarcerato in Italia, poi si pentì: leggi l’intervista sul Corriere del 2008 sfiorando l’icona blu). Altri tre fecero altrettanto in Austria, nello scalo Schwechat di Vienna. In pochi attimi, l’inferno, e due stragi: 17 morti a Fiumicino, compresi gli attentatori, e 3 morti a Vienna. Doveva finire come l’11 Settembre a New York - ma 16 anni prima - con un aereo a schiantarsi su Tel Aviv. Invece fu la seconda strage dell’aeroporto di Fiumicino, con modalità che ricordano quella di Parigi a novembre. Era il 27 dicembre 1985 - 30 anni fa -: un gruppo di terroristi palestinesi assaltò con bombe a mano e kalashnikov i banchi della compagnia israeliana El Al e della statunitense Twa, sparando sulla gente in fila o al bar. Nello scontro a fuoco con i poliziotti e la sicurezza israeliana morirono 17 persone: 12 passeggeri, 3 terroristi e un addetto israeliano; 80 i feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che indagò, il commando doveva prendere un aereo e farlo precipitare su Israele. Come avrebbero poi fatto nel 2001 i kamikaze di Osama Bin Laden in America. Ma i terroristi furono scoperti e scatenarono l’apocalisse. Mentre is spara a Fiumicino, altri complici compiono lo stesso massacro all’aeroporto di Vienna. ll massacro dell’’85 arrivò 12 anni dopo quello del 17 dicembre 1973, sempre a Fiumicino e da parte di arabi armati, con 34 vittime e modalità ancora più cruente: due bombe incendiarie gettate dentro un aereo pieno fermo sulla pista. A seguito di quella strage Aldo Moro avrebbe stretto un accordo con i gruppi palestinesi, che si impegnavano a non compiere azioni in Italia a patto di poter transitare per il Paese con armi ed esplosivi. Ma l’intesa segreta voluta dal ministro degli Esteri democristiano sarebbe emersa solo molti anni dopo. Il mandante dell’attentato dell’’85 era Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata a cui si era deciso il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat. Condannato all’ergastolo in contumacia, Abu Nidal è stato ucciso nel 2002 a Bagdad. Il commando arrivò a Roma un mese prima, in un periodo in cui stava saltando il cosiddetto Lodo Moro (lo statista Dc era stato ucciso nel ‘78), che aveva risparmiato per 12 anni attentati palestinesi all’Italia. In poche settimane, un colpo di bazooka sull’ambasciata Usa, una bomba al Cafè de Paris in via Veneto, un’altra alla compagnia British Airways. Ad ottobre il dirottamento della nave Achille Lauro e l’uccisione di un passeggero americano sulla sedia a rotelle, Leon Klinghoffer (Ansa) E si arriva al 27 dicembre 1985. Sono le 9.05 quando i quattro, che si trovano vicini ai check-in El Al e Twa, vengono individuati dalla security israeliana - probabilmente corpi speciali - e scoppia la sparatoria. Un minuto di terrore, i palestinesi mirano ai passeggeri in fila. Tra le vittime italiani, statunitensi, messicani, greci e un algerino. Tre terroristi vengono uccisi. Khaled, 18/enne, viene catturato. In simultanea a Vienna un altro gruppo attacca l’aeroporto, uccide 3 persone, decine i feriti. Due fedayn vengono presi, uno muore. L’ammiraglio Fulvio Martini, nell’’85 capo del Sismi (intelligence militare), ha scritto che dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato in Italia. Il 19 i servizi informarono che sarebbe avvenuto tra il 25 e il 31 dicembre a Fiumicino. Gli israeliani, scrive Martini, misero tiratori scelti a difesa della postazione El Al. Furono loro i primi a reagire. Le forze dell’ordine italiane erano impreparate. Nel 1992 i capi della sicurezza di Fiumicino sono stati assolti. Il 17 dicembre ‘73 era andata perfino peggio: un gruppo di terroristi arabi arrivato dalla Spagna in aereo con le armi nei bagagli a mano gettò bombe al fosforo dentro un Boeing Pan Am sulla pista, uccidendo 30 persone. Quindi dirottò un aereo su Atene, altri morti prima di arrendersi in Kuwait. Un massacro quasi dimenticato. Stragi di civili, come quelle dell’Isis oggi. Fu una fine d’anno di orrore e di angoscia. L’attrice Sandra Milo, che stava per imbarcarsi, si gettò a terra e riuscì a salvarsi. I giornali raccontarono le storie delle vittime e dei familiari sopravvissuti. Come si sarebbe scoperto in seguito, la strage di Fiumicino poteva forse essere scongiurata. Infatti i servizi segreti italiani avevano ricevuto, da un Paese arabo amico, l’informazione (risultata attendibilissima) che vi sarebbe stato un attentato nello scalo aereo romano tra il Natale e il San Silvestro di quell’anno. Fu avvisata anche la sicurezza israeliana, che da sempre controlla e vigila sulle partenze dei propri aerei, e i tiratori scelti si piazzarono in posizione strategica. Riuscirono a colpire e a uccidere tre degli attentatori, limitando il numero delle vittime (ndr. Oltre 50 i feriti, nella foto Ansa, qui sotto, uno dei passeggeri colpiti davanti al banco delle linee aeree israeliane). Ma, come affermarono i vertici del Sismi, la nostra intelligence militare, qualcosa non funzionò. Eppure vi erano tante ragioni per ritenere che vi fosse un’allerta da codice rosso. Il primo ottobre di quell’anno, gli israeliani avevano bombardato il quartier generale dell’Olp a Tunisi, dove vivevano in esilio, dopo la partenza coatta dal Libano, Yasser Arafat e i suoi fedelissimi. Fu una strage, ma il leader palestinese si salvò grazie a un provvidenziale avvertimento. Allora, infatti, gli americani avevano imposto un limite al loro alleato israeliano: che non si uccidessero i leader. Sei giorni dopo — il 7 ottobre 1985 — era cominciata l’odissea, finita in dramma, della nave italiana «Achille Lauro», in balia di due estremisti palestinesi del gruppo di Abu Abbas. Ci fu l’assassinio dell’ebreo americano disabile Leon Klinghofer, e la vicenda di Sigonella, con il muro contro muro tra i nostri soldati e i marines, e la decisione del presidente del consiglio Bettino Craxi di sfidare apertamente il presidente-Usa Ronald Reagan. Alla fine, tutto si ricompose tra i due alleati. Non certo nel mondo palestinese, dove Arafat stava cercando di trovare la strada per intavolare una trattativa con il suo storico nemico: Israele. E’ chiaro che la strage di Fiumicino fu un attacco diretto anche ad Arafat da parte degli estremisti palestinesi, che avevano trovato rifugio nell’accogliente Siria di Hafez el Assad, padre di Bashar. A Damasco vi era persino un pubblico ufficio del gruppo di Abu Nidal, guidato dal suo vice e portavoce Walid Khaled. Appena arrivato a Damasco, all’inizio di quel gelido 1986, andai subito a cercare Khaled, per chiedergli ragione di quei massacri. Il giovane guerrigliero, che si vantava delle imprese terroristiche della sua organizzazione, fu gentile e insieme sprezzante. In realtà, noi italiani in Siria avevamo nel Paese canali privilegiati. Assad padre aveva stima incondizionata per il presidente Giulio Andreotti, e il suo ministro degli esteri Farouk al Shara non mancava mai di ricordare i bei tempi in cui aveva servito come ambasciatore a Roma. I giornalisti americani che riuscivano ad ottenere il visto per la Siria faticavano non poco a ottenere interviste e notizie interessanti dalle fonti locali. Un giorno incontrai la collega Elaine Sciolino, una delle firme più prestigiose del New York Times. Bravissima, colta, notevole grinta e grande coraggio. Dopo avermi ricordato l’origine italiana del suo cognome, mi chiese la cortesia di aiutarla ad incontrare, in mia compagnia, Walid Khaled. Organizzammo l’intervista, che si concluse in maniera quasi drammatica. Elaine, sensibilissima, domandò, cercando invano di trattenere le lacrime: «Ma come potete ammazzare donne, bambini, persone che non vi hanno fatto nulla. Non ascoltate mai la voce della vostra coscienza?». L’uomo di Abu Nidal, per nulla turbato, rispose gelidamente: «Per colpire il cuore bisogna tagliare le vene».
30 anni dalla strage di Fiumicino: quando il terrorismo palestinese colpì l’Italia, scrive Simone Cosimelli il 27 dicembre 2015. La storia dell’Italia del dopoguerra è costituita da un vortice di avvenimenti strazianti e convulsi, frutto delle spinte politiche e sociali che dagli anni successivi all’Assemblea Costituente – con le sue speranze e le sue illusioni – culminarono nello scandalo dell’inchiesta Mani Pulite del 1992, che di fatto segnò il limite di un epoca (la così detta Prima Repubblica) per aprirne una nuova, non meno discutibile. Il ricordo di quel periodo, carico di circostanze oscure e casi irrisolti, è eredità e condanna di tutti. Ma non solo vicende interne hanno plasmato il Paese, e spesso è il tempo ad offrire l’occasione per volgere lo sguardo indietro: esattamente 30 anni fa in due attacchi terroristici di matrice palestinese, uno all’aeroporto di Fiumicino e l’altro a Vienna, morirono 16 persone e oltre 100 rimasero ferite. Il 1985 era stato un anno difficile. Il dirottamento della nave da crociera italiana Achille Lauro (con oltre 500 persone a bordo) da parte di un commando di palestinesi pronti ad un azione offensiva sulle coste Israeliane, e la conseguente crisi di Sigonella, in cui l’allora capo del Governo Bettino Craxi si oppose al Presidente statunitense Ronald Reagan, avevano intorpidito la situazione internazionale. Craxi andò fino in fondo e non trattenne l’emissario di Arafat (Presidente dell’OLP) Abu Abbas, a sua volta leader del gruppo paramilitare FLP (Fronte per la Liberazione della Palestina) e presunto promotore del tentato attacco, in cui un cittadino americano invalido, Leon Klinghoffer, perse la vita dopo essere stato gettato in mare. Abu Abbas lasciò indenne l’Italia, ma fu subito giudicato colpevole grazie alle prove schiaccianti addotte dalla Cia e condannato all’ergastolo in contumacia. L’Italia non fece in tempo ad attenuare le tensioni sorte con gli USA, che, nonostante l’atteggiamento comprensivo mostrato nella vicenda verso i palestinesi, fu duramente colpita due mesi più tardi: e questa volta, al Leonardo da Vinci di Roma, si dovettero contare i morti. Alle nove del mattino del 27 dicembre quattro uomini entrano nell’atrio dell’aeroporto e si posizionano di fronte ai banchi accettazione delle compagnie aeree El Al e Twa (l’una israeliana e l’altra americana). Armati di kalashnikov cominciano a lanciare bombe a mano e a sparare sulla folla davanti ai banchi del check-in e nel bar vicino. Gli agenti della sicurezza israeliani e le forze dell’ordine italiane rispondono al fuoco: in pochi minuti tre attentatori sono uccisi e il quarto è catturato. L’attentato nella capitale conta tredici morti e settantasette feriti (tra italiani, americani, messicani, greci, e un algerino). Contemporaneamente, in Austria, un commando terroristi mette in atto lo stesso tipo di azione all’aeroporto Schwechat di Vienna, provocando tre morti e quaranta feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che all’epoca indagava, il piano doveva concludersi con la requisizione di un aereo da far precipitare, in stile 11 settembre, in una città di Israele. Per l’ammiraglio Fulvio Martini, al tempo capo del Sismi, dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato. I servizi informarono che sarebbe potuto avvenire tra il 25 e il 31 a Fiumicino. Gli israeliani misero infatti tiratori scelti a difesa della postazione El Al: furono loro i primi ad intervenire, mentre le forze dell’ordine italiane si trovarono sostanzialmente impreparate. “Sapevamo che nessuno di noi sarebbe uscito vivo”. Confermò in seguito l’unico degli attentatori rimasto illeso nello scontro a fuoco, Ibrahim Khaled, condannato poi a 30 di reclusione e recentemente liberato. Non era la prima volta che si spargeva sangue sul suolo del Bel Paese: c’era stata nel 1973 la “prima” strage di Fiumicino (una delle più cruente d’Europa), dove su un Boeing 707 della Pan Am, diretto a Beirut, furono fatte esplodere due bombe, con un bilancio finale di 32 vittime, tra cui 4 italiani. Nel 1982, invece, l’attentato alla sinagoga di Roma sconvolse la comunità ebraica causando 37 feriti e la morte di un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché. Il mandante dell’85 fu Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata perseguita da Arafat in quegli anni. Anche lui – come successo ad Abu Abbas – fu giudicato colpevole in contumacia, e, riconosciuto coinvolto in circa 90 attentati a livello internazionale, perse la vita nel 2002 a Bagdad su ordine del dittatore Saddam Hussein, liberatosi di una presenza “ingombrante”. Eventi del genere seguono logiche difficile da percorrere ma doverose da ricostruire: fu l’eccessiva compiacenza, o negligenza, del Governo a permettere che i palestinesi considerassero l’Italia un porto sicuro da dove far partire, o verso cui finalizzare, gli attacchi terroristici? Si sarebbero dovuti condannare con più veemenza certi fatti internazionali di quegli anni (Guerra del Kippur, Invasione del Libano, massacro di Monaco alle Olimpiadi), deplorando tanto le azioni palestinesi quanto le continue vessazioni israeliane? Perché non si combatté concretamente, mettendo da parte la retorica e i protocolli, l’indigenza e la precarietà politica del Medio Oriente? Se il mondo si trova ancora nel mezzo di una guerra asimmetrica, qual è quella che imperversa in Siria e porta avanti lo Stato Islamico, o che ogni giorno rischia di deflagrare sulla striscia di Gaza e in Cisgiordania, significa che un tipo di politica ha fallito: la politica dell’interesse. E con essa, come si è visto, non sono mai mancati coinvolgimenti diretti, e drammatici, di nazioni distanti sulla carta geografica dai conflitti mediorientali ma poi duramente colpiti: ieri è toccato all’Italia, oggi al Mali, alla Tunisia e alla Francia. E domani? Tante sono le proposte, troppi gli incontri conclusi con sterili promesse, poco, invece, è l’impegno profuso senza che il proprio tornaconto prevarichi quello collettivo. Da quando la mano dell’Occidente ha cercato di cogliere i frutti (avvelenati) del Medio Oriente, il terrorismo è stata una costante e si è fatto finta di non capire che dalle guerre nasce e delle guerre si alimenta. Questi conflitti, sobillati e finanziati dalle stesse forze che poi si impegnano nel debellarli, arriveranno, presto o tardi, ad un punto di non ritorno. Quel punto troppe volte sembra essere un obbiettivo da raggiungere piuttosto che evitare. Se la storia non insegna, quanto meno invita a riflettere. Soprattutto oggi.
Fiumicino, strage inevitabile. Raid del 1985, assolti tutti i responsabili della sicurezza. Assolti dall' accusa di strage colposa Casagrande Raffaele, ex dirigente dell'aeroporto; D' Agostino Francesco, responsabile del centro di Polizia; Jovinella Carlo, capo del commissariato; Carlino Antonio, ispettore generale della polizia di frontiera. Secondo l'accusa avevano ignorato gli allarmi sul pericolo di attacchi. La strage all'aeroporto di Fiumicino del 27 dicembre di sette anni fa non poteva essere evitata. A questa conclusione sono giunti i giudici del Tribunale che, al termine di una breve camera di consiglio, hanno assolto "perchè il fatto non costituisce reato" le quattro persone che dovevano garantire la sicurezza nello scalo. Una sentenza destinata a far discutere, che costituisce una sorta di caposaldo sul fronte dell'accertamento delle responsabilità per il funzionamento delle misure anti-attentati. Il processo e' andato avanti per parecchie udienze. Sul banco degli imputati l'ex dirigente del "Leonardo da Vinci", Raffaele Casagrande, gli allora responsabili del centro di polizia e di prevenzione del Dipartimento di sicurezza del ministero dell'Interno, Francesco D' Agostino, e del commissariato "Polaria", Carlo Jovinella, e l'ispettore generale con funzioni di coordinamento dei servizi di polizia della frontiera, Antonio Carlino. Al termine della requisitoria, il Pubblico ministero Giuseppe Geremia aveva chiesto la condanna di Casagrande a due anni di carcere e degli altri imputati a un anno e mezzo. La sparatoria tra terroristi e forze dell'ordine provocò tredici morti e ottanta feriti. La tesi sostenuta dalle famiglie delle vittime fu che non erano stati tenuti nella dovuta considerazione i suggerimenti dei servizi segreti: l'avvocato Lepore era riuscito ad avere un fonogramma della Twa (la compagnia statunitense che venne presa di mira insieme alla israeliana El Al dal commando palestinese del gruppo di Abu Nidal) col quale si lanciava un preciso avvertimento ai dipendenti. I servizi segreti americani avevano saputo che erano stati messi a punto piani per eseguire attentati terroristici negli aeroporti europei. Non basta. L'avvocato Lepore aveva appreso che il fonogramma era in possesso del Sismi, il quale lo aveva ricevuto prima della strage. E l'allora responsabile dei nostri servizi segreti, Fulvio Martini, sentito come testimone nel corso dell'inchiesta, confermò anche che nel documento riservato veniva indicato il periodo entro il quale doveva essere compiuto l'attentato, dal 25 al 31 dicembre del 1985. Da qui, l'incriminazione e il successivo rinvio a giudizio dei responsabili dei servizi di sicurezza. Agli imputati venne contestato il reato di strage colposa. Secondo l'accusa, avevano avuto un comportamento negligente: Casagrande non attuò accorgimenti per evitare che i terroristi arrivassero ai banchi dell'accettazione, dove poi avvenne il conflitto a fuoco. Jovinella e Carlino non diedero un giro di vite ai servizi di sorveglianza, D' Agostino non trasmise agli organi di polizia circolari con le quali venivano imposte precise disposizioni di prevenzione. Insomma, il peggio sul fronte della prevenzione. Ma i giudici hanno sconfessato questa impostazione. Flavio Haver Pagina 14 (31 marzo 1992) - Corriere della Sera
Uccise 13 persone a Fiumicino. Esce di cella e fa il giardiniere. Mahmoud nell'85 guidò il commando palestinese all'aeroporto. Portò la guerra a Roma, ha tredici morti sulla coscienza e raccoglie foglie secche in un prato. Khaled Ibrahim Mahmoud oggi ha 41 anni. Ne aveva 18, il 27 dicembre 1985, quando guidò il commando della strage di Fiumicino. «Ci penso sì, a quei morti. Ci penso ancora e ci penserò sempre. E penso anche che l'aver seminato il terrore, come abbiamo fatto noi, non è servito a niente. Non è servito al mio popolo, non è servito alla pace. Anzi, il contrario...». Il 27 dicembre 1985, all'aeroporto di Fiumicino, il commando di terroristi palestinesi uccise tredici persone e ne ferì più di 80, sparando contro il banco delle linee aeree israeliane. Il fuoco della sicurezza in pochi secondi annientò gli assalitori, tre morirono all'istante, Khaled rimase ferito, unico superstite. Poi è stato in carcere 23 anni, fino a tre giorni fa. Oggi è un detenuto semilibero (la sera torna a Rebibbia) e da giovedì ha cominciato a lavorare all'esterno per una cooperativa sociale: giardinaggio, facchinaggio, pulizie nei mercati e nei parchi di Roma (come Pino Pelosi, l'assassino di Pier Paolo Pasolini). La prima cosa che ha chiesto è stato il permesso di acquistare un telefonino cellulare («Per chiamare mio fratello e i miei genitori ormai anziani», dice in buon italiano, appreso in questi anni leggendo e guardando in cella la televisione). Gli altri detenuti che lavorano con lui non conoscono la sua storia. Khaled, in fondo, preferisce così: «Il dolore che provo — dice — non potrebbe essere condiviso, sono venuto al mondo durante la guerra, una lunga scia di sangue e di orrori mi accompagna da sempre, da Sabra e Chatila a Fiumicino. Ma allora avevo 18 anni, ero completamente indottrinato, non ragionavo. Il carcere, almeno, mi è servito a questo: a farmi pensare con la mia testa, a farmi capire tante cose». Lui faceva parte del gruppo di Abu Nidal, il feroce leader della lotta armata palestinese, mandante del massacro di Fiumicino, trovato morto in un appartamento di Bagdad nell'agosto 2002 («È stato ammazzato, ne sono certo», dice oggi Khaled, condannato a 30 anni per la strage dell'85). Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è la persona che in questi anni l'ha seguito più da vicino: «Di sicuro — dice il Garante — Khaled ha maturato una critica profonda rispetto al suo passato. In carcere ha studiato, ha fatto il bibliotecario, è stato un detenuto modello, perciò ha ottenuto la liberazione anticipata. Il nostro è un sistema premiale, dunque non c'era motivo perché lui non ottenesse i benefìci previsti dalla legge. Il primo permesso gli fu accordato un anno fa, lo accompagnai io stesso ad Ostia, a vedere il mare...». Il giorno che andarono al mare, però, pioveva e faceva freddo: del resto, dopo 23 anni di carcere, diventa difficile far tornare i conti. Se n'è andato un pezzo di vita perché tu hai distrutto quella degli altri e anche andare avanti fa paura. «Il mondo da allora è completamente cambiato — sospira l'ex terrorista, con i capelli ingrigiti —. È caduto il muro di Berlino, non c'è più l'Unione Sovietica, non c'è più il comunismo. Noi stavamo coi russi, all'epoca, io stesso ero comunista-stalinista, oggi però sono in via di guarigione...». L'anno prossimo Khaled finirà di scontare la sua pena, nel frattempo si è laureato in Scienze politiche con una tesi sui Diritti umani e, malgrado tutto, sembra avere fiducia nel futuro del Medio Oriente: «Prima o poi tutti i muri cadono. Ma la pace non s'impone, la pace bisogna volerla». Fabrizio Caccia 22 novembre 2008 "Il Corriere della Sera".
7 ottobre 1985: dal sequestro dell’Achille Lauro alla lunga notte di Sigonella, scrive “Il Corriere della Sera”. Sono da poco passate le 13 del 7 ottobre del 1985, la nave da crociera Achille Lauro della Mediterranean Shipping Company sta percorrendo la tratta al largo delle coste egiziane, a bordo ci sono 101 passeggeri e 344 membri dell’equipaggio, quando un commando composto da quattro militanti del Fronte per la Liberazione della Palestina, saliti a bordo a Genova con dei passaporti falsi, dà inizio a un dirottamento che diventerà un caso diplomatico internazionale, con conseguenze fatali per il passeggero americano di origine ebraica Leon Klinghoffer. L’Italia reagisce inviando la sera stessa 60 incursori del reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin alla base militare di Cipro, pronti all’intervento in quella che verrà chiamata l’Operazione Margherita. Nella foto di repertorio l’Achille Lauro lascia il porto di Napoli. I terroristi vengono sorpresi da un componente dell’equipaggio mentre maneggiano delle armi, ne nasce un conflitto a fuoco, dopo il quale viene immediatamente inviato un SOS dalla nave che verrà captato in Svezia. Nella foto i quattro terroristi autori del sequestro, da sinistra: Ibrahim Fatayer Abdelatif, Youssef Al Molqi, Al Ashker Bassam, Marrouf Al Assadi. I dirottatori chiedono la liberazione di cinquanta palestinesi detenuti in Israele a Nahariya, si dichiarano esponenti dell’OLP, e minacciano di far saltare in aria la nave in caso di mancata risposta alle loro richieste. Il Governo italiano si attiva non appena ricevuta la notizia del dirottamento: agli Esteri c’è Giulio Andreotti, forte di buoni contatti con il mondo arabo, alla Difesa c’é Giovanni Spadolini che convoca immediatamente l’intelligence, mentre alla Presidenza del Consiglio c’é Bettino Craxi, che spinge per una risoluzione diplomatica della crisi. I nostri ministri sono in contatto telefonico con il governo egiziano di Hosni Mubarak, con il leader palestinese Yasser Arafat, che in un comunicato stampa fa sapere di essere estraneo alla vicenda, e con la Tunisia, allora sede dell’OLP. Nella foto d’archivio, Andreotti con Arafat. Dopo una frenetica serie di colloqui internazionali, l’Egitto e Arafat comunicano all’Italia l’invio di alcuni emissari per gestire la situazione: tra loro Hani El Hassan, braccio destro del leader dell’OLP, e Abu Abbas, che solo in seguito si rivelerà coinvolto nell’attentato in qualità di ispiratore e di capo del fronte terroristico palestinese filosiriano. Nella foto, Abu Abbas. Il Presidente americano Ronald Reagan si oppone a qualsiasi trattativa con i terroristi, mentre l’Achille Lauro si dirige verso il porto di Tartus in Siria e chiede un negoziato mediato dalla Croce Rossa Internazionale. Nella foto, Maxwell Rabb, all'epoca ambasciatore USA a Roma. Sulla nave intanto la tensione sale vertiginosamente con i terroristi che minacciano ripetutamente di iniziare a uccidere i passeggeri, in primis i cittadini americani. Nella foto i familiari dei marinai dell’Achille Lauro in attesa di notizie. Gli Stati Uniti decidono di intervenire rompendo le trattative diplomatiche in corso, mentre Bettino Craxi insiste nel voler evitare un’azione di forza, e nel caso, vuole che sia guidata da forze armate italiane. Nella foto Giulio Andreotti e Bettino Craxi. La Achille Lauro abbandona la costa siriana e raggiunge Port Said, mentre le trattative, non appoggiate dagli americani, riescono a convincere alla resa di terroristi, grazie alla mediazione di Abu Abbas e alla promessa di fuga diplomatica verso la Tunisia. Una soluzione che trova l’appoggio del Governo italiano e che apparentemente sembra portare a un epilogo non drammatico della vicenda, fino a quando non arriva la notizia dell’uccisione a bordo del cittadino americano Leon Klinghoffer, nella foto. La situazione si aggrava tragicamente e la tensione con gli Stati Uniti assume dei contorni molto preoccupanti anche per lo Stato italiano, che sta vivendo da protagonista l’intricata vicenda. Dopo la liberazione della nave si decide per l’immediato trasferimento dei quattro attentatori e dei diplomatici egiziani e palestinesi in Tunisia, a bordo del boeing 737 delle linee aeree egiziane. Nella foto il comandate della nave Gerardo De Rosa. Oltreoceano Reagan dispone di intercettare l’aereo egiziano facendo partire dalla portaerei Saratoga quattro caccia F-14 e spingendo diplomaticamente affinché gli aeroporti di Tunisia, Grecia e Libano rifiutassero l’atterraggio. Nella foto Caspar Weinberger, segretario alla difesa americano, durante la riunione al Pentagono illustra dove i jet US F14 hanno intercettato l’aereo egiziano che trasporta i dirottatori dell’Achille Lauro. Senza possibile luogo d’atterraggio l’aereo egiziano viene così intercettato dai velivoli americani e costretto ad atterrare alla base statunitense di Sigonella, in territorio italiano. «Perché in Italia?» chiederà Craxi durante una telefonata con il consulente CIA Michael Leeden, come racconterà poi Michael K. Bohn nel suo libro sulla vicenda di Sigonella e dell’Achille Lauro. Nella foto la nave liberata, i passeggeri e i marinai guardano le strisce di sangue lasciate dal corpo dell’americano Leon Klinghoffer, ucciso e gettato in mare. Contrariato dall’improvvisazione degli americani, l’allora presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi rivendica la competenza territoriale, appellandosi al diritto internazionale e schiera a difesa del velivolo egiziano uomini dei Carabinieri di stanza all’aeroporto e del comando di Catania. Nella foto la gioia dei passeggeri dell’Achille Lauro sulla nave liberata. Il controllore di torre dell’aeroporto militare di Sigonella e il suo assistente, inizialmente all'oscuro dell'identità dei passeggeri a bordo del boeing egiziano, saranno decisivi e indispensabili alla gestione dei momenti concitati sulla pista e alla cattura dei terroristi da parte delle autorità italiane. Nella foto Edward Casey, dell'ambasciata degli Stati Uniti, sull'’Achille Lauro con i passeggeri americani. Sulla pista di Sigonella, poco dopo la mezzanotte, atterrano a luci spente e senza autorizzazione due Lockheed dei Navy Seal, da cui scendono militari americani armati con l’intento di ottenere il controllo dell’aereo e soprattutto di prendere in consegna i terroristi e Abu Abbas. Nella foto la moglie del cittadino americano ucciso, Marilyn Klinghoffer. L’Italia e gli Stati Uniti vivono ore di tensione fortissima, il cui apice sarà la telefonata di Reagan a Craxi per chiedere la consegna dei terroristi, ma Craxi non si muoverà dalle sue posizioni, attestandosi sulla linea che in assenza di richiesta di estradizione non era consentito a nessuno sottrarre alla giustizia italiana persone sospettate di reati punibili ai sensi della legge italiana. Dopo ore interminabili, con l’invio di altri Carabinieri e di mezzi blindati, le forze armate americane ricevono l’ordine di ritirarsi. Nella foto il presidente americano Ronald Reagan. Si dirà poi che a vincere questo pericoloso braccio di ferro fu soprattutto il socialista Bettino Craxi, anche se poi vedrà cadere proprio su questa vicenda il proprio gabinetto di governo, ma le conseguenze di questo intricato affaire internazionale non termineranno con l’arresto dei quattro terroristi. Nella foto il carcere di Siracusa dove sono stati rinchiusi i terroristi palestinesi. I due dirigenti palestinesi e il diplomatico egiziano restano a bordo del boeing, che parte alla volta di Ciampino, protetto da un velivolo del SISMI e quattro caccia italiani F-104S, mentre un caccia americano, senza autorizzazione e senza aver comunicato il piano di volo, decolla subito dopo con l’intento di prendere in consegna il boeing con a bordo Abbas, considerato responsabile del dirottamento. L’aereo riuscirà ad atterrare a Ciampino, ma in un continuo crescendo di tensione, un secondo jet militare statunitense fingendo un guasto otterrà di poter atterrare proprio sulla stessa pista, davanti al boeing egiziano per impedirne la ripartenza. L’ammiraglio Fulvio Martini, protagonista diretto di tutta la vicenda, intimerà di liberare la pista, e per altri minuti l’Italia e gli Usa saranno a un passo dallo scontro armato. Nella foto il boeing 737, atterrato all’aeroporto di Ciampino, con a bordo i palestinesi. La crisi si sposta dalla pista dell’aeroporto alle stanze di Governo, dove è in corso un braccio di ferro sulla gestione e l’eventuale fermo in Italia dei due dirigenti dell’OLP a bordo del boeing egiziano: da un lato Craxi, Andreotti e Martinazzoli, nella foto, contrari all’arresto dei due funzionari palestinesi, dall’altro Giovanni Spadolini che chiede una consultazione collegiale della decisione. Il 12 ottobre Abu Abbas e l’altro funzionario palestinese ripartono a bordo di uno volo delle linee aeree jugoslave verso Belgrado, senza che Spadolini sia stato informato. L’intera vicenda porterà alla caduta del governo Craxi poche settimane dopo e a una rottura personale tra Craxi e Spadolini, esponenti rispettivamente delle due correnti filopalestinese e filoamericana. Nella foto la prima pagina del Corriere della Sera del 17 ottobre 1985 che annuncia le dimissioni del Governo Craxi. Solo nei giorni successivi verranno raccolte informazioni e intercettazioni dei servizi segreti israeliani e americani che proveranno con certezza il coinvolgimento diretto nel dirottamento di Abu Abbas, nella foto, che sarà condannato all’ergastolo in contumacia. I quattro dirottatori saranno poi rinchiusi nel carcere di Siracusa, trasferiti a Genova, processati e condannati dalla magistratura italiana, mentre l’Achille Lauro farà ritorno a Napoli dopo un breve scalo in Grecia e dopo che un’informativa della CIA sulla possibile presenza di esplosivo sulla nave su alcune casse, gettate poi in mare dal comandante. Nella foto Al Ashker Bassam durante il processo. Quanto ai rapporti Usa-Italia, gli attriti rientreranno qualche tempo dopo con l’invito dal famoso incipit “Dear Bettino” rivolto da Reagan a Craxi a recarsi negli Usa, un viaggio già programmato, ma annullato a causa della vicenda Achille Lauro. Nella foto la vedova di Leon Klinghoffer, ricevuta dal presidente Ronald Reagan.
A proposito di prevenzione. Un magistrato la arresta l'altro la rimette in libertà. Qual è il pericolo a piede libero? Scrive Salvatore Tramontano Giovedì 24/12/2015 su "Il Giornale". Qual è il pericolo a piede libero? Una terrorista con l'obbligo di dimora, ma con la possibilità di contattare via Internet i suoi compagni di fede e di terrore, pianificando eventuali azioni di guerriglia e attentati oppure il pm che voleva marchiare e sbattere in galera un'innocente? Oppure è il gip che ha scarcerato la donna, che dopo la scossa di terremoto di magnitudo 4 al largo di Palermo, avrebbe affermato: «Questa è la vendetta divina»? Nulla è come prima. La guerra invisibile dello Stato islamico sgretola le nostre certezze, i capisaldi del diritto, fa sponda sulle paure e gioca a scacchi con la fede nella libertà e il desiderio di sicurezza. La storia della ricercatrice libica di 45 anni, accusata di istigazione a commettere atti di terrorismo, che per il pm è così pericolosa da essere rinchiusa in carcere mentre per il gip al massimo merita l'obbligo di dimora, mostra quale sia la nostra realtà: noi non siamo in grado di capire se questa donna sia davvero una terrorista. Questo caso incarna tutte le nostre paure e segna le fragilità di questa stagione. Come mai il pm, convinto che la donna sia pericolosa, non è riuscito a trovare le prove per tenerla in carcere? Non è stato abbastanza bravo? O la legge non fornisce a chi indaga gli strumenti adeguati? E il gip è stato troppo fiscale o davvero non poteva fare altrimenti? Certo che se per aiutare i magistrati a «formarsi» meglio sul fenomeno jihadista, come ha raccontato alcuni giorni fa Fausto Biloslavo su questo Giornale, la Scuola superiore della magistratura organizza un solo corso, allora tutto diventa più difficile. Il motivo spiegato nella presentazione è chiaro: «Scandita dagli attentati, la disciplina antiterrorismo costituisce un vero e proprio sottosistema della giustizia penale». Purtroppo la prestigiosa Scuola offre poco altro sull'argomento. Di terrorismo, infatti, si parlerà brevemente soltanto nel corso su «Religione-Diritto-Satira». Questo nonostante al sistema di formazione dei magistrati concorra anche il ministero della Giustizia. In compenso, però, ha raccontato sempre Biloslavo, viene ripetuto, dopo il grande successo dello scorso anno, il corso sull'«immagine della giustizia nell'arte, nel cinema, nella letteratura». La questione è seria e forse il guaio maggiore è che non siamo pronti ad affrontare una situazione come questa. Se c'è un punto dove siamo più vulnerabili, questo è il versante della giustizia: l'Italia, le sue leggi, si confrontano con un nemico nuovo, diverso perfino dal terrorismo rosso e nero degli anni '70, con integralisti fanatici che non temono la morte e sono pronti a farsi saltare in aria o sparare sulla folla come martiri. Come ci si difende da nemici così assoluti e imprevedibili? Quante garanzie si possono concedere? È il paradosso della società aperta: fino a che punto si può essere tolleranti con gli intolleranti? La risposta è che una società aperta non è suicida, non è spalancata. Non può essere tollerante fino alla morte. È arrivato il momento di difendersi dal terrore islamico con tutti i mezzi. E servono nuove leggi. Per non morire o sopravvivere nella paura.